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L’accumulazione è precaria?
A cura di Andrea Fumagalli*
Il meccanismo di accumulazione e produzione di ricchezza di oggi si basa sempre più sulla produzione a rete, sia diffusa sul territorio (esterna), che nei singoli luoghi di lavoro (interna). Una produzione reticolare che, a differenza del taylorismo, non viene mediata esclusivamente dalla macchina, ma richiede anche coordinamento e cooperazione umana.
Non si tratta cioè di una produzione rigidamente meccanica, ma “umanamene e linguistamente flessibile”.
Alcuni esempi: il funzionamento e organizzazione di un supermercato nel ciclo di produzione che va dal trasporto merci, ordini di subfornitura, scaffalatura, e servizi di vendita diretta al cliente (banco e casse). Oppure, l‘organizzazione di una rete di trasporto o, ancora, il funzionamento di una redazione giornalistica. Lo stesso funzionamento dei servizi di terra di un aeroporto richiede coordinamento flessibile (non meccanico né automatico) tra le varie fasi. Lo stesso dicasi per la strutturatemporale di un call-center e le varie specializzazione di risposta (tasto 1, 2, 3, 4, 5 ecc. a seconda del tipo di richiesta).
Nel lavoro di cura, poi, la struttura a rete diventa struttura relazionale.
Il primo risultato che consegue da queste nuove modalità organizzative è che scompare una figura lavoratrice egemone, ma piuttosto si mettono a sfruttamento differenti soggettività del lavoro. Sono proprio queste differenze, rese molecolari e individuali, spesso fra loro artificialmente messe in contrapposizione, a consentire la produzione di ricchezza. Tra queste, i fenomeni più importanti del mondo del lavoro oggi sono costituiti dalla diffusione del lavoro migrante e dal processo di femminilizzazione del lavoro.
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Uno scandalo bipartisan: i ricchi, gli arricchiti
di Goffredo Fofi
Gli economisti sanno bene che le disuguaglianze tra i ceti sociali e le persone vanno crescendo a vista d’occhio (cominciano a rendersene conto anche in Italia, anche se i più, e non importa di che schieramento, fingono di non vedere o elaborano effimere ricette destinate a scontrarsi con l’avidità e la amoralità della classe dirigente, di cui peraltro sono parte integrante). Per consolarsi, dicono che però diminuiscono quelle tra i popoli, e fanno l’esempio della Cina e dell’India ma tacciono di tanti altri paesi e del continente africano. Nel quadro complessivo il peso centrale dell’impoverimento dei più è dato certamente dal predominio della finanza sulla produzione: la dimensione finanzaria sopravanza quella prettamente economica e cioè la realtà, ed è questo a permettere gli arricchimenti più facili e improvvisi di chi con la finanza sa giocare e di chi sta loro attorno.
Se aggiungiamo a questo quadro l’assenza di una funzione ridimensionante del sistema fiscale, di cui la politica si serve con molta disinvoltura, attentissima a farsi amici coloro che i soldi sanno farli e maneggiarli, non c’è da stare allegri e certamente non si può essere ottimisti sul nostro futuro. Sul futuro delle maggioranze.
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E’ saltato il tappo
Diciamocelo con grande franchezza: con le elezioni e i ballottaggi del 13 e 18 aprile e la dissoluzione della sinistra storica, almeno così come l’abbiamo conosciuta in Italia negli ultimi venti anni….è saltato il tappo. Questo non può essere ritenuto un risultato negativo, al contrario.
Fatta eccezione per qualche lettore del Manifesto e per i molti che perderanno il loro status sociale acquisito negli anni, non si avverte in giro alcuno psicodramma, tutt’altro. Si avverte invece con una certa razionalità (in alcuni casi fredda, in altri euforica) come sia stata salutare questa dovuta e attesa sconfitta storica di un ceto politico autoconservativo oltre ogni limite e oggi ridotto ad una imprevista dimensione extraparlamentare. Una dimensione decisamente innovativa per chi fino a qualche mese fa aveva accusato di “essere fuori dalla comunità politica” i movimenti che si sono opposti alla politica militarista e antisociale del governo Prodi nonostante che il governo potesse contare sulla partecipazione piena ed attiva di tutti i partiti della sinistra “radicale”.
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Memorie di una classe da sempre irriducibile
Sergio Bologna
Operai e lavoratori in carne e ossa, in tutta la loro realtà. È stato il cinema italiano, e in parte la televisione, a «sbirciare» dentro le industrie. Francesca Comencini, con il suo «In fabbrica» ha fatto un film proprio su quello «sguardo», non sulla storia, restituendo così una dignità perduta
Dobbiamo essere grati a Francesca Comencini. Ha riportato gli operai nello spazio pubblico. Quelli che lottavano intendo, quelli degli anni Settanta, quando l'Italia era ancora un paese civile, malgrado le stragi di stato e la guerriglia urbana. Un paese con salari decenti, che permettevano di vivere, potevi ammalarti e far figli, senza che questo fosse considerato un autolicenziamento. Era un paese di passioni civili e di conflitti sociali. Oggi lo guardano con commiserazione o con orrore (il terrorismo!). Lo guardano «loro», quelli che hanno ridotto il nostro paese in un territorio dove il culo di una «velina» vale assai più del cervello del miglior ricercatore.
Sono ben distribuiti tra Destra e Sinistra questi «loro», forse più di là che di qua ma quelli di qua più nefasti, più miserabili.
Sono in parte quei «loro» che ci hanno restituito Berlusconi dopo un anno e mezzo di ottuso malgoverno e in parte quelli che hanno esercitato il loro sporco mestiere e da tempo si sono ritirati o sono morti. Lasciamoli stare, a godersi la pensione, ma non lasciamo perdere l'occasione che Francesca Comencini ci offre per tornare con la memoria agli anni Sessanta e Settanta, per provare a ragionare di nuovo di quel tema così a lungo dimenticato, trascurato: le condizioni di lavoro e il conflitto sociale.
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Il Riformismo che non c'è
Intervista a Carlo Donolo
Una sinistra che non affronta le grandi questioni nazionali irrisolte difficilmente può dichiararsi riformista; la tendenza a chiamare riforme i tentativi di adeguarsi alla globalizzazione tramite la flessibilizzazione del lavoro; le grandi questioni del divario fra nord e sud, della centralità del lavoro, della sostenibilità ambientale dello sviluppo; un sistema di potere abbastanza impermeabile che vede l’alleanza fra rendita immobiliarista e pubbliche amministrazioni. Intervista a Carlo Donolo, docente di Sociologia Economica all’Università di Roma “La Sapienza”, ha pubblicato, tra l’altro, Sostenere lo sviluppo. Ragioni e speranze oltre la crescita, Bruno Mondadori 2007. L’intervista è stata realizzata prima delle elezioni.
La domanda riguarda i destini della sinistra in Italia…
Già, l’eterna interrogazione sulla sinistra che oggi, nel contesto europeo, forse si può declinare in un’interrogazione sul destino del riformismo. E parto col dire che il riformismo oggi fa parte di uno scenario in disuso. A mio avviso il riformismo è tale se va a toccare alcuni nodi cruciali, che una volta chiamavamo le grandi questioni nazionali.
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L'egemonia proprietaria dell'«uomo nuovo»
di Roberto Ciccarelli
Dalla critica alle società del welfare state alla retorica di una libertà individuale incardinata su dispositivi securitari. Un percorso di lettura per mettere a fuoco le caratteristiche del pensiero «neoliberale»
La scomparsa della sinistra italiana dalla rappresentanza parlamentare non è solo l'ultimo colpo di coda dell'insensato cupio dissolvi che l'ha accompagnata dal 1989, ma il sintomo plateale della sua inadeguatezza rispetto alla trasformazione dell'ormai trentennale ciclo politico neoliberale in cui ci troviamo. Di questo ciclo, delle sue contraddizioni politiche e delle sue rotture storiche, questa sinistra nulla o quasi ha compreso, se non quando ha denunciato con qualche approssimazione e genericità l'«americanizzazione» della società italiana. La tonalità penitenziale che hanno assunto le analisi del voto convergono in gran parte su questo punto. È un gigantesco passo in avanti per chi non ha quasi mai praticato la virtù del dubbio, preferendo attribuire gli errori della propria proposta politica all'incapacità della società di coglierne il senso. Ammettere tuttavia di non avere compreso nulla della «realtà» è una conclusione imbarazzante che assomiglia ad una penosa autoassoluzione e non spiega la ragione per cui questo processo si è consolidato al punto da avere raggiunto conseguenze così imprevedibili.
Vittoria senza partito
È una salutare novità che alcuni protagonisti della sinistra politica abbiano invitato ad analizzare la sua disfatta politica a partire dai suoi presupposti culturali. Solo che non ci si può accontentare di pensare che le «culture della destra» si siano impadronite della società e che per questo motivo la sinistra non riesce più a capirla. Applicare lo schema «destra/sinistra» al ciclo politico neo-liberale può forse appagare l'istinto di conservazione di una cultura penalizzata dal suo originario storicismo, ma non spiega come una battaglia culturale potrebbe intervenire nella costruzione di un'identità politica alternativa. In un'intervista intitolata significativamente Building a New Left (Costruire una nuova sinistra), rilasciata addirittura alla fine degli anni Ottanta nell'Inghilterra di Margaret Thatcher, il filosofo (gramsciano) Ernesto Laclau ha spiegato che l'egemonia attribuita alla «destra» neo-liberista è un artefatto complesso che unisce tutti i livelli nei quali gli uomini condividono l'identità collettiva e le loro relazioni con il mondo (la sessualità, il privato, l'intrattenimento, il potere). L'egemonia non è dunque mai un partito, o un soggetto, ma l'espressione di molteplici operazioni che si cristallizzano in una configurazione, quella che Michel Foucault ha definito «dispositivo».
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Nel mondo post-global il «mercatismo» non incanta più
Vittorio Bonanni intervista Christian Marazzi
Professore, come valuta questo nuovo scenario? E' veramente l'inizio della crisi di una tendenza estrema, quella appunto del neoliberismo, oppure si tratta soltanto di alcuni aggiustamenti necessari?
Direi che siamo arrivati al punto in cui le società sentono di doversi difendere dalla finanza, la quale si è autonomizzata in un modo assolutamente spropositato, del tutto autoreferenziale e sta creando dei seri problemi di governabilità.E' proprio a partire da questa autonomizzazione che la stessa economia reale, che pure non sta attraversando un particolare periodo di crisi, rischia di entrare in una lunga recessione. C'è dunque questa prima consapevolezza e una conseguente alzata di scudi. Resta il fatto che la globalizzazione da questo punto di vista mi sembra che stia dando sicuramente dei segnali di crisi proprio per quanto riguarda il suo tratto originario, ovvero le liberalizzazioni, la deregolamentazione e la crescita transnazionale. E questo porta anche ad un rafforzamento di una configurazione policentrica del globo.
Insomma più potenze economiche...
Ci sarà un'Europa, che ricerca una sua autonomia e una sua identità, l'Asia, anche se al suo interno possono essere presenti poli che si possono contrapporre l'uno con l'altro, e anche l'America latina.
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Oh mastro o-lindo vestito di nuovo...
di Rattus
Un assessore PD alla sicurezza di Firenze intervistato l'altra sera da una radio locale alla domanda: "Ma è un problema di sicurezza o di percezione di insicurezza?" risponde: "E' una domanda sbagliata ! Che si tratti di percezione o di un fatto reale per noi non cambia nulla".
La questione merita di essere approfondita. Secondo l'assessore di Firenze, se la gente sente bisogno di sicurezza, lui deve dargli soddisfazione. Indipendentemente da quel che dicono i dati. Benissimo. Quindi, quando la gente chiederà esecuzioni e torture in piazza, lui gliene darà in abbondanza. Già abbiamo visto tornare, nei manuali di criminologia di recente pubblicazione, la funzione "satisfattoria" della pena. Ridotta a vezzo socialistoide l'utilitaristica "neutralizzazione dei cattivi" facciamo teorie su ceppi e catene.
Tra le altre cose, l'assessore sostiene che una delle cose più incredibili che gli è capitata è stata il fatto che alcuni parlamentari verdi abbiano osato lavorare come lavavetri, cioè fingersi dei lavavetri, per sperimentare il trattamento che a Firenze è riservato a questa sfortunata categoria.
L'assessore, di fronte a questo terribile sconcio perde la pazienza ed esclama: «Beh, ma se uno fa una cosa del genere, vuol dire che proprio non ha capito come funziona il mondo!».
Quando l'ho sentito fare questa esclamazione non ho potuto fare a meno di segnarmela sul libro nero. Come funziona il mondo ? Funziona, presumo, con i potenti che si accaniscono contro i deboli; di solito per interesse, qualche volta per puro gusto.
Ma, se è per questo, lo sapevamo già come funziona il mondo, caro assessore.
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André Gorz scrive a D.
Rossana Rossanda
Verso la fine del 2006 usciva a Parigi Lettre à D. di André Gorz. Sottotitolo: «Récit», racconto o rendiconto. D. era la sua compagna, Dorine. Ci sorprese di Gorz, che veniva da Les Temps Modernes di Sartre, del quale avevamo conosciuto sempre libri e saggi filosofici o politici, ma questa era una lettera d'amore. Di più, un lungo domandare perdono a lei, tanto più forte. Dopo cinquantotto anni di vita passati assieme, era sempre così «bella e aggraziata e desiderabile» che egli «di recente (era) tornato a innamorarsene».
Da quando si erano incontrati a Losanna nel 1947, ancora frastornati dalla guerra, non si erano più lasciati, lei la sua sola donna, lui il suo solo uomo. Lui un allampanato ebreo austriaco - cioè niente, aveva detto qualcuno - lei un'affascinante ragazza inglese, la pelle trasparente e la capigliatura rosso miele. Che cosa avrebbe potuto vedere in lui quello splendore?
Invece lo splendore lo aveva visto e si erano consegnati l'uno all'altra. Per la vita, aveva deciso lei; lui dubitava di tutto, e in specie di ogni istituzionalizzazione, ma lei aveva tagliato corto: un progetto di vita è cosa che si sceglie e sarebbe stato, e sarebbero stati, quel che ne avrebbero fatto. Quasi Sartre. Che avevano in comune due esseri così differenti? Una ferita originaria. Quella di coloro al cui venire alla luce la madre non aveva sorriso. Una non infanzia. Il non avere un proprio posto. Tutti e due avevano lasciato l'approssimativa famiglia e il loro paese per farsi uno spazio da soli, senza radici, in un altrove. Lei era a Losanna per fare teatro, lui lavoricchiava per scrivere.
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Tremonti e l'aspirina
Galapagos
Può lo stato intervenire direttamente nel sistema economico? La risposta a sinistra può apparire scontata, anche se l'ultima esperienza di governo ha dimostrato che tra teoria e prassi c'è una bella differenza. Ma altrettanto scontata non lo è a destra: lo conferma il nuovo scontro tra Tremonti e Bankitalia. Il contendere è un documento messo a punto dal Financial stability forum, una commissione presieduta da Mario Draghi. Per Giulio Tremonti le proposte formulate sono solo «un'aspirina».
La paura di un ulteriore peggioramento economico ha così accentuato l'arroccamento delle regioni più ricche e produttive del paese che sono la fonte della parte preponderante del gettito fiscale che si riversa nelle casse nazionali e che consente la redistribuzione delle risorse verso le regioni meridionali. Nella Lega Nord sono riposte grandi aspettative per la salvaguardia del tenore di vita delle popolazioni settentrionali, un tenore di vita che può essere difeso in primo luogo facendo sì che la ricchezza prodotta al nord rimanga nelle aree di origine.
Dunque il successo della Lega può essere visto come un effetto dell'evoluzione dell'economia internazionale dove l'aumento dei prezzi dell'energia e dei generi alimentari, la crisi del credito e del settore immobiliare stanno determinando un consistente rallentamento della crescita.
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Le prossime vittime del crack: tre milioni di pensionati USA
di Monica Semprini
Il rischio di una crisi finanziaria di drammatiche dimensioni non è un’invenzione. E’ uno spettro che si aggira e che sta prendendo sempre più corpo nelle menti degli analisti e degli operatori finanziari.
«La questione dei mutui sub-prime - sostiene una recentissima ricerca di Business Intelligence Research, un centro studi indipendente di analisi dei cicli economici e degli investimenti - potrebbe essere solo la prima tappa di una escalation dai contorni non meglio definiti ma dagli esiti drammatici» (BIR Report, aprile 2008).
Nella cornice delle previsioni sul futuro ci sono immagini chiare, dettate dalla solidità dei numeri e dalla precisione delle cifre.
In sintesi, tutte le tendenze in atto confluiscono verso un vulnus che potrebbe avere dimensioni epocali. Si tratta dei Fondi Pensione americani. E qui comincia una storia nella storia. Ma andiamo per passi graduali.
La crisi finanziaria scatenata dal dissesto dei mutui sub-prime ha portato - come è stato peraltro stimato nell’ultima riunione del Fondo Monetario Internazionale (aprile 2008) e dalla stessa Casa Bianca nello scorso marzo - ad una perdita di oltre 900 miliardi di dollari per le istituzioni finanziarie di tutto il mondo. Ma non è finita.
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Una geologia per il divenire dell'individuo sociale
Enrico Livraghi
Un denso saggio dedicato a Gilbert Simondon, l'epistemiologo francese che ha ispirato l'opera filosofica di Gilles Deleuze. E che ha sviluppato un innovativo concetto di «natura umana» e un «principio di individuazione» aperto a stimolanti approdi politici
In Italia il pensiero di Gilbert Simondon era poco più che sconosciuto prima che Gilles Deleuze lo indicasse come un referente cruciale, o meglio, come una delle fonti del concetto di singolarità e individualità da lui messo a punto (con Felix Guattari) negli anni Settanta. In ogni caso, Du mode d'existence des objets tèchniques, apparso nel 1958 e mai tradotto in italiano, era forse noto a pochi sparuti francofoni, mentre nessuno, almeno pubblicamente, sembrava sapesse nulla di L'individuation psychique et collective, pubblicato nel 1964 (e poi nel 1989). Come si sa, quest'ultima opera, che è poi la tesi principale di dottorato presentata da Simondon (mentre Du mode d'existence è invece la tesi secondaria), è stata invece editata anche in Italia nel 2001 da DeriveApprodi.
Sintesi di forma e materia
A qualche anno di distanza, tuttavia, gli studi su Simondon si può dire siano rimasti al palo, a parte i riferimenti di Paolo Virno nel suo Grammatica della moltitudine, la voce «Singolarità/singolarizzazione» scritta da Massimiliano Guareschi per Lessico postfordista (Feltrinelli) e poco altro. Si presenta quindi di notevole importanza la pubblicazione per l'editore Manni di Lecce di questo Gilbert Simondon: per un'assiomatica dei poteri (Euro 18), scritto dal giovane Giovanni Carrozzini (oggi ventiseienne). Si tratta del primo e finora unico tentativo di sondare in profondità l'opera del filosofo-epistemologo francese, tanto esigua sul piano quantitativo quanto complessa sul piano concettuale.
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Record italiani
Rossana Rossanda
Il fine e la fine della transizione italiana dalla prima alla seconda Repubblica consisteva dunque nel cancellare dalla scena istituzionale qualsiasi sinistra proveniente dal movimento operaio. In verità siamo approdati non a una «seconda» Repubblica, ma a un tipo di repubblica finora inesistente nell'Europa postbellica. Anche con il comunismo reale all'angolo di casa la Germania ne ha mantenuto più che un residuo nella socialdemocrazia perché se a Bad Godesberg la Spd aveva dismesso ogni idea di trasformazione anticapitalista, il conflitto sociale restava legittimato, il lavoro dipendente andava organizzato e rappresentato. Se Andrea Ipsilanti si propone, anche con difficoltà, di allearsi con la Linke, significa che il problema è del tutto aperto. Anche il Labour, finita la seduzione di Tony Blair, è in fibrillazione.
Soltanto in Italia no. Bisognava liquidare ogni rappresentanza politica del conflitto sociale, consegnandolo alle manifestazioni di piazza o a sussulti di protesta che, come tutti sanno, sono affare di polizia (un tempo dei «carabinieri a cavallo»). A questa operazione è servita una legge elettorale di cui tutti si vergognavano finché Veltroni ha capito che poteva servire all'uopo e ha deciso di «correre da solo» a costo di non vincere, tosto imitato da Silvio Berlusconi.
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Un risultato elettorale "maggioritario"
Domenico Moro
L'analisi dei flussi di voto può essere uno strumento importante per cominciare a capire, sulla base di una analisi oggettiva, il significato politico delle elezioni del 2008 e le cause di quanto accaduto, in primis della scomparsa della sinistra dal Parlamento. A questo scopo, utilizziamo i dati, già ripresi da alcuni quotidiani, contenuti nell'indagine condotta da Consortium, l'istituto di ricerche di Nicola Piepoli.Da tali dati si evincono alcune conferme di ragionamenti fatti a caldo, ma anche delle interessanti novità.
Iniziamo con la coalizione che ha vinto. Il Pdl è riuscito a prevalere sostanzialmente perché Forza Italia è riuscita a conservare i suoi voti, grazie alla struttura "forte" di partito azienda. Ben il 62% dei votanti del Pdl avevano votato per Forza Italia nel 2006. Inoltre, Fi è riuscita a rosicchiare preferenze all'Ulivo (450mila voti). Al contrario Alleanza nazionale ha subito una rilevante emorragia di voti all'interno dello stesso schieramento di destra, a favore, in misura preponderante, della Lega (345mila voti) e poi dell'Udc (147mila voti). La lega è, come si è detto, la vera vincitrice della competizione, quasi raddoppiando i suoi voti, che salgono da 1,7 milioni a più di 3 milioni.
Da chi pesca la Lega? Principalmente da Forza Italia e, come detto, da An, per un totale di 908 mila voti, il resto lo prende soprattutto ed in misura uguale da Udc e Ulivo.
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Ma tutto questo Fausto non lo sa
di Carlo Bertani
Old man look at my life,
I'm a lot like you were…
(Vecchio uomo, guarda alla mia vita:
io, sono un po’ come tu eri…)
Neil Young, Old Man, dall’album Harvest (1972)
Anch’io, caro Fausto, militavo nello PSIUP nel lontano 1972: allora, ero un giovane studentello, tu un piccolo bonzo sindacale. Già a quel tempo – ricordi? – ci fu la “batosta” elettorale che ci cacciò fuori dal Parlamento, ma la situazione era diversa. Pur con le dovute cautele, il PCI era ancora un partito di sinistra.
Francamente, osservandoti sulle poltrone di Vespa l’altra sera – io, che non sono andato a votare schifato proprio da voi – m’hai fatto gran pena. Dev’essere deprimente oltre misura, dopo una vita passata (a tuo dire) a credere in qualcosa, vederlo franare sotto le suole delle scarpe, avendo attorno un sedicente giornalista, leccapiedi ex-democristo, che recita il tuo de profundis.
Con garbo ammaliante al vetriolo, l’Insetto non ha esitato a tracimare nella pietas per chi giace nella polvere dell’arena: «Torni a trovarci quando vuole…troverà sempre la porta aperta…».
Tu, sai che così non è, non sarà più, ed è in gran parte colpa vostra. Mentre Vespa biascicava la sua litania da sacrestia, avevi lo sguardo perso. Perdonami, siamo torinesi, e nei tuoi occhi ho letto l’estratto sintetico di quel bon ton piemontese che entrambi abbiamo aborrito: «Un rosolio, ragioniere?», «C’am saluta madama Burel…[1]», «A sunu la marcia real? Alura ‘a pasa l’ Principe…[2]».
Mamma mia, che desolazione: sentirsi l’artefice della scomparsa mediatica di quel poco che rimaneva della sinistra italiana.
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E' già domani
Rossana Rossanda
Scrivere oggi domenica 13 aprile, a meno di 24 ore dai risultati delle elezioni, è scrivere non al buio ma in una fitta penombra. Non al buio perché le possibilità non sono molte, arriveranno in testa Veltroni o Berlusconi, e la sinistra sulla quale la maggioranza di noi punta misurerà la sua consistenza. Ma ci sarà una grande differenza se Berlusconi vince solidamente, Veltroni non ce la fa e la sinistra non raggiunge il fatidico 4 per cento che questa legge elettorale impone, oppure se Veltroni ce la fa e la Sinistra Arcobaleno si consolida su quella frontiera. E un'altra negativa differenza se Veltroni ce la facesse ma la sinistra restasse esclusa dalla scena istituzionale.
Nel primo caso vorrebbe dire che la destra più rozza dell'Europa occidentale s'è impadronita della mente degli italiani, facendo del nostro un paese egoista e miope, nel quale ognuno si è chiuso in quel che crede il suo interesse più immediato mentre d'una democrazia decente più nulla importa; nel secondo caso, se Veltroni la spunta con infinitamente meno mezzi del suo avversario, significa che l'Italia si attesta sugli spalti d'una democrazia moderata ma ancora praticabile e che una sinistra, minoritaria ma ragionata e consistente, può interpellare e incalzare. Se invece questa sinistra scomparisse dalla scena, vorrebbe dire che l'americanizzazione è andata così avanti, che qualsiasi spinta avanzata all'interno di una egemonia liberista sarebbe ridotta al silenzio e alla marginalità.
L'arretramento è già stato grave e la discesa dura da rimontare.
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Il marxismo italiano, senza capitale
di Michele Nobile
1. Nel quadro di una più ampia polemica con Habermas, Hirsch, O’Connor e Offe, lo scomparso Riccardo Parboni collocò il «marxismo italiano» nella più ampia classe del «marxismo sovrastrutturale», per il quale «la crisi del capitalismo non dipende dalla dinamica delle forze produttive e dei rapporti di produzione ma dal venir meno di quei meccanismi omeostatici di carattere politico e ideologico che avevano garantito la tenuta sotto controllo delle tendenze alla crisi nei decenni passati» 1.
Venti anni dopo, il libro di Cristina Corradi sui «marxismi italiani» e la discussione che ne è seguita hanno confermato quel giudizio, e con ben altra ricchezza d’argomenti: quello italiano è un «marxismo senza Capitale» (con poche e relativamente recenti eccezioni), un «marxismo» che ha fatto a meno di sviluppare criticamente la teoria marxiana del valore, indirizzandosi verso lo sraffismo, il keynesismo, o la dissoluzione dell’oggettività socio-economica dello sfruttamento nel comando politico dello Stato, variamente combinando i termini precedenti 2.
La ricostruzione della Corradi, pregevole e indispensabile, resta però nell’ambito della ricostruzione della «storia dei «marxismi» basata sul modello delle storie della filosofia, della «storia delle idee». Il punto è che questo approccio non solo esclude la produzione condotta da marxisti non-filosofi o che, comunque, non si presta ad un discorso d’ordine filosofico, ma sottovaluta la dialettica tra la riflessione teorica e l’ambiente politico nella quale la prima si inscrive e dal quale è influenzata per le vie più diverse e sottili, dall’orizzonte strategico e ideologico alla pratica quotidiana, dalla costruzione dell’identità ai rapporti e alle carriere personali.
È per questa ragione che restano inevase alcune domande cruciali. Cosa ha permesso a quella tradizione «senza Capitale» di riprodursi per così tanto tempo? Quali sono le caratteristiche differenziali del «marxismo italiano» rispetto a quello di altri paesi? Quali, precisamente, i rapporti tra teoria e politica?
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La scommessa giocata nell'atelier del Principe
Roberto Ciccarelli
L'esperienza della rivista «Centauro» ripercorsa in un volume. L'incontro tra teorici tra loro eterogenei, ma accomunati dalla convinzione che la crisi della modernità coincideva con l'eclissi delle categorie del politico.
Nei diciotto numeri coordinati dal filosofo napoletano Biagio de Giovanni, la rivista di filosofia e politica Il Centauro ha espresso una delle caratteristiche che hanno reso la riflessione italiana sulla «politica» ad un tempo ardua e singolare. Ardua perché ha saputo tenere il polso dell'analisi filosofica del presente, senza mai rinunciare alla densità del linguaggio e all'articolazione dei concetti rispetto agli scarti imposti dalla realtà viva della politica. Singolare perché, sul finire di un decennio di grandi trasformazioni, gli anni Settanta, alcuni tra i più significativi intellettuali che fino ad allora avevano fatto base nel Partito comunista iniziarono ad interrogare la «crisi della modernità». Una formula che faceva eco al nascente dibattito sulla fine dei grandi racconti moderni sulla politica, sulla storia e sulla filosofia lanciato nel 1979 da Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna allargandosi presto ad una dimensione imprevista dal suo stesso promotore, quella della fine della storia, dell'irrapresentabilità del conflitto sociale e della razionalità come prerogativa di un processo di modernizzazione della politica.
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Anestetizzati
di Goffredo Fofi
In Italia, si ha da tempo l’impressione di un intero paese, di un’intera cultura anestetizzati. Dalle anestesie, si sa, ci si può risvegliare molto male – con la possibilità di trovarsi di fronte, per esempio, realtà nuove e terribili, come il “figlio di Iorio” di una rivista di Totò che si ridestava nella Roma dell’occupazione tedesca. Ma capita anche che non ci si risvegli affatto, precipitando direttamente nel nulla della morte o nelle nebbie di un coma profondo, irreversibile. Il “ritorno alla vita” è sempre traumatico, anche quando è quello di Lazzaro: se ci sarà, non sarà semplice e a scontarlo maggiormente saranno proprio gli ignavi che si sono lasciati addormentare (fuor di metafora: che si sono lasciati ammazzare la coscienza, cioè la capacità di ragionare sulla propria condizione, nel quadro dello stato del mondo ).
Ad anestetizzarci sono stati – e lo hanno fatto, bisogna dirlo, con molta abilità – giornalisti politici preti insegnanti intrattenitori (ce ne sono che vengono detti animatori, quando il loro lavoro è di disanimare, distraendo da ciò che conta), e nel caso dei giovani lo hanno semplicemente fatto gli adulti, e i mercanti e pubblicitari che stanno alle loro spalle. I mercanti, soprattutto. Mercanti di tutto, perfino del trascendente e del sacro. Le colpe variano, ma sono colpe e vanno chiamate con il loro nome. Si presume di solito che gli alienati abbiano meno colpe degli alienanti, ma anche questo si può ormai metterlo in discussione: non vediamo all’intorno innocenti, nel presente stato delle cose tutti hanno – tutti abbiamo – le nostre responsabilità.
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Quell'oscuro essere in cerca della sua rivoluzione
Augusto Illuminati
Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto di Giovanni Leone (Mimesis, pp. 144, euro 15) prende le mosse da interrogativi che si sono largamente diffusi con la crisi del marxismo: è possibile una tensione anticapitalistica senza soggetto rivoluzionario? Si può sottrarre Marx alla filosofia dialettica della storia e a una metafisica «necessarista» e finalista? Lo stesso superamento del termine comunismo, al di là del facile opportunismo di chi cambia nome per ragioni di mercato, non indica l'esigenza di distinguersi da un riferimento alla comunità, sia astratta che concreta, che Marx stesso ripetutamente sconfessa? Le argomentazioni di Leone sono indubbiamente valide e ricorrono spesso nel marxismo critico a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo: pensiamo alla polemica contro lo sviluppismo etnocentrico, il primato delle forze produttive sui rapporti di produzione, l'impianto dialettico sostanzialmente hegeliano, il retaggio feuerbachiano della «Specie Umana» o «Uomo Produttore» svuotati dall'alienazione e da restaurare in un nuovo comunitarismo.
Anche l'enfasi sulla prassi è stata tendenzialmente depurata dagli aspetti più smaccatamente produttivistici ed umanistici.
La riflessione heideggeriana sulla tecnica ha svolto un ruolo in tale rimodulazione, sia indirettamente attraverso la Scuola di Francoforte e Herbert Marcuse, sia direttamente con la tacita ma drastica mediazione di Louis Althusser. Il filosofo francese ha costruito un programma di reinterpretazione della storia come processo senza origine, soggetto e finalità, proponendo una lettura sintomale di Marx e individuando i punti di cesura fra il seguace di Hegel e Feuerbach e gli sviluppi più originali del suo pensiero.
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Vampirismo geoeconomico
di Sbancor
Sulla scrivania ho tre schermi. Due sono di Bloomberg, il sindaco di New York. Uno manda in continuazione notizie dal mondo, l’altro disegna grafici su qualsiasi mercato, titolo, obbligazione o maledetta carta straccia “subprime” tu abbia in animo di analizzare e nel caso acquistare. Ma adesso non è proprio il caso.
Tenersi liquidi: questa è la parola d’ordine. Comprare, oggi non compra quasi nessuno.
Tranne i Sovereign Wealth Funds, dove vengono riciclati i petrodollari russi e arabi oppure i surplus commerciali del Far East.
Sull’altro schermo ho Google Earth. Sulla scrivania due libri: Il canto della missione di John Le Carré, e Hitler di Giuseppe Genna.
E’ tutto ciò che mi ha accompagnato in questi mesi di depressione.
Qualcuno di voi potrebbe chiedersi cosa c’entrano i computer con i libri e perché stanno tutti sulla mia scrivania. Domanda stupida.
Stanno sulla mia scrivania perché fino a un po’ di tempo fa sono stato troppo depresso per spostarli. Ma questa è una risposta stupida quanto la domanda. In realtà libri e computer descrivono la realtà. Ciò che sta succedendo ora, adesso. E le conclusioni che ne traggo non mi tranquillizzano. Anzi.
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Pensiamoci
Rossana Rossanda
A una settimana dal voto, tutto è stato detto dai leader. Dai microfoni su piazza e in tv. Tutto di basso profilo, qualche bugia, qualche furberia ma il quadro è chiaro. È il momento di pensare da soli, elettori maschi e femmine e giovani che avranno la scheda per la prima volta. Non affidiamoci agli umori, quelli che piacciono ai sondaggi. Come è successo al tempo del «Silvio facci sognare», lo slogan più scemo del secolo. Siamo alfabetizzati, abbiamo non solo speranze e delusioni ma comprendonio e memoria.
Gli elementi per valutare a chi dare il voto ci sono tutti, nel presente e nel passato prossimo. Facciamo parlare i dati di fatto.
1. L'ultimo, arrivato fresco fresco dal Fondo Monetario Internazionale è che l'Italia è a crescita zero (0,3). E non è la crescita zero preconizzata dagli ecologisti, cioè una selezione degli investimenti che protegga e risani l'ambiente. È crescita zero nell'insieme caotico dell'attuale modello, crescita zero nell'occupazione, crescita zero del potere d'acquisto.
Sarebbe utile che si incazzassero i candidati premier di fronte alle loro trovate, tipo: con me, mille euro mensili a ogni precario. Ottimo. Chi li paga? L'azienda che lo ha assunto per dodici giorni al mese? Gli intermediari, Adecco o Manpower? La cooperativa fasulla che lo costringe a essere socio-lavoratore o niente? Lo stato? E da dove fa entrare i soldi? Visto che nessuno propone di accrescere le tasse.
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Quei discreti pirati del commercio globale
Come ti frego (per sempre) i Paesi poveri
di Sabina Morandi
C'era una volta il Wto. Ricordate? Ogni volta che si è riunito per imporre al mondo i diktat dell'ultra-liberismo c'è stata una sollevazione. E' successo a Seattle, a Cancun e a Hong Kong dove, alla fine del 2005, attivisti provenienti da tutto il mondo hanno bloccato la città per un'intera settimana. Cosa è successo da allora? Quasi niente, secondo i media ufficiali. Eppure, mentre in Occidente si fa il mea culpa su certi eccessi della globalizzazione liberista, la sua marcia è continuata indisturbata nel resto del mondo, lontano dall'occhio indiscreto delle telecamere e dei contestatori. Nessuno infatti si è preso la briga si riportare le conclusioni di un rapporto stilato nel marzo scorso da Oxfam, intitolato Signing Away the Future (letteralmente: firmando via il futuro), da dove si evince che Stati Uniti e Unione Europea, sempre più protezionisti in casa propria, continuano a perseguire una strategia ultraliberista fatta di accordi sempre più distruttivi per le economie meno sviluppate.
La firma di tali accordi comporta infatti una quantità enorme di concessioni irreversibili da parte dei paesi poveri, ai quali praticamente non viene offerto niente in cambio.
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Materiali d'uso per il passaggio a Nord
di Sergio Bologna
Il grande assente rimane il lavoro, o meglio quali siano i rapporti tra capitale e forza-lavoro in un universo produttivo che vede presenti knowledge workers e working poor. La questione settentrionale è il tema dell'ultimo annale della Fondazione Feltrinelli. Un'ampia e interessante rassegna di saggi su una composita realtà segnata dalla crisi della grande industria
La «questione settentrionale» è un falso problema? E' un modo per non voler affrontare la «questione Italia»? I saggi raccolti nell'ultimo degli Annali della Fondazione Feltrinelli (La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, a cura di Giuseppe Berta, pp. 465) sembrano insinuare questo dubbio e a ragione.
Chiariscono subito, attraverso l'autointervista di Luciano Cafagna, che la locuzione risale agli anni Cinquanta ed aveva un significato ben diverso da quello che ha acquistato agli inizi degli anni Novanta con l'emergere del fenomeno leghista. Era stata usata nel gruppo che stava attorno ad Adriano Olivetti e alla rivista «Ragionamenti» (Roberto Guiducci, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno, Franco Fortini) per indicare un modo di affrontare la realtà diverso dallo storicismo crociano e fortemente incardinato sulla cultura industriale, sull'approccio sociologico, insomma sui rapporti di produzione più che sulle questioni istituzionali.
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Prima e dopo la strage di stato
Marco Grispigni
L'anno degli studenti non fu un allegro festino. Lo stato non tardò a metter mano alla pistola. In Italia e in Europa. La tanto esecrata «società permissiva» colpì duro fin dall'inizio. E nel 1969 arrivò la bomba di Piazza Fontana
Sous le pavé, la plage !, recitava un poetico e famoso slogan francese. Chissà se anche sotto il selciato dell'Università di Roma - allora ne esisteva una sola, La Sapienza - i giovani della fotografia hanno trovato la loro spiaggia?
Una foto del '68: ci sono sassi, bastoni e assembramenti di giovani. Il clima non sembra particolarmente teso, ma di certo non ci troviamo in una strada della San Francisco della Summer of Love.
Il '68 fu anche violento: non soprattutto, come dicono i suoi detrattori, quelli per cui chiunque si ribelli, tanto più se decide di farlo nella strada, è un terrorista in erba. Ma non fu neanche un movimento pacifista, composto solo da giovani gentili, ma un po' inquieti, che chiedevano ai gruppi dirigenti di svecchiare la società, di farsi un po' più in la. Non fu un movimento pacifico che solo l'ideologia (e la ripresa del marxismo) rovinò e portò verso gli oscuri anni '70, come dicono alcuni ormai attempati personaggi, nostalgici della loro gioventù, quelli del breve '68, un movimento che durò lo spazio di un mattino. Il '68, la rivolta mondiale, iniziata anni prima in alcuni paesi, e poi continuata in altri, al di là dell'anno mirabile, fu anche violenta: fin dall'inizio. Ebbe la sua fascinazione per "il lato oscuro della forza", come la definisce Augusto Illuminati nel suo interessante (e divertente) libro sul '68 (Percorsi del '68. Il lato oscuro della forza, Derive Approdi, 2007). Fu un movimento di chi rispondeva "yes, we can", a chi gridava "ribellarsi è giusto".
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