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Sovietologi. Scelte
di Pierluigi Fagan
Sovietologi
Durante la Guerra fredda, c’erano degli osservatori di cose russe, i sovietologi, i quali cercavano di dedurre cosa stava succedendo politicamente dietro la cortina di ferro, osservando le apparizioni pubbliche dei leader, le loro posture, le posizioni più centrali o periferiche di tizio o caio. Null’altro trapelava dal Cremlino.
L’esercizio era riservato agli addetti ai lavori, stante che nulla di ciò che si sarebbe notato o detto avrebbe minimamente alterato qui in Occidente il giudizio sul potere sovietico.
Con l’inizio della guerra in Ucraina, il lavoro di chi pur non essendo più ai tempi del PCUS continuava a cercar di seguire i movimenti di composizione del potere russo, è finito nel cestino. MI ricordo una sola intervista a una studiosa (O. Moscatelli) che cercava - invano - di ragguagliare sulla pluralità interna al massimo potere russo in quei convulsi giorni iniziali del confitto. Il fatto è che non interessava a nessuna sapere cosa veramente stesse succedendo al Cremlino, interessava solo ridurre la complessità ovvia di una Paese di 150 milioni di anime, alla famelica e delirante volontà d potenza dello zar Putin. Il giudizio sul potere russo entrava a far parte della propaganda di guerra e ne abbiamo viste e sentite di ogni tipo in questi due anni.
Si arriva così all’altro ieri dove si è annunciato un nuovo giro di nomine di alto livello. Tizio silurato da Caio, forse già tradotto in Siberia, Putin accoltella personalmente i vecchi amici, scorre sangue nei corridoi del Cremlino, purghe, la vendetta di Prighozin, Mosca allo sbando! Ma cosa è successo e come interpretarlo?
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La politica e il mondo guasto. O dell’eresia della ragionevolezza*
di Gaspare Nevola
L’uomo è uno zoon politikon. La sfera politica è quella sfera della vita sociale che si occupa della gestione della convivenza tra diversi. Tale sfera è qualificata da una peculiare logica dell’agire umano imperniata sul governo dell’ostilità tra gli uomini. Conflitto e regolazione del conflitto sono due facce della medesima medaglia: due facce della convivenza tra diversi. A dispetto di come solitamente viene intesa e immaginata, la politica non è riducibile a quell’“insieme di attività politiche” che si svolgono all’interno delle istituzioni politiche. La politica, cioè, non si esaurisce in un complesso di processi, organizzazioni, attori e luoghi specializzati (ad esempio, parlamenti, governi, ministeri, partiti) a cui formalmente compete la funzione che un influente politologo novecentesco ha chiamato assegnazione autoritativa dei valori in una società[1]. E tuttavia, tanto in ambito colto e accademico, quanto nell’opinione pubblica e nel senso comune, quando ci si riferisce alla politica si tende a pensare e a parlare proprio di questi luoghi specializzati e di coloro che vi operano come professionisti e/o detentori di cariche pubbliche e formalmente riconosciute. Perciò, quando consideriamo la politica non è sensato prescindere dall’immagine della politica come “quella serie di cose che fanno loro, i politici”, ovvero le istituzioni in cui essi operano (partiti, parlamenti, governi, ecc.). D’altra parte, la politica circoscritta in questo modo è la politica la cui credibilità risulta oggi piuttosto malmessa, sia agli occhi del cittadino comune che a quelli dell’esperto della materia. E così, alla fine, quella “cosa” che porta il “nome” di politica è ridotta a un barcone che naviga a vista, tra scogli e secche, impegnato in acrobatiche manovre per stare a galla e andare, bene o male, avanti. Di questa immagine corrente della politica, sebbene essa sia fuorviante e limitativa, non possiamo non tenere conto.
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Acqua. La (ir)razionalità del capitalismo
di Giovanna Cracco
Da gennaio 2023 a gennaio 2024, diciannove Paesi africani hanno segnalato focolai di colera: Etiopia, Mozambico, Tanzania, Zambia e Zimbabwe tra i più colpiti, con migliaia di morti. In Zambia, l’epidemia è concentrata soprattutto nelle aree urbane come Lusaka, la capitale, afferma Viviane Ru-tagwera Sakanga, direttrice di Amref Zambia, “dove la densità di popolazione e la mancanza di servizi igienici e accesso all’acqua pulita, soprattutto negli insediamenti informali, ha contribuito alla diffusione dell’infezione in maniera devastante”: da ottobre scorso a marzo, 20.000 casi (1). Oltre al colera, epatite A, tifo, poliomielite e diarrea acuta sono le principali malattie causate dall’uso di acqua contaminata e dalla mancanza di servizi igienici adeguati; gli ultimi dati Unicef riportano che la diarrea acuta, da sola, uccide ogni giorno 700 bambini sotto i 5 anni (2) ed è la causa dell’80% delle morti infantili nel continente africano, dove 779 milioni di persone sono prive di servizi igienici di base e 411 milioni non hanno accesso a un servizio di acqua potabile (3).
Secondo il report Unesco uscito a marzo (4), tra il 2002 e il 2021 la siccità ha colpito 1,4 miliardi di persone, ha provocato la morte di oltre 21.000, e oggi circa metà della popolazione mondiale vive in condizioni di grave scarsità idrica per almeno una parte dell’anno. Tre proiezioni contenute nel rapporto del 2021 (5) ipotizzano differenti scenari, nessuno ottimista: il primo stima che l’uso mondiale dell’acqua continuerà a crescere a un tasso annuale di circa l’1%, con un conseguente aumento del 2030% entro il 2050; il secondo prevede che la domanda globale di acqua dolce crescerà del 55% tra il 2000 e il 2050; il terzo afferma che il mondo affronterà un deficit idrico globale del 40% entro il 2030: più domanda che offerta.
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L’epoca della vulnerabilità di Gioele Cima
di Alessandro Lolli
Come va? Siete stressati in questo periodo? Magari un po’ depressi? Avete poi risolto con quel narcisista patologico del vostro ex-partner? Questa terminologia ha invaso il linguaggio quotidiano a tal punto che non la registriamo quasi più. Gioele Cima, nel suo ultimo libro L’epoca della vulnerabilità, parte proprio da qui, dal rilevare con preoccupazione che la “psicologia ha invaso la nostra vita”.
Il che è singolare considerato che l’autore alla psicologia ha dedicato la sua, di vita: Gioele Cima in psicologia ci si è laureato, è psicologo e ricercatore indipendente. Potremmo aspettarci che sia felice della colonizzazione della società da parte del suo campo di studi; in genere gli esperti di qualsivoglia disciplina si lagnano dell’esatto contrario, dell’insufficiente centralità che la loro prospettiva ha per il resto del mondo. Invece per Cima il problema è proprio questa vittoria tennistica del lessico e dell’apparato concettuale psicologico sul linguaggio con cui oggi, tutti, esperti e non, esprimiamo le nostre emozioni. “L’epoca della vulnerabilità” di cui parla Cima, che comprende gli ultimi vent’anni circa, è il punto di arrivo di una storia iniziata oltre un secolo fa.
Titolo forte, che oggi non può che suonare provocatorio e risuonare con letture critiche del presente provenienti da una certa parte politica. Sulla bacheca di un amico, di fronte alla copertina e tre citazioni estratte da un testo, un commentatore ha dato voce al timore che l’operazione possa diventare la “bibbia dell’Alt-Right”. È forse Cima un Vannacci che ha studiato? Un Jordan Peterson con Lacan al posto di Jung? Un Joe Rogan senza background in arti marziali miste? Non ho intenzione di nascondere Cima dietro un dito e diverse delle conclusioni cui giunge nella sua analisi potrebbero essere condivise da costoro e risultare oltremodo irritanti per chi li avversa.
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Non c'è spazio per il pluralismo
Ritagliarsi nicchie per sopravvivere o promuovere un cambio di paradigma?
di Steve Keen
In un'accademia dominata dai neoclassici, il pluralismo è una semplice tattica di sopravvivenza, non una chiamata a "far fiorire mille fiori". Secondo Steve Keen, questo è un approccio troppo timido
Un ritornello frequente tra gli economisti non ortodossi è che l'insegnamento dell'economia dovrebbe essere “pluralista”. Cioè, dovrebbe presentare agli studenti varie scuole di pensiero economico, e non solo l'economia neoclassica. Questo è presentato dai suoi sostenitori come un obiettivo nobile. Per citare il sito web “Promoting Economic Pluralism”:
Il termine pluralismo è in genere usato in contrapposizione all'insegnamento dell'economia cosiddetta “mainstream”, che di solito si concentra solo su una scuola di pensiero economico, chiamata economia neoclassica.
Quest'ultima è basata su una serie di ipotesi chiave, centrali nel suo approccio, come il fatto che gli agenti economici cerchino di massimizzare la loro felicità individuale e che i mercati tendano all'equilibrio, portando generalmente a risultati efficienti.
Il pluralismo, invece, riconosce e insegna un ventaglio di approcci differenti per comprendere l'economia e la sua interazione all'interno dei sistemi sociali e ambientali in modo interattivo, riflessivo e coinvolgente.
A dire il vero, però, il pluralismo è una concessione al fatto che l'economia neoclassica domina l'insegnamento accademico dell'economia, è ostile a qualsiasi altro approccio, controlla i cordoni della borsa per i finanziamenti alla ricerca e agisce come guardiano contro l'adozione di paradigmi alternativi in tutte le università, tranne quelle di rango più basso. Quindi, l'unico modo in cui l'insegnamento e la ricerca non neoclassici possono sopravvivere nelle università sarebbe quello di chiedere pluralismo. Ciò si traduce nel chiedere ai dipartimenti neoclassici di non perseguitare gli studiosi non neoclassici, e di tollerare che alcuni corsi non siano strettamente neoclassici.
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Italia: riarmo e ampliamento delle forze armate, primi passi (ma decisi!)
di Il Pungolo Rosso
Come si colloca l’Italia nel quadro dell’incremento mondiale delle spese militari? La risposta è semplice: ai primi posti! E se perfino il Sole24ore ci sommerge di dati in proposito, allora possiamo esserne certi. Nella graduatoria mondiale dei primi trenta big della “difesa” (ma bisognerebbe smetterla con questa ipocrita dizione e chiamarla col suo vero termine: guerra!) quindici di essi sono statunitensi, dieci sono europei e cinque asiatici; ma tra la decina UE due sono italiani, e chi, se non Leonardo e Fincantieri?
I dati dell’anno scorso sono già superati da quelli del primo trimestre del ’24. Il rialzo medio dei titoli dei produttori di armi è del 22,8%, più del triplo dell’indice azionario globale che misura il 7,1%. In questa media mondiale il primo posto tocca all’UE con il 42,3% contro l’8,6% degli Usa. Inutile aspettare: il temuto effetto Trump che vedrebbe, forse, un disimpegno degli Usa nel finanziamento dell’armamento Nato viene considerato come una realtà di fatto e l’Europa, “culla mondiale di pace e civiltà”, sfodera tutta la sua grinta con l’Italia in ottima forma. I titoli di Leonardo si piazzano al quarto posto superando quel 42,3% di media europea e sfiorando il 56%. Fincantieri è al nono posto raggiunto con la recente acquisizione della linea di armamenti per sottomarini cedutale da Leonardo e di cui abbiamo già parlato in un precedente articolo1. Ma quello che caratterizza l’impresa italiana sono gli alti ricavi che portano Leonardo all’8° posto nel mondo con 11,5 miliardi di euro2.
I maligni mormorano che questo sia dovuto ai bassi salari e alle condizioni di aspro sfruttamento dei proletari d’Italia e quindi i nostri sinistri, per non essere accusati di opportunismo, di codismo, di aver abbandonato perfino la difesa degli interessi minimi delle masse, si sono lanciati con ardore rivoluzionario in una battaglia per il salario minimo a nove euro (lordi, si badi!).
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Difendere l’indifendibile: Il capitalismo può risolvere la crisi ecologica?
Creare grafici per compiacere l'élite globale
di Andrew Ahern
Due nuovi libri sostengono che il capitalismo risolverà la crisi climatica ed ecologica. Pur avanzando tale tesi con stili e focus diversi, Climate Capitalism: Winning the Race to Zero Emissions and Solving the Crisis of Our Age, di Akshat Rathi, giornalista di Bloomberg, e Not the End of the World: How We Can Be the First Generation to Build a Sustainable Planet, della scienziata Hannah Ritchie, portano il lettore a una conclusione simile: il nostro attuale sistema sociale ed economico (il capitalismo) produrrà i cambiamenti tecnologici necessari, grazie alle forze di mercato, alle macchine più economiche e agli incentivi governativi, per portare a un'era di abbondanza, al progresso umano e alla «prima generazione sostenibile» del mondo.
Sia Rathi che la Ritchie sono due tecno-ottimisti e politico-pessimisti che nascondono il cambiamento sociale e politico dietro il paravento della sostituzione tecnologica.
Climate Capitalism è più esplicito rispetto a Not the End of the World nell'appoggiare il capitalismo per risolvere la crisi climatica (anche se, come sostengo, ognuno dei due fa il tifo per il capitalismo in una misura o nell'altra). Diviso in dodici capitoli, il libro di Rathi descrive l'ambito in cui i capitalisti del clima stanno cercando di affrontare il cambiamento climatico e di «vincere la corsa verso lo zero netto». Lo fa tracciando, il più delle volte, il profilo di singoli imprenditori o capitalisti, utilizzando il suo background giornalistico per creare una narrazione del tentativo del capitalismo di diventare “verde” ed evitare il peggio della crisi climatica.
Le soluzioni del capitalismo verde sono note a chiunque presti attenzione: dai veicoli elettrici, alle energie rinnovabili e alla cattura del carbonio, fino agli individui e alle istituzioni che si vantano delle loro credenziali di capitalismo verde, come Bill Gates e Unilever.
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La Georgia in bilico
di Giacomo Gabellini
Nella seconda metà degli anni ’90, l’allora presidente georgiano Edvard Ševardnadze attuò una politica di apertura alle agenzie straniere destinata a condizionare profondamente gli orientamenti politici ed economici del Paese. Al punto che, nell’arco di un trentennio scarso, la Georgia – popolata da poco più di tre milioni di abitanti – è arrivata ad annoverare oltre 25.000 Organizzazioni Non Governative (Ong) in il cui bilancio dipende pressoché integralmente dai finanziamenti erogati dai grandi donatori occidentali sia pubblici che privati. I quali, oltre ai fondi, garantiscono accesso alle ambasciate e più in generale agli uffici di rappresentanza statunitensi ed europei, assicurando alle Ong notevole una influenza politica decisiva ma svincolata da qualsiasi responsabilità nei confronti dei cittadini.
A partire dal 2003, sulla scia della cosiddetta Rivoluzione delle Rose guidata da Mikheil Saakašvili, avvocato e ministro della Giustizia sotto Ševardnadze formatosi presso la Columbia University e la George Washington University, decine di professionisti alle dipendenze delle principali Ong cominciarono ad assumere rapidamente il controllo del governo e della macchina statale, colonizzando segmenti cruciali del comparto pubblico quali sanità, istruzione e giustizia e definendo gli indirizzi in materia di sviluppo del settore privato. Di conseguenza, la Georgia è andata trasformandosi in una sorta di laboratorio deputato alla sperimentazione dei progetti di riforma concepiti all’estero, finanziati da fondi stranieri e appaltati alle Ong locali. Come evidenziano le specialiste Almut Rochowanski e Sopo Japaridze, «la situazione è in pratica più o meno questa: un’importante agenzia di aiuti allo sviluppo o un finanziatore internazionale, ad esempio l’Usaid, la Commissione Europea o la Banca Mondiale, ha ideato un nuovo modello per la riforma dell’istruzione, che ora prevede di implementare non solo in Georgia, ma in genere in tutta una serie di Paesi.
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La guerra alla luce della teoria marxista
di Eros Barone
La guerra – riguardata nella lunga prospettiva – rappresenta un organo esecutivo acceleratore (ma talvolta è anche un freno) del generale sviluppo economico-sociale. Il ruolo attivo di questo complesso nel quadro della totalità sociale, nella interazione con lo sviluppo economico, lo si riscontra nel fatto che le conseguenze di una vittoria o di una sconfitta possono modificare il cammino dell’economia in generale per un periodo più o meno lungo. Ma che l’economia costituisca il momento soverchiante, qui appare con nettezza ancora maggiore che nella lotta di classe.
György Lukács, Ontologia dell’essere sociale, vol. II, trad. it., Roma 1981, p. 248.
1. La guerra come forma del lavoro sociale
La prima domanda che occorre porsi per definire la guerra (qui intesa nella sua accezione moderna e contemporanea) riguarda la natura generale e reale della guerra, interpretata non in senso figurato o nelle sue espressioni più generiche di lotta o conflitto o conseguenza di decisioni umane o di reazioni emotive da parte di singoli uomini o di interi popoli. Così, per rispondere a questa domanda si potrebbe partire da un raffronto tra il processo bellico e il processo lavorativo, cercando di porre in luce la somiglianza e, al tempo stesso, la differenza tra i due tipi di processo. In altri termini, la domanda che ora va posta è la seguente: è possibile considerare la guerra come una forma di lavoro? 1
«In primo luogo il lavoro – scrive Marx nel Capitale – è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura». 2
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Speciale Assemblea Nazionale Aperta – 11 Maggio 2024
Sintesi delle conclusioni
di Fosco Giannini
Il significato di liturgia non è quello che la parola ha assunto nel tempo, e cioè una sorta di atto dovuto e retorico. No: l’antico significato greco di “liturgia” rimanda al concetto di “azione per il popolo”, tributo alla verità. E non è dunque col senso di una vuota magniloquenza, ma con un atto liturgico greco di verità che oggi, a nome del Movimento per la Rinascita Comunista, voglio ringraziare tutte le compagne e i compagni che hanno avuto la forza, la determinazione di intraprendere lunghi, pesanti e costosissimi viaggi – da Lampedusa, Udine, Padova, Reggio Calabria, Cosenza, Ancona, Torino, Catania, Milano e da tanti altri territori – per giungere sino a qui, a Roma, al Teatro Flavio, per la nostra Assemblea Nazionale. Al di là del successo politico della nostra Assemblea, è questo dato di sacrificio e piena adesione dei dirigenti e dei militanti al progetto politico del MpRC che rafforza la nostra speranza e il nostro intento di proseguire l’azione e la lotta per l’unità dei comunisti e il rilancio, in Italia, di un più forte soggetto comunista!
Vi ringraziamo uno a uno, una a una, cari compagni e care compagne del MpRC!
Come ringraziamo i partiti comunisti del mondo, le forze antimperialiste, l’Ambasciatrice dello Stato di Palestina in Italia che hanno inviato i loro preziosi saluti alla nostra Assemblea; l’Ambasciatrice di Cuba, che è intervenuta durante i nostri lavori; l’Ambasciatrice della Bolivia, che ha presenziato al dibattito; le diverse forze palestinesi che hanno inviato alla nostra Assemblea gli auguri di buon lavoro; la compagna Isa Maya, responsabile dei giovani palestinesi di Roma, che parlando col cuore in mano ha fatto alzare in piedi tutta l’Assemblea con le sue parole piene di coraggio, passione e determinazione per la lotta di liberazione del suo popolo, del popolo palestinese!
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Bollire l'orso
di Enrico Tomaselli
Mentre nel corso dei primi due anni della guerra ucraina, il palmares del bellicismo era quasi equamente diviso tra USA e UK, in tempi più recenti questo è stato rivendicato da Macron. Le ragioni sono svariate, e spaziano dalla grande difficoltà in cui si trova oggi la Francia all’illusione di poter profittare della crisi tedesca per assumere la leadership europea, al nanismo politico del suo presidente. Ma la ragione di fondo è che le leadership europee, quasi unanimemente, si sono sostanzialmente rassegnate a eseguire il compito lasciato dagli Stati Uniti: assumersi l’onere del conflitto a est, sostenendo Kiev anche oltre l’ultimo ucraino, se necessario.
Anche qui, le ragioni per cui gli europei si sono convinti di non potersi sottrarre a tale incarico sono molteplici, e ne ho scritto altre volte. Quel che conta comprendere è come pensano di farlo, quando pensano di farlo, e ovviamente se davvero pensano di poterlo fare.
A giudicare da come si stanno intensificando le dichiarazioni interventiste, sembrerebbe che la scadenza non è poi così lontana; probabilmente, nelle segreterie europee si immagina di avviare una fase operativa quantomeno dopo le elezioni americane – anche per avere un quadro più chiaro in merito agli orientamenti della Casa Bianca, e alle sue tempistiche di sganciamento. Al tempo stesso, l’evoluzione sul campo di battaglia non sembra molto compatibile con queste ottimistiche previsioni: l’arrivo della bella stagione ha già rilanciato l’iniziativa russa lungo tutta la linea del fronte, e le carenze strutturali dell’esercito ucraino stanno venendo al pettine. Gli avvenimenti, quindi, potrebbero subire un’accelerazione.
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Gaza: una catastrofe che può tradursi nella nemesi di USA e Israele
di Roberto Iannuzzi
L’ipotesi di un protettorato neocoloniale prende contraddittoriamente forma, ma il vuoto scavato da Washington e Tel Aviv nella regione rischia di trasformarlo in un disastroso fallimento
L’inizio dell’offensiva israeliana a Rafah apre una nuova tragica pagina nel catastrofico conflitto di Gaza che si protrae ormai da più di 7 mesi. L’offensiva accelera nuovamente uno sterminio che molti hanno definito un genocidio in atto.
Intanto, i rinnovati dissidi fra l’amministrazione Biden e il governo Netanyahu, finora non tali da provocare una vera rottura ma comunque sintomo di un malessere fra i due alleati, sono indicativi del vicolo cieco strategico in cui sia Washington che Tel Aviv stanno sprofondando.
Un possibile futuro assetto di Gaza sta faticosamente emergendo, non per effetto di una pianificazione concertata da parte della Casa Bianca e dei vertici israeliani, ma del caotico e sanguinoso evolversi degli eventi.
Tale evoluzione vede i due alleati sempre più legati a doppio filo nella gestione di una crisi che li pone in crescente difficoltà, progressivamente isolati a livello regionale e internazionale al di fuori dell’Occidente.
I paesi arabi, per ora, sembrano restii a pagare il conto della ricostruzione, e ancor meno a prendere parte all’amministrazione di un’enclave nella quale Hamas è tutt’altro che debellato e Israele continuerà a intervenire militarmente ancora per lungo tempo. Ma questa posizione potrebbe cambiare in futuro.
Il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha recentemente dichiarato in una conferenza stampa di essere in disaccordo con la prospettiva di istituire un governo militare israeliano a Gaza, sebbene le premesse per un simile scenario siano state poste.
L’infrastruttura della nuova occupazione
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Una radiografia della storia mentre cammina
di Luca Baiada
Domenico Gallo, Guerre, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda 2024, pp. 200, euro 16
Una guerra che a volte è sembrata quasi ad armi pari, in Ucraina; una strage che vuole sembrare una guerra, a Gaza. Hanno qualcosa in comune? Costringono a riflettere, le due direzioni tematiche di questo studio in presa diretta, fatto di articoli sulla stampa, interventi in convegni e inediti.
Forte della preparazione giuridica – l’autore è stato un magistrato con funzioni presidenziali in Cassazione – e di attenzione ai dati, Domenico Gallo confronta i fatti con le esigenze della condizione umana e con norme rigorose. Sono le garanzie della legalità internazionale e del diritto penale, violate in nome della ragion di Stato, della lotta al terrorismo, della sicurezza, della difesa, dell’identità.
Per un quadro generale. George Kennan, teorico del contenimento del blocco socialista, sul «New York Times» a febbraio 1997, indicò la decisione di espandere la Nato come il più grave errore del dopo guerra fredda. Due anni dopo, nel 1999, la Nato abbandonò il carattere di alleanza difensiva:
Con la scelta che gli Usa hanno imposto alla Nato nel luglio del 1997, il treno della storia è stato deviato su un altro binario, verso un percorso che ci ha sempre più velocemente allontanato dall’orizzonte del 1989 e alla fine è arrivato al capolinea il 24 febbraio 2022, data che simbolicamente rappresenta l’evento opposto e contrario a quello del 9 novembre 1989.
Ci sono rilievi più specifici. Si cita Benjamin Abelow, Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina (Fazi 2023), commentando:
La sciagurata avventura militare di Putin, che ha varcato il Rubicone la mattina del 24 febbraio 2022, [costituisce] una risposta del tutto prevedibile, e perciò prevenibile, a una trentennale storia di provocazioni alla Russia, cominciate durante la dissoluzione dell’Unione sovietica e proseguite, in un crescendo inarrestabile, fino all’inizio del conflitto attuale.
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La crisi dell’imperialismo Usa, dall’interno e dall’esterno
di Pasquale Liguori
Crisi dell’imperialismo Usa. Israele avamposto imperialismo. Cina, Russia, Iran, Asse della resistenza: multipolarismo delle formazioni sociopolitiche versus Impero. Intervista a Matteo Omar Capasso
A più di sette mesi di distanza dal 7 ottobre di Al-Aqsa Flood, continua lo sforzo titanico di media mainstream per una spiegazione mite, edulcorata degli immani crimini compiuti e ancora in corso a Gaza. Non sembrano sufficienti le quarantamila vittime palestinesi e la totale devastazione urbana nella Striscia a scuotere la coscienza dei produttori di informazione al soldo dell’atlantismo.
Segnali più autentici di rifiuto e contrasto a quest’ordine di cose provengono dall’imponente movimento degli accampamenti universitari che si oppone a programmi collaborativi con Israele, esprimendo sostegno all’indomita resistenza palestinese.
Una delle sfide comunicazionali più rilevanti da quel sabato mattina di ottobre è stata una normale opera di contestualizzazione storica e politica di quegli atti resistenti. Contro di essa si è attivato infatti l’ampio uso di una narrativa che di colpo cancellava un secolo di occupazione, crimini, reati, apartheid operati da Israele. Ancor più sfocata è apparsa la collocazione delle crisi contemporanee all’interno del quadro geopolitico con il protagonismo degli interessi imperialisti degli Stati Uniti d’America per un mondo unipolare sottoposto al loro dominio.
Ritornano perciò utili, profetiche, le parole che vent’anni fa pronunciava il politologo ed economista Samir Amin “Il progetto di dominio degli Stati Uniti – con l’estensione delle dottrine Monroe all’intero pianeta – è sproporzionato. Questo progetto che, sin dal crollo dell’Urss nel 1991, individuo come Impero del caos si scontrerà fatalmente con l’insorgere di una crescente resistenza delle nazioni del vecchio mondo indisponibili a essere assoggettate. Gli Stati Uniti dovranno allora comportarsi come un “Stato canaglia” per eccellenza, sostituendo il diritto internazionale con il ricorso alla guerra permanente (a partire dal Medio Oriente, ma puntando oltre, alla Russia e all’Asia), scivolando sulla china fascista”.
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Tre “malintesi” su guerra civile ucraina e conflitto russo-ucraino
di Andrea Muni
Prosegue con questo nuovo trittico l’approfondimento su guerra civile ucraina e conflitto russo-ucraino, iniziato in due puntate uscite tra ottobre e novembre 2022 (qui la prima parte e qui la seconda) [Ndr]
Una premessa
Due date. Oltre dieci anni fa (20 febbraio 2014) iniziava la guerra civile “aperta” in Ucraina, esplosa in seguito al golpe/rivolta di Maidan, la rimozione del presidente oligarca filo-russo Janukovich e la presa del potere centrale da parte dell’oligarchia filo-occidentale. Da quella data, le due principali fazioni del Paese e le rispettive oligarchie – filo-occidentale e filo-russa – non hanno mai cessato di affrontarsi in armi nella parte più orientale del Paese (Dontetsk e Luhansk), ovvero la parte di Ucraina da subito rimasta (insieme alla Crimea) in mano agli autonomisti/separatisti. In questo scenario, ancora aperto, oltre due anni fa (24 febbraio 2022) iniziava l’invasione russa dell’Ucraina in supporto dei cittadini ucraini autonomisti/separatisti. I morti civili di questi due anni di guerra sono, secondo l’Onu, più di diecimila. Numeri spaventosi eppure ancora lontani, per fortuna, da quelli del genocidio di Gaza (36.000 morti in otto mesi), che in parte si spiegano con la scelta dei russi di non assediare in modo frontale le grandi città russofone di Kharkov e di Odessa.
Alle vittime del conflitto russo-ucraino e della guerra civile vanno ad aggiungersi i milioni di vite spezzate di profughi, feriti, traumatizzati, reduci, molti dei quali – come le vittime stesse – sono anche cittadini ucraini russi (etnia), russofoni (lingua) e/o filo-russi (orientamento geopolitico); persone uccise, ferite e/o costrette a emigrare anche dai nazionalisti ucraini e dagli armamenti Nato, con cui vengono bombardati non solo i civili delle città filorusse di Donetsk e Luhansk, ma anche le città russe di confine (solo a Belgorod nell’ultima settimana sono stati quasi trenta i civili uccisi dalle bombe Nato e ucraine).
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L'affaire Crypto AG e l'"etica" dei nostri alleati
di Alberto Bradanini
1. Di tutta evidenza i tanti segreti di stato che hanno agitato la gioventù e l’età adulta di intere generazioni sono tali solo per il popolo deliberatamente oscurato. Davanti a vicende come quella che segue, le rare riflessioni mediatiche - che incidentalmente emerse sono state subito archiviate dall’azione di sorveglianza di chi ha sempre saputo e taciuto - hanno al più suscitato qualche pubblica ansia passeggera, mai comunque nella psiche di coloro che svolgono occulti ed esecrabili professioni.
Il grande filosofo tedesco F. Hegel affermava che le cose note, proprio perché note, non sono conosciute, di certo non abbastanza. È questo il caso di una vicenda di spionaggio che sembra tratta da un libro di Le Carré. Seppur a suo tempo sviscerata dalla stampa internazionale (poco comunque da quella nazionale), essa merita tuttavia di essere rievocata, affinché non si perda coscienza che molte cose restano occulte nelle tragedie che abbiamo davanti e che la qualità politica ed etica dei nostri cosiddetti amici è quanto mai scarsa.
2. L’11 febbraio 2020, per ragioni tuttora ignote, il giornalista del Washington Post[1] (WP) Greg Miller informa i lettori che per mezzo secolo un elevato numero di paesi al mondo ha affidato la tutela delle informazioni sensibili (quelle che si scambiano al loro interno governi, organismi di sicurezza, militari e diplomatici) a macchinari prodotti da un'unica azienda, la “svizzera” Crypto AG. Una notizia priva di rilevanza se non fosse che quella società, nata in Svizzera, poi divenuta una Joint Venture Usa-Germania Cia[2]-Nsa[3]/Bnd[4]), è servita per fabbricare macchine che consentivano di decifrare le comunicazioni classificate dei paesi acquirenti.
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Fra natura e cultura, conservazione e cambiamento. Una riflessione sulla tecnica e i suoi possibili esiti
di Armando Ermini
Ritengo che la relazione introduttiva di Fabrizio Marchi al Convegno per il decennale de L’Interferenza https://www.linterferenza.info/editoriali/di-bolina-contro-un-vento-gelido-e-sferzante/ meriti qualche riflessione suppletiva nell’ambito di un suo sostanziale e forte apprezzamento.
Per prima cosa credo sia giusto sottolineare questo passaggio su cui concordo in pieno.
Che l’attuale capitalismo sia “patriarcale” è una sciocchezza enorme, sia perché il concetto di “patriarcato” è stato ed è travisato totalmente nel suo significato autentico (non essendoci qui tempo e spazio per argomentare mi limito a rimandare chi fosse interessato al numero 587 di www.ilcovile.it), sia perché è ormai del tutto evidente che gli antichi “privilegi” maschili (uso le virgolette sia perché quelle vecchie prerogative erano bilanciate da un gran numero di obblighi personali e sociali, sia perché quei “privilegi” non riguardavano in nessun modo gli uomini delle classi basse, operai, contadini, piccoli commercianti ecc., ossia la stragrande maggioranza della popolazione).
Detto questo, credo sia importante soffermarsi sulla questione della Tecnica e della scienza, e della loro supposta neutralità, da cui discenderebbe la conseguenza che la partita si gioca tutta sul loro uso giusto o sbagliato, cioè indirizzato o meno verso il bene della collettività.
Circa la scienza, premessa la mia incompetenza, mi limito a osservare, a) che le verità scientifiche non possono essere considerate universalmente valide, ma occorre sempre delimitarne il campo di applicazione. Così è, per esempio, per la fisica newtoniana. b) che, quando una ricerca è finanziata da un ente privato (ad esempio una casa farmaceutica), gli interessi e gli scopi del finanziatore hanno un ruolo molto importante, tale che quella ricerca non può essere considerata “neutra” e fatta solo per amore di conoscenza.
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Una luce di speranza
di Raúl Zibechi
La grande rivolta giovanile nelle università degli Stati Uniti non smette di crescere e mostra una meraviglia di organizzazione e l’incredibile diversità di coloro che vogliono fermare il genocidio a Gaza, arrivando a contagiare anche l’Europa. Le kefiah fanno parte ormai dello scenario urbano su treni, metropolitane e strade delle grandi città. “Non possiamo sapere se la repressione e il bombardamento mediatico faranno retrocedere il movimento – scrive in un reportage di grandissimo interesse Raúl Zibechi da Philadelphia e Los Angeles – Il percorso di queste settimane e già abbastanza trascendente, una luce di speranza per le persone coinvolte…”
Brecha (settimanale uruguayano per il quale hanno scritto, tra gli altri, Eduardo Galeano e Mario Benedetti, ndr) ha girato gli accampamenti nelle università della Pennsylvania e di Los Angeles, mentre migliaia di studenti in tutti gli Stati Uniti manifestavano contro l’aggressione di Israele a Gaza, chiedendo di porre fine agli affari redditizi tra le istituzioni educative e il regime di apartheid di quel paese. In pieno anno elettorale, la protesta preoccupa il governo e le élite statunitensi.
Il 17 aprile gli studenti della prestigiosa Università Columbia di New York hanno iniziato a piantare tende nel campus in solidarietà con Gaza. La polizia ha provato a sgomberare ma hanno resistito. La repressione ha indignato studenti e insegnanti e ha attirato un gran numero di persone all’accampamento. Una settimana dopo, quando centinaia di studenti si sono riuniti in uno spazio centrale dell’accogliente campus dell’Università della Pennsylvania, a Philadelphia, c’erano già più di sessanta accampamenti in tanti altri edifici accademici.
Quest’esplosione di attivismo ha mostrato l’incredibile diversità di coloro che vogliono fermare il genocidio a Gaza. A Philadelphia i più attivi sono stati i giovani bianchi, spesso circondati da afroamericani; tanti anche i migranti latini che mostravano whipalas e bandiere messicane, un gruppo di mussulmani pregavano inginocchiati indossando abiti tradizionali, c’erano moltissime giovani donne e persone queer e trans. Alcuni professori si sono avvicinati con cartelli scritti a mano, manifestando il loro appoggio agli studenti, continuamente minacciati di rappresaglia. Un piccolo gruppo di ragazze ebree si è unito, con il prezioso e audace appoggio degli ebrei antisionisti alla ribellione causata da una guerra che sentono profondamente ingiusta, che non li rappresenta ed è una macchia indelebile nella storia dell’ebraismo.
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Il momento decisivo
di Leonardo Mazzei
Domande (e tentativi di risposta) sugli sviluppi della guerra
Quali saranno gli sviluppi della guerra? Quali in Ucraina, quali in Medio Oriente? Queste ci paiono le domande fondamentali dell’oggi.
Mentre le mortifere società occidentali sonnecchiano, nubi di tempesta s’addensano all’orizzonte. Gli ottimisti pensano che tutto finirà con un temporale, i pessimisti con il diluvio universale. I primi giustificano la loro inerzia con il mantra del “non può succedere”, i secondi con l’argomento dell’impotenza. Entrambi hanno torto, dato che la prospettiva di una Terza Guerra Mondiale pienamente dispiegata è lì a un passo, ma non è ancora inevitabile certezza.
Il torto degli ottimisti risiede nell’errore di una semplicistica equazione: poiché una guerra mondiale porterebbe all’uso illimitato dell’atomica, dunque al reciproco annientamento, nessuno sarà così folle da innescare la propria autodistruzione. Si tratta della riproposizione della teoria della mutua distruzione assicurata (Mutual Assured Destruction, da cui l’acronimo inglese MAD, cioè “pazzo”), in voga durante la Guerra Fredda.
Il torto dei pessimisti è invece quello di non vedere gli elementi di contraddizione presenti nel blocco della guerra, quello che al Cremlino chiamano “Occidente collettivo”. Questo blocco, che ha avviato il conflitto con l’espansione a est della Nato, ha un centro (gli Usa), una potente e ramificata struttura militare (l’Alleanza atlantica, appunto) nonché una fondamentale costola politica nel Vecchio continente (l’Ue). Ma proprio questa sua ampia articolazione conduce a diverse problematicità, alcune delle quali verranno presto al pettine. Ed è su queste che chi si oppone alla guerra dovrà lavorare.
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L’Europa morirà americana?*
di Raffaele Sciortino
Qual è oggi lo stato dei rapporti transatlantici nel quadro del conflitto ucraino e sullo sfondo del montante scontro Usa/Cina? Non è facile anche solo delinearne contorni e possibili evoluzioni sia per la complessità dei fattori in gioco sia a maggior ragione perché uno dei due poli della relazione non rappresenta un soggetto unitario. Qualunque cosa possa rappresentare oggi l’Europa sul piano politico e simbolico, l’Unione Europea (UE) non è uno Stato, non può dunque surrogare la semi-sovranità politica e militare - a far data dalla II Guerra Mondiale - della Germania, suo pilastro economico. Piuttosto, essa si configura come un terreno di scontro transatlantico e intra-europeo se non, sul medio-lungo periodo, come una delle poste in palio nella più generale crisi dell’ordine internazionale apertasi con il tonfo finanziario del 2008.
Comunque sia, nell’affrontare questo intricato nodo vanno tenuti presenti due elementi, che qui non è possibile approfondire. Gli Stati Uniti sono riusciti finora a evitare una recessione economica, dopo lo scontato rimbalzo post covid, grazie sia a forti sovvenzionamenti pubblici alle imprese (Bidenomics) sia alle esportazioni energetiche verso i paesi europei (uno dei dividendi della guerra in Ucraina). È assai dubbio se in prospettiva questa politica industriale possa portare ad una effettiva reindustrializzazione degli States e al ritorno di un compromesso sociale accettabile (la cui disgregazione è la vera causa del trumpismo). È plausibile, invece, che incrociandosi con la guerra economico-tecnologica alla Cina essa prefiguri un nuovo tipo di “economia di guerra”.1 In secondo luogo, e di conseguenza, il conflitto con Mosca non potrà che avere un effetto trascinamento sulla UE essendo plausibile che un’”Europa senza Russia porta a un’Europa senza Cina”.2
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Coreografi, dati e intelligenza artificiale a scuola
di Rossella Latempa
“Immaginiamo un’aula dove alcuni studenti stanno lavorando alla progettazione delle piramidi con difficili calcoli che vengono dati in pasto a un’intelligenza artificiale per generare il progetto perfetto, altri dialogano con Dante al fine di farsi spiegare cosa c’è dietro agli aneddoti che vengono raccontanti nell’Inferno mentre un altro gruppo scrive un racconto collaborando con una chat intelligente. Sono scenari di utilizzo di strumenti di Intelligenza Artificiale Generativa (GenAI) che molti oggi stanno iniziando a immaginare, e, alcuni, a sperimentare.”
Le parole, tratte da un’intervista al sole 24 ore sul futuro dell’istruzione, sono di Cristina Pozzi, oggi Ceo & Co-Founder Edulia dal Sapere Treccani, qualche anno fa membro della task force per la scuola della ministra Azzolina: una manager visionaria, che ricordiamo già da allora per le sue ambiziose fantasie educative (vedi qui). L’immagine che le accompagna ritrae un’ideale scuola del futuro: aula dalle ampie vetrate, studenti di diverse età e nazionalità seduti attorno a tavoli di legno chiaro, tra tablet e artefatti digitali. Il blu è il colore dominante: sono vestiti di blu i due studenti al centro della scena, che danno le spalle a chi osserva, assorti su schermi bianchi e azzurri; blu sono i piccoli robot che camminano tra i gruppi di lavoro e blu è il grande robot-guida che campeggia sullo schermo alla parete. La scena è quasi evanescente: non c’è traccia di disordine, distrazioni, conflitti. Non c’è nemmeno traccia di insegnanti. L’immagine è quella di una comunità aperta, operosa e orizzontale, in cui le macchine collaborano con gli studenti in maniera quasi spontanea. Dunque, è questa la scuola del futuro? Sposteremo le risorse dai salari dei docenti alle Big Tech?
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Narrazioni digitali. Diagnosi di un’immagine mentale
di Patrizio Paolinelli
ABSTRACT. Narrazioni digitali. Diagnosi di un’immagine mentale. In questo paper mettiamo in discussione il racconto ufficiale della rivoluzione digitale. Allo scopo analizziamo i significati contenuti nella sequenza visiva maggiormente utilizzata per interpretare il passaggio da una rivoluzione industriale all’altra. Tale sequenza istruisce il pubblico dei vecchi e nuovi media a un modo di pensare la tecnologia, i suoi effetti sociali e le sue tendenze future. Abbiamo smontato questo modo di pensare per separare la narrazione dalla realtà
Due svolte per una rivoluzione. Le comunità di pensiero (scientifica, letteraria, mediatica) affrontano l’urto dell’innovazione tecnologica sul presente rispondendo alla domanda: cosa sta accadendo oggi? E strutturano il futuro rispondendo a una seconda, inevitabile domanda: cosa accadrà domani? Dagli anni ’50 del secolo scorso i mondi della cultura, dell’impresa e dei media hanno progressivamente riempito biblioteche e archivi on-line di testi (orali, scritti, visivi) finalizzati a capire gli effetti sociali dell’automazione e a prevederne le tendenze future. Un impegno che aveva e ha ancora oggi ottimi motivi. Eccone due: 1) l’avvento della tecnologia elettronica di tipo digitale ha sconvolto i processi produttivi, contribuito a domare la forza-lavoro e affermato una nuova forma di accumulazione del capitale basata sull’informazione; 2) a partire dagli anni ’90 del XX secolo i proprietari dei vecchi e nuovi mezzi di produzione si sono impossessati dell’idea di rivoluzione spodestando nell’immaginario collettivo i rivoluzionari anticapitalisti ormai politicamente sconfitti. La due svolte, una economica e l’altra comunicativa, hanno avuto un successo travolgente e da alcuni decenni l’etichetta rivoluzione digitale è stata incollata all’insieme dei mutamenti innescati dalla tecnologia. Rivoluzione digitale: ecco la risposta alle angoscianti domande sul presente e sul futuro hi-tech.1
Storytelling globale. Corrono gli anni ’70 del ‘900 e il governo statunitense crea de facto la Silicon Valley.2 Se nella patria del profitto privato l’intervento dello Stato nell’economia fosse diventato di dominio pubblico per i tecno-imprenditori à la Steve Jobs si sarebbe trattato di un catastrofico danno d’immagine. A salvargli la faccia ha contribuito lo storytelling globale3 che accompagna i processi di automazione da un’ottantina danni a questa parte in un crescendo impressionate.
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Manipolare i testimoni per deformare la storia
di Paolo Persichetti
Ancora una domenica bestiale su Rai tre, stavolta Report si inventa l’infiltrato della Cia nelle Brigate rosse. In azione il “metodo Mondani”: manipolare i testimoni per deformare la storia
Nella puntata di Report di oggi, domenica 12 maggio 2024, Paolo Mondani intervista lo storico Giovanni Mario Ceci che ha studiato tutti i documenti desecretati delle amministrazioni Usa degli anni 70 e dei primi 80: Dipartimento di Stato, Cia, Security Concil, rapporti dell’Ambasciata americana a Roma. Ricerca poi raccolta in un volume, La Cia e il terrorismo italiano, uscito per Carocci nel 2019.
Nei report desecretati si può leggere che «Nessuno è stato in grado di trovare nemmeno uno straccio di prova convincente del fatto che le Brigate rosse ricevevano ordini dall’estero». L’affermazione era giustificata dal fatto che solo la prova di una interferenza straniera che avesse messo a rischio la sicurezza e gli interessi statunitensi avrebbe legalmente giustificato l’intervento diretto della Cia negli affari interni italiani, più volte richiesto dal governo di Roma a cominciare dallo stesso Aldo Moro pochi mesi prima di essere rapito dalle Brigate rosse.
Nonostante il libro di Ceci, documenti alla mano, sostenga questa tesi, Mondani riesce a censurare l’intero contenuto del volume, ben 162 pagine, capovolgendone il senso.
I documenti raccolti da Ceci dimostrano come la Cia intervenne per reprimere le Brigate rosse, non certo per sostenerle o manipolarle, alla fine del 1981 quando queste rapirono il generale americano James Lee Dozier. L’intervento degli uomini di Langley fu tale che il governo Spadolini non esitò ad autorizzare le forze dii polizia all’impiego sistematico della tortura durante le indagini.
Importanti testimonianze di esponenti delle sezioni speciali antiterrorismo dei carabinieri emersi recentemente hanno dimostrato (leggi qui) che a cercare di avvicinare le Brigate rosse non fu la Cia ma il Partito comunista italiano con l’accordo del generale Dalla Chiesa dopo il gennaio 1979.
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Di bolina, contro un vento gelido e sferzante
di Fabrizio Marchi
Abbiamo deciso di dare vita a un giornale che avesse un approccio critico alla realtà nella sua complessità, fuori da liturgie e schemi preconfezionati e consapevoli del fatto che è necessario aggiornare le categorie con le quali si analizza e si interpreta la realtà stessa e probabilmente – senza dimenticare mai le nostre radici – anche crearne delle nuove alla luce di una realtà che, appunto, diventando con il tempo sempre più complessa necessita di strumenti adeguati per essere compresa e possibilmente trasformata.
Senza questo metodo di lavoro si rischia, anzi si arriva inevitabilmente a capovolgere le cose. Si finisce cioè per applicare la realtà, necessariamente deformandola, all’ideologia pur di far quadrare i propri conti, cioè pur di confermare la giustezza e la validità del proprio paradigma ideologico. Questo è ciò che ha determinato e continua a determinare il dogmatismo. Viceversa, il nostro approccio metodologico è sempre stato quello di cercare di entrare in una relazione dialettica con la realtà per comprenderne le dinamiche sociali, economiche, culturali, politiche e ideologiche che la caratterizzano.
E’ applicando tale metodo che siamo arrivati a individuare quella che per noi è l’ideologia attualmente egemone nelle società occidentali, cioè l’ideologia neoliberale di cui ciò che definiamo con il termine di “politicamente corretto” è il mattone o uno dei mattoni fondamentali.
Quali sono i capisaldi di tale ideologia?
- Il capitalismo, non più concepito come una forma storica dell’agire umano, è stato elevato a vera e propria condizione ontologica.
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La critica radicale del lavoro e la sua incompatibilità strutturale con il principio spettacolare
di Benoît Bohy-Bunel
Presentiamo uno scritto del 2016 di Benoît Bohy-Bunel1(originale francese qui) che ci sembra inquadri la questione del lavoro in modo appropriato, cioè come dispositivo che si caratterizza storicamente, e non come fattore trans-storico e naturale sic et simpliciter – lettura, quest’ultima, che comporta un’irreversibile ontologizzazione della categoria “lavoro”, rendendo dunque ogni idea sulla sua abolizione semplicemente folle2.
Sulla questione del lavoro la corrente internazionale della Critica del Valore, riprendendo il famoso Marx “esoterico”3, afferma chiaramente e – a nostro avviso – giustamente, come si tratti di una problematica che sorge in un determinato momento (e contesto) storico, quello in cui prende forma il sistema sociale conosciuto come “capitalismo”. Soltanto nel modo di produzione capitalistico, infatti, la categoria “lavoro” appiattisce e generalizza a sé le ampie, varie e ben più complesse sfere dell’attività umana. Soltanto nel modo di produzione capitalistico tutta la “sintesi sociale” è uniformata nel “lavoro”. Lavoro e capitalismo, lungi da essere veramente antagonisti, sono due facce di una stessa medaglia, e non potranno che estinguersi insieme. Detto ancora altrimenti, finché ci sarà “lavoro”, ci sarà anche capitalismo. La persistenza del “lavoro” va dunque interpretata come un segnale inequivocabile della “resilienza” (per usare un termine alla moda) del sistema del capitale.
Si tratta di capire, oggi, che fine abbia fatto il lavoro, quello “astratto” e produttivo per il capitalismo di cui parla l’articolo. Se, cioè, oggi questo tipo di lavoro esista ancora in misura sufficiente da soddisfare le brame capitalistiche, oppure – a causa della produttività a traino “microelettronico”, per dirla con Kurz – non sia di fatto stato “superato” dallo stesso sistema a cui appartiene, e ciò che ne resta sia un simulacro, tenuto in vita con inalazioni forzate di ossigeno sempre più rarefatto.
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