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Anschluss
Una colonia unter den Linden
di Luca Cangianti
Vladimiro Giacché, Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur, 2013, pp. 304, € 18,00
La Repubblica democratica tedesca (Rdt), la Germania Est, era un paese del blocco realsocialista. Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso la sua economia era decotta e presto sarebbe fallita sotto il peso dei debiti. La Repubblica federale tedesca (Rft), la Germania Ovest, tese generosamente la mano ai connazionali d’oltre muro con il Trattato d’unione monetaria che entrò in vigore il 1° luglio del 1990, permettendo ai cittadini tedesco-orientali di avere libero accesso alle merci occidentali. Dopo l’unione politica entrata in vigore il 3 ottobre dello stesso anno, il governo della Germania unificata avviò una politica di investimenti per ricostruire e integrare la disastrata economia dell’est.
È questa in sintesi la narrazione corrente e ufficiale dell’unificazione tedesca che Vladimiro Giacché mette radicalmente in discussione in Anschluss basandosi su una vasta documentazione per la maggior parte inaccessibile a chi non conosca il tedesco. Nonostante si tratti di un lavoro di storia economica, il focus del libro è immediatamente rivolto al presente politico. Secondo Giacché, infatti, rileggendo le vicende che portarono alla fine della Rdt si può capire molto di quello che sta avvenendo oggi nell’eurozona. Basta mettere al posto della Germania Est i cosiddetti Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), come del resto ha recentemente fatto la stessa cancelliera Angela Merkel durante una riunione del Consiglio europeo.
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Che cosa è il Quinto Stato
Leggendo un libro di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli
di Damiano Palano
Quando Luciano Bianciardi arrivò a Milano, nel 1954, il capoluogo lombardo era il centro trainante dell’economia italiana, probabilmente più ancora di quanto non lo fosse la Torino della Fiat. Se Torino era la «città-fabbrica» per eccellenza, dominata dal colosso automobilistico, Milano era una città ‘policentrica’, in cui le fabbriche si affiancavano agli uffici, ai giornali, alle case editrici. Ed era proprio in questa Milano che Bianciardi doveva sperimentare cosa fossero diventati gli intellettuali, il loro ruolo, il loro lavoro, nel pieno del «miracolo economico». In un articolo pubblicato nel febbraio 1955, intitolato Lettera da Milano, scriveva per esempio di avere solo intravisto alcuni singoli intellettuali, ma di non avere incontrato gli intellettuali come «gruppo». E, soprattutto, scriveva di aver già riconosciuto, all’interno della schiera degli intellettuali, una netta differenziazione di ruoli: «Come non ho ancora visto gli operai, così non ho ancora visto gli intellettuali. Li ho visti, si intende e li vedo ogni mattina, come singoli, ma mai come gruppo. Non riescono a formarlo, e ad influire come tale sulla vita cittadina. L’unico gruppo in qualche modo compatto è quello che forma la desolata scapigliatura di Brera. Gli altri fanno i funzionari di industria, chiaramente. Basta vedere come funziona una casa editrice. C’è una redazione di funzionari, che organizza: alla produzione, lavorano gli altri, quelli di via Brera, che leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a volta come i braccianti per le faccende stagionali»[1].
Bianciardi avrebbe d’altronde sperimentato in prima persona le dinamiche dell’industria culturale milanese.
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Riabilitiamo la teoria del valore*
di Augusto Graziani
Non poco dell'insegnamento economico di Marx è stato assorbito silenziosamente da economisti di tradizione estranea al marxismo. Non è difficile scoprire, all'interno della tradizione economica borghese, l'esistenza di una vasta corrente sotterranea di origine marxiana, a volte sepolta nel profondo, a volte affiorante in superficie, comunque sempre presente e vitale.
L'analisi di Marx, per chi volesse utilizzare un termine moderno, può dirsi impostata in termini macroscopici. La definizione marxiana del capitalismo come sistema basato sulla separazione fra lavoro e mezzi di produzione, e sulla conseguente contrapposizione tra una classe di capitalisti proprietari e una classe di lavoratori nullatenenti, è espressa direttamente in termini di struttura sociale. Questa definizione del capitalismo, come sistema costituito da classi in conflitto, è quasi superfluo ricordarlo, viene fermamente respinta dalla teoria economica borghese, la quale resta saldamente affezionata all'idea del mercato come libera palestra di contrattazione, nella quale i singoli affermano le proprie preferenze e difendono i propri interessi.
L'imposizione individualistica, com'è noto, prende come punto di partenza l'agire del singolo individuo e, dall'analisi del comportamento del singolo, desume l'assetto globale del sistema economico. A questa procedura, Marx, con la sua impostazione macroeconomica, contrappone una procedura inversa, di contenuto storico e concreto. Ridotta all'essenziale, la sua logica può essere espressa così: poiché l'esperienza storica mostra che un sistema sociale quale il capitalismo, basato sulla separazione tra lavoro e mezzi di produzione, si è affermato e perdura, ciò significa che i soggetti che lo compongono si comportano in modo da garantire la sopravvivenza.
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Il rigore della critica contro il pensiero dominante
di Emiliano Brancaccio
Augusto Graziani è morto l’altro ieri, a Napoli, pochi mesi dopo le celebrazioni per i suoi ottant’anni. Scompare così il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante. Nell’opera di ricerca, così come nella didattica e nella divulgazione, Graziani ha incarnato una miscela per certi versi unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche. Quello stesso spirito tuttavia sembrò pure obbligarlo a un voto di perenne sobrietà: un velo di rigoroso understatement, sempre lì a celare la sua grandezza. Nell’epoca della mediocrità alla ribalta lo si potrebbe definire un uomo d’altri tempi. Appellativo condivisibile, purché ci si riferisca non solo al passato ma anche e soprattutto al futuro. In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici. Attualissimi, in questo senso, sono i suoi studi sulle contraddizioni tra sviluppo economico italiano e ristrutturazione del capitalismo continentale, che oggi dominano la scena politica e sollevano dubbi crescenti sulla sopravvivenza dell’Unione monetaria europea.
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Il discorso di fine anno di Goofynomics
di Alberto Bagnai

(E questo vale anche per l'anti-discorso di Grillo, che avrebbe avuto tutto il tempo, ormai, di studiarsi il ciclo di Frenkel...).
L'audizione del Prof. Bagnai alla Commissione Finanze (che qui trovate completa, con video e commenti) chiude l'anno con un esauriente quadro della situazione economica del paese, che chiarisce in primo luogo la relazione necessaria tra euro ed austerità, e in secondo luogo l'irrazionalità dell'euro per una unione economica, basandosi sui più recenti e autorevoli studi scientifici. E da qui si parte, ignorantia non excusat, non più. Per il 2014 auguriamo una buona presa di coscienza a tutti!
Ringrazio il presidente e ringrazio la Commissione per aver ritenuto di coinvolgermi in questa iniziativa.
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La solitudine del lavoro*
Alberto Burgio
Non vorrei che la prospettiva dalla quale mi è congeniale riflettere sul tema della rappresentanza sociale e politica del lavoro (o piuttosto sul deficit di rappresentanza) scontasse una sorta di deformazione professionale che m’induce a sopravvalutare il ruolo delle idee e del senso comune e quello delle ideologie e delle culture politiche dei gruppi dirigenti delle organizzazioni della sinistra e del movimento operaio. Lo dico perché in effetti il tema di questo incontro è per me un invito a nozze, in quanto la questione della rappresentanza mi sembra porre al centro – direi oggettivamente – il problema degli strumenti teorici, delle categorie concettuali per mezzo delle quali si legge la realtà, si analizza la composizione sociale, si definisce la geografia delle soggettività e delle relazioni tra le soggettività. D’altra parte si tratta evidentemente di temi di per sé molto complessi, non solo perché è complicato l’argomento, ma perché la complessità aumenta nel momento in cui l’analisi si fa riflessiva e coinvolge se stessa, i propri strumenti, i propri presupposti, le proprie strategie euristiche. Per questo chiedo scusa in anticipo per l’inevitabile sommarietà e disorganicità di quello che non pretende di essere che l’abbozzo di un primo schema di ragionamento.
Siamo alla chiusura di un ciclo storico, il che non significa che un nuovo ciclo si stia aprendo. Se ci domandiamo quale rapporto la crisi che stiamo vivendo intrattenga con il trentennio neoliberista che l’ha preceduta, credo che la risposta debba essere che questa crisi è al tempo stesso lo sbocco naturale di quella fase e il suo coronamento.
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Da un paese sfiduciato un messaggio per l'Europa
di Alfonso Gianni
L’indagine di Demos sul rapporto fra gli italiani e lo Stato, commentata da Ilvo Diamanti su Repubblica, sta giustamente monopolizzando i dibattiti e i commenti non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche i colloqui tra amici e gli scambi di messaggi tra i frequentatori del web. Ne emerge in modo molto netto un quadro di pesante demoralizzazione. Specialmente tra coloro che, come chi scrive, hanno fatto dell’impegno politico uno degli assi principali su cui fare scorrere la propria vita.
A guardare bene però i dati che l’indagine ci fornisce, un simile pessimismo non mi pare del tutto giustificato. Anche perché alcuni di questi si prestano a più interpretazioni, anche rispetto a quelle molto autorevoli dello stesso Diamanti. Certo, se si guarda il riassunto delle risposte fornite, emerge un quadro di una società che sembra alla vigilia di correre, addirittura con consenso, avventure di tipo marcatamente autoritario. Cosa peraltro non nuova nel nostro paese e la storia, come si sa, non insegna altro che a riconoscere ex post che si sono fatti gli stessi errori di un tempo, ma non a evitarli. Spinge verso un’interpretazione di questa natura la crescita di consensi verso le forze dell’ordine che balzano con il 70,1% dei gradimenti di gran lunga in testa alla classifica dei preferiti.
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Eataly e il Rinascimento
Una polemica tra Tomaso Montanari e Antonio Scurati
***
Il Rinascimento in salsa tonnata, da Eataly
di Tomaso Montanari
«Eataly presenta il Rinascimento»: è scritto all’ingresso del nuovo negozio di Firenze. E senza un filo di ironia.
Esattamente come fa Mac Donald’s, che a Roma dipinge sulle pareti rovine classiche e in Toscana i cipressi, anche la catena di Oscar Farinetti adotta in ogni luogo una cifra ‘indigena’. Lo fa con lo stesso grado di fantasia (minima) e omologazione commerciale (massima). E, visto che Firenze vive da secoli alle spalle del mito usuratissimo del Rinascimento, a cosa altro si poteva pensare dovendo aprire giusto in faccia a Palazzo Medici di Via Larga?
Tutto ovvio dunque? Forse sì, ma è il modo ad offendere.
«Antonio Scurati, celebre scrittore e professore universitario, ha curato in esclusiva per Eataly un percorso museale che racconta i luoghi, i valori e le figure storiche che hanno contribuito al periodo artistico e culturale più fulgido di sempre», recita un cartello con foto fatale di questo nuovo Vate del Brand Italia.
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Sudan del Sud
Uno stato che non può permettersi l’indipendenza
di Andre Vltchek*
Per giorni la capitale del Kenia Nairobi ha temuto una carneficina nel Sudan del Sud.
Entrambi i principali giornali, Daily Nation e Standard, pubblicano articoli concentrati sul calvario di migliaia di cittadini kenioti bloccati a Juba e in altre città della “nazione più giovane della terra”, spesso in condizioni disperate.
Paesi stranieri – tra cui Uganda, Kenia e Stati Uniti – stanno ora inviando aerei militari alla minorenne nazione Frankenstein che recentemente si sono dati tanto da fare per creare. Ma questa volta gli aerei sono lì per soccorrere; per trasportare in salvo i loro cittadini.
Come sempre è raro trovare analisi approfondite del perché e come il Sudan del Sud è stato effettivamente creato, chi era dietro la sua nascita, o quali interessi politici ed economici questa entità innaturale debba soddisfare.
Le notizie di cronaca continuano a parlare del colpo di stato, della ribellione dell’esercito, del fatto che circa 80.000 (o forse 100.000) persone sono profughe e che forse migliaia sono morte.
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Prendiamocela con l'Europa
di Claudio Gnesutta
Il "Manifesto dei 15", l'appello promosso da 15 intellettuali sugli effetti delle politiche di austerità nella crisi, è non solo utile ma anche educativo. La stretta sociale dell'austerity rende urgente e opportuno “prendersela con l’Europa”. Una replica alle critiche espresse da Michele Salvati sul Corriere della Sera
Nel valutare sul Corriere della sera la critica del “Manifesto dei 15” (il numero dei firmatari elencati) alla politiche europee di austerità, non si può dar torto a Michele Salvati quando osserva che il superamento della “crisi” e il rilancio della crescita richiede di aver ben presenti le “condizioni dell’offerta” (nel suo elenco, competitività delle nostre imprese, l’inefficienza della pubblica amministrazione, il “disordine politico”) e che quindi non si debba trascurare l’incidenza degli squilibri interni accanto ai vincoli internazionali (nel caso, quelli europei) che ci condizionano.
Tuttavia parlare di “mezza verità” – cosa che permette al quotidiano di affermare redazionalmente che è “inutile prendersela così con l’Europa” – finisce con l’essere altamente fuorviante poiché, come Salvati stesso può convenire, è difficile ritenere che vi sia una politica della domanda disgiunta da una politica dell’offerta, quando la politica economica è inevitabilmente e sempre unica, anche se articolata sui due versanti a seconda degli aspetti strategici individuati per la loro maggiore rilevanza e urgenza.
Parlare di mezze verità e spostare il discorso sulle condizioni di offerta può favorire una contrapposizione che rischia di oscurare la vera questione, ovvero quale politica di domanda deve associarsi alla politica di offerta.
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Amazon, un nuovo modello produttivo?
Militant
Tra le lotte più combattive che si sono palesate in quest’autunno, e in alcune casi e città anche in inverno, dobbiamo sicuramente annoverare quelle nate per iniziativa dei lavoratori e le lavoratrici delle multinazionali della logistica. TNT, DHL, Bartolini, tutte aziende che, grazie alle mobilitazioni di chi vi lavora sfruttato e senza diritti, sono oggi esempi paradigmatici del nuovo mercato del lavoro e delle contraddizioni che in esso vivono. Chi abitualmente legge il nostro blog sa che non stiamo parlando di una novità; da queste colonne abbiamo più volte raccontato le cronache di quanto accaduto, visto che proprio come Collettivo ci siamo impegnati nel supporto di alcune vertenze che, anche qui a Roma, hanno interessato gli stabilimenti di queste aziende. I più solerti, inoltre, ricorderanno anche che lo scorso 7 dicembre organizzammo un’iniziativa al Lucernario Occupato con i compagni e le compagne di Sapienza Clandestina: la presentazione del libro-inchiesta di Jean-Baptiste Malet, free lance francese che si fece assumere dal colosso dell’e-commerce Amazon durante le festività natalizie dello scorso anno. Tra gli scaffali dello stabilimento Amazon di Montélimar, Malet ebbe modo di sperimentare sulla propria pelle le condizioni di sfruttamento cui sono sottoposti i dipendenti: mantenimento di standard produttivi, negazione dei diritti elementari sul lavoro, mobbing agli iscritti al sindacato (laddove questo riesce ad interagire coi lavoratori), un accurato e soffocante sistema di controllo, paghe da fame. Caratteristiche che non sono proprie del solo sistema Amazon, ma che oggi sono il leit motiv che vige nella stragrande maggioranza delle aziende multinazionali del comparto logistico.
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Dieci tesi contro la richiesta di un reddito minimo
La strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni
Bernard Shaw
Nei movimenti globali successivi al 1968 e all'autunno caldo del 1969 i redditi si disaccoppiano tendenzialmente dall' erogazione di forza-lavoro, e i redditi diventavano generalmente più uguali. Con il ristagno di questi processi ugualitari dal basso nella metà degli anni '70 dei gruppi di sinistra radicale producevano riflessioni strategiche attorno a un »salario politico« ed un »reddito minimo garantito«. Nella Repubblica Federale Tedesca la richiesta di un reddito di esistenza affiorò all'interno del movimento autonomo degli anni '80 come reazione alla ristrutturazione dello stato sociale.
Allo stesso tempo (negli anni '80) politici della CDU propagavano »l'imposta negativa sul reddito«, una cosa che vige tuttora (per esempio nel reddito di solidarietà dei cittadini). Sinistra, CDU, sindacati e padroni avanzano la stessa richiesta. Come è possibile?
1) La proposta di un reddito di esistenza è espressione di una società che diventa sempre più diseguale; ma allo stesso tempo fiancheggia questo processo. Non è solo una reazione alla ristrutturazione dello stato sociale, bensì una strada verso la sua ristrutturazione e smantellamento; non è un mezzo per una più equa distribuzione del reddito.
2) Dalla storia sappiamo che l'introduzione di redditi sganciati dal salario ha sempre condotto alla diminuzione del livello di riproduzione della classe operaia, così come è esattamente successo in Germania con l'introduzione del pacchetto delle riforme Hartz (la cosidetta »Agenda 2010« del cancelliere Schröder).
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La soggettività critica alla prova di un nuovo ciclo storico
Il ritratto politico della crisi e l’interpretazione scientifica del mondo
Mario Agostinelli
Provo ad esprimermi sulla portata e sulla profondità di un “nuovo ciclo storico”, che, per la densità delle parole usate, supera evidentemente le dimensioni della globalizzazione, dello strapotere della finanza o della riduzione degli spazi democratici fin qui considerati, mi concedo l’occasione per un intervento “irrituale”. Con una modalità inconsueta di esposizione, quasi provocatoria, provo a svolgere una riflessione su un aspetto forse sorprendente per alcuni, ma che a me sembra sottostare ad ogni approccio alla crisi in corso: la scienza moderna sta ridefinendo la rappresentazione della realtà che ci circonda, in base a concetti che si discostano totalmente dall’assolutezza e dal determinismo che la cultura tradizionale ha ereditato dai tre secoli che hanno percorso lo sviluppo industriale dell’Europa. Così, l’economia politica e l’ideologia del progresso illimitato sono andate in affanno quando – ad esempio – si è considerato che energia e materia sono sottoposte alle leggi della termodinamica e quindi riportate al tempo fisico.
L’ecologia diventa politica già a fine Novecento o, almeno, sarebbe dovuta essere riconosciuta tale, Ma c’è dell’altro in emersione, che è stato fin qui trascurato.
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Screpanti su imperialismo e crisi
di Marino Badiale
Ripubblico qui una mia recensione al libro di Ernesto Screpanti, L'imperialismo globale e la grande crisi, DEPS, 2013, apparsa nell'ultimo numero di "Alternative per il socialismo" (n.29, dicembre 13-gennaio 14, pagg.207-209). Aggiungo alla fine della recensione ulteriori brevi considerazioni che per motivi di spazio non ho potuto inserire nella recensione stessa. (M.B.)

Nell'impossibilità di approfondire tutti questi aspetti, cerchiamo di evidenziare la tesi centrale del libro. Essa è apertamente dichiarata dall'autore: si tratta del fatto che “con la globalizzazione contemporanea sta prendendo forma un tipo d’imperialismo che è fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento” (pag. 7). Screpanti individua vari aspetti di questa novità dell'attuale “imperialismo globale”. La principale innovazione, fra quelle individuate da Screpanti, mi sembra essere il venir meno del legame fra capitalismo e Stato-nazione. Il grande capitale si pone al disopra dello Stato nazionale, e ha con esso una relazione strumentale ma anche conflittuale. Cerchiamo di capire entrambi i lati di questo rapporto. Il rapporto è strumentale in quanto il capitale cerca pur sempre di piegare lo Stato ai propri interessi. Gli Stati hanno ancora delle funzioni importanti da svolgere, nello schema teorico proposto da Screpanti.
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Lezioni dalla crisi*
Perché il Parlamento dovrebbe sfiduciare la Commissione
di Alberto Bagnai
Grazie Magdi per l'invito a questo incontro così importante. Vi parlerò in inglese, e in questo c’è un’amara ironia. Perché? Perché l'inglese è la lingua del paese dov'è nata la scienza economica, almeno così come la conosciamo oggi, e che forse per questo motivo non è entrato nell'euro e sta seriamente considerando l'uscita dall'Unione Europea.
È abbastanza paradossale che per poter essere capito dalla fetta più vasta possibile di cittadini europei io debba utilizzare proprio la lingua di questo paese. È una lezione importante per quanti credono che gli Stati Uniti d'Europa siano una possibilità vera, concreta. In effetti la lezione è duplice.
Primo: qui c'è una maggioranza di italiani e la soluzione più democratica sarebbe che io parlassi in italiano. Ma vi do una lezione di politica europea: io appartengo ad un'élite, ne vado fiero, quindi decido per voi e parlo in inglese. E questa è la prima lezione.
Seconda lezione: non sono contro l'Europa. Posso viaggiare in Europa, parlando nelle rispettive lingue con buona parte delle popolazioni che incontro. La prima volta che sono andato in Portogallo mio figlio ha detto a mia moglie: “Questo è il primo paese dove il babbo non parla la lingua locale!”, ed è vero, perché purtroppo non parlo il portoghese e non lo capisco. Ma con l'inglese si può praticamente girare il mondo, e anche l'Europa.
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Nel baratro
di Sandro Moiso
Luca Ciarrocca, I padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni, Chiarelettere, Milano 2013, pp. 242, euro 13,90
Il libro di Ciarrocca, giornalista che ha vissuto per molti anni a New York, dove ha fondato il sito indipendente di economia, finanza e politica Wall Street Italia, è interessante per almeno due motivi. Il primo è sicuramente costituito dalla mole di dati riguardanti l’attuale crisi economica, esposti con chiarezza e semplicità (doti di cui quasi tutti gli analisti economico/finanziari sono generalmente sprovvisti). Il secondo dal fatto di essere un testo (inconsapevolmente?) contraddittorio. Molto.
Ma procediamo con ordine.
Il testo, pur inserendosi nell’attuale dibattito sull’utilità o meno dell’euro e delle scelte governative ad esso collegate, evita i toni della campagna anti-europeista ed anti-euro che rappresenta, nella confusione generale odierna, la panacea universale per molte, troppe forze politiche.
Inoltre, nonostante il titolo e i riferimenti ad una “cupola” finanziaria, l’opera non si occupa di ipotesi complottistiche né, tanto meno, del solito, strombazzatissimo dai poveri di spirito, Club Bilderberg.
Parla invece, e molto, di concentrazione finanziaria ed economica.
“La cupola non è il risultato di una colossale cospirazione di illuminati attuata con diabolica strategia, quanto un corollario oggettivo di decisioni che si producono per via di un’interazione parcellizzata di migliaia di interessi utilitaristici” (pag. 126).
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Memento italiano
Gianluca Passarelli
Una flessuosa linea di continuità ha attraversato la storia politica italiana, almeno nel periodo repubblicano. Eventi rilevanti, cruciali, definiti variamente come «terremoti», «innovazioni», «rivoluzioni», sono stati in realtà rapidamente derubricati a corrente normalità.
Un collettivo fenomeno di rimozione, cancellazione cosciente o acquiescente e interessata, delle vicende dolorose e vergognose della storia patria. Abbiamo superato o meglio saltato con un’alzata di spalle e un misero e incespicante mea culpa rapidamente recitato come svogliati ragazzini in sagrestia. Per passare da una fase – triste e ignominiosa – a una potenzialmente prospera e civile.
È possibile individuare quattro momenti in cui il cambiamento, pur significativo, ha coinciso con una fase di continuità, una lunga e indistinta calma come se nulla (o quasi) fosse avvenuto. Gli snodi della Repubblica, salutati rapidamente come «rivoluzionari» o «epocali», si sono trasformati però in una appiccicosa fase di reazione, di ritorno alla conservazione e dunque alla continuità senza cambiamento.
Il primo momento, dopo la caduta del Fascismo il 25 luglio del 1943, e la fine della dittatura nazifascista il 25 aprile del 1945, allorché l’entusiasmo repubblicano ha pervaso ogni aspetto della rinata società politica e «civile». Indubbio è stato l’avanzamento che l’Italia ha conseguito e che ha trovato massima e nobile espressione nella Carta costituzionale.
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Derive post-operaiste e cattura cognitiva
di Carlo Formenti
Analizzando la svolta liberista delle socialdemocrazie europee, Luciano Gallino1 parla di “cattura cognitiva”, riferendosi alla doppia capitolazione delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio di fronte alla controrivoluzione neoliberista: mancata opposizione agli attacchi del nemico di classe e sostanziale accettazione dei suoi paradigmi teorici (Gramsci avrebbe parlato di egemonia e di rivoluzione passiva). In un testo recente2, ho tentato di dimostrare come il processo di cattura cognitiva sia andato ben oltre i confini della socialdemocrazia, coinvolgendo anche la cultura dei movimenti e delle sinistre radicali. La breccia che ha consentito lo “sfondamento” del fronte ideologico anticapitalista è stata la rinuncia a descrivere il conflitto sociale in termini di lotta di classe. Nel testo citato nella nota precedente, ho messo al centro della mia analisi critica: 1) i “nuovi movimenti” che, dall’inizio degli anni Ottanta, hanno progressivamente spostato l’asse dei conflitti sociali verso le contraddizioni di genere, le tematiche ambientali e la lotta per l’estensione dei diritti individuali nel quadro della “democrazia reale” (con estrema approssimazione, si potrebbe parlare di uno slittamento dalla lotta per l‘uguaglianza socioeconomica alla lotta per il riconoscimento delle differenze culturali); 2) la lunga deriva del pensiero post-operaista, a sua volta in progressivo allontanamento dal concetto di classe. In questa sede mi occuperò esclusivamente di questo secondo bersaglio polemico, concentrando l’attenzione su un testo di Maurizio Lazzarato3 che ho potuto leggere solo successivamente alla pubblicazione del mio ultimo libro.
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L’utilità del sapere inutile, la necessità economica del dono
Federico Stoppa
“Il compito della scuola e dell’università è preparare i ragazzi al mondo del lavoro. Solo così possiamo sperare di sconfiggere – in futuro – le piaghe dell’abbandono scolastico e della disoccupazione giovanile. Dovremmo per questo istituire, nelle scuole secondarie, stage obbligatori in azienda”. “I neodiplomati vanno indirizzati verso percorsi di laurea dove avranno opportunità di trovare occupazione, non certo verso facoltà umanistiche come lettere, filosofia, scienze politiche, belle arti. Oppure, meglio che facciano gli idraulici, piuttosto che studiare”. “Finanziamo soltanto la ricerca applicata, che dà risultati misurabili in termini economici. Valutiamo severamente i nostri insegnanti attraverso parametri quantitativi, che tengano conto di quanto un professore contribuisce, con le sue pubblicazioni, agli introiti della facoltà”. “Semplifichiamo i programmi scolastici: basta latino, basta greco, basta lettura dei classici, basta libri; meglio optare per riassunti delle opere principali, fotocopie, belle slides colorate e animate. Invece che perdere tempo ad insegnare vecchie teorie, cari insegnanti, insistete sulle competenze pratiche che serviranno ai ragazzi nel mondo globalizzato, utilizzate una pedagogia incentrata sulle tre I: Inglese, Impresa, Internet”.
Quando l’oggetto di discussione è il binomio istruzione & mondo del lavoro, non c’è persona di buon senso che non ricorra, in ordine sparso, ad una delle tesi di cui sopra. Vi è un diffuso consenso sul fatto che scuola e università debbano modernizzarsi, diventando mere propaggini di un’azienda.
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Il riproporsi dell’Ursprung*
Una nota su accumulazione originaria, sussunzione formale e reale
di Adelino Zanini
1. Quando si ragioni sui problemi connessi alla finanziarizzazione dei modelli sociali, in termini storici, il pensiero corre immediatamente all’interpretazione datane da Rudolf Hilferding, il quale sosteneva che nel capitale finanziario si risolveva e si superava la distinzione tra capitale bancario e capitale produttivo, in modo tale che la forma più universale e assurda (begriffloseste) – così egli si esprimeva – del capitale, ossia il capitale monetario (D-D’), veniva ad assumere il suo senso più specifico.1
E tuttavia, nella storia del pensiero economico, possiamo trovare strumenti interpretativi non meno interessanti già in Marx (in cui è presente appunto la definizione di capitale monetario a cui Hilferding si riferiva) e, soprattutto, in Schumpeter e Keynes (trascurando, un po’ colpevolmente, altri autori meno celebri ma non meno significativi, quali Knut Wicksell, Gunnar Myrdall, Frank Hahn). Strumenti che non sono necessariamente “segnati”, per così dire, dal dibattito epocale sull’Imperialismus (e sulle forme ad esso connesse: trust, cartelli, etc.) e sono perciò tali da poter essere richiamati senza soverchie preoccupazioni storiografiche.
Ad esempio, la centralità del mercato monetario in Schumpeter, sostenuta dalla funzione di liquidità creata ex novo, a prescindere dal risparmio, spiega non solo come sia possibile il concretizzarsi dei processi innovativi, ma anche perché in una particolare fase del ciclo economico si assista di norma alla cosiddetta “liquidazione abnorme”, che fa seguito alla creazione di liquidità in eccesso sotto forma di moneta creditizia e quindi indirizzata anche a fini speculativi.
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I Khmer rossi di Serge Latouche
di Sebastiano Isaia
Per Serge Latouche, «La civiltà occidentale, così come la conosciamo da tre secoli, è molto diversa dalle altre. Si tratta infatti di una società della crescita, cioè di un’organizzazione umana completamente dominata dalla sua economia. E quest’ultima per rimanere in equilibrio, ha una sola via, la fuga in avanti, come un ciclista che, se smette di pedalare, cade a terra. Quando manca la crescita, nella società dei consumi si blocca tutto» (Incontri di un “obiettore di crescita”, Jaca Book, 2013).
Il Capitalismo è in primo luogo e fondamentalmente una società dominata dalla ricerca del massimo profitto possibile, e a causa di ciò la sua struttura economico-sociale deve necessariamente subire periodiche rivoluzioni. È la bronzea legge del profitto che sottopone l’economia a continui mutamenti tecnologici e organizzativi, che sposta sempre in avanti i confini del mercato, trasformando la vita stessa degli individui, ridotti, se mi è concesso dire, a risorse economicamente sensibili, in una merce. L’«immane raccolta di merci» di cui parlò una volta Marx per definire la ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, oggi, nell’epoca della bio-merce (l’individuo come merce che produce merci e che consuma merci: insomma, come merce perfetta) e della sussunzione totalitaria del lavoro sotto il dominio del Capitale, suona perfino riduttiva.
Il corpo stesso degli individui è, infatti, diventato una «immane raccolta di merci», una verde prateria in continua espansione a disposizione del cavallo capitalistico (il Capitale non conosce un limite fisico, ma anzi esso crea sempre di nuovo spazio su cui scorrazzare), un laboratorio che fa la gioia e la fortuna di chi per mestiere inventa nuovi bisogni, nuovi desideri, nuove “utopie”, nuovi sogni, nuove necessità.
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Da moneta unica a valuta comune
Una terza via per superare l’Euro
di Enrico Grazzini
Quale è la soluzione migliore per uscire dal sistema perverso dell'euro che soffoca inutilmente le economie e i popoli di Europa? Forse per trovarla occorre “salire come dei nani sulle spalle di un gigante”: la proposta che avanzeremo in questo articolo discende infatti niente di meno che dal progetto Bancor che John Maynard Keynes presentò a Bretton Woods. Tuttavia, prima di approfondirla, è opportuno considerare sinteticamente la situazione europea.
Lo stato dell'Unione. L'unione bancaria fasulla
Occorre innanzitutto riconoscere che questa UE è diventata esattamente il contrario di quella auspicata dai padri costituenti: non è più un progetto di libertà, di democrazia, di cooperazione e di pace tra i popoli, ma il preciso disegno di centralizzare rigidamente l'economia dei paesi europei sotto la guida tedesca per imporre politiche neoliberiste di smantellamento delle economia nazionali a favore del capitale del nord Europa, Germania in testa. Oggi perfino Romano Prodi, l'uomo politico che ha fatto entrare l'Italia nell'euro, riconosce che l'Europa è un disastro, una minaccia.
“Il rapporto tra i paesi è cambiato in favore della Germania. … La Germania è l’unico paese che conta davvero. Questo cambia tutto il quadro europeo. ...Le forze centrifughe in Europa stanno aumentando di intensità, non si parla più di un’Europa… Ma di un’Europa con finalità diverse”[1].
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Gli avversari sono lucidi, gli alleati un po' meno
di Marino Badiale
François Heisbourg non è “uno dei nostri”. Come si può capire anche solo dando un'occhiata a Wikipedia, si tratta di un membro delle oligarchie europee, che ha condiviso le scelte (costruzione di questa UE, creazione dell'euro) che hanno portato ai problemi attuali. Del resto, basta citare le parole con le quali inizia il suo libro*: “L'autore è un europeo convinto (…). Nella sua vita adulta, ha lavorato nei suoi diversi ruoli pubblici, industriali e accademici alla costruzione europea (pag. 7)”. L'idea di Europa che Heisbourg condivide è quella che abbiamo discusso più volte in questo blog: una Europa in cui l'eliminazione dei vincoli alla circolazione di merci e capitali permetta le “riforme”, cioè la distruzione dei diritti del lavoro e l'abbattimento dei costi del Welfare State, affinché il capitalismo europeo possa meglio competere con il resto del mondo. La costruzione di una UE rigidamente incardinata sui principi neoliberisti e di una moneta unica che mette i lavoratori di ciascun paese europeo in concorrenza fra loro, sono ovviamente frutto non di errori intellettuali ma di precise visioni politiche, economiche e culturali.
È allora di grande interesse il fatto, già segnalato su questo blog, che una persona di questo tipo scriva un libro in cui propone con molta chiarezza e lucidità la fine dell'euro, concordata e controllata, e il ritorno alle monete nazionali. Proprio il fatto che, come s'è detto, l'autore non è “uno dei nostri”, rende utile confrontarsi con quello che dice (e quello che non dice).
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"In Europa commessi gli stessi errori degli anni '30"
Alessandro Bianchi intervista Paul De Grauwe
In un suo studio recente, Design Failures in the Eurozone: Can they be fixed?, ha dimostrato come l'Unione monetaria europea non sia riuscita ad uniformare le cosiddette dinamiche di espansione e arresto – “boom and busts” - anzi la sua presenza ha di fatto amplificato gli effetti negativi per i singoli paesi membri. Ci può spiegare meglio le ragioni?
Ripeto spesso come la zona euro, al momento della sua creazione, appariva come una bella villa in cui tutti gli europei volevano entrare. Ma era una villa che non aveva un tetto. Quindi, fino a quando il tempo è stato buono, abbiamo continuato a voler restare tutti al suo interno, ma ora che il tempo è pessimo cresce la voglia di scappare.
In quello studio, in particolare, prendevo a riferimento uno dei fallimenti di progettazione, riguardante le dinamiche endogene interne all'Unione delle espansioni – “boom” – ed arresti – “busts” – dimostrando come la partecipazione alla zona euro abbia "spogliato" gli Stati delle vecchie protezioni lasciandoli in balia di effetti molto più ampi dei normali cicli tipici di tutti i sistemi capitalistici.
Nella zona euro le politiche monetarie sono centralizzate, ma il resto delle misure macroeconomiche rimangono nelle mani dei governi nazionali, producendo dinamiche peculiari e senza costrizioni per l'esistenza di una moneta unica.
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L’ideologia continua. Intervista a Slavoj Žižek
di Giulio Azzolini
Nella versione integrale dell’intervista pubblicata il 1 novembre 2013 su la Repubblica, il ritratto di uno tra i più originali e controversi intellettuali contemporanei, Slavoj Žižek. Nella prima parte del dialogo, dopo essersi smarcato dal postmodernismo e aver riconosciuto il proprio debito nei confronti dello strutturalismo, il filosofo sloveno racconta il “suoˮ Hegel. Nella seconda parte, il discorso cade sulla congiuntura attuale e Žižek spazia col solito acume dalla politica all’economia alla religione. Nella terza parte, infine, l’“Elvis della filosofiaˮ racconta la sua vita, le sue passioni, le sue idiosincrasie
«Scusi, ho parlato troppo». All’improvviso Slavoj Žižek tace. Aveva rotto il ghiaccio con una storiella sulle sottili differenze che tormentano la sinistra. Il suo inglese prorompe scandito da un’inconfondibile esse blesa, il tono è grave, il volume alto. È appena tornato dalla Corea, ma rimarrà nella sua Lubiana solo qualche giorno. «Ora mi toccano gli Stati Uniti, poi la Bolivia. Adoro viaggiare e tutto ciò che mi serve sta nel mio computer. Per divertirmi inoltre guardo un sacco di film, anche se oggi sono stanchissimo per il trasloco…». I libri ingombrano. «No, è che un mesetto fa mi sono sposato». Il primo matrimonio? «Il quarto. Lei è più giovane di me, fa la giornalista culturale». Bene. «Con le mogli precedenti, però, conservo un ottimo rapporto». Žižek è «misantropo», dice. E pure «un vecchio stalinista», aggiunge scherzando a metà. Detesta le filosofie del dialogo, ma chiacchiera con entusiasmo e garbo impeccabile.
Esce in Italia la prima parte di Meno di niente (ed. Ponte alle Grazie, pagg. 496, euro 29), il suo monumentale saggio dedicato a Hegel. «La più grande impresa della mia vita», ha dichiarato. Perché?
«Oddio, in effetti messa così suona abbastanza grottesco. Volevo soltanto dire che ricapitola, in qualche modo, tutto il mio lavoro. Forse non è il mio libro migliore, ma di certo provo a chiarire le mie posizioni filosofiche e ontologiche fondamentali, anche se qui e là non manca qualche barzelletta sporca. Non riesco a sopravvivere senza».
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