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Continuare l'attacco imperialistico alla Siria con altri mezzi
di Maurizio Brignoli
Riceviamo e con grande piacere pubblichiamo
Per quanto spacciata dalla disinformazione occidentale come “guerra civile” quella che si è sviluppata in Siria dal 2011 è un’aggressione imperialistica, che andrebbe meglio collocata nel contesto di un grande conflitto interimperialistico che in Siria si è combattuto in buona parte per interposta persona fra quello che si può definire un asse occidentale-sunnita (Usa, Ue, Israele e petromonarchie) volto a far cadere Bashar al-Assad alleato di Russia e Iran (e Cina). Un conflitto che si connette col progetto statunitense di mantenere un assetto mondiale unipolare e che prevedeva di ridisegnare le mappe del potere e in alcuni casi anche quelle geografiche del Grande Medioriente rovesciando governi non subordinati per mezzo di aggressioni dirette o per tramite delle formazioni jihadiste o attraverso le cosiddette “primavere arabe” condotte con la complicità dei Fratelli musulmani. Ultimo ma non meno importante la contrapposizione al grande progetto del capitale cinese della Nuova via della seta per fronteggiare il quale la destabilizzazione di questi territori è cruciale.
Il concetto di “guerra civile” perde di significato nel momento stesso in cui ci si trova di fronte a un conflitto progettato anni prima della sua effettiva conflagrazione a opera di paesi esterni e tramite un’aggressione condotta con miliziani in buona parte stranieri. Le origini più dirette dell’Isis risalgono a quando la Nato, con la collaborazione di Israele e petromonarchie, ha finanziato e addestrato queste milizie per rovesciare Gheddafi nel 2011 e che poi, a lavoro fatto, si sono spostate in Siria per abbattere Assad.
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Alle Regionali ha vinto Pirro
di Luca Busca
Analisi del voto
Normalmente il giorno dopo le elezioni ogni partito celebra la propria vittoria. Dopo le regionali 2023 alcuni di questi si sono dovuti esimere dal rito scaramantico per totale mancanza di voti. La sinistra di destra, il M5S e l’aborto democristiano di Renzi e Calenda sono entrati nella fascia Cites 1 della rappresentanza politica in via di estinzione. Quindi grande vittoria della destra. Come al solito, però, non sempre le cose sono come sembrano:
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«Gli Usa hanno attaccato il North Stream»
Fabian Scheidler intervista Seymour Hersh
Il premio Pulitzer Seymour Hersh racconta a Jacobin il suo scoop sulla missione segreta ordinata da Biden per danneggiare il gasdotto che dalla Russia conduce alla Germania e lasciare al freddo l'Europa
Il 26 settembre 2022, nel mar Baltico, il gasdotto North Stream dalla Russia alla Germania è stato in gran parte distrutto da diverse esplosioni. La scorsa settimana, il pluripremiato giornalista investigativo Seymour Hersh ha pubblicato un articolo, basato su informazioni provenienti da un’unica fonte anonima, nel quale sostiene che ne sono responsabili l’amministrazione Biden e la Cia.
Hersh ha vinto il Premio Pulitzer nel 1970 per il ruolo che ha svolto nel raccontare la storia del massacro di Mỹ Lai, in cui i soldati statunitensi ammazzarono dai trecento ai cinquecento civili disarmati. Ha accettato di parlare con Fabian Scheidler di Jacobin delle accuse contenute nel suo ultimo articolo e dell’influenza che la Cia e lo stato di sicurezza nazionale hanno sulla politica estera statunitense.
* * * *
Per favore, spiegaci le tue scoperte in dettaglio. Cosa è successo esattamente secondo la tua fonte, chi è stato coinvolto e con quali le motivazioni?
Mi sono limitato a spiegare l’ovvio. Era una storia che chiedeva soltanto di essere raccontata. Alla fine di settembre del 2022, otto bombe avrebbero dovuto esplodere; sei sono finite sott’acqua vicino all’isola di Bornholm nel Mar Baltico, nella zona dove l’acqua è piuttosto bassa. Hanno distrutto tre dei quattro principali oleodotti del Nord Stream 1 e 2.
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Diario della crisi | Il collasso del paradigma postfordista
di Christian Marazzi
Christian Marazzi torna a misurare la temperatura della crisi globale infinita. In questa quarta puntata del «Diario», Marazzi analizza il nuovo ordine energetico e monetario mondiale, spiegando la sua genealogia, gli attori principali, il conflitto attorno ai processi di de-dollarizzazione. In questo contesto, si colloca la crisi delle nuove politiche industriali, delle strategie produttive e di creazione del valore inaugurate nella fase del postfordismo
Nuovo ordine energetico (e monetario) mondiale
È dal 1945 che l’alleanza geopolitica tra Usa e Arabia Saudita ha garantito agli Stati Uniti sicurezza militare nel Medio Oriente e, soprattutto, petrolio ancorato al dollaro. Quella alleanza diede inizio al regime del petrodollaro. Nel 1974, quando un gruppo di paesi arabi impose l’embargo sul petrolio come rappresaglia per il sostegno statunitense a Israele nella guerra del Kippur, Richard Nixon garantì di nuovo armi e un accesso preferenziale ai titoli del tesoro americani, ottenendo in cambio che l’Arabia Saudita si impegnasse a indicizzare tutte le vendite di petrolio in dollari. Nel 2003, tra le accuse rivolte a Saddam Hussein, ci fu anche quella di aver cominciato a vendere petrolio in altre valute. Sappiamo come è andata a finire. In ogni caso, è qui che si incomincia a parlare di de-dollarizzazione. Dal 2018 la Russia ha iniziato ad affrancarsi dal dollaro, regolando le forniture di petrolio in euro. Per questo motivo la prima sanzione contro la Russia è stata il congelamento di una parte delle riserve valutarie della Banca centrale russa. Questo precedente di «militarizzazione» (weaponisation) delle riserve valutarie in dollari fa intravedere un cambio di direzione del sistema monetario ed energetico internazionale. Il 2023 potrebbe essere ricordato come l’anno in cui prende forma un nuovo ordine energetico mondiale tra Cina e Medio Oriente, con la nascita del regime del petroyuan1.
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Usa, profondo rosso
di Claudio Conti - Guido Salerno Aletta * - Robert Kuttner **
Quando la potenza fin qui egemone sul pianeta cerca di “salvarsi” agendo come un normale paese produttore di idrocarburi… vuole dire che quella potenza è alla frutta, economicamente parlando.
La propaganda in stile Rampini omette accuratamente ogni dato che dimostra questa realtà, dunque diventa indispensabile rivolgersi fuori dal mainstream giornalistico italico per trovare qualche ricostruzione attenta ai numeri, anziché alle parole.
Come spesso ci capita, abbiamo trovato in Guido Salerno Aletta – sulla testata specializzata TeleBorsa (nulla di bolscevico, come si può verificare…) – un analista serio della struttura attuale della bilancia commerciale Usa, ossia della voce più indicativa dello stato di salute di quell’economia.
“Non solo il deficit commerciale complessivo, per merci e servizi, è peggiorato di 103 miliardi di dollari, passando dagli 845 miliardi di dollari del 2021 ai 948,1 miliardi del 2022, ma si è verificato un andamento particolarmente negativo: il maggior deficit complessivo non è stato determinato solo dal peggioramento di 101,5 miliardi di dollari del deficit relativo alle merci (+9,3%), quanto anche dalla riduzione, a dire il vero marginale ma significativa, del surplus relativo ai servizi, con -1,6 miliardi di dollari (-0,6%).”
Detto brutalmente, ciò che viene consumato negli Usa è in gran parte prodotto altrove, come peraltro avviene da decenni. La novità sta nel fatto che questo scarto tra import ed export continua ad allargarsi e persino i “servizi” – settore terziario che fin qui aveva compensato la caduta delle esportazioni industriali, e stiamo parlando di “specializzazioni” storiche come le assicurazioni e i servizi finanziari – è finito in rosso, sia pur di poco.
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Il Marx "teologo" di Enrique Dussel
di Carlo Formenti
Argentino di Mendoza, filosofo ed esponente di punta della Teologia della Liberazione, il quasi novantenne Enrique Dussel insegna Etica alla UNAM di Città del Messico dopo avere vagabondato fra diverse università europee (Madrid, Parigi, Friburgo) e lavorato per due anni in un kibbutz israeliano. Una parte cospicua della sua monumentale produzione intellettuale è dedicata ad una meticolosa esegesi del testo marxiano che Dussel concepisce come una sorta di teologia occulta, intrecciata con, e nascosta dietro, le argomentazioni della critica dell'economia politica, in un impasto inestricabile di analisi scientifica e giudizio etico sui mali della civiltà capitalista. Fra i testi tradotti in italiano segnalo, fra gli altri, L'ultimo Marx (Manifestolibri, Roma 2009) e Le metafore teologiche di Marx (Shibboleth, Roma 2018). L'influenza della Teologia della Liberazione in generale (1) e di Dussel in particolare sui processi rivoluzionari latinoamericani degli ultimi decenni è innegabile, al punto che, senza conoscerne alcune idee fondamentali, è difficile afferrare il senso del processo politico che in America Latina va comunemente sotto il nome di socialismo del secolo XXI, così come è difficile capire le ragioni per cui i partiti marxisti tradizionali (siano essi stalinisti, trozkisti o maoisti) non sono stati alla guida dei processi in questione. Ecco perché ritengo utile integrare l'analisi che il mio ultimo libro (2) dedica alle rivoluzioni bolivariane con questo articolo sul pensiero di Dussel. Mi occuperò qui in particolare del libro Le metafore teologiche di Marx.
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Il linguaggio belligerante e il diritto di dissentire
Un estratto dal libro Guerra alla guerra
di Matteo Pucciarelli
[Esce in questi giorni per i tipi di Laterza il nuovo libro di Matteo Pucciarelli, Guerra alle guerra. Guida alle idee del pacifismo italiano.
Il capitolo 8, di cui riportiamo ampi estratti e che s’intitola «Guerra nelle parole. Il linguaggio belligerante e il diritto di dissentire», è in larga parte imperniato su un’intervista a WM1 realizzata nel settembre 2022 e sul lavoro critico fatto da Wu Ming nel pieno dell’emergenza pandemica, durante un coprifuoco dell’anima durato un biennio. Pucciarelli getta uno sguardo retrospettivo su quel lavoro, lo riconsidera e ne prolunga diverse linee.
Non capita ogni giorno – anzi, non ci era ancora capitato – di veder riconoscere legittimità e valore a quelle nostre riflessioni e prese di posizione in un testo pubblicato da una delle principali case editrici del Paese.
Il fatto che a riconoscerlo sia un giornalista che lavora a Repubblica, il quotidiano che più si mostrò forsennato nella caccia all’untore – ossia, nelle varie fasi: al «furbetto», al «negazionista», al «nomask», al «novax», al «nogreenpass» ecc. – e che oggi ha il primato della retorica guerrafondaia rende l’evento ancor più importante.
Grazie dunque a Matteo, e buona lettura. WM]
* * * *
«Narrazioni tossiche»*: è questa la definizione che il collettivo di scrittori Wu Ming ha dato a tutta una serie di distorsioni e mistificazioni di parole, in questa guerra che solo dopo si combatte con i fucili o con i droni telecomandati, con la violenza e la prevaricazione, ma prima è fatta di un sapiente e costante lavoro di decostruzione culturale.
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Inflation Reduction Act: l’Europa sotto assedio statunitense
di Giacomo Gabellini
Lo scorso agosto, l’amministrazione Biden ha promulgato l’Inflation Reduction Act (Ira), una legge asseritamente mirata a mitigare le forti pressioni inflazionistiche gravanti sul Paese, attraverso la riduzione del deficit di bilancio, l’abbassamento del costo dei farmaci e l’incremento della produzione d’energia a livello domestico, con particolare riferimento a fonti rinnovabili quali quella eolica, quella solare, e quella geotermica. Il provvedimento sancisce la ricalibrazione del cosiddetto Build Back Better, l’ambiziosissimo piano di investimenti pubblici annunciato da Joe Biden durante la campagna elettorale del 2020. Pur ridimensionandolo radicalmente, l’Ira contempla in ogni caso lo stanziamento di qualcosa come 737 miliardi di dollari per promuovere non soltanto lo sviluppo delle tecnologie che garantiscano lo sfruttamento dell’energia pulita, ma anche la definizione di catene di fornitura nuove di zecca. Nello specifico, il piano punta a ridurre le emissioni nazionali di carbonio del 40% entro il 2030 e prevede la concessione di sussidi per 369 miliardi di dollari, vincolandone però l’erogazione alla disponibilità delle aziende beneficiarie sia a impiantare saldamente la produzione sul territorio statunitense, sia ad approvvigionarsi di materie prime e semilavorati direttamente dagli Usa o da Paesi a cui questi ultimi sono legati da accordi commerciali preferenziali.
Prendendo palesemente le mosse dalle iniziative portate avanti – con esiti alquanto modesti – a suo tempo dall’amministrazione Trump, Joe Biden e la sua squadra di governo intendono stimolare la reindustrializzazione nei segmenti a più elevato valore aggiunto di un’economia fortemente “terziarizzata” come quella degli Stati Uniti.
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Ricordo di Luigi Pasinetti
di Nadia Garbellini
Si ringraziano sentitamente Louis-Philippe Rochon e la rivista Review of Political Economy per aver consentito la traduzione in lingua italiana di questo articolo di prossima uscita su Review of Political Economy – April, 2023 – 35 (2)
Scrivere queste righe è straordinariamente difficile. Luigi Pasinetti è il mio maestro, ma soprattutto ero legata a lui da un affetto profondo. Sentirò immensamente la sua mancanza.
L’ho incontrato per la prima volta alla fine del 2006. All’epoca, stavo scrivendo la mia tesi magistrale in Economia Politica, a Pavia. Avevo detestato praticamente ogni cosa studiata in quei cinque anni; avevo fretta di laurearmi e trovare un lavoro, e ho chiesto di essere mio relatore all’unico professore il cui corso alla magistrale avevo seguito con interesse: Gianni Vaggi. Che cambiò ogni cosa.
Mi diede da leggere il libro del 1981, e mi assegnò il compito di confrontarne lo schema teorico con quello (neoclassico) dei modelli di crescita endogena. Io non sapevo nulla di questa contrapposizione – avevo seguito il corso introduttivo di Giorgio Lunghini al primo anno della triennale, ma allora non avevo gli strumenti per cogliere certi aspetti.
Ho scoperto un intero approccio alternativo molto più convincente di quello che ero stata costretta a studiare per cinque anni. C’erano però tante cose che faticavo a capire; avendo scoperto che Pasinetti era Professore Emerito alla Cattolica decisi di provare a scrivergli per porgli alcune domande.
Mi rispose quello stesso giorno. La settimana seguente eravamo a pranzo insieme alla mensa di Via Necchi. Pochi mesi dopo, appena laureata, ho iniziato ad aiutarlo con la correzione delle bozze di ‘Keynes and the Cambridge Keynesians’ (2007) e con il libro sulla teoria del valore che è stato la sua ultima fatica.
Ricorderò sempre quegli anni con grande tenerezza e riconoscenza.
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Il prestito al tulipano: ancora a lezione da Dgiangoz. Cronache marXZiane n. 10
di Giorgio Gattei
1. Allorquando si presenta un sovrappiù di produzione, ossia un surplus rispetto a ciò che serve per riprodurre l’attività economica sulla stessa scala precedente, si aprono due questioni assai differenti. La prima riguarda la spartizione di quel sovrappiù tra i partecipanti alla sua produzione, che in prima battuta sono i lavoratori con il salario ed i capitalisti con il profitto, ed è per questo che l’astronomo “classico” David Ricardo aveva posto a prefazione dei suoi Principi di economia celeste «la determinazione delle leggi che regolano questa distribuzione (come) il problema fondamentale nell’economia politica». Tuttavia esso non è l’unico (sul quale peraltro si è speso fin troppo inchiostro), perchè ce ne è pure un secondo problema relativo alla destinazione di quel sovrappiù: che farsene, servirsene per accrescere la base produttiva già in essere (accumulazione) oppure consumarlo improduttivamente ossia, per dirla con Piero Sraffa, non utilizzarlo «né come strumento di produzione né come mezzo di sussistenza per la produzione di altre merci»? Come al solito questo secondo problema era già stato ottimamente colto da Karl Marx, il massimo geografo di quel nuovo pianeta comparso nel cielo dell’economia che da lui ha preso il nome, che così ne aveva discusso nel Capitale. Critica dell’economia celeste a proposito della “Trasformazione del plusvalore in capitale”: «la produzione annua deve fornire in primo luogo tutti quegli oggetti (valori d’uso) coi quali si debbono reintegrare le parti materiali del capitale consumate nel corso dell’anno. Detratti questi, rimane il prodotto netto o plusprodotto, nel quale ha sede il plusvalore.
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Il perturbante contro Freud
di Paolo Virno
Pubblichiamo un estratto di una riflessione di Paolo Virno a partire dal saggio Il perturbante di Freud. Per il testo completo rimandiamo allo «scavi» Sintomi. Per un'antropologia linguistica del mondo contemporaneo, scaricabile qui: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/sintomi-per-un-antropologia-linguistica-del-mondo-contemporaneo.
Convenevoli
Propongo una riflessione sul buon uso di una operetta di Freud, Il perturbante. La mia lettura è schiettamente unilaterale, sicché darò poca o nessuna importanza ad alcuni temi lì presenti, a spudorato vantaggio di altri. Del resto, chiunque si sia imbattuto in questo minuscolo e famosissimo saggio, ne ha sperimentato l’indole magmatica, centrifuga, a tratti incoerente. Un approccio partigiano e selettivo, oltre che giustificato, è raccomandabile, anzi necessario.
La riflessione prevede due movimenti distinti, che si sostengono a vicenda come avversari di lotta libera, in lizza tra loro e però solidali. Quel che cambia è la postura teorica, nonché la passione predominante. Lo stato d’animo del chiosatore scontento e supercilioso cede il posto a quello di chi, liberatosi da una ipnosi resinosa, dice serenamente come stanno davvero le cose.
Da principio, in preda alla buona educazione, perlustro e recensisco Il perturbante. Sia pure con la preannunciata unilateralità, mi sforzo di mettere in rilievo le sue articolazioni interne e i chiodi fissi su cui batte e ribatte. Il commento del testo, in qualche caso minuzioso, si prefigge di criticare a fondo le principali convinzioni che vi sono espresse, ventilando possibili deviazioni e alternative. Ma le deviazioni, anche se brusche, e le alternative, talvolta ambiziose, traggono comunque spunto dall’ordito argomentativo dello scritto di Freud. Non sono altro che reazioni polemiche, e una reazione è la conseguenza subalterna, spesso simile a una smorfia o a uno starnuto, delle tesi che l’hanno suscitata.
In seguito (ma la convivenza dei due movimenti rivali si avverte, credo, fin dall’inizio), mi addosso l’onere di delineare una teoria autonoma del perturbante, radicalmente non freudiana, quindi antifreudiana.
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Nucleare? No grazie! In risposta a Thomas Fazi
di Leonardo Mazzei
Un’indagine impeccabile sulla questione dell’uso civile dell’energia nucleare, una critica frontale a chi si ostina a non capire o fa finta di farlo
L’articolo di Thomas Fazi — «Perché l’Occidente dovrebbe diventare nucleare» — lascia sinceramente sconcertati. Se il titolo è già un programma, il contenuto è un vero concentrato di luoghi comuni, di superficialità, di cieca adesione alla narrazione della lobby nucleare. Ma la cosa più sconcertante è che l’autore non è un propagandista della casta neoliberista al potere. Al contrario, Fazi si definisce un “sovranista di sinistra”, ed in base ai suoi scritti che conosciamo la definizione ci appare alquanto corretta.
E’ qui che il problema si fa più inquietante. Cosa spinge un “sovranista di sinistra” ad assumere una posizione del genere? Se l’articolo in questione fosse stato opera di un qualsiasi fanatico dell’atomo, come quelli che calcano il palcoscenico mediatico da mezzo secolo, ci sarebbe stato ben poco da dire. Che l’abbia invece scritto uno come Fazi lascia piuttosto interdetti.
La cosa è dunque intrigante. E una risposta è francamente dovuta. Del resto, non si tratta di un caso isolato. Alla fine dello scorso mese di ottobre sono stato invitato dagli amici di Pro Italia ad un loro convegno sull’energia. In quella sede ho rappresentato le ragioni del no al nucleare, confrontandomi in una tavola rotonda con Fulvio Buzzi, un PhD in Ingegneria Energetica, convinto sostenitore del sì all’energia atomica ed amministratore della pagina Facebook L’Avvocato dell’Atomo.
Il gruppo che si raccoglie attorno a quella pagina è un club di sfegatati sostenitori dell’energia nucleare, ma L’Avvocato dell’Atomo è anche il titolo di un libro di Luca Romano, edito proprio da Fazi Editore. Che dire? Il cerchio si chiude.
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Graeber: l’antropologia e le alternative possibili
di Lorenzo Velotti
Oggi [12 febbraio 2023] David Graeber avrebbe compiuto 62 anni. Per ricordare l’antropologo scomparso nel settembre 2020, pubblichiamo oggi la postfazione di Lorenzo Velotti a Le origini della rovina attuale, tradotto dall’inglese da Carlotta Rovaris, pubblicato da E/O nel settembre 2022 nella collana BPM, curata da Goffredo Fofi. Ringraziamo l’editore per averci consentito la pubblicazione di questo contributo [Gli asini]
L’idea di accogliere David Graeber tra gli autori della Piccola Biblioteca Morale risale all’inizio del 2020. Avremmo voluto fare un libro-intervista: ne avevo parlato a lungo con David che, da vivo sostenitore della natura essenzialmente dialogica del pensiero, ne era entusiasta, e avevamo pianificato sei ore di conversazione. Vivevo a Londra, l’anno precedente ero stato un suo studente, avevamo stretto un rapporto e, in quel periodo, ci vedevamo soprattutto in conviviali contesti di lotta politica. Partendo dalla considerazione che Graeber – grande nome dell’antropologia contemporanea e punto di riferimento dell’attivismo libertario (soprattutto nel mondo anglosassone e in Francia) – non fosse altrettanto conosciuto nel panorama italiano, pensavamo potesse essere utile trattare alcuni dei problemi contemporanei, italiani e globali, a partire dai suoi studi e dalla sua esperienza.
L’idea, purtroppo, non si concretizzò. Ci dicemmo che avremmo fatto le interviste non appena fosse finita la pandemia, ignari di quella che ne sarebbe stata l’effettiva durata. A settembre 2020 Graeber ci lasciò all’improvviso, mentre si trovava in vacanza a Venezia dopo aver terminato il suo ultimo libro, L’alba di tutto (Graeber e Wengrow, 2022). In tanti – studenti, amici, attivisti – ci rendemmo conto della nostra totale impreparazione di fronte alla mancanza di dialogo con David. Eppure, ci trovammo costretti a trasformarlo in antenato. Per quanto riguarda questo progetto, rimase la possibilità di tradurre in italiano qualcosa di inedito.
Non è stato difficile scegliere la prima parte di Possibilities: Essays on Hierarchy, Rebellion, and Desire (“Possibilità: saggi sulla gerarchia, la ribellione, e il desiderio”).
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Il rapporto sociale «che si presenta in una cosa»
Legge del valore, carattere di feticcio e metodo della critica dell’economia politica: una lettura del primo capitolo del Capitale
di Federico Simoni
1. Introduzione
Diversi studiosi marxiani hanno recentemente sostenuto che nel Capitale Marx elaborerebbe, più o meno consapevolmente, una vera e propria rivoluzione epistemologica. Secondo Michael Heinrich, il pensatore di Treviri presenta nel primo capitolo dell’opera il concetto, del tutto originale, di “forma [sociale] oggettuale di una cosa”, rapporto sociale “che si presenta (darstellt) in una cosa”1 . Tale concetto innerverebbe sia la sua teoria del valore sia quella del feticismo delle merci, entrambe presentate in tale capitolo. Esso non è in effetti altro che il valore delle merci:
La forza-lavoro umana allo stato fluido, ovvero il lavoro umano, costituisce valore, ma non è valore. Esso diventa valore allo stato coagulato, in forma oggettuale [gegenstandlicher Form ]. Per esprimere il valore della tela come gelatina di lavoro umano, esso deve essere espresso come una ‘oggettualità’ [ Gegenstandlichkeit] che sia distinguibile, cosalmente [dinglich], dalla tela stessa e che, allo stesso tempo, sia ad essa in comune con altre merci2.
Per Tommaso Redolfi Riva, in Marx “il carattere di feticcio che assume la socializzazione del lavoro nel modo di produzione capitalistico, il suo carattere oggettuale, è l’origine del feticismo nell’economia politica”3. Il nesso sociale tra produttori privati si trova, in questo “valore”, per così dire tradotto in forma di rapporto di cose. Il valore non rappresenta perciò una qualità dei prodotti come tali (in sé indipendente da questa forma determinata, socialmente e storicamente, dello scambio). Esso è però parimenti forma oggettuale, ovvero compare necessariamente in forme e rapporti di cose, dei prodotti del lavoro, in virtù diretta di tale nesso. Questo per Marx diviene ed opera realmente come un’oggettualità di fronte ai soggetti sociali stessi che lo attuano, predeterminando la forma della loro “azione sociale”4.
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Slittamento di paradigma
Paradossi, nonsense e pericoli di una svolta storica
di Piero Pagliani
Nell'analisi che segue enuncio quelli che mi sembrano dei dati di fatto, tiro alcune somme, pongo una domanda per rispondere alla quale avanzo un'ipotesi sull'oggi e due sul domani concludendo con un'assunzione che in modo irrituale espongo alla fine e non all'inizio. In specifico:
Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.
Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d'attrazione russo.
Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.
Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.
Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo).
La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?
Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.
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Soldati italiani nell’Europa dell’Est. 1500 pronti alla guerra con la Russia
di Antonio Mazzeo
In meno di un anno è aumentato di cinque volte il numero dei militari italiani schierati in Europa orientale alle frontiere con Ucraina, Russia e Bielorussia. Sui 7.000 effettivi impiegati attualmente in missioni internazionali quasi 1.500 operano in ambito NATO nel “contenimento” delle forze armate russe. A partire del 2014 l’Alleanza atlantica ha dato vita ad un’escalation bellica sul fianco est come mai era accaduto nella sua storia. Nelle Repubbliche baltiche, in Polonia, Romania, Bulgaria e Ungheria, sono state realizzate grandi installazioni terrestri, aeree e navali, sono state trasferite le più avanzate tecnologie di guerra, sono state sperimentate le strategie dei conflitti globali del XXI secolo con l’uso dei droni e delle armi interamente automatizzate, cyber-spaziali e nucleari.
A seguito dell’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 il processo di riarmo e militarizzazione dell’Europa orientale è pericolosamente dilagato e ancora oggi appare inarrestabile. E l’Italia c’è con le sue truppe d’élite, le brigate di pronto intervento, gli obici, i carri armati e i cacciabombardieri “gioielli di morte” del complesso militare-industriale nazionale e dei soci-partner stranieri, primi fra tutti USA e Israele. A inizio 2023 il tricolore sventola in Lettonia, Ungheria, Bulgaria e Romania. E ogni giorno, 24h, le truppe sono in stato d’allerta e si addestrano in condizioni estreme ad ogni possibile scenario di conflitto con il Cremilino, dai combattimenti casa per casa, vicolo per vicolo, piazza per piazza, agli sfondamenti nell’infinito bassopiano sarmatico, finanche all’impiego di armi atomiche, chimiche e batteriologiche e alla “sopravvivenza” al tragico inverno nucleare.
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Munizioni e mezzi corazzati: chi ne produce di più?
Una breve analisi sulla produzione industriale militare di NATO/Ucraina e Russia
di Simplicius76
Cerchiamo di fare il punto sulle prospettive di mantenimento per entrambe le parti, Nato/Ucraina e Russia.
Sappiamo che l’Ucraina utilizza 5.000-6.000 proiettili di artiglieria al giorno e che la Russia è arrivata a spararne fino a 60.000 – anche se si era trattato di un “picco” isolato – mentre la sua media giornaliera nel corso del conflitto è più vicina a 20.000-30.000.
Gli Stati Uniti, autoproclamatisi “potenza” manifatturiera del mondo, producono 14.000 proiettili al mese e hanno recentemente annunciato di “aver triplicato la produzione” portandola a 40.000 pezzi/mese per aiutare l’Ucraina, poi disperatamente corretta a 90.000 per arginare le perdite che l’AFU stava rapidamente accumulando. Anche per gli Stati Uniti, si tratta di uno sforzo abbastanza grande che richiederà circa 2-3 anni per essere portato a termine.
Il motivo è che le aziende produttrici di armi sono riluttanti ad effettuare i necessari e costosi investimenti in attrezzature e personale per aumentare enormemente la produzione quando sospettano che la guerra potrebbe comunque finire presto, con la conseguente perdita delle somme appena spese in attrezzature/personale/addestramento. Questi costi valgono la pena solo se sono garantiti i profitti a lungo termine e, per come si stanno mettendo le cose per l’AFU, le garanzie non sono molto sicure.
Il New York Times ha appena pubblicato un pezzo sulle strutture e le relative capacità di produzione degli Stati Uniti per i proiettili da 155 mm: un processo decisamente arcaico; alcune delle macchine, ammettono, hanno più di 80 anni e non erano state progettate per un’escalation di questo tipo.
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Sentenze della Corte Costituzionale: la "scienza ufficiale" come fonte autonoma del diritto?
di Luigi Luccarini
Con le motivazioni delle tre sentenze relative all’obbligo vaccinale, la Corte Costituzionale dimostra una realtà di cui prendere amaramente atto. In sostanza, ci dice di aver rinunciato ad assumere una qualsiasi posizione critica (non in senso oppositivo, ma nel senso proprio di attività diretta ad approfondire e motivare la valutazione di un fatto o di una situazione). Ed arriva al paradosso, non scritto, ma implicito, di stabilire che la conformità a Costituzione si misuri in base al fatto che una norma rispecchi, o meno, il pensiero del Burioni di turno. Così l’avvocato Luigi Luccarini, in una approfondita analisi sul testo delle motivazioni e sulle ragioni profonde che gli sono sottese.
* * * *
Le sentenze della Corte Costituzionale sulla legittimità dell’obbligo vaccinale per il Covid 19 sono intervenute il primo dicembre dello scorso anno, quando già era stato emanato il D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, che aveva anticipato al 1. novembre la fine di quell’obbligo, per consentire il reintegro di 4.000 sanitari sospesi ed ovviare così ad una carenza di professionalità nel settore, definita dal Governo “preoccupante”.
Un norma indotta da necessità contingenti, insomma, se non da semplice convenienza, che testimonia come l’idea di quell’obbligo fosse dall’origine una scelta “politica” che ben poco aveva a che fare con i principi di diritto, naturale e positivo, che dovrebbero informare il nostro ordinamento.
Era quindi tristemente logico attendersi dalla Consulta, investita del problema di stabilire se l’obbligo ormai venuto meno fosse stato o meno legittimo, una tipica decisione fondata sul “cosa fatta capo ha”, con rigetto di tutte le eccezioni di legittimità costituzionale.
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Ecco dove Hersh ha sbagliato
di Mike Whitney
C’è qualcosa che non quadra nel reportage di Sy Hersh sulla distruzione del Nord Stream 2. Ci sono diverse incongruenze nel pezzo che mi inducono a credere che Hersh non fosse tanto interessato a presentare la “verità nuda e cruda” quanto piuttosto a fornire una versione degli eventi che favorisse una particolare agenda. Questo non vuol dire che non apprezzi ciò che l’autore ha fatto. Lo apprezzo. In effetti, credo sia impossibile sopravvalutare l’importanza di un rapporto che identifica con certezza gli autori di quello che sembra essere il più grande atto di terrorismo industriale della storia. L’articolo di Hersh ha la possibilità di scalzare alla base la credibilità delle persone al potere e, così facendo, portare la guerra ad una rapida conclusione. È un risultato incredibile che dovremmo tutti applaudire. Ecco un breve riassunto dell’analista politico Andre Damon:
Mercoledì scorso, il giornalista Seymour Hersh ha rivelato che la Marina degli Stati Uniti, su indicazione del Presidente Joe Biden, sarebbe responsabile degli attacchi del 26 settembre 2022 ai gasdotti Nord Stream che trasportavano gas naturale tra la Russia e la Germania.
Questo articolo, che è stato accolto dal silenzio totale dalle principali testate statunitensi, ha fatto saltare l’intera narrazione del coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra come risposta all'”aggressione russa non provocata.” L’articolo svela il piano generale per utilizzare l’escalation del conflitto con la Russia per consolidare il dominio economico e militare degli Stati Uniti sull’Europa.
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Elogio dell’eccesso: Babylon
di Sandro Moiso
Non si può certo dire che i giudizi della critica riguardo all’ultimo film di Damien Sayre Chazelle siano stati unanimemente positivi, anzi tutt’altro. Mentre anche l’impatto sul pubblico, a giudicare dagli incassi al botteghino delle prime settimane dopo la sua uscita, non deve aver soddisfatto la società produttrice. Il regista statunitense (classe 1985), figlio di genitori franco-canadesi, che. con il musical La La Land, nel 2017 aveva vinto il Premio Oscar per la miglior regia, diventando il più giovane regista nella storia ad aver vinto la celebre statuetta, torna con Babylon ancora una volta alla sua passione per il cinema, il suo mondo e la sua storia.
Una passione, velata di nostalgia, già espresso nella pellicola vincitrice del premio in cui aveva reso omaggio ai classici film musicali prodotti a cavallo fra gli anni ’50 e ’60. Nel film attuale la rappresentazione dei sentimenti del regista nei confronti del cinema del passato è affidata al personaggio che fa un po’ da trait d’union tra i personaggi e le storie narrate, interpretato dall’attore Diego Calva, riuscendo ad aprire spazi di riflessione su cosa sia stato il cinema, su cosa sia diventato o continui ad essere, superando ampiamente il pericoloso effetto nostalgia canaglia che, scorrendo in sotto traccia avrebbe potuto gravemente menomarne il significato. Facendo sì, invece, che la sua visione risulti stimolante anche per quanto riguarda le possibili riflessioni sull’arte, il sogno e il desiderio in tutte le loro possibili forme.
Di scarso interesse sarebbe riassumerne qui la trama, ripetere gli elogi per la bravura di Margot Robbie, Diego Calva e Brad Pitt e di molti dei comprimari.
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L’effetto-boomerang delle sanzioni contro la Russia
di Giacomo Gabellini
Lo scorso dicembre, Vladimir Putin ha firmato un decreto implicante la sospensione delle forniture nei confronti dei Paesi europei che avevano imposto il tetto al prezzo del petrolio russo – fissato a 60 dollari per barile – trasportato via mare.
Anche se comprensiva di una “scappatoia” che previa debita autorizzazione governativa autorizza l’export di greggio alle nazioni sostenitrici del “tetto”, la misura suggella la torsione a 180° del baricentro energetico-commerciale russo avviata da Mosca sulla scia del rapido deterioramento delle relazioni con lo schieramento euro-atlantico, e nel cui ambito rientra la realizzazione delle condutture Altai, Power of Siberia, China-Russia Eastern Gas Pipeline e Soyuz-Vostok concepite per convogliare il grosso delle esportazioni metanifere russe verso la Repubblica Popolare Cinese.
Un processo epocale, destinato a subire una forte accelerata per effetto del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2 che secondo la ricostruzione formulata dal decano del giornalismo investigativo statunitense Seymour Hersh sarebbe stata perpetrata dagli specialisti della Us Navy, ma reso necessario dalla inaudita campagna sanzionatoria imposta dallo schieramento atlantico in seguito allo scatenamento della cosiddetta “operazione militare speciale” contro l’Ucraina.
Nello specifico, i provvedimenti assunti dagli Stati Uniti e dai loro alleati-sottoposti hanno comportato il congelamento di circa 300 miliardi di dollari detenuti dalla Banca Centrale Russa presso istituti occidentali, lo scollegamento del 75% circa delle banche russe dal circuito di pagamento Swift, il blocco degli investimenti esteri, l’interruzione della fornitura di componenti hi-tech e la recisione del solidissimo legame energetico euro-russo.
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La Banca Mondiale non è amica dei lavoratori né del pianeta
di Pete Dolack
Le politiche facilitano la distribuzione della ricchezza verso l'alto, indipendentemente dai costi umani e ambientali.
Ogni tanto, la Banca Mondiale pubblica un documento in cui chiede una migliore protezione sociale o almeno un trattamento migliore per i lavoratori. Gli addetti alle pubbliche relazioni credono evidentemente che abbiamo la memoria molto corta.
No, caro lettore, la Banca Mondiale non ha cambiato funzione, né gli elefanti hanno cominciato a volare. Senza alcuna ironia, l'ultimo tentativo di amnesia selettiva della Banca Mondiale è quello che chiama la sua Social Protection and Jobs, in cui sostiene che i governi nazionali del mondo debbano «ampliare notevolmente l'effettiva copertura dei programmi di protezione sociale» e «aumentare in modo significativo la portata e la qualità dei programmi di inclusione economica e del mercato del lavoro».
In modo esilarante, la Banca Mondiale intitola il suo rapporto di centotrentasei pagine, che illustra questa strategia Charting a Course Towards Universal Social Protection: Resilience, Equity, and Opportunity for All (pdf).
In questo rapporto, la Banca Mondiale scrive, a chiare lettere, che «riconosce che la progressiva realizzazione della protezione sociale universale (USP), che garantisce a tutti l'accesso alla protezione sociale quando e come ne hanno bisogno, è fondamentale per ridurre efficacemente la povertà e stimolare la prosperità condivisa». Inoltre, il rapporto si basa su un documento precedente che offrirebbe «un quadro generale per comprendere il valore degli investimenti nei programmi di protezione sociale e delineato il modo in cui la Banca Mondiale avrebbe lavorato con i Paesi clienti per sviluppare ulteriormente i loro programmi e sistemi di protezione sociale».
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Sostituzione ed estinzione
di Jacques Camatte
Il capitale offre tutti i miliardi
dei quattro secoli di accumulazione per lo scalpo
del suo grande nemico: l’Uomo.
A. Bordiga
L’impianto dell’agricoltura, dell’allevamento e poi l’invenzione della ceramica nel corso del neolitico portano a far sí che la produzione divenga l’agire fondamentale della specie. Ora, a seguito della separazione dalla natura che ne deriva, s’impone la rottura di continuità e, in modo artificiale, l’impianto di una dinamica di sostituzione di ciò che è naturale da parte dell’artificiale, che fonda la dualità naturale-artificiale: la naturalità che conserva il legame col passato e l’artificialità quello col presente e soprattutto col futuro, che diverrà predominante. Tutto ciò che è immediato, in relazione con la continuità naturale, sarà sostituito, in particolare le relazioni umane. A seguito dell’emergere della diade amicizia-inimicizia, anch’essa derivante dalla rottura di continuità in cui la seconda diventa preponderante in quanto generatrice di una nuova continuità a partire dal discontinuo, che compensi la perdita di quella naturale. Per ciò, occorre che si effettui un movimento che colleghi i discontinui, occorre che si stabiliscano legami tra gli elementi sostituiti al fine di unirli. Ora, legare contiene un’ambiguità, prima di tutto l’idea di unione già menzionata e quella di allacciare per imprigionare. Per cui non essere legati è non dipendere, non essere schiavi o servi. Dato che il bambino è considerato un essere dipendente, diventare adulto significa uscire dalla minorità.
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Dopo la guerra
di Enrico Tomaselli
Quella che si sta combattendo in Ucraina è una guerra ibrida multilivello. Ibrida, in quanto non è combattuta soltanto sul piano militare, ma anche – e fortemente – su quello economico e diplomatico. Multilivello perché, anche se voluta e lungamente preparata dagli USA, che ne sostengono l’onere economico maggiore sul breve termine, vede coinvolti obtorto collo anche gli alleati della NATO, ed in particolare i paesi europei che ne pagheranno i costi più di chiunque altro, ed è infine combattuta sul campo dagli ucraini. Ma, anche se al momento tutti gli attori sembrano lanciati verso il proseguimento del conflitto, questo avrà comunque fine. Cosa accadrà, quindi dopo la guerra, nel campo occidentale?
* * * *
I deficit strutturali della NATO
La questione fondamentale per l’impero americano, e che di fatto già si pone, è come affrontare le sfide cui la guerra ha fatto da acceleratore, e che l’attendono nel dopo. Il dominio USA, almeno sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, si è basato sostanzialmente su tre asset: il potere del dollaro, il potere delle armi, il potere della comunicazione.
Ora il potere della comunicazione si basava fondamentalmente sull’idea degli Stati Uniti come patria del benessere, delle opportunità e della libertà. Un’idea che ha funzionato molto bene, sinché l’alternativa sembrava essere l’austerità sovietica, ma che – finita la guerra fredda – ha perso buona parte del suo appeal, anche a fronte di una rinnovata aggressività americana.
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Il fascioliberismo
Sulla sintonia tra pensiero liberale e prassi autoritarie
di Francesco Sticchi*
La disintegrazione controllata dell’economia mondiale è un obiettivo legittimo per gli anni Ottanta”, affermò Paul Volcker, presidente della FED. Ed è proprio sulla soglia degli anni Ottanta che si svolge Armageddon Time (James Gray, 2022). In uno dei momenti più intensi del film, il “buon” padre di famiglia Irving (Jeremy Strong) confessa al piccolo protagonista Paul (Banks Repeta) di non essere stato un genitore ideale, di odiare le ingiustizie e le diseguaglianze e, allo stesso tempo, di non sapere cosa fare per affrontarle. Il suo monologo continua sottolineando che la vita ha dato a Paul una seconda chance: ha scampato per un soffio il carcere minorile per l’ennesima “monellata” pre-adolescenziale compiuta con l’amico Johnny (Jaylin Webb), il quale, in quanto nero e povero non avrà scampo e si addosserà tutte le colpe del piccolo crimine (il furto di un computer della scuola privata di Paul), accettando un destino segnato da marginalità ed esclusione.
Paul deve, come un contemporaneo Pinocchio, fare tesoro di questa possibilità, smetterla con il sogno di diventare pittore e dedicarsi a studiare qualcosa di serio con la prospettiva di avere un futuro migliore di quello dei suoi; aspirare alla mobilità sociale, al non doversi inchinare di fronte a qualcuno per elemosinare le speranze di una vita “buona”, stabile e sicura (ciò che dovrebbe essere garantito per diritto). Questo monologo/dialogo fra padre e figlio potrebbe essere facilmente associato e comparato a tanti scambi presenti nella storia del cinema (e non solo) con a tema la perdita dell’innocenza, l’inizio dell’età adulta e l’entrata nel mondo reale (e delle responsabilità).
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