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Alternative all’abisso
di Michael Löwy
Con la crisi climatica e la pandemia appare più evidente come l’idea di progresso della civiltà capitalista sia una strada verso l’abisso. Tra i pochi pensatori marxisti, Walter Benjamin ha avuto una premonizione dei mostruosi disastri che la civiltà industriale in crisi avrebbe potuto generare. Ovviamente non si tratta per Benjamin di tornare al passato preistorico, ricorda il sociologo e filosofo francese Michael Löwy, ma di offrire prospettive nuove di armonia tra società e ambiente naturale. Di certo, tra inevitabili difficoltà e contraddizioni, e lontano dalle attenzioni di media e istituzioni, diversi movimenti di resistenza alla distruzione capitalista della natura, stanno sviluppando in tanti angoli del mondo prospettive anticapitaliste, che intrecciano solidarietà, rispetto dell’ambiente e autogestione democratica.
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C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. (W. Benjamin, Angelus Novus)
Così Walter Benjamin interpreta la celebra tela del pittore Paul Klee. L’attesa perpetuamente insoddisfatta della salvezza… un’attesa in cui l’essere umano è trascinato dal tempo e dal progresso, lasciando alle spalle le tragedie e gli orrori di cui i dominanti sono stati capaci, seminando morte e distruzione ovunque.
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Una democrazia a pezzi
di Alessandro Coppola
La democrazia italiana versa in condizioni catastrofiche, probabilmente le peggiori fra i paesi di quella che un tempo era definita l’Europa occidentale. Le ultime settimane hanno illustrato questa condizione in modo particolarmente persuasivo attraverso le sue varie dimensioni.
Le modalità con le quali si è prodotta la crisi del governo Conte, prima di tutto. Sappiamo che nella crisi non sono mai state pubblicamente formulate da parte di chi l’aveva determinata richieste precise che, soddisfatte le quali, l’avrebbero sventata. Le vere ragioni si sono rivelate in seguito, quando la nascita del governo Draghi è stata rivendicata come l’obiettivo di un’azione che, per l’appunto, non aveva mai posto esplicitamente quell’obiettivo. Questa opacità è resa possibile dalla attesa generalizzata di un intervento presidenziale che, ormai, non è più irrituale ed è diventata un tratto strutturale del nostro sistema. Tanto da permettere ad alcuni attori politici di parassitare le azioni del Presidente. Se Matteo Renzi non avesse avuto la certezza che le camere non sarebbero state sciolte in virtù, per l’appunto, di un intervento presidenziale per un “governo del presidente” non avrebbe potuto aprire una crisi senza mai dichiarare i suoi veri obiettivi, correndo i relativi rischi e trovandosi di fronte ai relativi ostacoli. Renzi è abile e scaltro, ma questa sua abilità è in gran parte prodotta dal contesto di generalizzata deresponsabilizzazione della classe politica e sovra-responsabilizzazione del Quirinale che, per quelli come lui, è diventato ideale.
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Populismo, Dietrologia e Dominio*
Contro l’ideologia della mancanza di alternative
di Marcello Concialdi
In un breve saggio sul populismo di destra e di sinistra, contenuto nel recente Dal punto di vista comunista, Slavoj Žižek afferma che occorrerebbe appoggiare il populismo di sinistra, ben sapendo che fallirà, con l’augurio che dal fallimento possa emergere qualcosa di nuovo. Il filosofo sloveno è convinto che i populismi siano fenomeni permessi dal sistema capitalistico proprio perché questi riuscirà, tramite il loro fallimento, a ottenere la conferma di sé e lo sparigliamento dell’avversario al momento apparentemente più pericoloso. Per Žižek ogni istanza che proviene dal basso, che sia la lotta contro la migrazione o l’uscita dall’Ue, e per quanto sia giustificata, si rovescia in un fallimento finalizzato a dimostrare, sempre e ancora di più, quanto non esistano alternative al modello omnipervasivo imperante. Questa dinamica spinge Žižek all’affermazione estrema: occorre accelerare la disfatta populista per ottenere un nuovo modello di politica che possa finalmente proporsi come paradigma efficace contro il dominio contemporaneo.
Ciò che rende questo dominio profondo e difficile da scalzare non è solo l’effettivo rapporto di potere che c’è tra l’élite e il popolo – di natura economica come bene insegna Marx -, ma anche un’egemonia – una forma ideologica, un sistema di sapere – che relega qualsiasi discorso contrario a questa all’ambito della non-verità o, nel caso più estremo, a quello del tabù. A contribuire al trionfo della narrazione egemonica c’è il fatto che i pozzi del populismo sono fortemente inquinati dalla tendenza digitale “democratica” a mescolare il vero e il falso, in un innegabile circolo consequenziale costituito da populismo e contro-narrazione. Una circolarità che conduce il populismo ad abbeverarsi a piene mani dalla fonte digitale, percepita come spazio di verità e critica.
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Marxismo e scienza borghese
di nucleo comunista internazionalista
La nostra netta posizione politica contro la vaccinazione obbligatoria e contro ogni discriminazione verso chi la rifiuta è per il fatto che giudichiamo questa “cura della malattia” Covid 19 una autentica sperimentazione di massa di cui siamo cavie.
Respingiamo nella maniera più assoluta l’idea largamente prevalente nell’attuale movimento di classe che “siccome non siamo scienziati, lasciamo discutere questa cosa agli scienziati…” (sentito dire da autentici militanti di classe, da reali avanguardie di lotta! Il che dà la misura dell’annientamento politico subito dalla nostra classe, dello stato in cui versiamo e da cui dobbiamo riprenderci). Sembrerebbe che la lotta di classe condotta da postazione comunista rivoluzionaria debba essere sospesa, rimandata a dopo la fine della “guerra al Covid” eludendo il nodo centrale della questione cioè che il metodo e i mezzi adottati per sconfiggere la malattia non sono materia neutra al di sopra delle classi da lasciare in mano “alla scienza” e alla surroga di reale comunità umana quale è lo Stato.
Il nostro schieramento dentro “la guerra al Covid” che è parte di una più generale guerra “per la vita o per la morte” che è in atto innescata dalla catastrofe capitalistica, è conseguente ai principi splendidamente esposti nello studio di cui ripubblichiamo i capitoli centrali.
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Da il programma comunista nn. 21-22/1968
Marxismo e Scienza borghese
B. La medicina
Se prendiamo il casi della medicina, vediamo che anche il suo oggetto non è un dato naturale. In realtà, sia l’uomo che le sue malattie sono in larga misura determinati da tutto il complesso delle sue condizioni di vita.
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Panzieri a Francoforte. E poi subito a Torino
di Marco Cerotto
Riprendendo alcuni spunti e suggestioni di un articolo di Patrick Cuninghame pubblicato in questa sezione lo scorso dicembre (Negri a Francoforte. La polemica tra la Teoria critica e il marxismo autonomo), Marco Cerotto approfondisce una parte della diversificata genealogia che porta allo sviluppo del cosiddetto «neomarxismo» italiano. Lo fa in particolare attraverso la figura di Panzieri – a cui lo stesso autore ha dedicato un prezioso volume uscito di recente nella collana Input di DeriveApprodi (Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi») – in relazione con le analisi della teoria critica francofortese, a cominciare da quelle di Friedrich Pollock. Per questa strada l’autore individua la specificità dell’operaismo italiano, nelle sue differenti espressioni, rispetto agli intellettuali francofortesi e alle loro tesi sull’alienazione consumistica e sull’integrazione della classe operaia. Il contributo si conclude aprendo un’altra riflessione importante, sulla rilettura marxiana condotta dalla «Neue Marx-Lektüre» e da Hans-Jürgen Krahl. Per approfondire i temi dell’articolo, oltre al testo e al volume già indicati, consigliamo la lettura del contributo di Diego Giachetti Panzieri e le minoranze comuniste del suo tempo e lo «Scavi» dedicato a Panzieri, a cura di Sergio Bianchi e Alessandro Marucci.
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Influenze culturali del marxismo occidentale
Recentemente è stato pubblicato un articolo piuttosto interessante e che ha proposto un’indagine molto accurata sulle influenze degli intellettuali francofortesi sull’operaismo italiano, in particolare su Negri.
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The Magnificent Thirty
di Joe Galaxy
Nel dicembre 2020 è uscito un testo decisamente interessante per le sorti del mondo sottoposto alla pressione “Covid”. Si tratta di Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid [it: Rilanciare e ristrutturare il settore aziendale post-covid], una pubblicazione proveniente dal cosiddetto “gruppo dei 30”, che ha come significativo sottotitolo Designing Public Intervention [it: Progettare interventi di politica pubblica].
Per capire di cosa parla questo agile (ma forse non troppo) libercolo, può essere utile leggere il comunicato stampa e il relativo abstract, che funge anche da presentazione, che qui traduciamo e che sono comunque reperibili on line rispettivamente, nell’originaria lingua inglese, qui e qui.
Ma, prima ancora, è forse il caso di dire due parole su questo famoso “gruppo dei 30”. Questo gruppo raccoglie trenta fra i più eminenti economisti e politici (molti uomini e, come sempre, poche donne) del globo. Il loro scopo, considerando l’esperienza e la profonda conoscenza del mondo politico ed economico ad essi riconosciuta, consiste prevalentemente nell’analizzare a fondo lo status quo e redigere documenti attraverso i quali consigliare per il meglio i potenti di turno sul da farsi affinché il sistema possa godere di buona salute, o almeno della migliore possibile. Niente di misterioso od esoterico, dunque. Si possono raccogliere moltissime informazioni su di loro con un semplice tour sul web, e i loro documenti sono facilmente reperibili e scaricabili on line qui (tutti rigorosamente in english, naturalmente).
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Nello specchio del capitalismo della formazione
di Luca Perrone
Recensione di Luca Perrone al libro del ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, "Nello specchio della scuola" (il Mulino 2020).
Nello specchio della scuola è un testo di carattere divulgativo edito da il Mulino nell'ottobre 2020 nella collana "Voci", e che potrebbe essere considerato come uno dei tanti contributi sulla crisi della scuola italiana, se non fosse per il suo autore, Patrizio Bianchi, neo Ministro dell'Istruzione del governo Draghi. Bianchi, come noto, è un economista, è stato Rettore dell’Università di Ferrara fino al 2010 e Assessore alle politiche europee per lo sviluppo, scuola, formazione, ricerca, università e lavoro della Regione Emilia-Romagna, e in questo ruolo nel 2010-12 ha progettato e realizzato la riforma della formazione professionale regionale, suo cavallo di battaglia. Dal gennaio 2020 è stato direttore scientifico della Fondazione Internazionale Big Data e Intelligenza Artificiale per lo Sviluppo Umano. Ha fatto parte del gruppo di lavoro per la gestione della ripartenza scolastica nell'ambito della pandemia Covid voluto dal precedente ministro Azzolina. Nel 2018 ha inoltre pubblicato il libro 4.0. La nuova rivoluzione industriale. Un curriculum di tutto rispetto che forse non ne fa il rappresentante apicale del capitalista collettivo, ma che va ben al di là della ingenerosa maschera di Crozza.
Nello specchio della scuola vale la pena di essere letto e discusso, e ha un interesse specifico per noi. Bianchi parte dall'assioma dello stretto legame fra l'educazione e lo sviluppo: «uno sviluppo socialmente ed economicamente sostenibile nel tempo si fonda sulla capacità di organizzare le competenze, le abilità manuali e il giudizio critico delle persone, e di trasformare queste in quel valore aggiunto che è la vera ricchezza di una comunità». Valore, ricchezza, persone, organizzazione, sviluppo: parole pesanti, mai neutre.
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L’Università indigesta. Note da un’inchiesta
di Francesco Pezzulli
Con questo contributo di Francesco Pezzulli riprendiamo il percorso, nell’ambito della rubrica Transuenze, dedicato alle «industrie riproduttive» a cui già erano dedicati due articoli sulle trasformazioni della scuola all’epoca della didattica distanziata (cfr. Didattica a distanza: insegnare con le macchine e Didattica a distanza e logica dell'emergenza). L’autore propone alcune riflessioni, basate su un lavoro di inchiesta, sulla condizione studentesca nell’Università trasformata dalle riforme che, da quella «Ruberti» al termine degli anni Ottanta del secolo scorso a quella «Gelmini» circa dieci anni fa, ne hanno cambiato radicalmente funzioni, tempi, spazi. Il contributo, in particolare, si sofferma sul lato oscuro dell’esperienza formativa ridotta a prestazione; una riflessione utile, a maggior ragione se giustapposta alle retoriche della competenza che fanno da quinta, fin troppo rumorosa, della ristrutturazione post Covid del modello sociale italiano.
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G. Leopardi, Zibaldone, 1828
Passaggi universitari
Togliere il diletto agli studi è un danno per il genere umano scriveva Leopardi. Ed oggi che l’università vive in funzione del grado di occupabilità dei suoi studenti il disastro è compiuto e il diletto scomparso.
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Glosse a “Il concetto di nazione. Ovvero una patata bollente per il marxismo”, di Carlo Formenti
di Alessandro Visalli
Sul suo blog Carlo Formenti ha pubblicato[1] una recensione del testo spagnolo “La base material de la nación en Marx y Engels” di Carlos Barros. In questo testo proverò a ricostruire il suo argomento ed aggiungere qualche altro spunto. In particolare, dalla rilettura di un saggio di Lelio Basso su “La natura dialettica dello Stato secondo Marx”, contenuto in un libro autori vari del 1977, “Stato e teorie marxiste”[2]. Non si tratta, dunque, di trattare l’enorme tema del concetto di Stato (o, e non è ovviamente la stessa cosa, di nazione) nel marxismo, e neppure in Marx o Engels, ma di aggiungere una semplice glossa ad un passaggio.
Infatti, Carlo conclude il suo pezzo scrivendo:
“Se già ai tempi di Marx era impossibile fissare criteri universalmente validi per rispondere alla domanda su quali lotte nazionali sostenere, oggi l’impresa è ben più ardua: è giusto sostenere l’irredentismo catalano anche se assume i connotati di un “separatismo dei ricchi” (6); è giusto appoggiare le rivendicazioni di tibetani, uiguri e abitanti di Hong Kong contro il governo centrale della Cina Popolare, anche se è alimentato e sostenuto dall’imperialismo occidentale e ha caratteri esplicitamente antisocialisti? E ancora: ha senso attribuire un significato progressivo all’integrazione europea in nome dell’accelerazione dello sviluppo economico, anche se il costo di tale sviluppo è la subordinazione e l’impoverimento delle nazioni (e delle classi subalterne!) mediterranee da parte della Germania? È giusto considerare ideologicamente regressivo il carattere patriottico delle rivoluzioni bolivariane dell’America Latina? Rispondere a ognuna di queste domande richiede di svolgere un’analisi concreta di tutti i fattori economici, socioculturali, storici e geopolitici implicati in ogni singola situazione, dopodiché l’unico fattore di cui tenere conto - in ultima istanza - per dare loro risposta resta a mio avviso quello della valutazione degli interessi di classe in campo; certamente non quello dello sviluppo delle forze produttive” (corsivo mio).
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Vulnerabilità
di Avis de tempêtes
A livello microscopico, la distruzione di autonomia e la riduzione degli spazi che determinano la propria vita, mediante l'introduzione di protesi sempre più tecnologiche, con le logiche conseguenti, non può che dar luogo — in proporzione al grado di lobotomizzazione e di appiattimento che ognuno subisce — ad una disperazione feroce. La ruota del progresso gira sempre più rapidamente. Se un tempo erano necessarie diverse generazioni per le vaste trasformazioni della società, oggi, nello spazio di una sola generazione, sembra quasi di non far parte dello stesso mondo. Una tale impennata di velocità richiede una inaudita capacità di adattamento dell'essere umano e non manca di produrre a sua volta un’intera gamma di «difetti» funzionali al mondo nel suo complesso, ad esempio sotto forma di nevrosi o malanni fisici. E dato che l'essere umano non vive isolato sopra una cometa, abitando sul pianeta Terra, qualsiasi assetto del suo «habitat» ne influenza le possibilità e la capacità di riflettere, ma anche di sentire ed agire. Questa non è ovviamente una peculiarità della società ipertecnologica che conosciamo: si potrebbe affermare infatti che ogni civiltà operi in questo modo. La domanda da porsi allora va un po' più a fondo: una drastica pianificazione dell'habitat non provoca una perdita di autonomia e una soppressione di libertà, ed ogni adeguamento non è in sé antinomico alla libertà? Ma simili domande superano di gran lunga le modeste riflessioni di questo articolo.
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Una disputa italo-tedesca su Dante
di Eros Barone
In questo anno giubilare le acque stagnanti della cultura italiana sono state smosse da un lungo e interessante articolo del quotidiano tedesco «Frankfurter Rundschau» dedicato a Dante Alighieri e alla lingua italiana. Dare conto della disputa che ne è nata può essere opportuno per più motivi: verificare come viene considerato il “sommo poeta” in base all’ottica critica di un qualificato giornalista di un importante paese europeo; osservare come reagiscono gli esponenti ufficiali della cultura italiana a questo tipo di ottica; trarne elementi utili per un approfondimento multilaterale della poesia e della personalità di Dante, quale specchio in cui si riflette una vicenda plurisecolare che mette in gioco l’identità storica di un paese, l’Italia, che è caratterizzato dal complesso e conflittuale binomio: “nazione antica, Stato giovane”.
Ma leggiamo alcuni stralci dell’articolo che ha innescato la disputa: “Il 14 settembre 1321 il fiorentino Dante Alighieri morì in esilio a Ravenna, quindi perché un articolo su Dante oggi? L’anno scorso, il 25 marzo è stato introdotto come Dante Day1 in Italia. Il più grande poeta italiano deve essere commemorato in questa data ogni anno. Perché il 25 marzo? In questo giorno, un Venerdì Santo dell'anno 1300, si dice che abbia iniziato il suo viaggio attraverso l'inferno, il purgatorio e il paradiso. Dante ama giocare con i numeri. La sua grande poesia, la Divina Commedia, inizia con le parole: ‘Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura che la diritta via era smarrita’. Poiché una data di nascita non è stata registrata, si è concluso presto da queste informazioni che Dante era nato nel 1265.
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La qualità della ricerca scientifica (VQR) e la “Nota” di dissenso di Pasinetti
di La redazione
Nei giorni scorsi ha destato una certa attenzione l’ultima boutade di Tito Boeri e Roberto Perotti, due noti economisti dell’Università Commerciale L. Bocconi, i quali hanno dichiarato che “l’unico modo per migliorare le università italiane è premiare chi fa la ricerca migliore”, e che tuttavia “le tre Vqr non hanno contribuito a rendere più selettiva l’allocazione dei fondi pubblici alle università”[1].
A nostro avviso, ciò che emerge da questa proposta è un tentativo di utilizzare le politiche nazionali di valutazione della ricerca e distribuzione dei finanziamenti pubblici per accentuare le divergenze nelle dotazioni finanziarie degli Atenei (a vantaggio della stessa Università Bocconi). Ciò avviene nel momento in cui nel dibattito accademico iniziano a cadere molte certezze riguardo l’uso scriteriato della meritocrazia e la necessità di spingere i giovani studiosi che vogliono concorrere nelle posizioni accademiche a conformarsi sempre più a un profilo di ricerca standardizzato. Ad oggi, gli economisti che lavorano su campi di ricerca meno popolari e/o con metodi innovativi, comunque non riconducibili al mainstream neoclassico-liberista, hanno meno probabilità di essere abilitati per posizioni accademiche di alto livello, anche indipendentemente dai famigerati indicatori bibliometrici[2]. Si tratta di un esito che sembra confermare i timori espressi da Luigi Lodovico Pasinetti (classe 1930, uno degli economisti italiani più celebri nel panorama internazionale, per i suoi contributi riconducibili al paradigma sraffiano e post-keynesiano[3]) in dissenso con Guido Tabellini (Università L. Bocconi) a proposito della Relazione finale del Panel sull’Area 13 (Economics[4]).
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Scienza, metafisica e potere
di Rino Frescatta
La crisi della scienza e la sua degenerazione hanno delle cause interne ed esterne, che molti, occupandosi delle distorsioni della scienza moderna, individuano nella natura del rapporto instaurato con l’economia e con il potere.
Il cappio dell’economia
La ricerca ovviamente ha bisogno di ingenti fondi, è quindi fondamentale chiedersi chi la finanzi e quali siano i suoi interessi.
Lo scienziato, come tutti i lavoratori, è soggetto al volere del padrone capitalista: chi fornisce il capitale decide, indirizza la ricerca e, se vuole, distorce i contenuti e manipola i risultati in modo da poter avvalorare una posizione precostituita, per ricavarne un utile a beneficio di un ristretto gruppo o di qualche attore economico.
Lo stato di penuria conseguente ai tagli al sistema di finanziamento e alle riforme del sistema di reclutamento espone anche gli enti di ricerca pubblici (istituti e università) alla necessità di ricorrere a finanziamenti esterni, erodendo l’integrità e l’indipendenza che solo il finanziamento pubblico potrebbe e dovrebbe garantire.
La ricerca pubblica rimane ostaggio di logiche privatistiche che impongono criteri di valutazione e assegnazione delle risorse che, per un distorto concetto di qualità e merito, favoriscono il conformismo scientifico e orientano la ricerca verso filoni o settori specifici, a danno di altri.
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Dallo “stato di paura” all’identità del clic”
di Antonio Martone
1. La paura di Hobbes
La paura è uno dei temi politici fondamentali di ogni tempo. Più in generale, anzi, un’analisi delle emozioni primarie dovrebbe essere propedeutica al pensiero politico. Lo sapeva bene Machiavelli che è il primo grande pensatore che fa della paura il fondamento del potere. Già in età rinascimentale, con il Segretario fiorentino, la paura s’impone sulla scena storica nella sua purezza, indipendentemente da qualsiasi forma di etica o di morale trascendente.
Il filosofo che fonda le categorie guida del Moderno attraverso la deduzione scientifica della produttività della paura è, però, certamente Thomas Hobbes. L’autore del Leviatano, diversamente da Machiavelli, la cui politica poteva ancora essere ascritta all’ambito dell’“arte di governo del Principe”, elabora una vera e propria scienza, una biotecnologia, assente in natura, finalizzata all’edificazione dello Stato, che sola consente di salvare dal male naturale. Il grande impianto di Hobbes si mostra integralmente strutturato sul rapporto protezione/obbedienza, e cioè lo Stato offre sicurezza nel mentre richiede obbedienza. Lo Stato contiene la paura, concentrandola, per così dire, su un punto soltanto, ossia su se stesso. Il vantaggio è che, in questo modo, la paura diviene circoscrivibile e visibile: basta attenersi alla volontà del Leviatano per scongiurare i rischi di morte violenta. In questo senso, lo Stato è, come affermava Max Weber, il “monopolista incontrastato della forza fisica ‘legittima’.
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Brunetta, i sindacati e il nuovo accordo per la Pubblica Amministrazione tra aziendalizzazione del servizio pubblico e colpevolizzazione del singolo
di Domenico Cortese e Luca Giovinazzo
Un governo nato sotto la tediosa e sgradevole retorica della “competenza” non poteva non porre tra i primi punti all’ordine del giorno l’ennesimo appello per una Pubblica Amministrazione “riformata”, “rinnovata” e “produttiva”. «Ho invitato a cena i leader sindacali, è stata la base di un accordo di collaborazione», ha dichiarato il Ministro Renato Brunetta,1 facendo subito un quadro chiaro della prassi utilizzata per tali intese a porte chiuse e in ambienti in cui tutto entra meno che la pressione delle istanze dei lavoratori e delle loro piazze. La Pubblica Amministrazione (PA), ricordiamo, è l’insieme degli enti pubblici che concorrono all’esercizio e alle funzioni dell’amministrazione di uno Stato nelle materie di sua competenza. La maggior parte di queste materie interessa servizi di interesse generale, la cui utilità e qualità si può misurare soltanto in relazione alle necessità e al funzionamento del resto del sistema-paese e non a seconda delle “merci prodotte nell’unità di tempo” (si pensi all’ufficio anagrafe di un comune, alla formazione degli studenti in un liceo o al servizio 118 del sistema sanitario). Spesso, oltretutto, la PA è tenuta ad offrire, per assicurare il funzionamento omogeneo dei servizi pubblici ed (in teoria) il solidarismo sociale, dei servizi in territori le cui comunità non sarebbero economicamente capaci di “retribuire” il sistema amministrativo per i servizi che offre. E, tuttavia, la tendenza politica, negli ultimi anni, è stata quella di far somigliare sempre più la PA, nelle politiche finanziarie relative ad essa e nei suoi parametri di valutazione, ad una azienda privata. A cominciare proprio dalle riforme Brunetta implementate durante i primi anni del Berlusconi IV.
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Sui vaccini biotecnologici e sull’opposizione mediaticamente modificata
di Il Rovescio
«L’attività dei biologi che, fino all’invenzione del DNA, trascurava la dialettica della natura a vantaggio della conoscenza frammentaria di quest’ultima, lasciava il mondo più o meno com’era. Per contro, dal momento in cui intraprende la modificazione di un solo organismo nei suoi laboratori, la biotecnologia comincia in realtà un esperimento su scala planetaria, cioè una cosa ben diversa da un esperimento».
«Il fondo della questione è che questi tecnici salariati che posano da scienziati per denunciare l’oscurantismo dei loro oppositori non sono più niente di simile, neanche nel senso restrittivo e specialistico del termine: in quanto discendenti degenerati degli scienziati dell’epoca borghese, sono essi stessi esempi della degradazione delle specie di cui sono gli artefici. Il precetto cristallizzato nella loro tecnica non è scientifico ma – logicamente, perché è una guerra quella che conducono – militare: si va avanti e poi si vedrà».
«La continuità che esiste tra l’agricoltura industriale e il suo perfezionamento biotecnologico è anche quella che porta naturalmente dalla medicina meccanicistica all’ingegneria genetica applicata all’essere umano. È dunque stupido voler distinguere, come fanno molti oppositori della disseminazione di organismi geneticamente modificati, eventuali applicazioni terapeutiche delle biotecnologie, che ci si guarderebbe dal disapprovare per non urtare l’opinione generale o perché si è convinti che esse rappresentino un progresso auspicabile».
Così scriveva, nel lontano 1999, l’Encyclopédie des Nuisances nelle sue Osservazioni sull’agricoltura geneticamente modificata e sulla degradazione delle specie.
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Un dibattito produttivo?
di Ascanio Bernardeschi
Se si condivide l’idea che la categoria di lavoro produttivo, come definito da Marx, ha finalità diverse da quella di delimitare la classe sfruttata che si contrappone al capitale, qual’è il vantaggio di allontanarci da quella categorizzazione?
Su invito del collettivo politico de “La Città Futura”, scrissi per il numero del 22 gennaio scorso di questo giornale un articolo sul concetto di lavoro produttivo al fine di aprire un dibattito su questa categoria economica. L’articolo, nell’aderire alla definizione marxiana, precisava che la stessa, per quanto utile sia ai fini della conoscenza del punto di vista del capitale sia per mantenere fermo il principio che l’unica la fonte del plusvalore sia il lavoro non pagato, non fosse idonea a definire la classe che si contrappone al capitale, la quale deve includere anche lavoratori non addetti alla produzione diretta del plusvalore. A tale articolo si rinvia anche per il tentativo di collocare le varie tipologie di lavoratori (e non lavoratori) rispetto al conflitto di classe.
La discussione che ne è seguita, insieme a adesioni a questa impostazione, ha registrato anche due posizioni che se ne differenziano: una più restrittiva e una più inclusiva.
La restrittiva eccepisce sull’inclusione nella categoria del lavoro produttivo del lavoro intellettuale, e in generale quello dedito alle produzioni immateriali. Di tale posizione non è stato redatto un vero e proprio articolo ma solo degli apprezzabili materiali di discussione.
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Il concetto di nazione. Ovvero, una patata bollente per il marxismo
di Carlo Formenti
Spulciando il catalogo online di El Viejo Topo https://www.elviejotopo.com/ editore storico della sinistra iberica (al quale devo due edizioni di altrettanti miei saggi e la conoscenza di importanti materiali teorici in lingua spagnola), mi sono imbattuto in un titolo che ha catturato la mia attenzione: La base material de la nación. El concepto de nación en Marx y Engels, di Carlos Barros (dal profilo biografico dell’autore ho appurato che si tratta di uno storico medievista, fra i fondatori del partito comunista galiziano e membro del comitato centrale del PCE).
A intrigarmi, ancor più dell’argomento scottante (la questione nazionale è sempre stata fonte di problemi irrisolti e di conflitti teorici e ideologici in campo marxista), è stato il sottotitolo, il quale, come mi è stato confermato da un breve video di presentazione del libro registrato dall’autore, allude all’esistenza di un discorso sistematico e coerente, se non di una vera e propria teoria, dei due fondatori del materialismo storico sull’argomento in questione. La cosa mi è parsa sorprendente, non essendo a conoscenza di scritti di Marx ed Engels dedicati alla questione nazionale di peso e dimensioni paragonabili a quelli di altri mostri sacri del pensiero socialcomunista, Lenin su tutti (1).
Tuttavia, dopo avere acquistato e letto l’e.book di Barros, ho avuto conferma che il mio difetto di informazione non è frutto di disattenzione o ignoranza: effettivamente Marx ed Engels non hanno scritto nulla di sistematico sul concetto di nazione.
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Le Lezioni di Napoleoni sul capitolo sesto inedito di Marx
di Leo Essen
Nella primavera del 1971 Claudio Napoleoni tiene alcune lezioni sul Capitolo sesto inedito di Marx. L’anno successivo le Lezioni vengono pubblicate da Boringhieri. Riscuotono quasi immediatamente un grande successo, tanto che nel 74, 75 e 79 vengono ristampate. Poi cala il sipario. L’edizione del 79 si trova ancora in vendita nel 1990.
Il testo pubblicato, che riproduce la trascrizione delle lezioni tenute all’UniTo, è sorprendente, sia per la chiarezza, sia per il rigore filologico. Una vera rarità nel panorama della ricerca universitaria italiana. Leggerlo rende la sensazione di partecipare a un seminario. La sua influenza, meritata, si è estesa a tutta la galassia della sinistra radicale – marxista e non marxista. L’andamento ripetitivo, tipico delle lezioni universitaria, invece di appesantire la lettura, ha quasi un effetto ipnotico. Di più, suscita quella sensazione di stupore che solo le grandi opere riescono a suscitare.
Il tema del libro è riassunto in poche righe nella Lezione settima, dove Napoleoni dice che uno dei modi attraverso i quali Marx stabilisce la differenza tra la produzione capitalistica e altri modi di produzione è questo: che mentre altri modi di produzione sono indirizzati al consumo di qualcuno, viceversa la produzione capitalistica è produzione di ricchezza astratta, ossia ricchezza destinata a riconvertirsi in ricchezza addizionale; con la conseguenza che, mentre nel primo caso il valore-uso ha una rilevanza decisiva – proprio perché il processo è finalizzato al consumo -, nel secondo caso, il valore-uso diventa irrilevante, non in quanto scompare, perché questo naturalmente è impossibile, ma in quanto il valore-uso diventa un semplice supporto materiale per la ricchezza come tale. Ricchezza come tale, la cui espressione formale è il valore, che ha poi nel valore-scambio la sua necessaria rappresentazione o espressione fenomenica.
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Quando finirà il Kali Yuga? Apocalisse e catastrofe dal Novecento a oggi
di Adriano Ercolani
Il Novecento è stato un secolo attraversato da una profonda inquietudine apocalittica. In filosofia da Heidegger a Deleuze e Derrida, da Kojève a Fukuyama, passando per l’esistenzialismo, nella riflessione politica e sociologica da Pasolini a Baudrillard, in poesia da T.S.Eliot agli Ermetici e ai New Apocaliptycs inglesi, nell’arte da Munch a Bacon, nella letteratura attraverso le distopie antiutopistiche di Orwell, Huxley, Dick, Ballard, nella musica popolare di canzoni come A Hard Rain’s a-Gonna Fall di Bob Dylan o Eve of Destruction di Barry McGuire, nel cinema di massa con opere d’autore quali Il Dottor Stranamore di Kubrick, Melancholia di Lars Von Trier, I figli degli uomini di Cuarón, ma anche l’intero filone di film post-apocalittici dominante nel mercato americano. Soprattutto questo sentimento si manifesta più che mai nella ricerca spirituale, riferendosi non solo alla prospettiva escatologica di maestri orientali dal grande seguito come Shri Mataji Nirmala Devi e Ramana Maharshi, ma anche al pensiero di figure considerate fuori dagli schemi del calibro di Quinzio e Ceronetti. In queste e moltissime altre opere, in tutti i campi del sapere e della sfera creativa, si respira il senso di una fine ineluttabile, di una necessaria catastofe palingenetica.
Ciò si è manifestato talvolta come anticipazione profetica, l’anelito al potere sacro della violenza che animava le avanguardie storiche in mezzo ai due conflitti bellici, in altri casi invece si è tradotta nella contemplazione delle macerie dopo il disastro, esemplificata dall’arte giapponese del Dopoguerra.
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L’affare Covid. Tra Emergenza spettacolare ed epidemia dolosa
di Un amico di Winston Smith
Un anno di emergenza. Stato e tecnocrati sono riusciti finora a creare una sorta di “cerchio perfetto”: se la curva dei contagi cala, è merito del governo; se cresce, è per l’allentamento delle restrizioni e lo scarso senso di responsabilità della gente (e vai con i servizi mediatici sempre-uguali sui Navigli, sullo shopping, sulla movida…). Nel caso in cui fossero minimamente organizzate le cure domiciliari per i malati di Covid, il merito verrebbe probabilmente attribuito alle vaccinazioni; se queste ultime risultassero ampiamente inefficaci, la colpa sarebbe comunque del virus con le sue “diaboliche” e imprevedibili mutazioni. Anche la denuncia delle inefficienze della Sanità e la rivendicazione di misure governative sganciate dalla logica del profitto rientrano perfettamente nel cerchio.
Se tanti aspetti di ciò che è successo e che segnerà a lungo le nostre vite sono stati affrontati – cause strutturali del “salto di specie” dei virus, incompatibilità tra tecno-industria e salute, accelerazione verso una società digitalizzata, militarizzazione, sperimentazione biomedica di massa …– non avevamo ancora preso di petto l’“affare Covid”. Si è analizzato, cioè, ciò che Stato e tecnocrati hanno realizzato a partire dall’epidemia come dato di fatto, non le scelte politico-sanitarie ben precise che hanno fatto di quel dato una Emergenza.
È ciò che si propone questa piccola, ma densa e approfondita, “contro-inchiesta arrabbiata” realizzata da un compagno. Si tratta di un testo “mostruoso”. L’idea di una Emergenza “costruita ad arte” è un pensiero che facciamo fatica a far nostro, ma che non possiamo evitare di prendere in considerazione. Una tesi che potrebbe scandalizzare persone a noi vicine e risultare fin troppo familiare a persone che vogliamo invece tenere lontane.
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“Agitando i pugni contro Cina e Russia, l’America va verso la catastrofe”
di Fabrizio Poggi
Putin è “un killer” e Xi “un tagliagole” ha stabilito Joe-Burisma-Biden; Mosca «destabilizza la situazione nei paesi vicini», evoca il segretario NATO Jens Stoltenberg; e il capo della diplomazia UE Josep Borrell e il suo superiore, il segretario di stato yankee Antony Blinken tuonano contro l’atteggiamento «di sfida della Russia, inclusa la persistente aggressione contro Ucraina e Georgia», ecc. ecc.
La dichiarazione di guerra di USA e vassalli è consegnata: una guerra energetica alla Russia, soprattutto per il “North stream 2”, e una guerra commerciale alla Cina. Mosca ha risposto per ora (annunciate contromisure anche alle sanzioni imposte dal Canada) in maniera non particolarmente dura; più tempestiva e determinata Pechino.
Il confronto tra USA e Russia ha dunque raggiunto una nuova fase. La prima fase, di “accumulazione della tensione”, scrive Aleksandr Khaldej su Svobodnaja pressa, ha coperto il periodo tra il 2000 e il 2007; dal 2007 al 2014, la seconda fase, di “contrapposizione”; quindi, la terza, avviata con gli eventi in Siria e Ucraina, è già quella della guerra, quando il «desiderio di danneggiare il nemico non è più commisurato al danno verso se stessi. Niente trattative in questa fase; ora parlano i cannoni: non importa se di ferro o mediatici».
Poi, di incidente in incidente, si arriva alla quarta fase, quella del “equilibrio di posizione” e della “stanchezza di guerra“, dopo di che sarà forse possibile tornare alle trattative.
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Marx e il socialismo del XXI secolo, a partire dallo spazio dello sfruttamento
Giulia Rustichelli intervista Luciano Vasapollo
Vasapollo: “non dal tempo ma dallo spazio dei Sud il riscatto degli esclusi”. Marx e il socialismo nel XXI secolo, con Bolívar e Martí, Gramsci e Che, Fidel e Chavez. Importante conferenza ieri di Luciano Vasapollo promossa dalla Rete dei Comunisti con le testimonianze di compagni tunisini del Comitè de défense du peuple de Tunisie e compagni marocchini de La Voie Démocratique. L’economista ritiene che l’incontro tra i popoli del Mediterraneo può rappresentare il momento storico per un rilancio dell’ideologia marxista nella concretezza di una situazione di evidente e forte ingiustizia che aspetta un riscatto
La situazione che vivono i giovani nell’altra sponda del Mediterraneo, con le dovute differenze, non appare troppo lontana dalla situazione di precarietà che esperiscono i giovani nelle periferie dell’Unione Europea: migliaia di questi salpano dal Nord Africa per giungere sulla costa Nord del Mediterraneo al fine di migliorare le proprie condizioni salvo poi ritrovarsi emarginati e sfruttati, mentre numerosi loro coeatanei italiani, spagnoli e greci emigrano verso i paesi del centro Europa. Sono le Periferie che vengono derubate dei propri beni, delle ricchezze e dei giovani, il cui futuro viene devastato.
Luciano Vasapollo, professore di politica economica alla Università La Sapienza di Roma e membro della segreteria nazionale della Rete dei Comunisti, amico oltre che firma autorevole di questo giornale online, ritiene che l’incontro di solidarietà e complementarietà tra i popoli del Mediterraneo possa rappresentare una rottura di classe storica per l‘attualizzazione dell’ideologia marxista nella sua espressione gramsciana e per il socialismo nel XXI secolo dando l’occasione concreta per un riscatto da condizioni di grave ingiustizia proprio mentre in questo inizio 2021 la situazione della sponda sud del Mediterraneo torna ad essere infuocata.
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Lavoro e tempo di lavoro in Marx
di Franco Piperno
Pubblichiamo per gentile concessione dell'autore
I) Cento anni dopo.
A più di un secolo dalla morte, Marx viene trattato, tanto nell’opinione quanto nell’accademia, come ”un cane morto”. La situazione è quindi ottima per riprendere lo studio dei suoi testi, per rifare i conti con lui. Procedere su questa strada, comporta, in primo luogo, sgombrare il terreno dall’ovvio, rifiutare la relazione di causalità tra l’attuale discredito di cui gode il Nostro ed il crollo del socialismo di stato nell’Europa dell’Est. L’inconsistenza logica della dottrina marxista, così come la cattiva astrazione sulla quale si fondava la legittimità dei regimi socialistici, erano nascoste solo agli occhi di chi non voleva vedere. Tutto era chiaro già da prima, da molto prima.
A testimonianza che il senso comune non ha atteso il crollo del muro di Berlino per formulare un giudizio– sulla teoria del socialismo scientifico e sulla natura del socialismo di stato– riproponiamo, qui di seguito, un breve commento a riguardo, scritto nel 1983, in occasione del centenario della morte di Marx, quando il Paese dei Soviet esisteva ancora (1).
“La celebrazione di K.Marx, nel centenario della morte, costituisce quel piccolo dettaglio più illuminante che un intero discorso. Innanzi, tutto chi celebra chi? Giacche’ bisognerà bene augurarsi che esista qualche differenza tra il Marx celebrato dal compagno Andropov, attuale primo ministro sovietico ed ex-capo del K.G.B.; e quello di cui si ricorda il militante dell’Autonomia nelle prigioni italiane.
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Byung-Chul-Han. La società senza dolore
di Davide Sisto
“Il filosofo tedesco più letto nel mondo” (El Pais), “La punta di diamante di una nuova, accessibile filosofia tedesca” (The Guardian), “Uno dei più importanti filosofi contemporanei” (Avvenire). Byung-Chul Han è, senza dubbio, uno dei pensatori attualmente più apprezzati a livello internazionale. I suoi libri sono letti e studiati non solo dagli addetti ai lavori nel campo della filosofia, ma in ogni settore disciplinare intento a decifrare con lucidità le caratteristiche del presente. Addirittura, Der Spiegel usa il termine “gratitudine” per l’audacia con cui il filosofo sudcoreano cerca di interpretare quella complessità del reale che, quotidianamente, rischia di sopraffarci e di soffocarci.
Il segreto dell’universale entusiasmo nei confronti di Han è riconducibile, soprattutto, alla sua capacità di vestire plausibilmente i panni di un Günther Anders del XXI secolo, quindi di un critico radicale, pessimista e apocalittico delle principali tendenze politiche, sociali, culturali e tecnologiche odierne, adottando però uno stile di scrittura tanto cristallino quanto fascinoso e attraente. Le proposizioni perlopiù stringate, che connotano la forma dei suoi brevi pamphlet polemici, celano una scrupolosa ricerca dell’immagine perfetta per togliere il fiato al lettore, nonché del gioco di parole più seducente che, facendoci progressivamente aumentare lo stato d’ansia, stimoli in noi il lato maggiormente critico e censore del presente. Non fa eccezione il nuovo pamphlet, intitolato in modo enfatico Una società senza dolore, il quale addirittura estremizza la forma stilistica adottata nei libri precedenti. Ne è senza dubbio complice la particolare delicatezza del tema scelto da Han: il rapporto assai problematico tra il mondo contemporaneo e il dolore.
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