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Vaccini al popolo?
di Il Rovescio
Al di là del titolo, ovviamente in linea col sensazionalismo che deve accompagnare tutta la narrazione pandemica, è uscito negli scorsi giorni un articolo piuttosto interessante sulla mancata vaccinazione di massa in Africa (Quel miliardo di dosi in frigo che ha condannato l’Africa, “La Repubblica”, 28 novembre 2021). Se non crediamo che possa scuotere i militanti di sinistra più imbolsiti che si mobilitano contro i brevetti dei “vaccini” biotecnologici, può forse suggerire qualcosa a chi rischia di somigliargli.
Se si pensa al contesto africano, non è strano che le inoculazioni nel continente nero abbiano raggiunto a malapena il 6 per cento di quanti lo abitano. Con una popolazione mediamente molto giovane, e un’aspettativa di vita che arriva – quando va bene – a settant’anni, il Covid in Africa non si è quasi sentito. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, che si rifà ai dati dell’OMS, le vittime nel continente del morbo più mediatizzato della storia ammonterebbero a circa 135.000 persone (altre stime le danno a oltre 200.000). Difficile che numeri simili possano destare preoccupazione, su una popolazione di oltre 1 miliardo e 300 milioni di persone. Non è perciò strano che le vaccinazioni contro una malattia che ammazza mediamente persone piuttosto anziane, in Africa non sfondino. Se poi si pensa che gli africani hanno ben altri problemi (tra malattie decisamente più pericolose, squadroni della morte o mancanza di acqua potabile, solo per dirne alcuni) la conclusione da banale si fa scontata, e non sarebbe lecito attendersi nulla di diverso: la stragrande maggioranza degli africani vive nell’indifferenza in materia di Covid.
A detta di “Repubblica” ci sarebbe però anche dell’altro. I cosiddetti “vaccini” si scontrerebbero in Africa con una forte diffidenza, dovuta, ça va sans dire, alla «disinformazione» e al «complottismo» disseminati dai social, che anche a quelle latitudini farebbero danni a una corretta informazione scientifica.
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La ‘Ricetta senza ingredienti'
Riflessioni sulla funzione di produzione e le risorse naturali in margine all’esame di economia di mia figlia
di Giandomenico Scarpelli
Autore di questo articolo in due puntate è Giandomenico Scarpelli. Un dirigente della Banca d’Italia nella quale si è occupato principalmente del collocamento dei titoli di Stato, delle operazioni di politica monetaria e di sistema dei pagamenti. Ha pubblicato, tra l’altro, La ricchezza delle emozioni. Economia e finanza nei capolavori della letteratura, (Carocci, 2015)]. A titolo personale si è sempre interessato di questioni ambientali, ed in particolare di economia ecologica, studiando in particolare l’opera di Nicholas Georgescu-Roegen e Herman E. Daly. N.B. Le opinioni espresse in questo articolo sono del tutto personali e non impegnano in alcun modo l’Istituto di appartenenza
«Un’assurdità, tuttavia, non cessa di essere un’assurdità quando si sono svelate le apparenze ingannevoli che la rendevano plausibile».
John Stuart Mill, Principi di economia politica (1848)
Premessa
Qualche tempo fa mia figlia mi ha chiesto di aiutarla a preparare l’esame universitario di economia politica. Ho accettato di buon grado sia per rendermi utile sia per rinfrescare qualche concetto offuscatosi nella mia mente a causa del tempo trascorso dai miei studi di teoria economica. In questa occasione ho “ripassato” la funzione di produzione e ho così rammentato le critiche che alcuni economisti eterodossi hanno rivolto a questo strumento analitico per la mancata o errata considerazione delle risorse naturali. In questo articolo cercherò di sintetizzare queste critiche e svolgerò alcune riflessioni personali sul tema.
La funzione di produzione tradizionale: sembra proprio che manchi qualcosa
Com’è noto la funzione di produzione nella sua formulazione corrente indica la quantità di prodotto che un’azienda può fabbricare utilizzando diverse quantità dei fattori di produzione, lavoro e capitale. Se pensiamo ad esempio ad una fucina, questo strumento analitico rappresenta il fatto intuitivo che più sono i fabbri che vi lavorano (il fattore lavoro) e più sono le incudini, i magli e gli altri attrezzi a loro disposizione (il fattore capitale), più oggetti di ferro e di altri metalli saranno prodotti (almeno fino ad un certo punto, oltre il quale i rendimenti dei fattori diventeranno decrescenti).
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Il pensiero critico e la rana di Chomsky
di Alba Vastano
“Ragionare significa tacitare le emozioni e gli impulsi per fare spazio alle idee, soprattutto,a una discussione ordinata che le analizzi e ne determini il valore, aprendo nuove strade alla nostra convivenza “ (Ermanno Bencivenga)
Stiamo attraversando l’era delle catastrofi, alcune annunciate, altre imprevedibili. Dai cambiamenti climatici causa inquinamento da emissioni, alle migrazioni sempre più frequenti, provocate da guerre infinite, soprusi, terrore e violenze che stritolano la vita di poveri esseri umani, costretti a tentare l’incognito, anche a rischio di perderla la vita, ma con un barlume di speranza di viverne una migliore di là dal mare. La xenofobia radicata come un germe velenoso, ostile e cinico ad accogliere chi riesce a salvarsi dal mare. E poi la fame, solo in alcuni luoghi della Terra, mentre in altri luoghi il cibo sovrasta le nostre pinguedini. Nel 2050 si prevedono nove miliardi di persone sul Pianeta, ma le risorse naturali, aria acqua e cibo si avviano verso l’estinzione. E per chiudere questo triste elenco di catastrofi attempate è piombata sulla nostra vita una pandemia causata da un virus che ha stroncato milioni di persone.
Sulle cause di tutte queste catastrofi possiamo proclamarci incolpevoli? Non lo siamo. Le catastrofi accennate ce le siamo procurate tutte e gli effetti più devastanti avremmo potuto evitarle. Se non è possibile evitare uno tsunami, un terremoto, un’esondazione, sebbene se ne possano attutire per tempo gli effetti devastanti mettendo in sicurezza i territori, le altre catastrofi come: inquinamento, razzismo e disuguaglianze sì, possiamo evitarle. Abbiamo ancora qualche chance per allungare i tempi della fine delle risorse del Pianeta, ma dovremmo provare ad attivare sin da oggi una risorsa che appartiene ad ogni umano. Una risorsa che ci connota come privilegiati nella vita sul Pianeta, ma una risorsa che abbiamo da troppo tempo accantonato.
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Quei sussidi italiani alla Germania
di Sergio Cesaratto
L’Italia ha pagato certe sciagurate politiche della BCE – influenzate da Berlino, potenza dominante in Europa – con decine di punti di debito/PIL in più e trovandosi ancor più povera, mentre la Germania simmetricamente ci guadagnava.
* * * *
Già nella prima edizione delle Sei lezioni di economia denunciavo l’enorme risparmio nella spesa per interessi che il governo tedesco lucrava dalla fuga di capitali dai titoli di stato italiani verso quelli tedeschi, considerati più sicuri.[1] Un istituto tedesco aveva all’epoca quantificato tale risparmio in 100 miliardi di euro. Nell’edizione inglese del 2020 citavo l’autorevole membro tedesco del consiglio esecutivo della BCE, Isabel Schnabel che quantificava nel febbraio 2020 i risparmi di spesa per Berlino in 400 miliardi di euro dal 2017. Questo non solo, naturalmente, in seguito alla fuga dai titoli italiani, che si era progressivamente calmata dal celebre intervento di Draghi del 2012, ma soprattutto per le misure di acquisto di titoli pubblici avviata dalla BCE dal marzo 2015. Questi acquisti erano soprattutto indirizzati a mettere in sicurezza i titoli ad alto debito, come quelli italiani. Ma poiché la BCE deve agire erga omnes, ad avvantaggiarsene furono, ancora una volta, anche i titoli tedeschi. Insomma, vantaggi dalle disgrazie altrui, magari non espressamente cercati, ma comunque evidenti. Disgrazie nei confronti delle quali non si è però innocenti, se è vero che Berlino è stata la principale ispiratrice delle disgraziate politiche fiscali e dell’inazione della BCE sino alla Presidenza Draghi nel 2011, ma nei fatti anche oltre continuando a frenare l’azione della banca centrale.
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Il tasso di profitto degli Stati Uniti nel 2020
di Michael Roberts
Ancora una volta, è arrivato il momento di guardare cosa sta succedendo al tasso di profitto sul capitale negli Stati Uniti. Lo faccio ogni anno e i dati ufficiali degli Stati Uniti, per misurare il tasso di profitto fino al 2020 compreso, l'anno del COVID, sono ora disponibili. Come ho già detto, ci sono molti modi per misurare il tasso di profitto (per i vari modi, vedi http://pinguet.free.fr/basu2012.pdf) "alla Marx". Io preferisco misurare il tasso di profitto guardando il plusvalore totale prodotto in un'economia rispetto al capitale privato totale impiegato nella produzione; per avvicinarsi il più possibile alla formula originale di Marx di s/C+v, dove s = surplus; C = capitale costante; che dovrebbe includere sia il capitale fisso (macchinari ecc.) che quello circolante (materie prime e componenti intermedi); e dove v = salari, o costi dei dipendenti. I miei calcoli possono essere replicati e controllati facendo riferimento a un eccellente manuale che spiega il mio metodo, gentilmente compilato da Anders Axelsson dalla Svezia, e che si può leggere qui.
Definisco il mio calcolo come una misura di «tutta l'economia», in quanto per calcolare il plusvalore si basa sul reddito nazionale totale, una volta tolto il deprezzamento e retribuzione dei dipendenti; sulle proprietà fisse private non residenziali nette, per il capitale costante (e questo esclude le abitazioni e i beni immobili); e sulla retribuzione dei dipendenti, per il capitale variabile. Ma come detto sopra, il tasso di profitto può essere misurato solo sul capitale aziendale, o vale a dire, solo sul settore non finanziario del capitale aziendale. I profitti possono essere misurati sia prima che dopo la tassazione; mentre la parte fissa del capitale costante può essere misurata sia sulla base del «costo storico» (ossia, il costo originale di acquisto) che su quella del «costo attuale» (quanto vale ora, o quanto costerebbe sostituire il bene ora).
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Come stabilizzare lo stato di emergenza facendo di esso la "nuova normalità”
di Sebastiano Isaia
Nell’articolo pubblicato ieri Angelo Panebianco si poneva il problema di come stabilizzare (eterizzare?) nel modo migliore possibile (cioè senza creare eccessive e laceranti tensioni nel tessuto sociale e in quello istituzionale del Paese) l’attuale stato di emergenza. In una forma più cauta e “centrista” (qualcuno potrebbe anche dire “cerchiobottista”) Panebianco riprende i temi svolti più criticamente e “sinistramente” in questi mesi da intellettuali come Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, accusati dall’opinione “mainstream” di portare acqua al mulino di complottisti e No Vax, di essere dei “cattivi maestri”, insomma di nuotare contro gli interessi generali del Paese – magari!
Scrive Panebianco (mi scuso in anticipo per la lunghezza della citazione): «Si comincia a prendere atto che l’eccezione potrebbe diventare regola, che saremo comunque minacciati a lungodal Covid. Quindi dobbiamo chiederci come tutelare il più possibile il sistema delle libertà nel medio-lungo termine senza compromettere la nostra capacità di impedire una nuova diffusione del virus. […] Che succede se la minaccia alla vita delle persone non scompare rapidamente, se la condizione di pericolo che all’inizio appariva come un fatto contingente, presto superabile, diventa permanente o tale da accompagnare l’esistenza di quelle democrazie per molto tempo? Come impedire che, nel lungo periodo, quella condizione di pericolo finisca per minacciare sul serio le libertà dei cittadini? Nelle situazioni di emergenza, si tratti di guerre, catastrofi naturali, pandemie, vengono presi, necessariamente, provvedimenti che implicano – talvolta in misura minima, talvolta più estesa – restrizioni della libertà personale.
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L'"Apartheid" del Draghistan: benvenuti nella post-democrazia totalitaria
di Gandolfo Dominici[1]
Lo scorso 24 Novembre abbiamo appreso dalla conferenza stampa di Super Mario Draghi, Gran Sultano del Draghistan, che con il Super Green Pass questo Natale non sarà normale per tutti i sudditi, ma solo per quelli vaccinati.
L’Amato Leader ha anche espresso l’auspicio (eventuale) che il prossimo Natale si potrebbero riammettere all’interno della società i sudditi esclusi, sempre a condizione che si comportino bene e diano segni di pubblica e sincera conversione.
Gli fa eco l’araldo Bruno Vespa che intervistato su Mediaset - divenuta, per l'occasione, rete amica e non più rivale - dichiara perentorio che: “Per diventare cittadini di serie A bisogna vaccinarsi”.
Ovviamente poco importa il dettato dell’art. 3 della Costituzione della (fù) Repubblica Italiana che prescrive testualmente (grassetto nostro):
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Influenti testate internazionali tra cui Politico.eu[2], Zeit[3] e Washington Times[4] hanno recentemente citato il Draghistan definendolo come una critica da parte di una “rumorosa minoranza di intellettuali” per poi concludere che, comunque, la maggioranza degli italiani sostiene l’operato di super Mario Draghi.
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Vaccini, la propaganda e la realtà
di Leonardo Mazzei
Ogni settimana un giro di vite. Ogni giorno che passa una nuova proposta di restringimento delle libertà. Ogni minuto del teatrino della (dis)informazione ufficiale occupato da una caccia alle streghe che sarebbe perfino comica ove non fosse anche tragica. La ragione di questo accanimento è semplice: tanto più cresce l’evidenza del flop della strategia vaccinale, tanto meno la si vuole ammettere. Eccoci così arrivati al paradosso dello scarso funzionamento di un vaccino imputato a chi ha deciso di non farselo! Come ha ben scritto Andrea Zhok, con la costruzione mediatica della figura criminalizzante del “no vax”, i non vaccinati sono diventati il capro espiatorio cui attribuire ogni colpa.
Quando si fermeranno? Siamo ormai così abituati al peggio che questa domanda risuona perfino banale, mal posta e fuori luogo. Non si fermeranno mai, qualora si affermasse la sinistra profezia di Klaus Schwab. Più precisamente, non si fermeranno finché non verranno fermati. Ma la lotta sarà lunga e difficile e, come ha scritto Moreno Pasquinelli: “Per adesso hanno vinto loro”.
Sappiamo bene come le misure governative non abbiano alcuna funzione sanitaria, volendo invece sviluppare un nuovo modello di controllo politico e sociale. Tuttavia, l’ossessione liberticida a cui stiamo assistendo viene giustificata proprio come l’unica via di salvezza per uscire dall’epidemia. La concatenazione logica di questo ragionamento è quanto mai semplice: primo, il virus è un mostro in grado di sterminarci; secondo, solo il vaccino può fermarlo; terzo, solo un lasciapassare sempre più stringente può convincere gli ultimi riottosi alla sacra e risolutrice puntura.
Il Mostro, il Bene e il Male: questi sono i tre ingredienti tipici di una narrazione che vorrebbe essere edificante quanto definitiva. Tralasciando qui ogni considerazione sulla malattia, che esiste ma non è la peste e neppure la Spagnola, è chiaro come questo racconto si regga fondamentalmente sul secondo elemento: il “Bene” rappresentato dal vaccino, unico strumento in grado di sconfiggere il “Mostro”.
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Pashukanis e l'estinzione del diritto
di Carlo Di Mascio
E’ da come viene affrontato il tema dell’estinzione del diritto che si può comprendere fino a che punto un giurista è veramente vicino al marxismo e al leninismo.
E. B. Pashukanis, Economia e regolamentazione giuridica (1929)
1. Premessa1
E’ più o meno nota la drammatica vicenda filosofica ed esistenziale di Evgeny Pashukanis2, il quale, nella Russia sovietica tra gli anni 20 e 30 del Novecento - in perfetta sintonia con l’impianto marxista-leninista, e in distonia con quello stalinista mirato, dopo la seconda metà degli anni 30, al massimo rafforzamento del diritto e dello Stato - tenta di spiegare attraverso la sua opera più significativa, La Teoria generale del diritto e il marxismo del 1924, la correlazione esistente fra lo Stato, il moderno diritto formale astratto ed i rapporti sociali capitalistici, e ciò partendo dal presupposto fondamentale secondo cui la forma specifica della regolamentazione giuridica capitalistica ha origine dalla forma-merce, nonché dalla conflittualità degli interessi privati. Pashukanis, in netta antitesi con un certo marxismo ortodosso, ribadisce che Stato e diritto non sono la stessa cosa, né tantomeno possono più essere collegati o dedotti dalla proprietà privata, bensì dalla merce che, in quanto rapporto sociale, intende privilegiare solo valori di scambio per il mercato e non valori d’uso per i bisogni sociali e che, conseguentemente, nel capitalismo può esistere solo un diritto, quello “privato”, rispetto al quale quello “pubblico” rappresenta solo un’abile finzione borghese. Esiste dunque una concatenazione indissolubile tra la forma-merce e la forma giuridica, nel senso che la prima non fa che materializzare la seconda, dato che il capitalismo, universalizzando tutto quanto è legato alla merce, ne impone la sua forma al lavoro salariato, e ciò in particolare perché giunge a concepire ogni individuo come soggetto giuridico, un soggetto cioè uguale ad altri e libero di operare come meglio crede nel mercato, ma di fatto ridotto dal rapporto di produzione capitalistico a mera funzione nella produzione, e quindi nello sfruttamento.
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The Great Reset: un libro per tutti e per nessuno
di Joe Galaxy
“Ci dominate per il nostro bene” disse con un filo di voce. “Credete che gli esseri umani non siano adatti a governarsi da soli, perciò…”
-George Orwell, 1984
Si può dire, in fondo, che il motto del liberalismo sia “vivere pericolosamente”. Vale a dire che gli individui sono messi continuamente in stato di pericolo o, meglio, che sono posti nella condizione di esperire la loro situazione, la loro vita, il loro presente, il loro avvenire, ecc., come fattori di pericolo… Si pensi, ad esempio, alla campagna sulle casse di risparmio dell’inizio del XIX secolo, alla comparsa della letteratura poliziesca e dell’interesse giornalistico per il crimine a partire dalla metà del XIX secolo, si pensi a tutte le campagne riguardanti la malattia e l’igiene, si consideri tutto ciò che accade intorno alla sessualità e alla paura delle degenerazione: degenerazione dell’individuo, della famiglia, della razza, della specie umana; insomma dappertutto si può vedere questa stimolazione del timore del pericolo, che è in qualche modo la condizione, il correlativo – psicologico, culturale, interno – del liberalismo. Niente liberalismo senza cultura del pericolo… Libertà economica, liberalismo nel senso che ho appena detto, e tecniche disciplinari sono strettamente connesse
-Michel Foucault, La questione del liberalismo
E poi bisognerebbe riflettere su quelli che, incapaci (a loro merito) di stare nell’ossessivo discorso maggioritario, ma drasticamente privi di strumenti critici, sono caduti (a loro rischio) in alter-narrazioni tossiche. Non sorprende, d’altronde, che dopo decenni di banalizzazione della lingua, di colonizzazione dell’immaginario e di guerra alla complessità, le più sciape storie dell’orrore possano suonare credibili. Da un certo punto di vista, questi nuovi “credenti” rappresentano una catastrofe e una fatica di Sisifo per chi, oltre a non stare nella narrazione maggioritaria, deve poi anche smarcarsi da questa galassia. Ma c’è qualcosa che va osservato e, se possibile, contattato: la qualità umana di chi trova così atroce quel che va accadendo, da ipotizzare che possa esser giustificato solo da qualcosa di altrettanto atroce
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Dalle distopie dell’Antropocene alle utopie della cura
di Gaia Giuliani
Pubblichiamo il presente articolo che riassume l’introduzione al volume Monsters, Catastrophes and the Anthropocene. A Postcolonial Critique pubblicato da Gaia Giuliani nel 2021 per i tipi di Routledge e uscito nel numero 5/2021 della nostra rivista
Il tempo in cui viviamo[1]
Viviamo in un’epoca di mostri e catastrofi, sospinti in un ciclo distopico senza fine. Il finis mundi si avvicina sempre di più e diventa gradualmente l’unica lente attraverso la quale l’Europa e l’Occidente danno un senso al ‘nostro’ tempo. ‘Noi’ temiamo le invasioni, uno stato permanente di terrore e la catastrofe ambientale finale – il ‘nostro mondo’ trabocca di caos e minaccia l’ordine che garantisce la nostra sicurezza, il benessere, la sostenibilità e il Progresso. Come nell’Apocalisse di San Giovanni, la fine del mondo come ‘noi’ lo conosciamo cancellerà il Tempo e lo Spazio, danneggerà irrimediabilmente il corpo umano, riportando la violenza selvaggia che era stata espulsa dallo spazio della ragione. Ciò che è in pericolo è l’essenza stessa degli umani, lasciati senza protezione ed esposti alla barbarie, alle epidemie e ai disastri naturali contro i quali occorre mettere confini, muri, colonie, spazi segregati, identità più spesse e leggi marziali: faremo di tutto per fermare la diffusione del caos e tenerlo ‘fuori’, anche se questo significa sacrificare alcuni per il bene dei molti. Alcuni stanno già pagando il prezzo più alto, ma non possono essere aiutati – la loro stessa mancanza di conoscenza li rende vulnerabili al disastro. Se riusciamo a tenerci a distanza di sicurezza da rifiuti tossici, virus, inquinamento ambientale, guerre e altri effetti nocivi dello stesso capitalismo neoliberale di cui beneficiamo, la parte migliore dell’umanità sarà al sicuro.
La mobilità indisciplinata dal Sud al Nord del mondo, il terrorismo organizzato dopo l’11 settembre e la crisi ambientale in continua evoluzione hanno scatenato un complesso insieme di ansie, paure e discorsi apocalittici.
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L’irrazionalismo che fa comodo
A partire dall'ultimo rapporto del CENSIS
di Paolo Bartolini
La gran cassa della comunicazione mediatica ha dato risalto agli esiti di un recente rapporto del Censis, che evidenzierebbero la presenza di sacche di irrazionalismo abbastanza diffuse nel tessuto sociale del nostro Paese. Ecco allora che scopriamo di vivere gomito a gomito con sedicenti terrapiattisti, con nemici dei vaccini e del progresso scientifico, con negazionisti più o meno espliciti del Covid-19.
Dinnanzi a questi risultati potremmo reagire in due modi altrettanto superficiali, cioè privi di filosofica attenzione agli eventi che si stanno dipanando dinnanzi ai nostri occhi negli ultimi due anni. Il primo modo è quello di chi interpreta i dati emersi come la conferma alla propria sensazione di essere accerchiato da tribù di sconsiderati trogloditi, prigionieri di un regressivo pensiero magico, indubbiamente individualisti e fascisti. Si noterà che questo profilo si attaglia perfettamente al nemico pubblico no-vax costruito negli ultimi mesi per dirottare lo sdegno e la rabbia dell’opinione pubblica su un’entità nebulosa e polimorfa, talmente generica da poter assumere in un baleno le fattezze del tuo vicino di casa. Il secondo modo, simmetrico e complementare, immagina che questi studi sociologici abbiano solo il fine di indurre le istituzioni a inasprire le restrizioni – già notevoli – nei confronti di scettici e antagonisti che contestano i vaccini e/o il Green Pass. Per costoro chiunque la pensi diversamente mente sempre, è un venduto, un nemico del popolo e così via. Sarebbe assurdo negare la realtà: nella galassia dei critici verso la gestione dell’emergenza vi sono anche umani disabituati al ragionamento rigoroso, inclini ad abbracciare fantasie sciocche e caricaturali.
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Un no rafforzato ad un “green pass” rafforzato
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Nei mesi scorsi ci siamo schierati prima contro il decreto Draghi che ha stabilito l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario, poi contro l’istituzione del cd. “green pass”.
Oggi, davanti all’istituzione del “super green pass” e dell’obbligo vaccinale per gli insegnanti e il personale scolastico, ribadiamo con ancora maggior convinzione la nostra posizione. E torniamo a denunciare che questo strumento amministrativo e di propaganda, inefficace nel contrasto del Covid-19 (anzi, per più versi, perfino pericoloso), serve esclusivamente alla divisione e alla repressione dei lavoratori, scaricando sui singoli non vaccinati (in primo luogo sui proletari scettici sul vaccino, spaventati, disinformati o più semplicemente impossibilitati a vaccinarsi), e sul loro insieme, la responsabilità dei disastri prodotti da stato e padroni, prima e durante la fase pandemica, prima e dopo la campagna di vaccinazione.
Proprio mentre scriviamo ci arrivano da diversi ospedali del Veneto i primi segni di crisi dei reparti di terapie intensive a cui manca anzitutto il personale e, in secondo luogo, i posti-letto attrezzati per far fronte anche a questa moderata ripresa dei contagi; questo, nonostante l’inesauribile campagna pubblicitaria di Zaia&Co. sull’efficienza della struttura sanitaria veneta – che invece è rimasta esattamente quella che era due anni fa, e senza quel pugno di medici e di infermieri assunti a termine al culmine della diffusione del virus, e poi rimandati a casa.
La disinformazione di stato sui numeri dei contagiati (mentre si continua a non fare assolutamente nulla sul tracciamento) serve a rimuovere la discussione pubblica sulle cause di un disastro sanitario che è anzitutto italiano, europeo, occidentale, attraverso uno spot ossessivo sul vaccino come unica soluzione miracolosa alla pandemia e sul “greenpass” quale misura necessaria al suo contenimento.
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Se l’opposizione alla DAD è stata miope
di Gloria Zazio e Nuova Direzione
La situazione emergenziale indotta dalla pandemia da COVID-19 ha avuto tra le sue, forse inaspettate, conseguenze la ritrovata centralità della scuola nel dibattito pubblico italiano, dopo decenni di presenza intermittente e di complessiva scarsa considerazione.
Dalla fine di febbraio 2020, periodo nel quale la scuola è stata oggetto dei primi, caotici e contraddittori provvedimenti di chiusura adottati per contrastare la pandemia[1], ad oggi, quando il ritorno alla didattica in presenza è malamente (e fragilmente) puntellato solo su Green Pass e vaccini, l’attenzione per il tema della scuola non è mai scemato, e occupa anzi una posizione di rilievo su tutti i principali canali di informazione.
Come spiegare tale cambiamento? Da un lato è sembrato che, finalmente, in larga parte dell’opinione pubblica maturassero una nuova consapevolezza del ruolo della scuola nella società, e una conseguente sincera preoccupazione per le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria alle lezioni in presenza. D’altro canto, però, non ci si può sottrarre all’impressione che il tema della scuola sia stato spesso fortemente strumentalizzato e, brandito dall’una o dall’altra delle forze politiche, sia servito indifferentemente a sostenere la totale imperizia o l’abilità del Governo nella gestione della pandemia.
In particolare, la complessità delle questioni inerenti alla scuola è stata, nella maggior parte dei casi, volutamente ridotta alle contrapposizioni apertura e chiusura, presenza e distanza. Sull’onda lunga delle polemiche che hanno accompagnato la ripresa della scuola a settembre 2020, le nuove restrizioni imposte nell’ottobre scorso, tra cui la sospensione delle lezioni in presenza, hanno dato avvio ad una disputa feroce.
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Via maestra o assedio di mercanti? Sulla vaccinazione a tappeto anti-Covid dell'Africa
Marinella Correggia intervista Leopoldo Salmaso
Premessa
Davvero la vaccinazione anti-Covid19 a tappeto (con dosi di richiamo viste le varianti) del 70% dei cittadini di ogni paese (obiettivo Oms) è la via maestra alla salute, un obiettivo sacrosanto, una gara di bontà ed equità per il benessere di tutti, il cammino verso la giustizia da sempre negata? Davvero raggiungere con la vaccinazione anti-Covid19 anche l’ultima ragazzina sulla Terra è il nuovo sol dell’avvenire e il bene comune più grande? Davvero one size fits all, taglia unica? O al contrario per molti paesi e popoli, affetti e afflitti da emergenze e secolari sfruttamenti, ma molto meno toccati dall’attuale pandemia in termini di morti e malati gravi, la somministrazione di massa di varie dosi di vaccino sarebbe uno sforzo immane, distraente e rischioso, perfino se le dosi arrivassero tutte gratis (e non scadute…), perfino se i monopoli relativi alla proprietà intellettuale fossero sospesi?
Avvertenza: ci rivolgiamo alle persone mosse da un’antica solidarietà e senso di giustizia nei confronti dei paesi africani e in generale dei popoli del Sud del mondo, ai quali dobbiamo la restituzione di un altissimo debito coloniale e post coloniale. E ricordiamo i principi della Dichiarazione di Alma Ata, nell’allora Urss, sulla salute per tutti (1978) (https://www.who.int/publications/almaata_declaration_en.pdf).
Il primo ad essere intervistato per l'AntiDiplomatico è Leopoldo Salmaso, medico specialista in malattie infettive e sanità pubblica, già responsabile dell’Unità operativa malattie infettive Ulss 16 Padova, già esperto del ministero affari esteri in Tanzania.
* * * *
1) La corsa a vaccinare l’Africa può essere vista come un assedio di mercanti? Oppure come un generoso sforzo di equità? In fondo nel mese di settembre i leader dei paesi più ricchi si sono impegnati a sostenere l’accesso equo ai vaccini con finanziamento, doni di dosi, e aumento della produzione globale per permettere l’equo accesso.
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La Cgil e il Salario minimo legale. Un dibattito
Emanuele Caon, Mattia Cavani e Anna Soru discutono con Tania Scacchetti e Andrea Garnero
Da tempo all’interno di Officina Primo Maggio e Acta si discute di Salario minimo legale. Per questo il 30 settembre 2021 abbiamo deciso di organizzare un dibattito in videochiamata tra Tania Scacchetti, referente sul Salario minimo legale per la Segreteria nazionale Cgil, e Andrea Garnero, economista dell’Ocse, attualmente in sabbatico di ricerca, che da tempo svolge un lavoro di ricerca e divulgazione sul tema. Per OPM e Acta hanno partecipato al dibattito anche Emanuele Caon, Mattia Cavani e Anna Soru
Cavani: Uno dei motivi che ci ha spinto a organizzare questo dibattito è stato chiarire la posizione della Cgil sul Salario minimo legale (Sml). Dunque, la Cgil è favorevole alla sua introduzione?
Scacchetti: È una domanda complessa. Per rispondere cominciamo a capire perché, in un paese con una così ampia copertura contrattuale, abbia preso piede un dibattito del genere. Direi che possiamo individuare quattro ragioni principali: 1. l’aumento delle disuguaglianze e la crescita della povertà di chi lavora, secondo i nostri dati ci sono quasi 9 milioni di lavoratori e lavoratrici “in disagio” per diverse ragioni (part time involontario, bassi salari etc.); 2. la crescente mobilità del lavoro e del capitale che aumenta il rischio del dumping e rende fragile il sistema contrattuale locale che si trova a misurarsi con dinamiche internazionali del sistema delle imprese; 3. la diffusione di forme di lavoro più precario e meno sindacalizzato; 4. l’indebolimento delle rappresentanze associative. Mancano norme che diano attuazione all’articolo 39 della Costituzione regolando la rappresentanza, dando efficacia generale ai Ccnl, e riducendo la proliferazione contrattuale – un pezzo consistente della quale è determinata da nascita di organizzazione sindacali e datoriali non particolarmente rappresentative.
Siamo tra i pochi paesi europei senza un Sml insieme a Svezia, Austria, Danimarca e Cipro ma siamo anche privi di meccanismo generalizzato di efficacia erga omnes dei Ccnl. Ciononostante il tasso di copertura contrattuale è importante e in teoria copre la totalità dei lavoratori dipendenti.
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I “fatti di Aigues-Mortes” tra nazionalismo e socialismo
di Marco Riformetti
Il presente contributo prende spunto da un’opera che lo studioso Enzo Barnabà ha dedicato ai cosiddetti “fatti di Aigues-Mortes” del 1893 (Barnaba [1994], Barnaba [2009]) che consistettero nel linciaggio di una decina di operai italiani emigrati in Francia. Si tratta di fatti abbastanza noti che al tempo ebbero vasta eco (almeno in Italia) ed il cui studio è certamente utile anche per sviluppare una riflessione sull’attualità e sulle conseguenze del nazionalismo.
Il contesto e i fatti in breve
Francia, fine ‘800. L’emigrazione italiana costituisce il 24% dell’intera emigrazione in Francia e circa lo 0,7% dell’intera popolazione presente sul suolo francese [1]. Gli italiani, come accade normalmente a tutte le comunità immigrate, sono concentrati in alcune aree del paese come il Midi – il Mezzogiorno – e il confine orientale.
L’emigrazione italiana in Francia è per la gran parte stagionale ed è alimentata da contadini che sono stati espulsi dalla ristrutturazione delle campagne del Nord Italia, ma non sono stati integrati nello sviluppo industriale. Sono giovani disposti per necessità a spostarsi da un luogo ad un altro e da un mestiere ad un altro, accettando spesso salari più bassi [2], vivendo in baracche e spezzandosi la schiena con giornate lavorative massacranti senza opporre che una scarsa resistenza alle richieste padronali; per questa ragione vengono spesso accusati di essere un fattore di indebolimento del movimento operaio autoctono.
In questo contesto lo sviluppo della solidarietà tra lavoratori francesi e lavoratori italiani è molto difficile ed ha buon gioco la propaganda nazionalista nel cercare di spingere i lavoratori francesi contro i lavoratori italiani e più in generale la Francia contro l’Italia, rea di aver sottoscritto un patto con Germania e Austria dalla chiara matrice anti-francese, la cosiddetta Triplice Alleanza.
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Come cambiare le regole europee
di Carlo Clericetti
L’Ue ha aperto una consultazione pubblica sulla riforma, a cui tutti possono partecipare. La formulazione delle domande non depone a favore di un cambio di mentalità: eppure le ultime due crisi hanno mostrato che è proprio questo che serve. Alcune proposte per far tesoro delle lezioni del passato
L’Unione europea ha aperto una consultazione pubblica sulla riforma delle regole che si è data da Maastricht in poi. Con la pandemia sono state sospese e così resteranno anche nel 2022, ma nel 2023 si prevede di riattivarle. Non esattamente le stesse: anche se c’è ancora chi vorrebbe rispristinarle tali e quali – e questo la dice lunga sulla capacità di comprensione delle dinamiche economiche di una parte della cosiddetta “classe dirigente” – la maggioranza ha finalmente capito che quelle regole hanno funzionato male, per usare un gentile eufemismo. Se poi vogliamo dirla più chiaramente, alcune di esse sono demenziali e gli economisti che le hanno inventate – e magari ancora le sostengono – dovrebbero quantomeno ammettere pubblicamente l’errore, come qualcuno ha fatto.
Chiunque può partecipare alla consultazione, fino a fine anno, collegandosi a questo link. Una grande iniziativa di democrazia teorica. Per considerarla effettiva, bisognerebbe sapere chi leggerà quelle proposte (sempre che qualcuno le legga) e se sarà data la stessa attenzione a chi, tra le qualifiche tra cui scegliere, si definisce “cittadino europeo” o invece “banca centrale”.
Si deve rispondere a 11 punti, ognuno dei quali si conclude con una domanda. Ma la maggior parte potrebbe essere semplicemente accorpata al primo punto, la cui domanda finale esprime lo spirito con cui si affronta questa riforma e definisce l’orizzonte entro cui si muove chi ha preparato il questionario, che evidentemente nemmeno concepisce che si possa pensare a qualcosa di diverso. La domanda è: “Come si può migliorare il quadro di riferimento per garantire finanze pubbliche sostenibili in tutti gli Stati membri e per aiutare a eliminare gli squilibri macroeconomici esistenti ed evitare che ne insorgano di nuovi”?
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Sraffa sul pianeta Marx. Cronache marXZiane n. 6
di Giorgio Gattei
1. Piero Sraffa (1898-1983) è stato certamente l’astronomo più chiacchierato (a favore o contro) della seconda metà del Novecento. Educato alla migliore ortodossia astronomia geocentrica, ne aveva subito compreso le manchevolezze, considerando che sul pianeta Marx non può certo valere quella “sovranità del consumatore” tanto decantata dai suoi insegnanti: ma quando mai se i prezzi vengono imposti dalle imprese sulla base dei costi di produzione e i clienti li subiscono a colpi di pubblicità? Lui non era propriamente un marxziano, ma preferiva immaginarsi come un «uomo venuto dalla luna» che, sulla base delle merci consumate e prodotte, sarebbe stato capace di «dedurre a quali prezzi le merci possono essere vendute se il tasso di profitto dev’essere uniforme e il processo di produzione deve essere ripetuto. Le condizioni dello scambio sono interamente determinate dalle condizioni della produzione». Ed è stato sulla base di questo convincimento che egli si era rivolto, per lo studio di quel nuovo pianeta comparso nella costellazione dell’Economia che poi si sarebbe chiamato “pianeta Marx”, agli astronomi “classici” come l’Adam Smith della Ricchezza delle stelle o il David Ricardo dei Principi di economia celeste per finire, come d’obbligo, alla “mappatura integrale” che ne aveva proposto l’astronomo indipendente Karl Marx in Il pianeta. Critica della astronomia politica dandogli così il proprio nome. Tuttavia Marx l’aveva osservato soltanto al telescopio (che allora erano pure difettosi), così che all’esame in quella “mappa” per Sraffa c’era fin troppa “metafisica”, le distanze chilometriche calcolate non erano precise se non addirittura errate e c’erano pure larghi spazi bianchi sui quali si sarebbe potuto scrivere, alla maniera dei cartografi antichi, “Hic sunt leones”.
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Dimissioni o rifiuto? Il nuovo veto del lavoro
di Andrew Ross*
Articolo di Andrew Ross sulla “grande fuga” dal lavoro negli Usa
Un nuovo spettro perseguita i paesi ricchi: lo spettro di un'acuta carenza di manodopera.
Sulla scia della pandemia, in tutta Europa e Nord America i datori di lavoro si stanno strappando i capelli per trovare i lavoratori di cui hanno disperatamente bisogno. Reclutarli e tenerseli stretti, dicono, è più difficile tra i blue-collar e nei lavori manuali dei servizi.
Da un lato, non c'è nulla di nuovo in questa dinamica. Gli imprenditori da sempre si lamentano quando non riescono a occupare mansioni per i quali offrono salari inferiori agli standard (accettabili). Il problema è tipicamente la paga insufficiente, e non la scarsa offerta di lavoro, e quindi ci aspetteremmo di vedere questa "carenza" risolta quando i salari offerti saranno aumentati. Nel caso più recente, tuttavia, non abbiamo osservato il tipo di crescita salariale sostanziale che di solito si verifica per rimediare al problema. La sua assenza indica che non si tratta di una carenza classica. Né c'è un grande divario tra le offerte di lavoro e il numero di coloro che, secondo i dati ufficiali, stanno cercando un impiego. Semmai, questi ultimi sono di più, dato che i sondaggi ufficiali sottovalutano abitualmente i disoccupati nell’ordine dei milioni.
Quindi sta succedendo qualcos'altro.
Una delle interpretazioni più diffuse a spiegare la carenza di manodopera negli Stati Uniti riguarda le donne uscite in massa dal lavoro durante la pandemia, le quali non sarebbero tornate ai propri impieghi a causa della mancanza di assistenza a prezzi accessibili per i propri figli. Ci sono, tuttavia, poche prove a sostegno di questa tesi. Le donne con figli sono rientrate nella stessa percentuale di quelle senza.
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Classe universale o identitarismo nazionalistico?
di Sandro Moiso
Calusca City Lights e radiocane.info (a cura di), RIOT! George Floyd Rebellion 2020. Fatti, testimonianze, riflessioni, Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 256, 17,00 euro
L’ultima fatica saggistica degli infaticabili compagni della Calusca City Light e delle Edizioni Colibrì di Renato Varani tocca, come al solito, un tema non soltanto d’attualità ma anche scottante, soprattutto se si considera l’assoluzione avvenuta, pochi giorni or sono, del diciottenne Kyle Rittenhouse, accusato di aver ucciso con il proprio fucile due manifestanti antirazzisti e averne ferito un terzo, a Kenosha (Wisconsin, USA), durante le proteste dell’estate del 2020 avvenute a seguito del grave ferimento del giovane afroamericano Jacob Blake, a cui la polizia aveva sparato nella stessa città, e che è ora paralizzato dalla vita in giù.
L’episodio si inserisce infatti nel clima venutosi a creare nell’America, all’epoca ancora trumpiana, infiammata dall’uccisione di George Perry Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020 nella città di Minneapolis, in Minnesota, e dall’estendersi dell’epidemia da Covid -19 e dei contraddittori provvedimenti presi all’epoca dal governo in carica. Se, infatti, le proteste, sfociate spesso in vere e proprie rivolte urbane, avevano preso soprattutto avvio dal riproporsi in forme sempre più violente dell’oppressione razziale, è pur sempre vero che altre proteste, quasi sempre armate, si diffusero a partire da una middle class bianca delusa nelle sue aspettative di benessere e continuità dei privilegi economico-sociali cui un lungo trend imperialistico della Land of the Free l’aveva abituata per gran parte della seconda metà del secolo precedente.
Middle class spesso associabile ad una working class bianca che, negli ultimi decenni, ha visto scomparire posti di lavoro, sicurezza economica e la forte riduzione dei livelli salariali precedenti e delle forme di previdenza, per quanto anche quest’ultime legate alle forme dell’assicurazione privata.
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No al ddl Concorrenza!
Alba Vastano intervista Riccardo Cacchione
Intervista a Riccardo Cacchione, coordinatore nazionale USB-Taxi. Una ‘voce’ per la difesa della categoria e del trasporto pubblico “…mentre in maniera ipocrita nella premessa dell’art.8 si richiamano i dettami dell’attuale legge di settore (L.21/92 art.1) l’inserimento in un processo dove sarà il “libero mercato” a determinare la sopravvivenza dei tassisti, da un lato e i costi per l’utenza, dichiarano oltre ogni ragionevole dubbio quali sono le vere intenzioni di questo disegno”
Agitazione in alcune specifiche categorie di lavoratori e, in particolare, nell’ambito della categoria dei tassisti italiani contro la riforma del trasporto pubblico locale non di linea. Agitazione che ha trovato voce e protesta unanime nelle categorie interessate per far sì che avvenga lo stralcio dell’art.8 del ddl concorrenza. Lo sciopero nazionale del 24 Novembre, come era prevedibile, non ha trovato nei media mainstream quella risonanza necessaria finalizzata a far evincere la protesta e, soprattutto restano all’ombra dell’informazione le problematiche e le ricadute negative che l’art. 8 del ddl avrebbe sulle categorie colpite ed interessate.
“Dobbiamo continuare a sostenere quanto contenuto nell’art. 117 della Costituzione sulle competenze specifiche delle Regioni in materia di Trasporto pubblico locale– così commenta Antonio Amodio, presidente categoria Taxi Confartigianato Imprese Brescia e Lombardia Orientale– Superare l’autonomia regionale contraddice e fa venir meno i principi della programmazione territoriale, della regolazione e del livello dei servizi, della garanzia di servizio pubblico che le Regioni in questi anni hanno assicurato….”. Per l’intervista che segue Riccardo Cacchione, coordinatore nazionale Usb-taxi fa il punto sulla questione, chiarendo i motivi della protesta.
* * * *
Alba Vastano: Le linee guida dell’art.8 relativo al ddl concorrenza rischiano di stravolgere il servizio pubblico del trasporto non di linea. Puoi spiegarci quali sono i punti del decreto che riguardano la categoria dei tassisti e che contestate?
Riccardo Cacchione: L’approccio è parte fondamentale del problema. Ѐ il senso complessivo del “progetto” che preoccupa noi lavoratori del settore taxi e dovrebbe preoccupare anche molto la cittadinanza.
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La teoria marxiana applicata allo sviluppo del software: contro Toni Negri e il reddito di base universale
di La Macchina Desiderante
Partendo da una riflessione sullo stato del lavoro, della classe lavoratrice e della sinistra nel nostro tempo, ci si interroga sul rapporto tra lavoro immateriale e teorie marxiane. Ci si chiede se oggi sia possibile delineare un confine tra lavoro e le varie forme di non-lavoro (creazione contenuti per le piattaforme, fruizione dei contenuti a scopo di profilazione, creazione di software libero a titolo gratuito/volontario, ecc...), se ci sia un tratto caratteristico che permetta di distinguere i due concetti e se abbia senso metterli sullo stesso piano. Prendendo come esempio la produzione del software (più precisamente lo sviluppo di un'ipotetica piattaforma di streaming video) vengono mostrati i limiti dei tentativi di applicare gli strumenti della teoria marxiana ortodossa. Successivamente viene presa in considerazione la teoria del plusvalore di Toni Negri. Se questa teoria ha il pregio di mostrare che oggi tutto l'assetto sociale e culturale è orientato alla suddetta estorsione, accettare che il plusvalore venga prodotto ovunque comporta conseguenze e implicazioni politiche molto pericolose. Viene confutata la teoria di Negri, mostrando come il non-lavoro non abbia intrinsecamente la capacità di generare plusvalore, e come sotto questo aspetto la teoria marxiana ortodossa si riveli ancora valida. Partendo da questa confutazione viene contestata la legittimità della proposta di Negri di un reddito di base universale. Dopo aver brevemente ripercorso la storia della concezione del lavoro come valore (dal mondo classico alla modernità), viene messa in dubbio l'idea che il reddito di base universale possa essere considerata una proposta di sinistra, mostrando la sua natura aristocratica e neo-liberale (in particolare nelle concezioni di Hayek e Friedman). Viene anche messa in dubbio l'idea che il lavoro stia scomparendo per via dell'automazione. Si ritorna quindi alla riflessione iniziale: ci si interroga sullo stato della sinistra e del lavoro alla luce dell'impegno che molti attivisti oggi stanno infondendo per far diventare realtà una proposta che storicamente nasce per opprimerli.
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L’essenza, per le fondamenta
di Alessandro Testa
Proseguendo la serie di interviste ed approfondimenti apparsi sotto il titolo “L”essenza, per le fondamenta”, pubblichiamo di seguito una breve riflessione del compagno Alessandro Testa su di un tema che ci appare della più grande importanza ed attualità, ovvero l’impatto dei cambiamenti sociali ed economici contemporanei sulla composizione di classe e sulla produzione del valore
Sappiamo tutti che una delle basi del comunismo, sin dalle sue origini, é il concetto di “lotta di classe”, un concetto che deriva da tutto un insieme di riflessioni relative alle modalità tipiche della produzione in seno al capitalismo, alla specifica natura della produzione del valore in tale contesto ed infine alle modalità all’organizzazione del lavoro ed ai rapporti sociali ad essa sottesi.
Ci rendiamo senza dubbio conto che una riflessione di tale portata non può essere conclusa – anzi non può probabilmente essere neppure abbozzata – nello spazio necessariamente ristretto di un articolo di rivista, ed auspichiamo perciò che questo spunto possa fungere da stimolo per un dibattito cui invitiamo sin d’ora a prendere parte tutti i compagni che lo desiderino, dato che riteniamo che questo sia un momento ineludibile nell’elaborazione di quell’impalcatura teorica fondamentale per la costruzione di un vero ed efficace partito comunista.
Siamo vieppiù consapevoli del fatto che un’analisi che volesse dirsi veramente scientifica necessiterebbe di una forte ed organica capacità di raccolta e valutazione di dati socioeconomici acquisiti con metodo e criterio. Purtroppo oggi i luoghi di produzione della scienza e della cultura – università, società scientifiche, fondazioni di ricerca eccetera – sono praticamente tutti nelle mani di coloro che hanno sposato senza dubbi e senza ritegno il dogma del pensiero unico liberista, e quindi ci risulta difficile prefigurare una rinascita della ricerca scientifica di stampo marxista in questo settore. Nonostante questo, pur nella consapevolezza della fragilità scientifica e metodologica delle nostre riflessioni, andiamo comunque ad incominciare.
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Clima, Storia e capitale, alcune riflessioni a partire dal libro di Dipesh Chakrabarty
di Militant
Crediamo che “Clima, Storia e Capitale”, il libro di Dipesh Chakrabarty recentemente pubblicato dai tipi di Edizioni Nottetempo, anche se alcune delle tesi che vi sono sostenute ci risultano tutt’altro che condivisibili, rappresenti comunque un ottimo spunto per tornare a ragionare intorno a un tema che, se per un lato non può più essere rimosso (almeno a parole) dalle agende della politica mainstream, dall’altro non può nemmeno essere ignorato da chi quotidianamente lotta per un’alternativa di società. La lettura dei due saggi in esso contenuti ci ha permesso inoltre di approfondire e chiarire alcune delle perplessità generate dall’uso sempre più in voga di un termine come Antropocene che, come avevamo provato ad argomentare in un altro post, se pure scientificamente sempre più preciso, rischia paradossalmente di depoliticizzare la questione del cambiamento climatico. Infatti, se ormai è un dato di fatto incontrovertibile che l’Antropocene sia diventato “un” tema centrale, se non “il” tema centrale, della contemporaneità, meno netta è invece la consapevolezza su quali ne siano state le cause socio-economiche e, soprattutto, quale sia la soluzione praticabile e quali i soggetti sociali potenzialmente mobilitabili. E il fatto stesso che ci si attardi ancora a ragionare sulla possibilità di una transizione a un (im)possibile capitalismo green o a sperare in interventi significativi da parte di quegli stessi governi che sono tra le cause del problema ne è forse la dimostrazione più lampante.
Proviamo quindi a prendere in prestito le parole dei due prefatori come punto di partenza per descrivere ciò che ci sembra sia ormai sotto gli occhi di tutti:
gli spettri che fino a qualche anno fa sembravano solo una lugubre e vaga minaccia che pendeva sui futuri dei nostri pronipoti sono apparsi nel nostro quotidiano con una velocità che forse in pochi si aspettavano.
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