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Rottamare il sapere. Spunti per una rivoluzione culturale
di Paolo Vignola
Nell’androne del palazzo dove vivo ho trovato un volantino dell’amministrazione comunale con le istruzioni per la raccolta differenziata porta-a-porta, in cui si chiama il cittadino a impegnarsi nell’adempimento dei suoi diritti/doveri e nel contribuire alla riuscita dell’operazione. L’amministrazione a guida Partito Democratico, nel volantino, tiene a sottolineare che si tratta di una vera e propria “rivoluzione culturale”. Niente di strano o di perverso in sé, se non fosse che lo stesso giorno sentivo la ministra dell’istruzione Giannini parlare in termini analoghi, se non identici, a proposito del concorsone degli insegnanti abilitati per la loro messa in ruolo: il governo si sarebbe fatto promotore, a detta della ministra, di un’autentica rivoluzione culturale il cui fine sarebbe quello di realizzare l’apice umano della buona scuola assegnando le cattedre a chi veramente preparato. Le parole della Giannini, come noto, sono da intendersi come una risposta altezzosa di fronte alle numerose e pesanti critiche mossele da quell’ esercito di riserva degli insegnanti precari delle scuole medie superiori che, sebbene abilitati, sono stati respinti ancor prima di passare alla prova orale – i giornalisti hanno parlato, tra l’altro, di “strage degli innocenti”. In particolare, l’anomalia da segnalare immediatamente per far comprendere la misura del problema risiede nel fatto che in molte regioni d’Italia e in molte classi di concorso, sebbene praticamente tutti i partecipanti avessero in precedenza conseguito l’abilitazione (TFA: tirocinio formativo attivo), già gli ammessi alla prova orale erano ben meno dei posti dichiarati disponibili dal ministero – così come del resto, almeno è l’opinione comune, i posti reali sono ben meno di quelli precedentemente dichiarati.
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Fatti non foste, ma solo interpretazioni
di Flavio Pintarelli
La crisi della verità nelle società occidentali è ormai conclamata: ma è possibile ripensare la società a partire da queste basi?
Qual è il filo conduttore che lega tra loro Brexit, Donald Trump e i 35 euro che migranti e rifugiati riceverebbero ogni giorno dal governo italiano? La risposta sta in un’espressione inglese di due parole: post truth. Un’idea, quella che la nostra società stia attraversando un’epoca di “postverità”, elaborata per la prima volta nel 2004 dallo scrittore e saggista americano Ralph Keyes in un libro intitolato The Post-Truth Era: Dishonesty and Deception in Contemporary Life. Ma di che cosa parliamo, precisamente, quando parliamo di postverità?
Dire che la postverità sia semplicemente una menzogna è riduttivo, anche perché la bugia è sempre esistita e ha da sempre fatto parte dell’armamentario retorico dei politici. Semmai, in questo caso siamo di fronte a qualcosa di diverso: perché la postverità non è una semplice falsificazione della realtà, bensì un ordine del discorso che si appella all’emotività per superare i fatti e dare così consistenza a una credenza. Esempio: affermare che i migranti accolti nel nostro paese “ricevono” 35 euro al giorno, tecnicamente non è una menzogna; piuttosto, è un’affermazione che ignora deliberatamente che quella cifra rappresenta il costo medio giornaliero pro capite speso per la gestione di una persona immigrata nel nostro paese. Oltrepassare questo particolare, permette quindi di costruire una narrativa in cui gli italiani vengono rappresentati come vittime di un’ingiustizia, che viene sfruttata per portare avanti una precisa agenda politica.
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Una guerra fredda al servizio di una guerra geoeconomica
di Alberto Rabilotta e Michel Agnaïeff
Attualmente, un quarto di secolo dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la “guerra fredda” risorge per diventare una minaccia crescente per la pace mondiale. Il tentativo in corso di utilizzare l'espansione dell'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord (NATO), per completare il’accerchiamento militare della Russia e il rivolgersi degli Stati Uniti alla regione Asia-Pacifico per preservare il suo status di potenza dominante, in particolare nel Mare della Cina, sono percepite come le fonti della rinascita di una guerra fredda che si pensava fosse sparita per sempre.
In realtà nulla nasconde la volontà di Washington di provocare un aumento delle tensioni. Gli annunci quasi quotidiani confermano l’intenzione di affermare la presenza attiva della NATO in Europa, e in particolare nei paesi limitrofi alla Russia, e questo di traduce nella creazione di nuove basi militari, nell’installazione di sistemi avanzati di radar e di missili a media distanza con la capacità di portare testate nucleari, e nell’annunciata installazione di bombardieri strategici B52 nelle basi europee della NATO. La base di tutto questo spiegamento è costitita dalle incessanti manovre militari, tra esse l'esercitazione militare Anaconda-16, che ha dato luogo al più importante spiegamento di forze straniere in Polonia dalla Seconda Guerra Mondiale.
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Quando iniziò a fischiare la locomotiva dell’autenticità
Piero Violante
Il libro La crisi del soggetto. Marxismo e filosofia in Italia negli anni Settanta e Ottanta, a cura di Giuseppe Vacca, (Carrocci, 2015), si chiede perché il marxismo in Italia sia andato in crisi, si sia dissolto. I saggi, puntuali, mostrano la liquefazione marxista per un cambio di paradigma. Dal trenino dell’autonomia, nei primi anni Settanta, si passò al trenino dell’autenticità. Dalla linea Kant-Hegel-Marx-Bentam-Mill-Smart a cui si aggiunsero i vagoncini Habermas e Rawls (il paradigma americano), si passò alla linea Rousseau-Kierkegaard-Nietzsche-Heidegger-Adorno&Horkheimer-Foucault. Dal principio della coerenza, della coincidenza tra condotta e principio morale (il prof. Unrat dell’Angelo Azzurro) al principio della soddisfazione di sé che diviene plurale. Avanza questa secondo trenino via via che sminuisce la certezza nella vettorialità del tempo, che sminuisce la certezza del progresso. Lo aveva detto Rousseau, lo aveva indicato Diderot, lo riprende magistralmente Foucault. Nel Nipote di Rameau si afferma l’io debole che si adatta per trasformarsi. È di Marshall Berman il libro chiave dell’epoca del secondo trenino, The Politics of Authenticity, pubblicato già nel 1970. Ma è ancora un altro libro di Berman, maltrattato sia in Italia che altrove, The Experience of Modernity (1982, tradotto in Italia nel 1985) che per la prima volta propone una lettura modernista di Marx richiamando l’attenzione su un passo del Manifesto:
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Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
di Luigi Ferrajoli
1. Potere di revisione costituzionale e potere costituente – C’è un fatto che accompagna, da circa trenta anni, la lunga crisi della democrazia italiana. All’aggravarsi di tutti i suoi aspetti – il discredito e lo sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità all’economia e alla finanza, la loro opzione comune e sempre più esplicita per le controriforme in materia di lavoro e di stato sociale – ha fatto costantemente riscontro il progetto di indebolire il Parlamento e di rafforzare il governo, tramite modifiche sempre più gravi della seconda parte della Costituzione repubblicana: dapprima, negli anni Ottanta e Novanta, i tentativi delle Commissioni Bozzi, De Mita-Jotti e D’Alema; poi l’assalto ben più di fondo alla Costituzione da parte del governo Berlusconi con la riforma del 2005, scritta dai cosiddetti “quattro saggi” in una baita di Lorenzago e bocciata dal referendum del giugno 2006 con il 61% dei voti; infine l’ultima, non meno grave aggressione: la legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi approvata il 12 aprile 2016, sulla quale si svolgerà il referendum confermativo nel prossimo ottobre. Di nuovo, come sempre, l’argomento a sostegno della revisione, oltre a quello penoso e demagogico della riduzione dei costi della politica, è stato la necessità di accrescere la “governabilità” nel tentativo, ancora una volta, del ceto di governo di far ricadere sulla nostra carta costituzionale la responsabilità della propria inettitudine.
L’attuale revisione costituzionale investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139.
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Ad Aleppo si gioca il destino del mondo
di Piotr
La miccia siriana: gli USA pensano sia possibile passare da una guerra circoscritta a una generalizzata e intanto vedere come reagisce l'avversario
Quod vult perdere Jupiter dementat
Giove toglie prima il senno a quelli che vuole rovinare
1. La Russia e gli Stati Uniti hanno rotto ogni collaborazione sulla Siria.
Dopo l'attacco aereo statunitense su Deir ez-Zor, coordinato con l'ISIS (e ci sono intercettazioni militari a riguardo) dove sono stati uccisi circa 80 soldati siriani e un numero non noto di militari russi e l'immediata, letale e soprattutto non prevista reazione russa, non riportata dai media occidentali (e ammessa solo implicitamente da Mosca) che ha annientato una centrale operativa di supporto ai "ribelli", nella fattispecie quasi tutti del Fronte al-Nusra, cioè al-Qa'ida in Siria, operanti ad Aleppo Est e Idlib, dove sono morti circa 30 ufficiali israeliani, qatarioti, sauditi, turchi e statunitensi, e dopo le accuse di Mosca a Washington di sostenere i jihadisti e la riasserzione che, costi quel che costi, Mosca non lascerà mai Damasco in mano ai jihadisti, gli Usa hanno iniziato a reagire come un pugile rintronato ma incattivito.
2. Da una parte il Pentagono e la CIA hanno dichiarato, ormai apertamente e senza più alcun ritegno, che aumenteranno il loro sostegno ai jihadisti con missili terra-aria e missili anticarro.
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Sull’invenzione della moneta
Sesso, avventura, sociopatia monomaniacale e la vera funzione dell’Economia
di David Graeber
Su Naked Capitalism, un bellissimo articolo dell’antropologo David Graeber, nato in risposta ad una controversia con l’economista di scuola austriaca Robert Murphy, rivela la totale infondatezza del Mito del Baratto, secondo il quale la moneta sarebbe nata dal baratto delle società primitive. Perché, si chiede Graeber, se tutte le prove dicono il contrario, gli economisti continuano ferocemente a sostenere questo mito? Perché senza di esso crollerebbe la visione razionalista e monodimensionale dell’Homo Oeconomicus, svelando la natura prescrittiva dell’economia (liberale): più che una scienza, una disciplina che pretende di dire agli uomini come dovrebbero comportarsi, una religione le cui teorie devono essere difese dai propri adepti a prescindere da qualsiasi realtà empirica
Pubblico qui questa versione più dettagliata della mia risposta, non solo per fugare ogni dubbio, ma perché l’intera questione delle origini della moneta solleva altre interessanti domande – non ultima, perché gli economisti contemporanei si scaldino tanto in proposito. Per cominciare, fornisco dei ragguagli sullo stato attuale del dibattito scientifico in merito, spiego la mia posizione, e mostro come un vero dibattito avrebbe potuto svolgersi.
Innanzitutto, la storia:
1) Adam Smith per primo sostenne ne “La ricchezza delle nazioni” che, non appena nella società umana è apparsa la divisione del lavoro, con la specializzazione di alcuni ad esempio nella caccia, di altri nelle punte di freccia, la gente avrebbe cominciato a scambiarsi le merci gli uni con gli altri (sei punte di freccia per una pelle di castoro, per esempio). Questa abitudine, però, avrebbe logicamente portato a un problema che gli economisti hanno denominato come il problema della ‘doppia coincidenza dei bisogni “- perché lo scambio sia possibile, entrambe le parti devono avere qualcosa che l’altro è disposto ad accettare in cambio. Questo fa presumere che alla fine la gente abbia cominciato ad accumulare riserve di beni ritenuti generalmente appetibili, e che per questa stessa ragione sarebbero diventati ancora più largamente accettati, e che, alla fine, sarebbero diventati moneta. Il baratto in tal modo ha dato origine alla moneta, e la moneta, infine, al credito.
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Dalla fabbrica al container
Intervista a Sergio Bologna
[Versione originale uscita in francese sulla rivista marxista online “Période”, a cura di Davide Gallo Lassere e Frédéric Monferrand]
Co-fondatore di riviste come Classe operaia e Primo Maggio e del gruppo Potere Operaio, Sergio Bologna esamina in quest’intervista la sua traiettoria intellettuale et politica. Dalle lotte in fabbrica negli anni ’60 ai movimenti contemporanei dei precari e dei lavoratori della logistica, passando per il movimento del ’77, Bologna intreccia storia dell’operaismo e storia delle lotte di classe in Occidente.
* * * *
Potresti ritornare sulle differenti tappe che hanno scandito la storia dell’operaismo, dalla fondazione dei Quaderni rossi fino a Classe operaia?
Non vi è accordo tra di noi circa la periodizzazione della storia operaista. Secondo Mario Tronti questa storia termina nel 1966 con la fine di Classe operaia; secondo me si prolunga fino alla fine degli anni ’70. Il periodo 1961-1966 è senza dubbio quello durante il quale furono tracciate le linee fondamentali della teoria operaista da Romano Alquati, Mario Tronti e Antonio Negri. Raniero Panzieri fu anche lui un fondatore, ma non si è mai definito “operaista”. La questione della storia dell’operaismo è dunque controversa. Il mio punto di vista personale è il seguente: tra il 1961 e il 1966 sono state poste le basi della teoria; tra il 1967 e il 1973 si è cercato di verificare la capacità di queste teorie nel mobilizzare i movimenti sociali e la risposta - almeno per gli anni 1968-69 - non può essere altro che affermativa.
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Argentina: banalizzazione della politica e violenza del neoliberismo
Alioscia Castronovo intervista Diego Sztulwark
A dieci mesi dall'insediamento del governo Macri, pubblichiamo la prima parte di una conversazione con Diego Sztulwark su macro e micro politiche neoliberali, corruzione e nuove povertà, sfide dei movimenti e panorama politico argentino nella crisi del progressismo latinoamericano
Con il governo di Cambiemos in Argentina il panorama politico ed economico è pesantemente segnato dal ritorno delle politiche strutturali di austerità e dalle privatizzazioni: in pochi mesi vi sono stati migliaia di licenziamenti sia nel settore pubblico che nel privato, il Parlamento ha approvato nuove misure di indebitamento estero, per la prima volta dopo dieci anni sono ripartite le ispezioni del FMI. Intanto cresce senza sosta l’inflazione ed aumentano i prezzi dei servizi di base, dell’acqua, del gas, dell’elettricità e dei trasporti (con percentuali che vanno dal 300 all’800 per cento). Abbiamo vissuto mesi densi di mobilitazioni popolari animate da differenti settori sociali e politici, decine di scioperi e manifestazioni sindacali, giornate di lotta del movimento delle donne e degli studenti, significative mobilitazioni dei lavoratori delle economie popolari. Si è trattato di appuntamenti di piazza spesso differenti tra loro, che hanno cominciato a delineare una mappa della resistenza possibile, segnalando l’esistenza di una grande capacità di organizzazione popolare e di una diffusa disponibilità al conflitto in un quadro di violenta offensiva neoliberale.
Queste manifestazioni spesso moltitudinarie ed importanti, tanto nei numeri quanto rispetto alla capacità di mobilitazione della composizione sociale e politica di cui sono espressione, non hanno avuto però la capacità di fermare le politiche di austerità.
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Che cosa resta del marxismo italiano tra mode culturali e militanza politica1
Tommaso Baris
Il recente volume, La crisi del soggetto. Marxismo e filosofia negli anni Settanta ed Ottanta, curato dal presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma Giuseppe Vacca ed apparso per le edizioni Carocci, nel 2015, si propone un compito estremamente arduo: rispondere cioè alla domanda che lo stesso Vacca si pone nella prefazione: «come mai nei primi anni Settanta pareva che il marxismo vivesse una stagione ricca di promesse ed ambizioni, e dieci anni dopo sembrava che non ne sopravvivesse più nulla?».2
Detto altrimenti, il volume, frutto di diversi seminari ed incontri pubblici tenuti in maniera sinergica dalla Fondazione Gramsci e dalla Scuola Normale di Pisa coinvolgendo filosofi, storici, scienziati politici e sociologi della politica, cerca di indagare lo sviluppo del marxismo in Italia tra la metà degli anni Settanta sino ai primi anni Ottanta, provando a comprendere come quello che sembrava un indiscutibile ed inattaccabile primato politico-culturale (nonché capace di fare mercato, almeno quello editoriale) sia rapidamente tramontato con l’inizio del declino politico del Pci, portando ad una rinnovata e riproclamata definitiva crisi e morte del marxismo stesso. Quest’ultima peraltro, nel nostro panorama politico e culturale del nostro paese, è durata a lungo, almeno sino a qualche anno fa, quando invece, complice la nuova profonda crisi economica che ha investito l’Occidente capitalistico a partire dai mutui sub-prime americani, la riflessione storico-politico del Moro è tornata ad essere di grande attualità, producendo una ennesima riscoperta e nuova attenzione anche editoriale, come dimostrano le numerose recenti pubblicazioni dedicate al marxismo nelle sue varie forme.3
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La grande confusione della legge elettorale
di Militant
Neanche il tempo di passare al vaglio della Corte Costituzionale (o forse proprio grazie alla soffiata di qualche giudice costituzionale amico), e già l’Italicum è in via di superamento. Il dibattito intorno alla futura legge elettorale è però esemplare, racchiude cioè nel suo piccolo la scomparsa della sinistra dalla politica generale. E’ infatti un dibattito in cui apparentemente ci si scanna tra acerrimi nemici, ma nessuna delle proposte di revisione si avvicina a quella che dovrebbe essere una legge elettorale “di sinistra”, cioè democratica nella sostanza e non solo nel chiacchiericcio neoliberale quotidiano. Le varie proposte appaiono tutte interne ad un sistema di valori neoliberale fondato sul sacro principio della “governabilità”, bene supremo a cui tutti i ragionamenti dovrebbero ricondursi. L’Italicum, come dovremmo ormai sapere, è una legge altamente distorsiva, nonostante sia, in teoria, una legge elettorale proporzionale. Questo smonta il primo e principale artificio retorico del ceto liberale in guerra contro ogni ipotesi di proporzionalità tra voti espressi ed eletti in parlamento. Secondo Angelo Panebianco (Corriere della Sera del 28 settembre),
“i fautori del No alla riforma costituzionale si stanno schierando a favore di un sistema elettorale proporzionale. A suo modo è una cosa lodevole. E’ giusto infatti che chi sia a favore della conservazione costituzionale, della conservazione della Costituzione così come essa è, sia anche un nostalgico del ritorno al proporzionale”.
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Non c’è crisi in Paradiso
Paradossi e identità di classe nell’America di Obama e di Trump
di Fabrizio Salmoni*
Le cronache elettorali dagli Usa dipingono superficialmente la campagna per le presidenziali come se fosse un evento sportivo. Cosi facendo, il giornalismo italiano si conforma a quello internazionale contribuendo ad assuefare le menti all’idea che anche uno degli eventi politici più importanti per il mondo sia uno spettacolo in cui contano i singoli individui, i loro errori, i loro umori, le cartelle cliniche. Ai candidati si attribuiscono i favori o le preferenze di ampie categorie del corpo civile: le minoranze, le lobbies, le etnie, la comunità finanziaria, quelle religiose, i gruppi sociali peculiari dei vari Stati, ecc. Un minestrone di ingredienti indistinti in cui le classi sociali vengono identificate essenzialmente con la dicotomia colletti blu e bianchi e “mondo delle imprese” (corporate world) mentre di middle class si parla per segnalarne la centralità “elettorale”, la perdita di potere d’acquisto, la sua discesa nella scala sociale.
Chi qui in Europa segue più attentamente le cronache della contesa americana con un occhio criticamente smaliziato non può evitare di notarne il paradosso più evidente: un elettorato fatto prevalentemente di bianchi poveri a forte componente operaia e contadina voterà in massa contro i propri interessi per un candidato miliardario portandolo probabilmente alla presidenza. Come può accadere? Cosa può aver rovesciato i tradizionali ruoli di rappresentanza politica tra i due maggiori partiti?
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Il tema del lavoro secondo Karl Marx
di Giulio Di Donato
Per Marx la libertà comunista non è l’uscita dal lavoro ma il superamento del lavoro determinato da una necessità eteronoma ed etero-finalistica
Il lavoro dovrebbe essere, agli occhi di Marx, “manifestazione di libertà”, “oggettivazione/realizzazione del soggetto”, “libertà reale”. In tutte le forme storiche succedutesi, il lavoro ha però sempre avuto (quale lavoro schiavistico, servile, salariato) un carattere “repellente”, è stato sempre “lavoro coercitivo esterno”. In altre parole, non si sono mai create le condizioni soggettive ed oggettive che gli permettessero di diventare “attraente”, di costituire “l’autorealizzazione dell’individuo”. [1]
Perché si ritorni alla sua vera e profonda essenza, deve cessare di essere lavoro “antitetico” e divenire “libero”. Ciò non significa, ribadisce Marx, che esso possa diventare, come vorrebbe Fourier, un mero gioco; un “lavoro realmente libero, per es. comporre, è al tempo stesso la cosa maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intensivo che ci sia”. E tanto più serio e intensivo sarà il lavoro quando esso diventerà veramente “universale”, cioè processo di produzione consapevolmente istituito e controllato dagli uomini “come attività regolatrice di tutte le forze naturali”. [2]
Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc.
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Per un'etica del riconoscimento
Ciò che è vivo e ciò che è morto nell'opera di Karl Marx
Paolo Bartolini intervista Roberto Finelli
Nel suo profondo e originale lavoro di studio sul pensiero di Marx ha mosso delle critiche radicali all'antropologia implicita del filosofo di Treviri. Può dirci, secondo lei, quali sono gli aspetti ancora attuali della critica marxiana e quali, invece, vanno ormai abbandonati senza rimpianto?
Proverei a rispondere a questa prima, classica, domanda su ciò che è vivo e ciò che è morto nell'opera di Karl Marx attraverso il riferimento ai due titoli dei miei libri che scandiscono i miei studi sul pensiero marxiano: Un parricidio mancato (Boringhieri) del 2005 e Un parricidio compiuto (Jaca Book) del 2014 (entrambi già impliciti e anticipati nel mio libro più sinteticamente generale su Marx del 1987, Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su Marx, Bulzoni, Roma). Nel Parricidio mancato ho voluto evidenziare quanto la foga del ribellismo giovanile unita a una non profonda conoscenza della filosofia di Hegel, comune a una buona parte del movimento dello Junghegelianismus degli anni '30 e '40 dell'800, abbiano sollecitato Marx a un troppo facile e corrivo rovesciamento dell'idealismo di quello Hegel che, con la sua collocazione dal 1818 all'Università di Berlino, era divenuto il pontefice massimo, assai più che l'amico-nemico Schelling, della filosofia e della cultura tedesca postkantiana.
Uccidere quel padre metaforico significava, sul piano più proprio del confronto tra singole individualità, superarlo nel primato dell'egemonia filosofica, così come, sul piano più largamente culturale e politico, rovesciare lo spirito nella materia, la teoria nella prassi, la filosofia contemplativa e speculativa nell'azione del proletariato rivoluzionario.
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Lauree “inutili”, dopo un anno Stefano Feltri continua a sbagliare
di Antonio Scalari
L'anno scorso Stefano Feltri, vicedirettore del Fatto Quotidiano, commentando i dati di una ricerca sul ritorno economico degli studi universitari pubblicata dal centro studi di Bruxelles CEPS, aveva esposto la propria personale visione sul rapporto tra Università e mondo del lavoro e sulla utilità, o meno, di intraprendere alcuni percorsi di studio.
Il vicedirettore metteva in guardia i futuri universitari dal rischio di studiare "ciò che piace", invece che ciò che è utile a trovare un lavoro (solo i ricchi possono permettersi di dedicarsi a ciò per cui si sentono portati, scriveva). Denunciava che «in Italia studiamo le cose sbagliate» e che il sistema universitario italiano «fa un po' schifo». Instillava, perciò, sensi di colpa in chi decide di iscriversi ad alcune lauree. E, saltando dalle scelte personali a quelle collettive, invitava la comunità a riflettere sull'opportunità di «sussidiare pesantemente» lauree che «producono disoccupati».
Valigia Blu aveva risposto a Feltri e aveva dimostrato che le sue considerazioni sull'Università, sulle scelte che motivano i percorsi di studio e sul carattere di chi si iscrive ad alcune lauree erano espressione di una visione superficiale. Ma non solo, aveva anche dimostrato che la sua lettura dello studio del centro CEPS era arbitraria e affrettata (come aveva rilevato anche una delle autrici della ricerca).
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E se il lavoro fosse senza futuro? (Appendice)
Perché la crisi del capitalismo e quella dello stato sociale trascinano con sé il lavoro salariato
Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 8/2016 - Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Presentazione Ottavo quaderno di formazione on line
Pubblichiamo l'appendice delle cinque pubblicazioni di "E se il lavoro fosse senza futuro? Perché la crisi del capitalismo e quella dello stato sociale trascinano con sé il lavoro salariato".
Qui, qui, qui, qui, qui le parti precedenti.
Appendice
Perché la metafora della “fine del lavoro” è sbagliata
E’ ovvio che, dopo aver concluso il nostro cammino, non possiamo sottrarci ad un confronto più puntuale con le argomentazioni di coloro che hanno proposto una teoria della “fine del lavoro”. Come il lettore si sarà reso conto, pur distinguendoci da loro abbiamo sin qui difeso la posizione di quanti si sono addensati attorno a quell’ipotesi.1 Se ci ha letto con l’indispensabile approccio critico, oltre che con la necessaria dose di pazienza, a questo punto dovrebbe sorgergli spontanea una domanda: ma se la teoria della “fine del lavoro” non è una “emerita bufala”, se non corrisponde alla mera “proiezione utopistica di fantasie” da parte di visionari, per quale ragione, dopo esser comparsa sulla scena, si è consumata come una meteora, fino a dissolversi nel nulla?2
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La sussunzione del sapere vivo, ovvero la governance del lavoro cognitivo
di Andrea Fumagalli
I recenti fatti di repressione diretta della libertà di ricerca non ci devono far dimenticare che nella realtà quotidiana l’attività di ricerca è sempre più sottoposta a forme di condizionamento e di indirizzo tanto più potenti quanto maggiore è la sua importanza nel processo di accumulazione e valorizzazione capitalistica e quindi nella gestione del comando sociale.
Nell’attuale capitalismo bio-cognitivo, la conoscenza svolge un ruolo nevralgico, sia nel momento della sua generazione (economie di apprendimento) che nella fase di trasmissione e diffusione (economie di rete). La conoscenza è, da questo punto di vista, sia un input che un output. E strumento di produzione (espressione del comune – al singolare – come metodo, appunto, di produzione) e nello stesso tempo bene comune. Da questo punto di vista il controllo della generazione della conoscenza così come il controllo della sua trasmissione/diffusione rappresentano dei cardini imprescindibili per la governance del processo produttivo e del mercato del lavoro.
Tale governance si sviluppa a più livelli, che, in questa sede, ci limitiamo semplicemente a elencare, scusandoci per la schematicità.
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Immigrazione e capitale
di Maximilian Forte
Pubblichiamo la traduzione dell’importante articolo di Maximilian Forte su Zero Anthropology – già segnalato dal prof. Alberto Bagnai su Goofynomics – in cui l’antropologo italo-canadese analizza impietosamente la svolta storica cui stiamo assistendo: la scomparsa della sinistra dal panorama del futuro. Concentrandosi sul caso degli Stati Uniti, egli fa un ritratto impietoso di una sinistra doppiamente ipocrita che rincorre i liberisti sul loro stesso piano abdicando totalmente ai suoi valori. Una sinistra che da un lato difende un’immigrazione senza limiti, dimenticando che questo significa generare una guerra tra poveri le cui prime vittime sono le classi locali meno abbienti assieme agli immigrati stessi. Dall’altro lato, una sinistra che tace sulle cause delle migrazioni: le invasioni e i bombardamenti dell’occidente. E’ ora di porre il tema dell’immigrazione al centro del dibattito politico, senza ipocrisie
L’immigrazione, a torto o a ragione, è diventata uno dei temi più dibattuti nell’attuale scontro politico in Europa e Nord America. Forse esagerando, il ruolo dell’imigrazione è considerato un fattore centrale per la scelta del Brexit nel Regno Unito, e per l’ascesa del movimento “America First” di Trump negli Stati Uniti. Sembra oggi impossibile poter discutere serenamente sull’immigrazione, senza che nel dibattito entrino in gioco ogni sorta di ordini del giorno, preconcetti, insinuazioni e ricriminazioni. Attori e interessi di ogni tipo rivendicano una voce nel dibattito, dall’identità e sicurezza nazionale al multiculturalismo, ai diritti umani, al cosmopolitismo globalista. Al contrario, ciò che viene generalmente ignorato nei dibattiti pubblici è una discussione della politica economica dell’immigrazione ed in particolar modo una critica del ruolo dell’immigrazione nel sostenere il sistema capitalista.
Prima di proseguire, dobbiamo innanzitutto smontare alcune tattiche di distrazione, spesso usate nel dibattito pubblico, che purtroppo confondono troppe persone. Primo: essere contrario all’immigrazione non rende una persona razzista. Le due cose non sono consequenzali. Essere razzista significa adottare una visione dell’umanità ordinata in base a delle differenze biologiche, che si immagina stabiliscano una gerarchia. Preferire “i propri simili” (qualsiasi cosa significhi) potrebbe essere la base di un certo etnocentrismo, ma non necessariamente del razzismo in quanto tale.
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La questione curda, ieri ed oggi
di Samir Amin
Il caos politico che domina la scena in Medio Oriente si esprime tra l'altro, nell'emergere violento della questione curda. Come possiamo analizzare, in queste nuove condizioni, la portata della rivendicazione dei Curdi (autonomia? Indipendenza? Unità?)? E possiamo dedurre dall'analisi che questa rivendicazione debba essere sostenuta da tutte le forze democratiche e progressiste della regione e del mondo?
Una grande confusione domina il dibattito su questo tema. La ragione è, a mio avviso, l'allineamento della maggior parte degli attori e degli osservatori dietro ad una visione non storica di questa questione, così come di altre. Il diritto dei popoli all'autodeterminazione è stato innalzato a diritto assoluto, che vorremmo fosse mantenuto valido per tutti e in tutti i tempi (presenti e futuri), così come per il passato. Questo diritto è considerato come uno dei diritti collettivi tra i più fondamentali, al quale si dà di solito più importanza che agli altri diritti collettivi di portata sociale (diritto al lavoro, all'educazione, alla sanità, alla partecipazione politica ecc..).
D'altra parte i soggetti di questo diritto assoluto non sono definiti in maniera precisa; il soggetto di questo diritto può essere “una comunità” qualunque, maggioritaria o minoritaria all'interno delle frontiere di uno stato o di una delle sue province; questa comunità che si definisce essa stessa come “particolare” per lingua o religione per esempio; e si proclama, a torto o a ragione, vittima di una discriminazione, se non di un'oppressione.
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La società dello smartphone
di Nicole M. Aschoff
Sotto molti aspetti, l'automobile è stata la merce che ha caratterizzato il 20° secolo. La sua importanza non proveniva dal suo virtuosismo tecnologico o dalla sofisticatezza della catena di montaggio, bensì dalla sua capacità di riflettere e modellare la società. Il modo secondo cui si producevano, si consumavano, si usavano e si regolamentavano le automobili costituiva una finestra sul capitalismo stesso del 20° secolo - uno sguardo d'insieme su come il sociale, il politico e l'economico si intrecciavano ed entravano in collisione.
Adesso, in un periodo caratterizzato dalla finanziarizzazione e dalla globalizzazione, nel quale la "informazione" è la regina, l'idea che una qualche merce possa definire un'epoca potrebbe apparire antiquata. Ma le merci oggi non sono meno importanti, e le relazioni delle persone con queste merci rimangono centrali ai fini della comprensione della società. Se l'automobile è stata fondamentale per comprende l'ultimo secolo, lo smartphone è la merce che definisce la nostra epoca.
Al giorno d'oggi le persone perdono parecchio tempo con i loro telefoni cellulari. Durante il giorno, lo controllano continuamente e se lo tengono sempre vicino al proprio corpo. Ci dormono accanto, lo portano in bagno, e lo guardano mentre camminano, mangiano, studiano, lavorano, mentre aspettano e mentre guidano. Il 20% dei giovani adulti ammette di controllare il proprio telefono perfino mentre fanno sesso.
Qual è il significato del fatto che le persone sembra che abbiano un cellulare in mano o in tasca dovunque vadano, per tutto il giorno?
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Rottamare il verbo euro liberista
di Carlo Formenti
Dopo gli interventi di Brancaccio, Iodice, Fazi e Grazzini proseguiamo il nostro dibattito sull'Europa pubblicando la recensione di Carlo Formenti al volume "Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa" con saggi di Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma, appena uscito da DeriveApprodi. A seguire anticipiamo il testo di Leonardo Paggi dell'introduzione che apre il volume
Agli osservatori più attenti non dev’essere sfuggito che l’inopinata conversione del Presidente del consiglio Renzi al partito dei critici dell’Europa contiene una buona dose di messa in scena (attaccare l’austerità, se nel contempo si ribadisce l’impegno a rispettare i vincoli Ue in materia, suona poco credibile).
Pur subodorando la teatralizzazione – che mira a captare il consenso di un elettorato irritato con le oligarchie europee – i media, i quali non cessano di diffondere il verbo euro liberista, si sono premurati di invitare alla prudenza, celebrando le virtù del modello tedesco e invitando a non mollare la presa sulla barra del timone, onde non perdere la scia della nave ammiraglia pilotata da Frau Merkel. Ma quali sarebbero le “virtù” in questione? Assai meglio dei media, ce lo spiega un libro a più mani (scrivono Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma) appena uscito da DeriveApprodi: Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa.
Il modello tedesco, imposto a tutti gli stati membri della Ue con le buone o con le cattive (per le cattive vedi il caso greco), si fonda sull’assoluta priorità attribuita alla lotta all’inflazione e all’equilibrio di bilancio (l’ultimo obiettivo, sancito dai trattati, è stato perfino integrato in alcuni ordinamenti costituzionali, fra cui il nostro).
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La nostra infrastruttura logistica
Spazi metropolitani e processi transnazionali
di ∫connessioni precarie
Sul fronte orientale non c’è niente di nuovo. L’opposizione dei paesi dell’est al migration compact mostra che il tentativo di risolvere la crisi centralizzando la decisione politica all’interno dell’Unione è fallito prima ancora di nascere. Anche a ovest d’altra parte l’austerità continua a essere affermata come la pietra angolare del governo dell’Unione, sebbene i singoli Stati stiano progressivamente forzandone i confini. Anche qui niente di nuovo, si potrebbe dire: a est come a ovest i confini dell’Unione sono continuamente violati. L’Unione europea non è quel Moloch unitario che alcuni immaginano e che essa stessa pretende di rappresentare. Le crepe della sua disgregazione sono le stesse che migranti, precarie e operai cercano quotidianamente di allargare per garantirsi una vita migliore. Tanto per Bruxelles quanto per i singoli Stati, però, il governo dell’austerità e quello della mobilità sono due facce della stessa medaglia. Mentre la Commissione cerca di imporre un sistema coordinato per tutta l’UE, gli Stati mettono in scena uno scontro che non intacca il governo neoliberale dell’Unione. Questo gioco delle parti è ormai parte integrante della costituzione materiale dell’Europa e dei suoi Stati e, anche laddove la sovranità nazionale è invocata a viva voce, il dispotismo del capitale è imposto attraverso il predominio incontrastato degli esecutivi. È ormai chiaro che la presunta difesa delle prerogative sovrane non è che un’articolazione delle politiche di austerità, il cui prezzo viene costantemente pagato da precarie, operai e migranti.
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Prima che muoia la democrazia e inizi la guerra
di Piotr
Il rischio RefeRenzum e il rischio delle presidenziali USA sullo sfondo di una crisi mondiale
1. Il referendum e la democrazia in Italia
L'altra sera sono andato a un'assemblea pubblica a Roma sul prossimo referendum, indetta dal Movimento 5 Stelle. Presenziavano vari esponenti locali e nazionali del Movimento e il relatore era Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. Sala stracolma e giudice Imposimato scatenato contro chi tira le redini della politica mondiale, contro Renzi, contro Napolitano, contro Trump e - parole rarissime al giorno d'oggi - contro un governo che penalizza i settori più deboli della società.
Contro una "riforma" truffaldina della Costituzione che letteralmente, parole sue, lo "disgusta".
Un referendum a risposta suggerita
Così come è disgustosamente truffaldino il quesito che ci verrà sottomesso. Roba del tipo "Sei a favore della riforma del sistema bicamerale che farà risparmiare sui costi della politica?" [1]. E come fai a dire di NO? Non vuoi forse risparmiare sui costi della politica? Peccato due cose. La prima, non formale ma sostanziale, è che eventualmente a quella conclusione ci dovevo arrivare io, in piena libertà. La seconda è che è una balla.
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Il Fallimento della Dottrina Militare Americana?
di Federico Pieraccini
Analizzare la crescente insoddisfazione dei generali statunitensi verso i vertici politici di Washington, permette di gettare una nuova luce sulla direzione in cui procede la macchina militare Americana. In particolare è interessante osservare la futura programmazione bellica nell’ambito delle forze di terra, mare, aria, spazio e cyberspazio
Terminata la guerra fredda le forze armate statunitensi si ritrovarono senza un vero e proprio avversario paritetico, decidendo quindi progressivamente di cambiare strategia ed investimenti in materia di guerra e conflitti. Passarono dal possedere una vasta forza numerica pronta a combattere avversari dello stesso livello (URSS), con una programmazione militare specifica, ad una strategia focalizzata su avversari ibridi (milizie o forze regolari) o di taglio inferiore (Iraq, Siria, Afghanistan, Jugoslavia, Libia). La forza militare degli Stati Uniti iniziava quindi a mutare programmazione e tattiche, assolvendo alle richieste dei nuovi inquilini della casa Bianca, i famigerati Neocon. Seguendo una dottrina militare incentrata sul concetto di mondo unipolare, miravano alla dominazione globale.
E’ da quando agli inizi degli anni 90’ i decisori politici (policy-makers) a Washington si prefissarono l’obiettivo utopico di egemonia planetaria, che le forze armate USA hanno dovuto espandersi per creare nuovi centri di comando (USAFRICOM, USNORTHCOM), oltre a quelli già esistenti (USEUCOM, USNORTHCOM, USPACOM, USSOUTHCOM, USSOCOM, USSTRATCOM, USTRANSCOM), dislocandoli in ogni angolo del pianeta.
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La società dei devianti nell’epoca della prestazione
di Gioacchino Toni
Piero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00
Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo attraverso le cliniche e, soprattutto, attraverso la chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM).
Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971) sostengono che la società considera “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi ed al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorre designarli, quanto più possibile, come “malati”. In tal modo il sistema della produzione può creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Rispetto agli anni ’70, sostiene Cipriano, “l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia” è diventata molto più sofisticata. Grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici si sono sostituti, od affiancati, nuovi metodi di internamento.
«Dovremmo essere consapevoli, sostiene lo psichiatra inglese Derek Summerfield, che l’ordine politico-economico trae vantaggio quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale. Da qui nasce l’ossessione, o la compulsione, o la pulsione, per la diagnosi che semplifica ogni cosa» (p. 14).
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