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Who is the Subject of Human Future?
di Andrea Cengia
In un articolo del 2004 Jacques Ranciere si chiedeva: «Who Is the Subject of the Rights of Man»[i]? Mi è venuto in mente quell’articolo pensando alla mobilitazione globale che il 27 settembre scorso ha portato a manifestare milioni di giovani in varie località del mondo[ii]. Va detto da subito che l’entità delle forze umane messe in campo è così significativa da non poter essere sottovalutata. Anzi essa rappresenta un auspicabile punto di partenza per un coinvolgimento delle giovani generazioni nei giganteschi problemi politici che attraversano il pianeta. Ed è su questo ultimo aspetto, ossia sulla dimensione politica della manifestazione, che ritengo occorra iniziare a riflettere. Queste poche righe non hanno l’ambizione di contenere un’ analisi strutturata del fenomeno, ma vorrebbero contribuire a delineare alcuni aspetti di questo processo, al fine di identificarne con maggiore precisioni limiti e possibilità.
Il punto sul quale credo occorra focalizzare l’attenzione è uno dei passaggi del discorso di Greta Thunberg nel quale l’attivista svedese, ha affermato che il futuro «was sold so that a small number of people could make unimaginable amounts of money. It was stolen from us every time you said that the sky was the limit, and that you only live once»[iii]. Si tratta di concetti che Greta aveva avuto modo di esprimere anche nel discorso al Senato italiano il 18 aprile 2019: «ci avete rubato il futuro»[iv]. E qui torna in mente Ranciere. Parafrasando il titolo di quell’articolo, credo che occorra chiedersi a chi si riferiscano i discorsi di Greta e di questa ondata ecologista quando evocano la dimensione collettiva del “noi”. Quindi: chi è il soggetto ‘noi’ dei Fridays for future? Sembra abbastanza chiaro che ad una prima considerazione il “noi” qui evocato si riferisca ad una dimensione generazionale: i giovani contro gli adulti, la società del futuro contro la società del presente, i giovani cittadini contro le élite politiche nazionali e internazionali.
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Scissioni e declino dei partiti politici: un problema di exit e voice?
di Eugenio Levi e Maurizio Franzini
L’uscita dal PD di Matteo Renzi e di un consistente drappello di parlamentari per far nascere Italia Viva ha, inevitabilmente, catturato nelle scorse settimane una speciale attenzione. Le caratteristiche personali dell’ex-presidente del Consiglio sono state spesso invocate per spiegare questa scelta scissionista. Non è certo il caso di negare che le caratteristiche personali contano, ma il fenomeno non è certo originale e, soprattutto, le sue cause sono complesse ed è difficile comprenderle senza affrontare il tema del declino dei partiti come organizzazioni politiche. Scopo di queste note è fornire una chiave di lettura del declino dei partiti e delle loro sempre più frequenti scissioni utilizzando le categorie di exit e voice, introdotte da Albert Hirschman e utilizzate proprio per spiegare il declino delle organizzazioni (A. Hirschman, Exit, voice and Loyalty, 1971).
Come è ben noto, secondo Hirschman se l’organizzazione non funziona in modo soddisfacente chi ne fa parte o utilizza i suoi servizi ha sostanzialmente due opzioni per manifestare la propria insoddisfazione. La prima è l’exit, cioè uscire dall’organizzazione cercando altrove quello che l’organizzazione non è in grado di offrire. Nei partiti politici, l’exit si traduce, anzitutto, nella riduzione del numero degli iscritti e dei voti, ma anche in vere e proprie scissioni come quella di Italia Viva, che rappresentano forme più organizzate di exit. L’altra opzione, la voice, racchiude tutte le possibili forme di protesta propositiva indirizzate a segnalare uno stato di insoddisfazione e a suggerire ai dirigenti come ritornare sulla “retta via”. Fra queste annoveriamo la dialettica fra maggioranza e minoranza negli organismi dirigenti del partito e la protesta degli iscritti veicolata attraverso le strutture locali.
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La riscrittura dei fatti e la realtà della storia
A proposito della mozione votata a Bruxelles
di Alexander Höbel
1. La mozione “sull’importanza della memoria” (un titolo davvero beffardo!) approvata dal Parlamento europeo coi voti di gran parte dell’emiciclo (compresi quasi tutti i rappresentanti del Pd, tra cui quel Giuliano Pisapia che come "criminali" comunisti contribuimmo a eleggere alla Camera nelle liste del Prc) costituisce un documento di estrema gravità, il cui significato non può essere sottovalutato.
Di fatto, nell’anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale, nella quale la barbarie nazifascista fu battuta anche e soprattutto grazie al contributo decisivo dell’Unione Sovietica, coi suoi circa 25 milioni di caduti e pagine epiche come la resistenza dei leningradesi a 900 giorni di assedio o la vittoria di Stalingrado, si anticipa la data di inizio del conflitto, che viene fissata al patto Molotov-Ribbentrop anziché all'aggressione tedesca contro la Polonia, il 1° settembre 1939 (solo dopo 16 giorni, l’Urss penetrò a sua volta in territorio polacco, evidentemente a scopo difensivo, ossia in reazione all’attacco hitleriano, che imponeva – può essere duro dirlo, ma è la concreta realtà storica – di non lasciare che le truppe tedesche dilagassero in tutta la Polonia giungendo ai confini dell’Urss, il che peraltro aveva costituito uno dei motivi del patto Molotov-Ribbentrop). Questa modifica della data di inizio del conflitto costituisce ovviamente un atto del tutto arbitrario, una vera e propria riscrittura della realtà di stampo orwelliano.
Ma se proprio dovessimo anticipare l’inizio della guerra a prima dell’avvio delle operazioni militari, allora perché non fissarne l'inizio alla Conferenza di Monaco del 1938 dove Gran Bretagna e Francia lasciarono mano libera a Hitler? O magari farla coincidere con l'Anschluss tedesco dell'Austria? O con l’annessione hitleriana dei Sudeti?
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Althusser: l'innocenza dell'avvenire
di Leo Essen
Nel febbraio del 1968 Louis Althusser partecipa al seminario di Jean Hyppolite con una comunicazione sul rapporto tra Hegel e Marx. I punti intorno ai quali ruota il suo discorso sono tre: 1) la lettura di Hegel (umanista) fatta da Feuerbach; 2) l'anti-umanesimo della dialettica di Hegel; 3) la teleologia della dialettica hegeliana.
Feuerbach ha avuto una grande influenza sui giovani radicali hegeliani. Li salvò dalle contraddizioni insolubili nelle quali erano immersi, fornendo loro una teoria dell’alienazione dell’uomo. Questa teoria ha avuto molto successo. Lukács la innestò sulle analisi sociologiche di Weber; e tale arrivò, tramite la Scuola di Francoforte, siano ad oggi.
Nell’Essenza del Cristianesimo, Feuerbach, dice Althusser, realizzò lo sforzo prodigioso di mettere fine alla filosofia classica tedesca, di buttar giù (più precisamente di «capovolgere») Hegel, l’ultimo dei filosofi, in cui si riassumeva tutta la sua storia, con un filosofia retrograda, in rapporto alla grande filosofia idealista tedesca. Con Feuerbach, dice, dal 1810 si ritornò al 1750, dal XIX secolo al XVIII secolo.
Ottenebrato dalla sua ossessione per l’Uomo e per il Concreto, Feuerbach immise in Hegel e nel suo sistema qualcosa che non c’era: l’Uomo.
Il sistema hegeliano, dice Althusser, non poggia assolutamente sull’Uomo, né sulla sua testa, né sui suoi piedi. Dunque, non si tratta di capovolgere Hegel, di riportare in Terra ciò che lui aveva messo in Cielo.
Come aveva osservato Hyppolite, dice Althusser, nulla è più estraneo al pensiero di Hegel di questa concezione antropologica della Storia. Per Hegel, dice, la Storia è certamente un processo di alienazione, ma questo processo non ha l’uomo come Soggetto.
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Tra Nietzsche e Auschwitz
di Salvatore Muscolino
Discutere di Adorno a 50 anni dalla morte significa discutere di un intellettuale decisamente fuori moda soprattutto perché la società è affetta oggi da uno specialismo sfrenato che è quanto di più lontano vi sia dall’idea che egli aveva dell’intellettuale e del sapere.
Protagonista indiscusso della prima generazione della Scuola di Francoforte, Adorno ha offerto contributi sul piano della critica musicale, su quello sociologico e filosofico che sono fondamentali per comprendere un’intera stagione della storia culturale europea ed Occidentale.
In questa occasione, la domanda alla quale vorrei provare a rispondere è se l’impianto categoriale del pensiero di Adorno sia ancora oggi valido considerato che la sua opera ha costituito e costituisce un punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro si richiamano alla grande eredità della Teoria critica: penso a Jürgen Habermas, Albert Wellmer, Axel Honneth fino ad arrivare agli esponenti più giovani come Rahael Jaeggi.
Lo scenario nel quale viviamo oggi è quello della cosiddetta postmodernità e quindi per una valutazione d'insieme del pensiero di Adorno è necessario interrogarsi su come egli si collochi rispetto a questo orizzonte culturale. Ad uno sguardo complessivo, credo che non sia azzardato considerare l’intera riflessione adorniana come un chiaro esempio del carattere “tragico” del pensiero filosofico dopo Nietzsche. È Nietzsche infatti il campione di quel “pensiero negativo” che attaccando la soggettività moderna e rifiutando qualsiasi mediazione razionale tra pensiero e mondo ha portato il logos filosofico ad esaurimento riducendolo sostanzialmente a “volontà di potenza”. Se il problema della filosofia contemporanea è il nichilismo, Nietzsche è colui che sostenendo la sconnessione di pensiero e realtà e riducendo tutto a “interpretazione” deve essere considerato il vero “profeta” della parabola del pensiero novecentesco verso il nichilismo.
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Il clima sta cambiando, i rapporti di sfruttamento no
di Enzo Pellegrin
Se mai ce ne fosse bisogno, le manifestazioni "istituzionali" di venerdì scorso hanno confermato un dato ambientale, sul quale gran parte del mainstream mediatico investe risorse di controllo dell'opinione da almeno venti anni. Il clima della Terra sta cambiando.
Lo confermano, in ordine di importanza: i governi più potenti del mondo, le organizzazioni governative, le cosiddette organizzazioni non governative, i governi allineati ai governi più potenti del mondo. Nel mazzo entra pure il governo italiano, il quale ha "istituzionalizzato" le manifestazioni per il clima con una circolare del Ministero della Pubblica Istruzione, la quale invitava i docenti ad accettare la giustificazione di assenza per la partecipazione al "Friday for Future". Ultime ma non meno importanti, le organizzazioni dei partiti governativi e filogovernativi, le quali hanno tentato di dirigere, attraverso le loro organizzazioni giovanili, le manifestazioni di venerdì.
Che il clima, ma non solo il clima, stia andando incontro a mutamenti derivanti dall'inquinamento dei metodi di produzione e di sviluppo economico, lo avevano in precedenza detto sia la comunità scientifica internazionale, sia una serie di personaggi che alle nazioni Unite avevano più volte parlato, senza che il mainstream mediatico avesse mai dato loro la dovuta eco.
Fidel Castro Ruz, nel 2007, nella piena esplosione di quello pseudoecologismo peloso che lodava la ricerca di carburanti alternativi al petrolio derivati da vegetali e mais, ricordava che
"L'energia è concepita come qualsiasi merce…La terra e i suoi prodotti, i fiumi, le montagne, le foreste ed i boschi sono vittime di una incontenibile rapina. I beni alimentari, ovvia - mente, non sono sfuggiti a questa infernale dinamica.
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Due o tre cose sul clima e i Fridays for Future
di Piero Pagliani
«Your ancestors did not end slavery by declaring an emergency … I vostri antenati non hanno posto fine alla schiavitù dichiarando un'emergenza e sognando soglie artificiali per il numero “tollerabile” di schiavi. Ma l'hanno chiamata per quello che era: un'industria incredibilmente profittevole, la base di buona parte della prosperità dell'epoca, fondata su una fondamentale ingiustizia. E' tempo di fare la stessa cosa per il cambiamento climatico.»
(Myles Allen: Why protesters should be wary of ‘12 years to climate breakdown’ rhetoric. Myles Allen è docente di Scienze Geosistemiche, Leader dell'ECI Climate Research Programme, Università di Oxford, autore del capitolo riguardante le previsioni sul cambiamento climatico globale dell'IPCC Fourth Assessment Report e coautore dello Special Report on Global Warming of 1.5ºC dello stesso IPCC)
Nutro non solo sospetti, ma ho una reale paura dei movimenti suscitati dall'alto. Perché in alto ci sono le élite e spesso, come ci ricordava con chiarezza Antonio Gramsci, queste élite sono abilissime a mimare le forme di mobilitazione popolari (“del proletariato”), e lo fanno esclusivamente per i propri interessi e, in subordine, dei ceti sociali ad esse afferenti.
Ho quindi paura del “fenomeno Greta Thunberg” (non della giovane Greta), proprio perché per me il fenomeno Greta Thunberg, cioè il bandwagon che si è costruito in tempi record sulla base delle sue primitive - e io penso genuine - intenzioni e azioni, è un prodotto progettato e impacchettato a freddo (si veda di Cory Morningstar, giornalista investigativa e ambientalista, The Manufacturing of Greta); un prodotto immediatamente utilizzato da alcuni settori delle élite che infatti sin da subito hanno richiesto e ottenuto che la giovane Pasionaria del clima fosse accolta laddove si celebrano alcuni dei loro riti più appariscenti: i media mainstream, parlamenti e capi di stato vari, il World Economic Forum di Davos, il papa, l'Onu.
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Territori estrattivi e politica dei morti viventi
Lo sviluppo capitalista nell'era della crisi ecologica
di Maura Benegiamo
[Anche in Italia, come nel resto d’Europa e del mondo, gli ultimi mesi hanno visto centinaia di migliaia di persone scendere in piazza contro il cambiamento climatico. Importanti sono state le piazze oceaniche di Fridays For Future il 15 marzo e quella dei comitati a Roma, il 23 dello stesso mese. Dopo il secondo Climate Strike del 24 maggio, oggi va in scena il terzo atto. Per comprendere le sfide che attendono il movimento globale per la giustizia climatica proponiamo il seguente testo di Maura Benegiamo, che parte da una riflessione presentata al convegno Ambientalismo Operaio e Giustizia Climatica tenutosi presso il Centro Studi Movimenti di Parma il 14 giugno 2019. (el)]
1. L’astrazione è sempre estrazione
La connessione tra crisi ambientale e crisi economica che ha caratterizzato il panorama globale negli ultimi anni si è tradotta in un’intensificazione dei processi di mercificazione e sfruttamento applicati al mondo naturale. L’epoca post-fordista è stata caratterizzata da intense trasformazioni del lavoro e dei processi di sussunzione. Le logiche che hanno sotteso tali trasformazioni si sono estese al di là della produzione umana, implicando anche una trasformazione delle relazioni tra capitale e natura. In particolare, il crescente trasferimento sull’ambiente dei costi e delle funzioni della riproduzione sociale ha reso le funzioni riproduttive dell’universo non-umano – e la conseguente codificazione dei processi biologici – un elemento centrale nello sviluppo del capitalismo. In questo modo, le più recenti forme di captazione del valore, incentrate sulle dimensioni apparentemente più immateriali o cognitive della produzione ed attente a processi di cattura e monetarizzazione dei flussi di informazioni e di conoscenza, sono state applicate all’ampliamento delle dinamiche di estrazione e sfruttamento della natura (e dei corpi). Le stesse enclosures e la mercificazione della natura sono venute così ad articolarsi con i nuovi processi di accumulazione.
In questo contesto, le derive ecologiche che hanno contribuito alla crisi del modello fordista possono essere riviste alla luce dei nuovi saperi ambientali e del progresso tecno-scientifico, che però a loro volta sono serviti a costituire una specifica grammatica ad uso della governance neoliberista. Tutti questi processi si accompagnano infatti a politiche di sfruttamento intensivo dei territori ed estrazione delle risorse che sostengono traiettorie differenziali di inclusione ed esclusione.
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Mao nella metropoli
di Roberto Sassi
In preparazione dell’iniziativa del prossimo 3 ottobre a Roma, organizzata dalla RdC, sui “70° anniversario della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese e, più compiutamente come contributo alla discussione su questo importante snodo storico/teorico e politico, pubblichiamo l’introduzione alla terza edizione del libro di Mao Tse-tung, Ribellarsi è giusto!, Ed. Gwynplaine, 2013 (una raccolta di scritti di Mao Tse tung curata dal compagno Roberto Sassi che sarà un relatore all’iniziativa del 3/10 a Roma)
Il vento non si ferma neanche se gli alberi vogliono riposare
Mao Tse-tung, 2 giugno 1966.
Una montagna di menzogne ci opprime, una filosofia dell’irreversibile e dell’ineluttabile vuole imporci l’accettazione incondizionata dello stato di cose presente. La Storia ci chiude la bocca, curva le nostre spalle. E son sempre di più quelli che, stanchi di cercare l’ago nel pagliaio, cominciano a pensare che la paglia non è poi tanto male…
Tempi bui, davvero tempi bui: tempi di disastri e stragi, tempi di tirannia.
Il Nuovo Ordine Mondiale Imperialista, dopo aver celebrato i suoi fasti, è precipitato in una crisi di sistema senza precedenti.
Il mercato ha regolato tutti i conti, a modo suo, ma i conti non tornano.
È tempo di incominciare la Rivoluzione.
Per questo Mao Tse-tung è attuale, oggi più che mai. Di più, il pensiero di Mao è indispensabile a chi non vuole arrendersi alla morte delle intelligenze, dei corpi e della natura.
Il pensiero di Mao, “roba da scemi, da gruppetti folklorici e settari, ormai sepolti in un un passato di vergogna di cui è OBBLIGATORIO pentirsi”. Chi ci dice questo altro non ci propone se non sfruttamento, inquinamento e guerra – l’orizzonte insuperabile del dominio del capitale.
Vogliono imporci un “sì” convinto, o perlomeno rassegnato. Mao ci insegna a dire “no”.
Se una montagna di menzogne ci opprime, solo con la tenace follia di Yu Kung potremo liberarcene.
Solo con gli occhi del vecchio pazzo possiamo vedere, nell’ora più buia, l’approssimarsi dell’aurora.
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Il "nuovo"ESM, tra la vecchia soluzione del "trattamento Grecia" e la sfida tedesca all'Ital€xit
di Quarantotto
1. Il quadro generale della congiuntura italiana nei suoi possibili sviluppi di breve e medio termine.
Cerchiamo di approfondire l’evoluzione della situazione italiana dentro l’eurozona all’incirca nei prossimi due anni (indicativamente). E cioé, appunto, entro un breve periodo in cui si acutizzino i fattori recessivi esogeni (crisi strutturale e geopolitica, - cioè neo-multilaterale-, della globalizzazione asimmetrica) e endogeni all’eurozona (ulteriore consolidamento fiscale, pro-ciclico, determinato dagli obiettivi di pareggio strutturale di bilancio derivanti dal modo in cui viene calcolato l’output-gap dal working group che supporta le prescrizioni impartiteci dalla Commissione Ue).
Nell’appunto sull’applicazione dell’art.65 TFUE, la situazione italiana (attuale) viene riassuntivamente così descritta :
L’Italia attualmente si trova:
a) impossibilitata comunque a promuovere politiche di crescitadi c.d. “piena occupazione” (effettiva), e anzi obbligata, dal fiscal compact e dalle sue linee guida applicative (qui, p.3), a perseguire un aggiuntivo e forte consolidamento fiscale, induttivo di una probabile recessione che si aggiunge alla forte stagnazione “esogena” attualmente in corso;
b) impossibilitata, di conseguenza, anche a svolgere le politiche anticicliche(qui, pp. 5-8) la cui necessità e urgenza si manifesta a causa della fase di stagnazione-recessione in cui, anzitutto, la Germania si trova, “trascinando”, di conseguenza anche il nostro sistema produttivo che ne è divenuto, per notori motivi, strettamente dipendente;
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Governo italiano e mondo: incominciano a cadere le foglie
di Piotr
Con il nuovo esperimento di governo, così stravagante in termini politici ma benedetto da Bruxelles, Parigi e Berlino, l'Europa sta riconsiderando le sue relazioni approfittando della debolezza USA?
1) Cadono le foglie nazionali
Lo scisma renziano ha svelato uno dei motori che fanno e faranno funzionare, o funzionicchiare, il governo Conte bis: le poltrone (“Ops! Gli 'incarichi'”, direbbe Lucia Annunziata sorniona).
Un governo come si deve, un governo che meriti rispetto, si deve basare su un accettabile programma e su un'accettabile base etica, dove per “etica” non bisogna intendere la “morale” ma ciò che tiene insieme una comunità, dà ad essa valori di base condivisi e un orizzonte comune (si parla di un governo non rivoluzionario, ovviamente, ma anche un governo rivoluzionario deve fare i conti con la tenuta della comunità).
Avete notizia di un qualche programma di questo governo, a parte espressioni così vaghe che potrebbero essere formulate da un qualsiasi adolescente (tipo “più attenzione all'ecologia”, “crescita”, “giustizia sociale”)?
E in quanto ad etica, che spettacolo danno forze politiche che per anni si sono insultate nei modi peggiori, che fino ad un attimo prima dicevano “Mai con quello! Mai con questo!” e un attimo dopo si sono avviluppate sotto le lenzuola?
“Mai coi 5 Stelle!” urlava Renzi. “Alleanza subito coi 5 Stelle!” urlava un nanosecondo dopo in vista della sua scissione e dei vantaggi che poteva trarre da tutto ciò.
“Mai con Renzi”, urlavano i 5Stelle. Ma ora Renzi sta formando rapidamente la terza gamba del Conte bis (già iniziano i travasi da Forza Italia in Italia Viva). E la terza gamba - o quarta se intendiamo Conte come una gamba a sé - siederà a tutti i tavoli, per forza, e i 5Stelle siederanno agli stessi tavoli, per forza. Di Renzi si può dir tutto, ma non che non sia un animale politico (anche se non nel senso più nobile del termine).
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Quantitative Easing: la lotta di classe al tempo dello spread
di coniarerivolta
Nel Consiglio Direttivo di settembre la Banca Centrale Europea (BCE) ha deciso di riprendere il programma di acquisti netti di titoli finanziari (Asset Purchase Programmes) meglio noto come QE, ovvero il famigerato Quantitative Easing. Con il QE la banca centrale espande la liquidità a disposizione del sistema economico con lo scopo dichiarato di ripristinare il corretto meccanismo di trasmissione della politica monetaria: si suppone che la liquidità immessa allenti le tensioni sui mercati finanziari e consenta dunque all’economia reale di tornare sui binari della crescita. La banca centrale inonda il sistema di liquidità acquistando titoli finanziari, in prevalenza titoli di Stato dei paesi dell’area euro: tramite questi acquisti, i titoli finiscono nella pancia della banca centrale mentre il denaro, il prezzo pagato per acquistare quei titoli, entra nel sistema economico.
Attraverso questo meccanismo, la BCE ha introdotto nell’economia europea tra i 60 e gli 80 miliardi di euro ogni mese dal marzo 2015 al dicembre scorso, quando il programma di acquisti netti è stato provvisoriamente concluso, nell’ipotesi che tre anni di stimoli monetari fossero stati sufficienti a rivitalizzare il sistema finanziario e produttivo dell’area euro. Invece, il primo semestre del 2019 ha mostrato evidenti segni di stagnazione, con la produzione in calo persino nel cuore pulsante dell’Europa, in Germania, e l’inflazione al di sotto delle aspettative. Insomma, gli effetti positivi del QE sull’economia europea non si sono mai visti, nonostante la massiccia iniezione di liquidità messa in atto dalla BCE a partire dal 2015. Il Presidente della BCE, Mario Draghi, ha sostanzialmente ammesso questo fallimento, ma ovviamente ne imputa ad altri la responsabilità: secondo Draghi la politica monetaria sta facendo tutto ciò che è in suo potere per rilanciare l’economia europea, ma senza un briciolo di politica fiscale espansiva da parte della Germania diventa impossibile evitare il baratro di un’altra recessione.
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Where’s the Revolution? Who’s making your decisions?
di Francesco Cappello
Il rituale del venerdì e dello “sciopero globale” va riempito di tutti quei contenuti che risultano, non a caso, generalmente rimossi. Tutto è connesso a tutto
Bisogna aiutare i nostri figli/studenti a vedere ciò che è loro sistematicamente celato.
Non hanno gli strumenti per farlo autonomamente. Materie essenziali allo scopo sono state rimosse dai loro piani di studio. La didattica per “competenze“ tenta ormai di sostituirsi a quella per contenuti.
Nella scuola che frequentano anche il linguaggio convoglia l’ideologia aziendalistica. Non si danno più voti ma “debiti” e “crediti” mentre le micro e piccole imprese reali vengono lasciate al loro destino soffocate da un’enorme imposizione fiscale.
Vi si pretende di dare valutazioni e giudizi indiscutibili (digitali) che deresponsabilizzano i docenti. Anche una macchina può “correggere” una verifica nel formato “quiz invalsi“ e dare una valutazione scaturente dalla applicazione di insindacabili criteri, codificati in una “griglia“ (algoritmo valutativo) preventivamente predisposta. Allo studente è chiesto di mettere una crocetta (la stessa con cui si firmano gli analfabeti) nella casella giusta. La tendenza è quella di rendere maggioritarie questo genere di verifiche a discapito delle prove orali e di quelle scritte tradizionali.
Le prove invalsi ci “suggeriranno” quali argomenti trattare, con quali modalità e quali trascurare. Le interrogazioni orali e scritte saranno sempre più sostituite da idiote quanto mortificanti gare a quiz già candidate all’utilizzo per l’ammissione a esami di Stato, peraltro continuamente cangianti anche nel corso dell’anno scolastico, come accadde l’anno scorso.
Non più il/la preside ma un dirigente (d’azienda), scolastico amministratore delegato con sempre più responsabilità, all’interno di una organizzazione in cui sono in pochi (il Consiglio di Istituto) ad avere l’ultima parola. Il Collegio Docenti, per molti aspetti importanti, ha ormai solo potere propositivo; d’altronde, la propaganda propone che anche il Parlamento nazionale sia da considerare uno “strumento desueto».
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Noi vogliamo l'uguaglianza
di Marino Badiale
I. Introduzione
Nella stagione politica appena trascorsa, un tema di acceso dibattito è stato quello della riforma delle norme relative a separazioni e affidi, riforma proposta col DDL 735, poi divenuto mediaticamente noto come “DDL Pillon” dal nome del Sen. Simone Pillon, il personaggio politico più noto fra i sostenitori del DDL. La caduta del governo Lega-M5S ha cancellato questo tema dall’agenda politica. Può darsi che, appunto per questo, sia possibile adesso una riflessione più serena su questi temi, una riflessione che si distacchi dall’urgenza di attaccare questo o quel partito, questo o quell’esponente politico, e cerchi di andare alla radice dei problemi.
Non è facile discutere di questo tema. Uno degli elementi di difficoltà sta nel fatto che il problema è piuttosto serio e in certi casi anche drammatico, ma è in sostanza ignoto all’opinione pubblica, principalmente perché esso non gode di molto spazio sui media, che ne parlano solo in riferimento a casi particolarmente drammatici. Cerchiamo allora di riassumere i punti fondamentali.
È noto che, a partire dall’introduzione in Italia dell’istituto del divorzio, negli anni Settanta, le cause di separazione, in presenza di figli, sono state risolte, nella stragrande maggioranza dei casi, secondo lo schema per cui i figli venivano “affidati” alla madre, mentre il padre versava un contributo economico (i cosiddetti “alimenti”) e vedeva i figli a intervalli variabili a seconda dei casi ma, nella grande maggioranza dei casi, senza continuità. Questa organizzazione rifletteva naturalmente l’organizzazione famigliare tradizionale, secondo la quale la madre si occupa dei figli e il padre porta i soldi a casa: si tratta, con ogni evidenza, della traduzione di quest’ultimo schema nella nuova situazione della separazione/divorzio. Si tratta di una organizzazione che era sempre meno adeguata alla direzione verso la quale si stava evolvendo la famiglia, segnata dalla tendenza ad una maggiore uguaglianza fra i genitori nell’ambito della gestione della vita domestica e in particolare dei figli.
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Questione ambientale e movimenti studenteschi
di OSA - Opposizione Studentesca D'Alternativa
Il clima della Terra con l’aumentare della temperatura globale sta cambiando ad una velocità spaventosa, portando alla scomparsa di alcuni ecosistemi, allo scioglimento dei ghiacci e all’innalzamento dei mari, che rischia addirittura di sommergere (ad esempio in Polinesia) interi stati nel giro di 50/100 anni. Il riscaldamento globale è incrementato consistentemente dagli effetti delle attività umane, e in particolare della deforestazione, del consumo di acqua e dell’inquinamento.
Tutte queste sono attività che l’uomo svolge da 13.000 anni, ma che hanno assunto proporzione così rilevante dalla nascita dell’industria alla fine del XVIII secolo. Da allora la popolazione mondiale è cresciuta di 8 volte e si è moltiplicata la produzione di qualunque bene di consumo. L’industria produce però scorie; per fare l’esempio più noto e lampante è ancora oggi fondata sulla combustione di fossili, che libera nell’aria anidride carbonica, uno dei cosiddetti “gas serra” alla base del riscaldamento globale, che catturano i raggi solari limitandone la riflessione.
Inoltre l’industria richiede un’enorme quantità di materie prime, inclusa l’acqua dolce che ricordiamo essere presente in quantità limitata sul pianeta. I nuovi materiali plastici e gli agenti chimici utilizzati in agricoltura creano un ulteriore problema di inquinamento duraturo causato tanto dalla loro dispersione quanto dalla produzione, e uniti all’inquinamento atmosferico dovuto alle polveri sottili causano la morte in massa e la malattia di numerose specie animali, tra cui l’uomo.
Nel suo continuo bisogno di incrementare la produzione di merci, il capitale è spinto alla ricerca perenne di nuove risorse, talvolta distruggendo ecosistemi unici.
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Sulle rotte della Nuova Via della Seta
conversazione con Diego Angelo Bertozzi
Oggi l’Osservatorio presenta un’ampia conversazione avuta con l’analista Diego Angelo Bertozzi (Brescia, 1973), tra i maggiori esperti italiani della Cina e della Nuova Via della Seta. Sull’Impero di Mezzo Bertozzi ha pubblicato i saggi “Cina, da sabbia informe a potenza globale” (Imprimatur, 2016), “La Belt and Road Initiative” (Imprimatur, 2018) e “La Nuova Via della Seta. Il mondo che cambia e il ruolo dell’Italia nella Belt and Road Initiative”, uscito da pochi giorni per i tipi di Diarkos. Sui temi trattati nell’ultimo suo lavoro e, in generale, nella sua lunga carriera di studioso della Cina abbiamo voluto confrontarci con una delle voci più autorevoli nella comprensione delle dinamiche della potenza in maggiore ascesa su scala globale.
* * * *
Osservatorio Globalizzazione: Dottor Bertozzi, nei suoi lavori lei ha fornito validi spunti per la comprensione delle dinamiche della politica cinese e delle strategie per il suo rafforzamento. Quali sono, attualmente, le prospettive per Xi Jinping e il suo governo.
Diego Angelo Bertozzi: Il prossimo 1° ottobre Pechino festeggerà il settantesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare e, quindi, della vittoria della rivoluzione socialista e della lotta di liberazione nazionale. Si tratta di un anniversario molto atteso perché destinato a celebrare l’ascesa della Cina a vera e propria potenza globale dopo un processo, anche contraddittorio e difficoltoso, di crescita impetuosa che ha cancellato il “secolo delle umiliazioni”. Credo che ci siano pochi dubbi a proposito: Xi Jinping e il suo governo possono mostrare all’opinione pubblica mondiale la realizzazione concreta del messaggio lanciato da Mao nell’ottobre del 1949: “la Cina si è levata in piedi”.
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Il pesante fardello dell’uomo bianco. I
Diritti umani e democrazia. La Repubblica Popolare Cinese contro l’imperialismo americano
di Gianbattista Cadoppi
Take up the White Man's burden —
Send forth the best ye breed —
Go bind your sons to exile
To serve your captives' need;
To wait in heavy harness,
On fluttered folk and wild —
Your new-caught, sullen peoples,
Half-devil and half-child.
..........
Take up the White Man's burden —
The savage wars of peace —
Rudyard Kipling
Il pesante fardello dell’uomo bianco è quello di portare ai popoli incivili, per metà diavoli e per metà bambini, la vera fede, la civiltà, la democrazia dovendo, ahimè, combattere le “guerre selvagge” della pace. Ma coloro che abbiamo salvato dalla barbarie siamo sicuri che lo volessero? Siamo sicuri che la loro fosse “barbarie”, siamo sicuri che i nostri popoli siano quelli del “Manifest Destiny”, che Dio ci abbia destinato una missione? Siamo davvero in missione per conto di Dio come dicevano i Blues Brothers? Ma loro non facevano particolari danni e il prezzo era che qualche nazista dell’Illinois finisse a bagno dentro al fiume.
Certo che questa nostra voglia di portare la civiltà agli altri ha avuto anche qualche vittima per i danni collaterali. Quando ci sono milioni di morti una cosa è sicura: questi morti non potranno mai usufruire degli “immensi benefici” della democrazia, della libertà e dei frutti della “civiltà” occidentale. E le vittime? Gore Vidal afferma che i milioni di filippini morti (forse tre milioni) sono stati generalmente rappresentati come danni collaterali di una rivolta contro l’Impero americano.
Perché cito Vidal? Perché la poesia di Kipling fu scritta a sostegno dell’invasione da parte degli Stati Uniti delle Filippine nella guerra ispano-americana (definita splendid little war) iniziata nel 1898 il cui pretesto fu l’affondamento della USS Maine.
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The Great Green Capitalism Swindle
di Sandro Moiso
Julien Temple nel 1980, con il film The Great Rock’n’Roll Swindle, ci aveva informati, in maniera irriverente e trascinante, del fatto che non solo la musica pop con tutto il suo circo mediatico e mercantile, ma anche il fenomeno punk, apparentemente così trasgressivo e diverso come nel caso degli iconici Sex Pistols, altro non fosse che una ben congegnata truffa ai danni dei giovani consumatori. Anche di quelli più radicali nei gusti e nei comportamenti.
Oggi la grande truffa è diventata green, verde come quel capitalismo che in nome della propria sopravvivenza finge di rinnovarsi affinché nulla realmente cambi, sia nel suo devastante rapporto con l’ambiente che nei rapporti di classe, dominio e sottomissione che le sue regole economiche da sempre sottendono.
Greta Thunberg è sicuramente un personaggio ispiratore di grande simpatia e i giovani che si sono mossi dietro di lei e con lei sicuramente hanno molto a cuore il destino di questo pianeta e della nostra specie. Ma il discorso sulla casa comune, come ho già affermato la settimana scorsa proprio su Carmilla (qui), rimane profondamente inficiato dal fatto che in una società divisa in classi c’è ben poco in comune tra chi sta in alto (pochi) e chi sta in basso (la maggioranza, soprattutto nelle aree esterne all’Occidente o ai paesi del G dai vari numeri che lo accompagnano a seconda delle occasioni). Molto spesso, infatti, mentre le case di molti bruciano o vengono travolte dal fango o da altri disastri naturali (dall’Amazzonia a New Orleans fino ai nostri Appennini), in altre case si festeggia: non lo scampato pericolo come sarebbe lecito supporre, ma il guadagno che tali disgrazie altrui possono portare nelle tasche di pochi fortunati.
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Un target da centrare (prima che sia troppo tardi)
di Francesco Cappello
È noto come l’export tedesco sia pari alla metà del Pil della Germania. Aver puntato tutto sulle esportazioni rende oggi l’economia tedesca fragile, a causa, ad esempio, della rapidissima diffusione dei dazi che hanno fatto crollare le esportazioni. Si pensi, in particolare, al mercato delle auto verso la Cina. Lo scorso giugno, le esportazioni tedesche sono scese dell’8% rispetto all’anno precedente con tendenza al peggioramento.
La Ue, complessivamente, è in surplus rispetto al resto del mondo. È il mercantilismo a connotare la politica economica dei paesi dell’eurozona. Il suo strumento principale essendo l’ordoliberismo.
Nell’area euro, pur di risultare in surplus rispetto al mondo (esportiamo più di quanto non si importi), non si è esitato a operare svalutazioni interne, che mantenendo bassi salari e stipendi, distruggendo lo stato sociale, limitando il più possibile gli investimenti pubblici, accettando un equilibrio di sottoccupazione, hanno penalizzato i mercati interni dei singoli paesi europei; tutto al fine di vincere la competizione, producendo merci capaci di imporsi sui mercati grazie all’alto rapporto qualità prezzo raggiunto.
Il mercato interno europeo si sta ridimensionando pericolosamente a causa della deflazione imposta dall’euro. Anche la crescita dell’export italiano è stata realizzata al ribasso, nel tentativo di ovviare alla fissità del cambio imposta dalla moneta unica, che ha impedito le fisiologiche svalutazioni e rivalutazioni, consentendo accumuli patologici di attivi e passivi delle bilance commerciali europee (i saldi che i paesi in surplus hanno accumulato registrati dal sistema dei pagamenti europeo, Target 2, ammontano a circa mille miliardi di euro, di cui 800 tedeschi!). I conseguenti spostamenti criminali di capitali, dai paesi in surplus a quelli in deficit, atti a profittare della situazione, fino a ridurre in povertà estrema questi ultimi (esemplare il caso della Grecia), costretti a ridurre a zero il loro stato sociale, svendere i loro patrimoni pubblici, asset, i fattori stessi della produzione ecc..
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I dilemmi di un’autonomia difficile: la cultura tra economia e politica
Intervista a Carlo Galli
Giacomo Bottos, Lorenzo Mesini, Francesco Rustichelli intervistano Carlo Galli
Con questa intervista vorremmo approfondire la questione dei nessi tra cultura, politica ed economia. Iniziamo col constatare come il nesso tra cultura e politica appaia oggi in crisi, mentre da più parti si pone l’accento sul legame tra cultura e mondo economico. Un rapporto che si declina sia in termini di ‘utilità’ della cultura – e quindi di giustificazione dell’investimento in cultura – sia di una concezione della cultura intesa come attività economica in senso stretto. Essa deve rivendicare una propria autonomia? Al tempo stesso sembra necessario che essa entri in relazione con queste sfere. Quali sono le forme specifiche in cui questo può avvenire?
Dobbiamo guardarci dal rischio di reificare la cultura, anche solo definendola ‘cultura’ come se fosse un ambito a sé stante, completamente autonomo e composto da specifiche pratiche. In realtà la cultura è il modo con cui l’uomo sta nel mondo. Vi sono dunque infinite gamme di cultura, dalla costruzione di utensili primitivi fino alla creazione della Cappella Sistina. Quando diciamo cultura oggi, però, intendiamo di solito forme di elaborazione particolarmente sofisticate, non immediatamente volte all’utilità o, se volte all’utilità, finalizzate anche a trascendere l’utilità stessa. Attenendoci a questa definizione ristretta di cultura ci troviamo di fronte a forme di elaborazione, costruzione, rappresentazione e narrazione che si confrontano con canoni prefissati – adeguandosi ad essi o superandoli – compiendo una serie di operazioni che trascendono l’orizzonte immediato.
Partendo da questa riflessione comprendiamo facilmente che nella produzione di cultura in una qualche dimensione – prima, dopo, davanti, dentro – deve darsi anche una produzione di utilità. L’utilità può essere intrinseca all’oggetto: un tempio, ad esempio, è allo stesso tempo utile e bello.
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La solitudine dell’agente rappresentativo
Eterogeneità e interazione per una nuovamacroeconomia
di Giovanni Dosi e Andrea Roventini*
Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio
Abstract:La Grande Recessione è stata un esperimento naturale per la macroeconomica, mostrando l’inadeguatezza della teoria dominante basata sui modelli DSGE. La macroeconomia dovrebbe considerare l’economia come un sistema complesso in evoluzione, cioè come un’ecologia popolata da agenti eterogenei, che interagiscono fuori dall’equilibrio cambiando continuamente la struttura stessa del sistema.Quindi, la macroeconomia non può ridursi alle scelte micro di un agente rappresentativo, ma le complesse interazioni tra gli agenti portano all’emergenza di nuovi fenomeni e strutture gerarchiche a livello macro. Questo è alla base dei modelli ad agenti eterogenei, che offrono una nuova metodologia per modellare economie complesse “dal basso”, con microfondazioni in linea con l’evidenza empirica.
Il dibattito tra Emiliano Brancaccio e Olivier Blanchard si colloca nella più ampia discussione sulla crisi e possibile rifondazione della teoria macroeconomica scaturita dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla Grande Recessione (Blanchard e Summers, 2019; Brancaccio, 2019; Blanchard e Brancaccio, 2019). I due autori, in modi più o meno espliciti, affrontano temi sia teorici che di politica economica. Per Emiliano è necessario un paradigma economico alternativo rispetto a quello fondato sull’equilibrio economico generale e l’agente rappresentativo che permetta di slegare la produzione dalla distribuzione del reddito. Tale paradigma dovrebbe ri-basarsi sui contributi classici di Marx, Sraffa, Pasinetti, Garegnani e molti altri. Olivier discute cinque lezioni o sfide che la macroeconomia deve affrontare e le implicazioni per la politica monetaria e fiscale. Entrambi partono da un’ispirazione teorica keynesiana: dopo la crisi, gli economisti che credono ‘talebanamente’ nelle magnifiche sorti e progressive del libero mercato sono diventati dei panda (i cui problemi riproduttivi non andrebbero peraltro curati).
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Non è una festa
di Andrea Zhok
Ieri vaste manifestazioni di matrice ecologista, in Italia e nel mondo, hanno suscitato impressione e grandi entusiasmi. Vedere tante persone, soprattutto giovani, mobilitarsi in massa per qualcosa di importante, qualcosa che va al di là delle immediatezze e superficialità di cui siamo prigionieri, è uno spettacolo confortante.
Francamente delle nuove generazioni è giusto temere chi si rimbecillisce davanti a uno schermo, chi fa a gara di selfie o chi si perde dietro a gadget e capetti firmati, ma non quelli che alzano la testa per guardare al di là del proprio presente individuale.
Dunque credo che l’attuale movimento vada accolto con apprezzamento, e anche se non mancano espressioni ingenue e talvolta semplicemente sciocche, bisogna ricordare che questo è fatale in ogni movimento di massa, e lo è sempre stato.
Ciò che però è importante capire, davanti alle usuali espressioni festose e ridenti, da scampagnata inattesa, è che il problema in oggetto è assai lontano dall'essere l'occasione per una festa.
1. I dubbi
I dubbi degli scettici verso questo movimento non sono privi di senso, per quanto spesso si appuntino su questioni irrilevanti (come le vicende biografiche della nota ragazzina svedese).
Il primo, fondato, dubbio nei confronti di questo movimento sta nel fatto di essere apparentemente sostenuto da quello stesso apparato capitalistico che è all’origine dei problemi ecologici. I sorrisi di capi di stato che invocano ulteriore crescita come unica soluzione, e il plauso di industrie private la cui moralità si risolve nel distribuire cedole corpose ai propri azionisti, sono indici assai sospetti.
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Scuola: un tema nelle mani di un gruppetto di “specialisti”?
di Lucio Russo
Ripubblichiamo di seguito la recensione di Lucio Russo al volume di Ernesto Galli Della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola. Il titolo con il quale pubblichiamo lo scritto è stato scelto dalla Redazione di Roars. Il testo è originariamente apparso su Anticitera. [NdR]
Il dibattito sulla scuola, che attrae di solito molta meno attenzione di quanto meriterebbe, si è arricchito di recente di questo interessante contributo di Ernesto Galli della Loggia, che è allo stesso tempo un saggio abbastanza documentato sulla storia della crisi della scuola italiana e un pamphlet in cui le idee dell’autore sul tema (ma anche sulla politica italiana e sulla cultura in generale) sono esposte con il consueto vigore.
Tra le tesi esposte in questo libro condivido innanzitutto l’affermazione del ruolo centrale svolto dalla scuola nella vita degli Stati in generale e, in particolare, nell’Italia postunitaria. Scrive Galli della Loggia (p.14):
[…] nei decenni successivi all’Unità, mentre l’analfabetismo veniva sia pur lentamente riducendosi, furono essenzialmente l’istruzione superiore e l’università a fornire alla giovane nazione le élite necessarie alla sua crescita. E fu così che, già dalla fine dell’Ottocento, l’Italia poté contare su ottimi ingegneri, matematici illustri, filologi, medici ed economisti di vaglia. Le prime reti moderne che si videro nella Penisola – quella ferroviaria e quella dell’elettricità – furono realizzate in larghissima misura da persone formatesi nella scuola italiana.
In questo brano sono implicitamente individuati due fini della scuola: l’elaborazione e trasmissione di competenze tecniche utili nel lavoro e la formazione delle élite. Galli della Loggia sottolinea però giustamente che la scuola deve innanzitutto e soprattutto avere un altro fine: preparare alla vita, dotando i giovani (tutti i giovani per i quali è possibile farlo) di una cultura generale che permetta loro di uscire dalla propria particolarità e di mettersi in relazione con il mondo passato e presente, con tutti i suoi pensieri, i suoi protagonisti e i suoi fatti, raggiungendo così una pienezza di vita altrimenti impossibile (p. 12).
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L'altro Marx
Perché il Manifesto Comunista è obsoleto
di Norbert Trenkle (Krisis)
1 -
È almeno a partire dalla crisi finanziaria del 2008 che Karl Marx viene di nuovo riconosciuto, abbastanza giustamente, come altamente attuale. I suoi nuovi e vecchi amici, ad ogni modo, si sono concentrati su quella parte della sua teoria che è ormai da lungo tempo superata: la teoria della lotta di classe tra la borghesia ed il proletariato. Diversamente, l'«altro Marx», quello che ha criticato il capitalismo in quanto società basata sulla produzione generale di merci, sul lavoro astratto, e sull'accumulazione del valore, ha ricevuto ben poche attenzioni serie. Ma invece è proprio questa parte della teoria di Marx che ci permette di analizzare adeguatamente la situazione attuale di quello che è il sistema capitalistico globale ed il suo processo di crisi. La teoria della lotta di classe, al contrario, non contribuisce in alcun modo alla nostra comprensione di quello che sta attualmente accadendo, né è in grado di riuscire a formulare una nuova prospetta di emancipazione sociale. Per tale ragione, bisogna dire che oggi il Manifesto del Partito Comunista è obsoleto, e conserva solo un valore storico.
2 -
Ad una prima occhiata, tutto ciò può sembrare sorprendente. A leggere, estrapolandoli, alcuni passaggi del Manifesto suonano come se fossero delle diagnosi altamente attuali del nostro tempo. Ad esempio, quando Marx ed Engels scrivono che la borghesia, nella sua incessante urgenza di espandersi, ha «dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi» e «ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale» (Marx/Engels 1848), questo si legge come una diagnosi in anticipo di quella che sarà la cosiddetta globalizzazione.
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La teoria marxista dello Stato socialista e del diritto
di Mario Cermignani
Il concetto di “democrazia socialista” e la funzione delle regole giuridiche in Marx, Lenin e nell'ottobre 1917
Processo rivoluzionario, questione della proprietà e Stato socialista. La visione marxista ed il ruolo del Partito comunista
Alla base della teoria marxista dello Stato vi è la contraddizione ultima ed insanabile (che, nella logica “dialettica” del reale, costituisce il fondamento oggettivo della necessaria e razionale evoluzione socialista del processo storico) fra sviluppo delle forze produttive della società e rapporti di produzione/proprietà capitalistici: cioè l'inconciliabile contrasto, scoperto dalla scienza marxista, tra l'oggettiva e progressiva “socializzazione” (interconnessione/correlazione/interdipendenza generale e “collettiva”) della produzione, della capacità e dei processi lavorativi, da un lato, e, dall'altro, i rapporti di appropriazione “privata”, da parte di una esigua minoranza dell'umanità, del prodotto sociale generato dal medesimo lavoro collettivo.
Sul punto è illuminante Lenin, in “Che cosa sono gli amici del popolo”:
“Le cose vanno in un modo del tutto diverso quando si giunge, grazie al capitalismo, alla socializzazione del lavoro. (…) Ne risulta che nessun capitalista può fare a meno degli altri. E' chiaro che il detto 'ognuno per sé' non è più applicabile in nessun modo ad un simile regime: qui oramai ognuno lavora per tutti e tutti lavorano per ciascuno (…). Tutte le produzioni si fondono in un unico processo sociale di produzione, mentre ogni produzione è diretta da un singolo capitalista, dipende dal suo arbitrio, e gli dà i prodotti sociali a titolo di proprietà privata. Non è forse chiaro che la forma di produzione entra in contraddizione inconciliabile con la forma dell'appropriazione? Non è forse evidente che quest'ultima non può non adattarsi alla prima, non può non divenire anch'essa sociale, cioè socialista?”.
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