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L'intelligenza in lotta
Su Hans-Jürgen Krahl
di Mimmo Sersante
L’intelligenza in lotta è il titolo di alcuni testi di Hans-Jürgen Krahl, tratti da Costituzione e lotta di classe del 1971, di recente riproposti dalla casa editrice ombre corte. In questo articolo Mimmo Sersante non si limita a una recensione del nuovo volume, ma ripercorre i tratti centrali del pensiero e della prassi del militante tedesco, il suo atipico rapporto con la Scuola di Francoforte, le grandi anticipazioni contenute nelle riflessioni sul ruolo nella produzione contemporanea dell’intelligenza tecnico-scientifica, la sua ricezione nel contesto politico italiano, le assonanze e le divergenze con la costellazione operaista. Per scoprire e riscoprire che delle letture di Krahl c’è ancora oggi bisogno per addentrarci nei caotici enigmi della composizione di classe.
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Se non un déjà vu, certamente un-già-visto questa riproposizione da parte di ombre corte – titolo: L’intelligenza in lotta. Sapere e produzione nel tardo capitalismo – di taluni scritti di Hans-Jürgen Krahl tratti da Costituzione e lotta di classe, l’edizione italiana di Konstitution und Klassenkampf del ’71 e prontamente tradotto in italiano dalla Jaca Book. Eravamo nel ’73 e la casa editrice affiliata a Comunione e Liberazione da qualche anno non mancava di stupire i compagni con le sue proposte editoriali come quella che ospitava per l’appunto Krahl: Saggi per una conoscenza della transizione. Qualche nome e qualche titolo, tanto per ricordare: S. Amin (L’accumulazione su scala mondiale), P. Naville (I rapporti di produzione nelle società socialiste), E. Preobrajensky (La nuova economia), H. Jaffe (Processo capitalista e teoria dell’accumulazione), C. Bettelheim (Pianificazione e sviluppo accelerato) e poi Althusser, Flechtheim, Serge, finanche Bachelard ecc.
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Il conflitto sociale al tempo del Covid
Mario Michele Pascale intervista Patrizio Paolinelli
La pandemia da Covid-19 sta allentando la morsa. Le vaccinazioni procedono a ritmo spedito e già si intravede la luce alla fine del tunnel. Ma mettere tra parentesi gli anni 2020-2021 potrebbe essere un errore. La pandemia ha messo a nudo molte criticità di sistema: economiche, politiche, sociali.
Patrizio Paolinelli, sociologo e giornalista, autore di Rabbia. Polemos e il Leviatano, uscito recentemente per i tipi di Asterios editore, indaga i punti in cui il sistema si incrina generando rabbia sociale.
Se nella prima fase del contagio l’Italia intera cantava piena di speranza dai balconi, nella seconda fase il malcontento è montato, l’entusiasmo e la fiducia sono scemati, la rabbia ha invaso le strade. Ed è paradossale come Polemos, il padre di tutte le cose secondo Eraclito, abbia accompagnato la trasformazione della protesta da online, quindi baricentrata sull’uso intensivo ed estensivo dei social network, a offline, portando in piazza le categorie maggiormente colpite dalla crisi economica conseguente al lockdown.
Paolinelli, dopo aver tracciato un quadro generale, chiama in causa una serie di analisti. Attraverso lo strumento dell’intervista porta avanti un’operazione maieutica: solo attraverso Socrate si può analizzare Polemos. L’autore dialoga con Francesco Schettino, docente di economia politica, Maria Grazia Gabrielli, Segretaria generale FILCAMS CGIL, Marino Masucci, Segretario Generale FIT CISL, Giovanni Sgambati, Segretario generale UIL Campania e Napoli, Giulio Sapelli, storico dell’economia, Paolo Ferrero, vice presidente del partito della sinistra europea.
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Un punto di vista "autonomo" dalle fabbriche
di Commonware
Intervista a un operaio a cura di Kamo Modena ripresa dall’omonimo blog
Quella che segue è una chiacchierata che abbiamo fatto con un lavoratore di un’azienda metalmeccanica della nostra città. Una specie di “carotaggio atipico” su quello che si muove nelle fabbriche e nella composizione operaia “tradizionale” che per la maggiore caratterizza il nostro territorio. Il nostro interlocutore è una figura mediana, politicizzata, che incorpora saperi e attitudini sedimentati dalla vicinanza o partecipazione a cicli di lotta ed esperienze politiche esauriti, ma che al contempo non è inquadrata in percorsi all’interno di sindacati, organizzazioni partitiche o strutture specifiche. Proprio per questo ci ha interessato la “sua versione” liminale, che evita da una parte quella distanza ideologica o quei filtri (sia “politicisti” che “sindacalisti”) che spesso dividono l’attivista, il delegato o il funzionario da uno sguardo lucido sul livello di massa, e dall’altra quell’aderenza al punto di vista dell’interesse generale che è il senso comune delle classi dominanti. Crediamo che queste parole possano essere utili per approfondire un’analisi di fase e di tendenza oltre gli slogan e le semplificazioni, per “misurare la temperatura” in determinati settori e per dare un punto di vista alternativo – o elementi per un ragionamento – rispetto alla questione della lotta di classe nel suo rapporto con la sindacalizzazione del conflitto. Buona lettura.
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Ciao. Partiamo questa conversazione chiedendoti di presentarti sommariamente prima di iniziare con qualche domanda più specifica.
Lavoro in una fabbrica metalmeccanica emiliana, di media grandezza, sicuramente non piccola, come operaio, quindi tutto parte da questo mio punto di vista, sicuramente parzialissimo, e da quello che tocco con mano e vedo ormai da diversi anni.
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Iran e Vicino Oriente. Rompicapo regionale e grandi potenze
di Alberto Bradanini*
Una sana adesione al principio di complessità consiglia la massima cautela quando si tenta di dare un senso agli eventi che si dipanano nel cosiddetto Grande Medio Oriente, definizione con la quale definiamo solitamente la regione che dall’Iran, attraversando i territori mediorientali propriamente detti, abbraccia anche i paesi del Nord-Africa che si affacciano sul Mare Nostrum.
Come altrove, anche qui i fattori identitari sono costituiti dalla lingua, l’etnia, il colore della pelle, la religione – questa a sua volta suddivisa in confessioni (o famiglie religiose) talora ostili l’una all’altra – che interagiscono in modo diverso a seconda dei tempi e dei luoghi. La religione, messaggera di orizzonti messianici, occupa un posto centrale nelle identità di quelle popolazioni, vittima e insieme protagonista di settarismi, arretratezze socioculturali e posture antimoderne, cui si aggiunge un’endemica instabilità politica che impedisce l’affermarsi di priorità centrate sullo sviluppo umano, il controllo pubblico delle risorse e la giustizia sociale. A quanto sopra si sommano poi le pesanti interferenze esterne dell’Occidente americano-centrico, di stampo neocoloniale e imperialista, che soffiano sul fuoco delle diversità storiche, etniche e religiose, con la complicità delle oligarchie locali, civili o ecclesiastiche fa poca differenza, per imporre come sempre la propria agenda di potere ed estrazione di risorse.
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L’irrazionalismo come fenomeno internazionale nel periodo dell’imperialismo
Prefazione a La distruzione della ragione
di György Lukács
Questo libro non pretende affatto di essere una storia della filosofia reazionaria o addirittura un trattato sul suo sviluppo. L’autore sa bene che l’irrazionalismo, di cui viene qui presentato l’affermarsi e l’estendersi a indirizzo dominante della filosofia borghese, è solo una delle tendenze importanti nella filosofia reazionaria borghese. Benché non vi sia praticamente filosofia reazionaria che non celi un determinato elemento irrazionalistico, il campo della filosofia reazionaria borghese è molto più ampio di quanto non sia quello della filosofia irrazionalistica, nel senso proprio e rigoroso del termine.
Ma neppure questa limitazione basta a circoscrivere il nostro compito. Anche in quest’ambito più ristretto, non si tratta di fare una storia vasta e particolareggiata dell’irrazionalismo, che aspiri alla completezza, bensì di tracciare la linea principale del suo sviluppo, di analizzare le tappe e i rappresentanti più importanti e più tipici. Questa linea principale va presentata come la risposta più significativa e grave di conseguenze data dalla reazione ai grandi problemi degli ultimi centocinquanta anni.
La storia della filosofia, alla stessa maniera della storia dell’arte e della storia della letteratura, non è mai, come pensano i suoi storici borghesi, semplice storia di idee filosofiche o magari di personalità. I problemi e i modi di risolverli vengono stabiliti per la filosofia dallo sviluppo delle forze produttive, dall’evoluzione sociale, dallo svolgersi delle lotte di classe.
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Le pandemie nella ratio epocale
di Giovanna Morelli
Uno sguardo ampio, critico e profondo sul virus che si è abbattuto, a scala planetaria, sull’orrore che eravamo arrivati a considerare normalità, esaltandone alcuni dei tratti peculiari. Uno sguardo che consente di provare a leggere la crisi del nostro tempo non come fenomeno isolato ma di farne “archeologia del presente”, secondo la grande lezione del più impietoso critico novecentesco dell’espropriazione della salute. Giovanna Morelli, appassionata studiosa del pensiero di Ivan Illich, racconta la sua lettura dei diversi saggi che compongono “Transitare le pandemie“, un libro essenziale per cercare una chiave ermeneutica, un’occasione di nuova consapevolezza per affrontare molti dei nodi che avvolgono il caos mediatico che avvolge il Covid 19 e, soprattutto, i suoi contesti. Dalla stigmatizzazione del mito della Scienza come entità monolitica alla capacità di leggere il presente nelle tracce segnate dal passato, passando per la nefasta deresponsabilizzazione intellettuale ed etica tanto preziosa per affermare la naturalizzazione delle logiche dell’emergenza.
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Accomunati dall’eredità umana e intellettuale di Ivan Illich, i cinque firmatari di questo prezioso libro affluiscono da diversi ambiti di ricerca e luoghi di provenienza: Italia, Messico, Canada e Pennsylvania. Amici e stretti collaboratori di Illich, cui si accompagna Fabio Milana, curatore dell’edizione italiana dell’opera omnia. Attraverso i vari saggi[1] (le cui date, dall’aprile 2020 al febbraio 2021, incorniciano un anno di Covid-19) il testo sviluppa un pensiero lucidamente critico, supportato da una ricca documentazione, ed elabora incertezze, certezze più o meno millantate, dolori, speranze, commozione e rabbia che ci hanno attraversato in questo “momento storico atroce” abbattutosi sulla storia del pianeta con violenza distopica e ciò non pertanto maledettamente reale.
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Virus come metafora
Che parole usare, per questa crisi?
di Franco Palazzi*
La metafora non è mai innocente. Essa orienta la ricerca e fissa i risultati”, scriveva Jacques Derrida. Apparentemente, non vi è nulla di più banale di una metafora: l’atto di trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro, per ricorrere alla definizione aristotelica. Un gesto che ognuno di noi compie innumerevoli volte nel corso di una giornata – il mare ci sembra una tavola, il tempo viene convertito senza battere ciglio in denaro…
La leva che Derrida utilizzava per scardinare in un sol colpo il linguaggio e l’uso completamente trasparente che la filosofia voleva farne era, nella formulazione di Aristotele, la parola proprio, che rimanda alla necessità di una metafora di essere appropriata: se diciamo “il mare è una tavola” intuiamo facilmente che il richiamo è alla piattezza della sua superficie, ma cosa significherebbe una frase come “il mare è un anatomopatologo”? Il suo senso non è chiaro, ma al tempo stesso è impossibile stabilire se esso sia completamente assente – e se il mare, alla stregua dell’anatomopatologo, facesse riemergere sulla battigia i corpi dei naufraghi, riconsegnandoli alla storia proprio come fa il medico legale nell’atto di identificare un cadavere sfigurato? La metafora, ci suggerisce questo esempio, deve fare i conti con il rischio ineliminabile dell’incompletezza, della mancanza di un punto di approdo pienamente soddisfacente.
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Tre Saggi per un pianeta (intervista a Saggio Massimo)
Cronache marXZiane n. 4
di Giorgio Gattei
Il pianeta Marx è un corpo astrale paradossale perché ad ogni rotazione aumenta nella massa di Valore per la logica della Accumulazione del Profitto (quale Pluslavoro realizzato) che completa le due logiche dello Sfruttamento e della Trasformazione che abbiamo considerato nelle Cronache precedenti. Ciò pone però un interrogativo in merito al suo destino nello spazio: che cosa gli potrà mai accadere a forza di crescere di dimensione? Per saperlo si devono interpellare i tre Saggi che lo abitano (c’è chi, equivocando, li ha declinati al femminile equiparandoli alle Norne, che sono tre divinità nordiche che parlottano fra loro mentre intrecciano la fune del destino attorno all’albero del mondo). Questi tre Saggi non sono poi altro che tre rapporti economici che misurano lo stato di salute e di tendenza del pianeta: essi sono Saggio di Pluslavoro, Saggio di Profitto e Saggio Massimo, che è il più lontano da tutti ma è anche il più importante, con i primi due che sono stati visti al telescopio nel 1867 dal primo “mappatore” del pianeta Karl Marx, mentre il terzo è stato visitato nel 1960 dal grande esploratore Piero Sraffa che ne ha dato conto nella relazione scientifica Viaggio di merci a mezzo di merci.
Stando per lungo tempo sul pianeta Marx, anch’io ho voluto andare a conoscere Saggio Massimo (e sarei stato il secondo dopo Sraffa!) che abita in una località periferica distantissima e con mia grande sorpresa ho visto che esso era il perfetto gemello di quel “Rosseggiante” che Jack London aveva scovato nel 1916, ultimo anno di sua vita, «nell’oscuro cuore di Guadalcanal» al fondo di una giungla fetida e malvagia e che gli indigeni del luogo veneravano col nome di Nato-dalle-stelle perché era precipitato in tempi lontani dalla volta del cielo.
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La tecnopolitica non salverà il mondo
di Marino Ruzzenenti
La lettura di un testo non è mai stata per me così intrigante come Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica, di P. Vineis, L. Carra, R. Cingolani (Einaudi 2020). Per svariate ragioni. Innanzitutto il titolo e il sottotitolo. Prevenire per chi ha una cultura ambientalista e democratica è un concetto quasi sacro, fondamentale per preservare la buona salute sia della natura che degli umani. Tecnopolitica, invece, presenta immediatamente delle ambiguità, perché da un canto evoca l’idea oligarchica del governo dei sapienti in alternativa alla democrazia implicitamente considerata governo dei mediocri, e dall’altro sembra proporre ancora una volta la tecnologia come chiave di volta per la soluzione dei problemi dell’umanità. Insomma, titolo e sottotitolo evocano risonanze di ossimoro. Gli interrogativi aumentano se poi si tiene conto che il libro è uscito l’anno scorso e che uno degli autori, Roberto Cingolani, è ora direttamente coinvolto in un ruolo preminente come tecnico nell’attuale inedito governo Draghi, il cui collante dovrebbe essere proprio una politica al di sopra e al di là delle ideologie e degli schieramenti partitici, in nome delle cose tecnicamente fondate da farsi per la salvezza del Paese. In questo senso un saggio apparentemente profetico che avrebbe anticipato (preparato?) di qualche mese gli eventi. Ma lo stupore non finisce qui. La firma di Roberto Cingolani, personaggio ormai troppo noto, è preceduta da due altre firme importanti.
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Spettri della Comune
di Enzo Traverso*
Come spiegare la longevità e la freschezza del ricordo della Comune? La risposta si trova nella sua straordinaria dimensione simbolica. Il suo lascito è stato difeso o condannato, ma nessuno ha potuto sminuirne l’impatto
C’è una contraddizione paradossale tra l’ascesa e la caduta fulminea della Comune di Parigi, un’esperienza straordinariamente effimera la cui vita non superò i settantadue giorni, e la sua presenza durevole nella nostra coscienza storica.
Visto attraverso la lente di quella che gli studiosi chiamano convenzionalmente «storia globale», ciò che accadde a Parigi tra il 18 marzo e il 28 maggio 1871 è quasi insignificante. I lavori più recenti sulla storia del XIX secolo – si pensi alle opere di studiosi come Christopher Bayly e Jürgen Osterhammel – la evocano soltanto come un dettaglio minore della guerra franco-prussiana. Se l’Ottocento fu il secolo del decollo del capitalismo industriale e finanziario, dell’urbanizzazione e della modernizzazione, del consolidamento degli imperi coloniali e della persistenza dell’Antico Regime in un continente già dominato dalla borghesia, la Comune di Parigi non significa quasi nulla.
La Comune, infatti, non ebbe un ruolo decisivo neppure nella guerra franco-prussiana, poiché arrivò sette mesi dopo la capitolazione di Napoleone III e la proclamazione della Repubblica, e due mesi dopo la firma dell’armistizio che trasferì l’Alsazia-Lorena alla sovranità tedesca. All’inizio di marzo, l’esercito prussiano vittorioso aveva già sfilato sugli Champs-Élysées, previamente isolati dal resto della città con un «cordone sanitario».
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Introduzione allo studio dell'economia politica
di Andrea Fumagalli
Questa settimana ospitiamo un contributo di Andrea Fumagalli, economista ed interlocutore privilegiato della rubrica Transuenze, che anticipa il libro «Valore, moneta, tecnologia» in uscita per la collana Input. Si tratta di un articolo di introduzione allo studio della storia dell'economia politica, propriamente formativo in quanto concepito per coloro che si approcciano allo studio dell'economia. Crediamo che un contributo teorico di questo tipo possa aiutarci ad analizzare le trasformazioni del lavoro e della produzione.
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«Con la frantumazione della filosofia morale in quattro branche distinte e autonome (la teologia naturale, l’etica, la giurisprudenza e l’economia politica), preconizzata da Francis Hutchenson e resa canonica dal suo ben più celebre allievo, Adam Smith, prende avvio la strana storia di un’affascinante scommessa intellettuale: la ricerca del senso e del fine del lavoro umano alla luce di una rinnovata ragion pura (la “razionalità economica”), indipendente dalle suggestioni evocate dall’antica condanna biblica, e di una pressante ragion pratica (“l’analisi sociale”) imposta dall’insorgere del capitalismo come modo di produzione storicamente determinato».
Così, con le efficaci parole di Francesco Campanella [1], si può enunciare la nascita dell’economia politica come disciplina umanistica e sociale a sé stante. Parliamo di disciplina umanistica e sociale, perché l’oggetto di studio è l’analisi dell’evoluzione dei rapporti economici tra gli esseri umani. E in quanto disciplina umanistica, l’analisi economica ha sempre presentato punti di vista e metodologie d’analisi diverse e spesso contrapposte.
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Un libro necessario. I confini contano di Frank Furedi
di Marco Adorni
Ci sono libri che ti costringono a prendere una parte, che non ammettono vie di mezzo. Si tratta di opere d’intelletto che, anche quando non sono direttamente politiche, incorporano una funzione politica perché spingono il pensiero a confrontarsi in modo libero e disincantato con lo spirito del tempo.
In epoca di cancel culture, nazi-femminismo, polizia linguistica, antibinarismo, esaltazione fondamentalistica dell’apertura (in tutte le declinazioni possibili), dell’ibridazione (idem) e dell’identitarismo liberal (individualistico o di gruppo), un libro del genere è sicuramente Why Borders Matter: Why Humanity Must Relearn the Art of Drawing Boundaries del sociologo Frank Furedi, la cui traduzione in italiano, I confini contano. Perché l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare frontiere, è stata pubblicata il marzo scorso con i tipi di Meltemi.
Operazioni come questa fanno bene a tutti, anche quando fanno male ai più; sono pubblicazioni che agiscono come vaccini quanto mai necessari al tempo della pandemia dell’indifferenza, quando non dell’aperta ostilità, verso quegli strumenti che l’astuzia della ragione storica ha “inventato” per erigere la democrazia moderna.
Di quali strumenti si tratta? Pensiamo al principio culturale di nazione; al concetto politico di patria; all’idea di politica come libero confronto dialettico tra opposte argomentazioni all’interno dello spazio pubblico; all’esistenza di un immaginario sociale fondato su tolleranza attiva, ovvero sia sulla capacità di ascolto sia sul coraggio parresiastico di «dire la verità» al potere; alla presenza di leggi che tutelano la privacy, la libertà e la coscienza individuale; a uno stile di pensiero fondato sulla distinzione binaria tra bene e male, sacro e profano, diritto e dovere, piacere e sacrificio, l’io e l’altro.
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La Cina e la Rivoluzione d'ottobre
di Marco Pondrelli
Questo articolo di Marco Pondrelli è contenuto nel libro collettivo “La Cina e il leninismo del Ventunesimo secolo” con contributi di F. Giannini, A. Pascale, M. Pondrelli, D. Burgio, M. Leoni e R. Sidoli, e si può trovare per intero su www.mondorosso.wordpress.com.
Il 1917 segnò la storia mondiale così come, ovviamente, la storia dei comunisti. Il movimento comunista internazionale si legherà all'esperienza sovietica facendo della difesa di quell'esperienza un imprescindibile fronte della sua battaglia. Guardando al resto del mondo Lenin e tutto il gruppo dirigente bolscevico sapevano che per rafforzare l'esperienza sovietica era necessaria la vittoria della Rivoluzione in Germania, paese che era individuato come il tassello fondamentale dello scontro. La rivoluzione tedesca fu però sconfitta e con essa la possibilità di far dilagare la rivoluzione nel resto d'Europa.
A questo punto a Mosca il confronto fra i bolscevichi si articola su due piani fra loro intrecciati, che ancora oggi attraversano il dibattito fra i comunisti.
Innanzitutto si crea una contrapposizione che potrebbe essere riassunta da due termini: cosmopolitismo e patriottismo. Dopo la morte di Lenin il dibattito si incarnerà nelle due figure di Stalin e di Trockij, quest'ultimo si fa portavoce della necessità di esportare la rivoluzione incarnando la prima posizione, quella cosmopolita. I comunisti non devono limitarsi a governare il loro paese ma devono esportare la rivoluzione nel mondo. Stalin incarna la seconda posizione. Trovo illuminante l'opinione di Luciano Canfora il quale scrisse che dopo la presa del potere i bolscevichi si trovarono “dinanzi ad un bivio: o compenetrarsi con il Paese e fare i conti con l'enorme peso della sua tradizione e della sua storia, ovvero continuare a mantenersi 'straniero in patria' in attesa della 'rivoluzione mondiale'. Un dilemma che si incarna […] in due persone concrete: Trockij, ebreo, cosmopolita e fortemente internazionalista; Stalin, georgiano e convinto assertore della necessità dell'innesto nel concreto terreno di 'un Paese solo' del credo comunistico”[1].
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L’Emergenza Covid e la strage delle coscienze
di Un amico di Winston Smith"
Nota: ad articolo già pubblicato, ci siamo accorti di un’imprecisione nel citare un testo di alcuni nostri detrattori, oltre che di un paio di aspetti che meritavano di essere meglio definiti (l’abbiamo fatto adesso aggiungendo due note, la 2 e la 5). Sostituiamo quindi la precedente versione con questa, leggermente riveduta.
Una strage tuttora in corso
La grande montatura medico-spettacolare nota come Emergenza Covid-19 dovrebbe essere ricostruita seguendo due filoni: da un lato il gonfiaggio dei “casi” (compresi i morti per altre patologie) attraverso l’abuso dei test diagnostici detti “tamponi”; dall’altro l’aggravamento della malattia attraverso il boicottaggio sistematico, da parte delle autorità sanitarie nazionali e internazionali, di ogni cura efficace o anche solo promettente nell’affrontare il morbo. Se al primo aspetto accenneremo brevemente (visto che influirà anche nel determinare il “successo” dell’attuale campagna militar-vaccinale), ci concentreremo ancora una volta sul secondo: da un lato perché negli ultimi mesi, in Italia, la questione delle cure domiciliari ha visto nuovi e scabrosi capitoli; e dall’altro perché, sotto i nostri occhi e sulla nostra pelle, continua a consumarsi una vera e propria strage di Stato silenziosa, che non può e non deve essere ignorata da chi tiene minimamente a cuore la propria sorte e quella dei propri simili.
Senza ripercorrere tutta la storia di quali e quante cure sono state negate (servirebbe un libro, o almeno un documentario)1, cerchiamo di inquadrare brevemente che cos’è il Covid-19 da un punto di vista sanitario (e almeno dal nostro punto di vista, con tutti i limiti costituiti dal fatto che non siamo né medici né scienziati).
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Come stanno gli adolescenti?
Una conversazione con Gustavo Pietropolli Charmet
di Anna Stefi
Incontro Gustavo Pietropolli Charmet rigorosamente a distanza, come in dad, dietro a uno schermo. Non ha bisogno di grandi presentazioni: è noto il suo lavoro con gli adolescenti e i suoi libri credo siano lettura cui non possa sottrarsi chiunque lavori – insegnante, formatore, psicologo, educatore – con i ragazzi. Ho letto il suo Il motore del mondo, uscito ad agosto e già recensito su queste pagine, ma la ragione per cui gli domando un appuntamento è che, come ho raccontato, sono in un vuoto di senso che rende difficile il mio tempo in classe e mi fa pensare urgente la necessità di interrogare la scuola, quanto accaduto, dove siamo e cosa questo tempo ci ha mostrato in modo più evidente di prima.
* * * *
AS: Professore, come stanno gli adolescenti? Come è stato questo tempo di restrizioni, di frequenza con i coetanei ridottissima, a stretto contatto con la famiglia: cosa ha determinato?
GPC: Come stanno? La pandemia ha fatto due vittime: gli anziani li ha fatti fuori, e gli adolescenti li ha malmenati. Non lei direttamente, ovviamente, perché gli adolescenti non hanno nemmeno visto la morte e la malattia atroce; in primo piano hanno visto le misure preventive, le restrizioni, le rinunce, tutte apparentemente rivolte a loro: calcio, concerti, sport. Ogni cosa. Chiusi in casa.
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L’incerto futuro dell’Europa
di Alfonso Gianni
L’ormai celebre sofagate di Ankara non è stato solo un incidente diplomatico o uno strappo alle regole più comuni del galateo, ma ha assunto un significato ben più profondo. Ha rappresentato, con la plastica evidenza del posizionamento dei corpi - quelli di Ursula von der Leyen, che sta a capo della Commissione europea, e di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo - una domanda di per sé non nuova, ma aggravata dalla durezza dei tempi: che cosa è l’Unione europea? Semplicemente, come in effetti la intendono la maggior parte delle elite nazionali, un’organizzazione internazionale votata alla soddisfazione di obiettivi e interessi economici? O qualcosa di più, meglio di diverso, almeno in nuce, ovvero un soggetto politico e istituzionale capace di agire in modo unitario e riconoscibile a livello internazionale? E in ogni caso funziona o no il sistema di governance che lungo gli anni la Ue è andata costruendosi?
Sappiamo da tempo che l’idea della costruzione dell’Europa fondata su una convergenza economica, che poi avrebbe partorito strada facendo le sue strutture politiche ha avuto fin dai suoi primi passi la netta prevalenza sugli ideali di Ventotene, sia dal punto di vista teorico (si pensi alle elaborazioni e ai modelli funzionalisti di Jean Monnet o di David Mitrany) che pratico. Tuttavia il volgere del secolo ha messo in fibrillazione l’intero impianto che su quei principi era fondato.
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Afferrare il secolo alla gola
Il nuovo numero di aut aut
di Emilio Maggio
A connecting principle
Linked to the invisible
Almost imperceptible
Something inexpressible
Science insusceptible
Logic so inflexible
Causally connectible
Yet nothing is invincible
Synchronicity, Police
Per il filosofo americano Eugene Thacker l’uomo contemporaneo è inestricabilmente implicato in un mondo divenuto a lui incomprensibile in quanto ciò che lo qualifica maggiormente è proprio la perdita del senso dell’orientamento. Il suo smarrirsi denota non solo i limiti di una lingua consona a descrivere questo sentimento di disagio ma soprattutto la difficoltà per l’umano a comprendere l’inumano o a pensare l’impensabile1.Viene così a cadere la condizione necessaria che permette all’uomo di esercitare il suo controllo sul mondo: la struttura antropocentrica di un soggetto che non è più in grado di espletare la sua presunta superiorità – mentre diventa sempre più problematico discernere il vivente dal non vivente, l’umano dall’inumano, la vita dalla morte.
La scienza, dalla teoria della relatività alla fisica quantistica, ha reso evidente come il tempo e lo spazio siano concetti labili e relativi, legati cioè a doppio filo alla coscienza umana. Il concetto della sincronicità, introdotto da Jung, vuole dimostrare come il principio di causa-effetto non sia sufficiente a spiegare il rapporto tra un soggetto agente e un oggetto stabilito e come piuttosto la realtà in cui ci troviamo immersi nonostante tutto sia costituita da relazioni occulte.
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Sui morti di Mottarone
di Michele Castaldo
Ci risiamo con l’errore umano, l’incuria dell’ultima ruota del carro, la ricerca del capro espiatorio e la responsabilità personale dell’accaduto. Ovvero tutto poteva essere evitato “se solo” ecc. ecc..
Siamo perciò ancora una volta alla miseria umana, alla cronaca di qualche giorno, al rimbalzo di responsabilità, alle “indagini”, alle inchieste, o – anche, perché no? - all’istituzione di una commissione d’inchiesta, visto che non si capisce bene a chi apparteneva la responsabilità della gestione politica oltre che economica della funivia, il ruolo delle regioni, dei comuni, e così via all’infinito, fino alla prossima tragedia o alla prossima strage. Tanto, una in più una in meno cosa si vuole che conti, basta che passino alcuni giorni e tutto si raffredda, tutto si dimentica, e la giostra continuerà a girare grossomodo come prima.
Ma da un po’ di tempo a questa parte alcune tragedie e disastri inducono alla riflessione persino i grandi pensatori e propagandisti dell’unico sistema sociale possibile, il capitalismo. Si avverte nell’aria una sorta di impotenza rispetto a quanto avviene. Ci sbagliamo? Può darsi, ma a leggere certi editoriali come quello di Antonio Polito sul Corriere della sera di giovedì 27 maggio, cioè pochi giorni dopo l’accaduto, ce la conferma: c’è smarrimento.
Le cose sono molto più complicate di come le si vorrebbe presentare e vanno inquadrate nella dinamica temporale per capire, cioè nella ricerca delle la cause delle cose più che la ricerca del responsabile, come sono portati a fare i grandi commentatori, che si ergono a professoroni di diritto e di etica per relegare nell’angolo buio dell’errore dell’individuo e salvare così un sistema di valori dell’attuale modo di produzione.
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Tulsa 1921. Realizzazione e massacro di un sogno (americano)
di Andrea Sartori
Esattamente un secolo fa, un intero quartiere (Greenwood) abitato da circa 10.000 afroamericani nella città di Tulsa, in Oklahoma, venne dato alle fiamme, causando morti e devastazione. Gli aggressori erano una folla inferocita di uomini bianchi, risentiti e insofferenti del fatto che una popolazione di colore avesse raggiunto, tramite l’impegno e il lavoro, un livello di prosperità economica e sociale superiore al loro. A neanche sessant’anni dall’abolizione della schiavitù (1865), Greenwood era infatti conosciuta come l’America’s Black Wall Street.
In un lungo reportage interattivo e a più mani del 24 maggio 2021,[1] il New York Times sottolinea come, per la white mob di Tulsa, il colore scuro della pelle non potesse combinarsi con una condizione di benessere. La violenza dei bianchi infuriò per due giorni, dal 30 maggio all’1 giugno, diede alle fiamme 35 isolati e più di 1.250 abitazioni, uccise 300 persone poi sepolte in fosse comuni, distrusse chiese, negozi, banche e altre fiorenti attività commerciali. La dinamite lanciata dagli aerei in volo, secondo gli storici, rappresenta il primo attacco dal cielo sul suolo statunitense, il precedente – per mano americana – di Pearl Harbor e dell’11 settembre. All’atroce danno si sommò la beffa, quando i residenti di colore, accusati d’aver incitato le sommosse, vennero detenuti in campi di prigionia.
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Sulla filosofia imperfetta di Costanzo Preve
Ovvero: come valorizzare le intuizioni di un marxista eretico, riconoscendone i limiti ma anche andando al di là delle scomuniche di cui fu vittima
di Carlo Formenti
Dopo il post su Bordiga, proseguo la riflessione su alcuni autori che, pur avendo portato un contributo significativo alla teoria marxista, sono stati messi all’indice e rimossi dalla sinistra a causa delle loro tesi “eretiche” e politicamente “scorrette”. Questa seconda puntata è dedicata al pensiero di Costanzo Preve
In uno dei miei ultimi lavori (1) ho dedicato un paragrafo al “caso Preve”, nel quale osservavo come il contributo di questo autore controverso e geniale alla teoria marxista sia stato oggetto di una rimozione radicale, se non di un vero e proprio linciaggio ideologico, sia per le sue critiche feroci a una sinistra in via di autodissoluzione (formulate in tempi in cui ciò era ancora considerato intollerabile), sia perché la scomunica di cui fu vittima a causa di tale “colpa”, contribuì ad esacerbarne il carattere ombroso, innescando certi suoi atteggiamenti provocatori che gli costarono un isolamento pressoché totale. In questo scritto proverò a spiegare i motivi per cui ritengo importante – tanto sul piano teorico quanto sul piano politico – rivisitarne certe intuizioni che meritano di essere approfondite cercando, al tempo stesso, di evidenziarne limiti e contraddizioni. A tale scopo prenderò in esame due testi distanziati da un quarto di secolo: La filosofia imperfetta (1984) e Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale (2009) (2). La parte dedicata a quest’ultimo testo anticipa alcuni dei temi che affronto nella Prefazione che ho scritto per una nuova edizione, prevista per il prossimo settembre.
1) La filosofia imperfetta
Il libro del 1984 si articola in cinque parti dedicate, rispettivamente, 1) ai tre “discorsi” che, secondo Preve, sostanziano il corpus teorico marxiano; 2) ad alcune delle principali correnti marxiste del Novecento; 3) al pensiero di Heidegger, indicato come la vetta più elevata del pensiero borghese novecentesco; 4) all’utopia concreta di Ernst Bloch; 5) all’ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs.
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Alla ricerca di nuove soglie: il senso politico del pensiero di Romano Alquati
di Veronica Marchio
Continuiamo ad approfondire il rapporto tra le nuove generazioni militanti e il pensiero di Romano Alquati. Un pensiero incarnato in un metodo, un metodo incarnato nelle trasformazioni della composizione di classe e della specifica civiltà capitalistica. È quanto sostiene Veronica Marcio, autrice di questo prezioso contributo. L’autrice ipotizza dunque cosa può voler dire mettere collettivamente a verifica alcune categorie e questioni proprie di un discorso teorico incompleto. È esattamente l’incompletezza delle sue ipotesi, tuttavia, che può divenire per noi oggi griglia di lettura e valutazione della realtà contemporanea, invece che repertorio di risposte certe su di essa.
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Alla domanda sul perché riprendere in mano il pensiero e gli scritti di Romano Alquati oggi, si potrebbe rispondere in tanti modi. Anzitutto ricostruendo una bibliografia dei suoi lavori, passaggio decisamente necessario al fine di collocarne storicamente le riflessioni. Non è però compito di questo scritto elencare o soffermarsi su tutti i testi che compongono l’enorme quantità di riflessioni alquatiane, perlopiù inesplorate. Mi limiterò a ipotizzare cosa può voler dire provare collettivamente a incarnare alcune categorie e questioni proprie di un discorso teorico incompleto, almeno quello che è legato alla sua produzione teorica dagli anni Ottanta in avanti. È esattamente l’incompletezza delle sue ipotesi che può divenire per noi oggi griglia di lettura e valutazione della realtà contemporanea, invece che repertorio di risposte certe su di essa.
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Introduzione al concetto di "capitalismo di stato" in Charles Bettelheim
di Bollettino Culturale
L’analisi del carattere della formazione sociale sovietica è stata ed è oggetto di accesi dibattiti tra intellettuali dalle più diverse sfumature teoriche e politiche. Questo lavoro si propone di analizzare un'interpretazione secondo la quale la formazione sociale sovietica sarebbe un tipo particolare di capitalismo, il capitalismo di stato, come proposto dall'economista francese Charles Bettelheim.
Bettelheim iniziò a utilizzare il concetto di capitalismo di stato alla fine degli anni '60, tuttavia, ricevette una spiegazione più dettagliata in “Le lotte di classe in URSS”. Quest'opera, composta da tre volumi (di cui solo i primi due sono disponibili in italiano), rappresenta uno sforzo dell'autore per "riesaminare" il passato dell'URSS, analizzando i momenti decisivi che ha attraversato questa formazione sociale. Cercherò di analizzare il concetto di capitalismo di stato proposto da Bettelheim nei primi due volumi de Le lotte di classe in URSS.
Bettelheim propone un'analisi che ha come argomento centrale la natura dei rapporti di produzione e il carattere delle forze produttive generate nell'ambito di queste relazioni, concentrandosi, allo stesso tempo, sui processi della lotta di classe che hanno configurato questo specifico assetto sociale. Per Bettelheim, sotto la copertura della proprietà statale, furono mantenuti nell'URSS rapporti di produzione simili a quelli dei paesi capitalisti. Il carattere limitato delle trasformazioni nei rapporti di produzione sarebbe l'origine di processi che cumulativamente sfociano nel fallimento del processo rivoluzionario e nella riproduzione dei rapporti capitalistici sotto forma di capitalismo di stato.
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La Comune di Parigi e il problema della rivoluzione
di Marco Montelisciani
[Estratto della prefazione al volume La Comune di Parigi. Raccolta di otto conferenze di Arturo Labriola]
Il volume che viene qui pubblicato raccoglie la trascrizione di otto conferenze tenute da Arturo Labriola nel 1906, in occasione del trentacinquesimo anniversario della Comune di Parigi. Per chi, come gli uomini e le donne di questa nostra contemporaneità, ha avuto in sorte di vivere in un tempo post, in un «tempo senza epoca»[1], nel quale si presentano «davanti a noi solo avvenimenti, niente eventi»[2], può risultare persino spiazzante l’approccio all’insieme degli avvenimenti di cui questo libro tratta e al modo politico, parziale, partigiano, ma non per questo privo di rigore, in cui l’autore ne dà conto. Appunto, perché l’insieme degli avvenimenti qui narrati, analizzati e commentati costituisce un evento, inteso come un fatto nel quale e attraverso il quale si esprime una forza capace di dire l’epoca. Un evento che si frappone nel preteso continuum della storia, per sostituire alla consolatoria apparenza di uno scorrere la realtà conturbante di un irrompere. In questo irrompere che dice l’epoca, che impone un ritmo nuovo e diverso al movimento che gli esseri umani compiono nel terreno discreto e nient’affatto fluido della storia, risiede l’arcano della Comune di Parigi, del suo fascino, della persistenza del suo mito, dell’interesse e dei dibattiti che, dopo centocinquanta anni, ancora oggi suscita.
Il bagno di sangue proletario riservato a Parigi dalla reazione del governo repubblicano di Thiers chiude il secolo breve delle rivoluzioni in Francia.
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Geopolitica dei Vaccini
di Giovanna Baer
La prima a dirlo è stata Sylvie Kuffman a febbraio sul New York Times: “In a world where the vaccines have become a new measure of geopolitical power, no doubt President Vladimir Putin of Russia and President Xi Jinping of China will smile at the sight of Europe’s difficulties” (In un mondo in cui i vaccini sono diventati una nuova misura del potere geopolitico, senza dubbio il presidente russo Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping sorrideranno alla vista delle difficoltà dell’Europa) (1). Dal 2 dicembre 2020, data in cui l’Agenzia di regolamentazione dei medicinali e dei prodotti sanitari (MHRA) del Regno Unito ha approvato l’uso temporaneo del vaccino Pfizer-BioNTech, facendo della Gran Bretagna il primo Paese del mondo occidentale ad approvare l’uso di un vaccino contro il Covid (2), la parola vaccino è diventata sinonimo di potere globale: in mancanza di una cura efficace, prevenire il Covid-19 e le sue complicazioni è il solo modo per tornare alla normalità, qualunque cosa significhi. La disponibilità di vaccini significa soprattutto ritornare a muoversi liberamente: non solo andare a scuola e in ufficio, ma uscire a cena, godersi un film al cinema e un concerto in teatro, viaggiare. Detto in termini economici: produrre e consumare a pieno ritmo. Dopo lo shock economico del 2020, le previsioni di crescita delle nazioni dipendono innanzitutto dalla quota di popolazione resistente al coronavirus: il 17 marzo la Federal Reserve ha rivisto al rialzo le stime di crescita per il 2021 dell’economia americana, che ha inoculato ai suoi cittadini 118 milioni di dosi, portandole al 6,5% dal 4,2 % previsto appena a dicembre, prima della campagna di vaccinazione intensiva promossa da Biden. A marzo scorso il presidente della Fed, Jerome Powell ha dichiarato: “La ripresa economica americana sta guidando quella mondiale. […] Mi piacerebbe che l’Europa facesse meglio sulla crescita e sulle vaccinazioni, ma per ora non sono preoccupato per noi”.
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Dalle ambasciate USA, un nuovo Plan Condor contro il socialismo latinoamericano
di Geraldina Colotti
Il continente latinoamericano mostra con chiarezza i termini dello scontro a livello globale, nel quadro della nuova fase di resettaggio del capitalismo, che ha bisogno di formattare anche il conflitto di classe: schiacciandolo o cooptandolo a seconda dei rapporti di forza, storicamente determinati. E così, mentre nei paesi europei gli apparati ideologici di controllo acuiscono la perdita di memoria del passato conflitto per imporre la visione dei vincitori, la borghesia riadatta, al più alto livello, le tecniche di controllo e repressione messe a punto nei momenti più acuti dello scontro novecentesco, e diventati elementi strutturali della nuova economia di guerra.
Dalla Colombia, al Paraguay, al Cile, vediamo allora riapparire le sparizioni forzate, le torture, l’uso di paramilitari travestiti da civili, coperti dal medesimo silenzio con il quale le organizzazioni internazionali hanno permesso le torture ai baschi in Spagna, ai comunisti in Italia, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania: sempre in nome, beninteso, della “lotta al terrorismo” e della difesa “pacifica” della democrazia borghese. Da Cuba al Venezuela, dalla Bolivia all’Ecuador, vediamo continuare le politiche messe in campo nel secolo scorso, tra intossicazione mediatica e arroganza imperialista, per far pesare l’argomento della “lotta al terrorismo” onde mantenere in piedi il circo perverso delle “sanzioni”.
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