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La logica securitaria
di Renato Caputo
Le origini storiche, economiche e filosofiche della logica securitaria, ormai imperante anche nel nostro paese
Marx ed Engels sin dalla Sacra famiglia, la prima opera scritta a quattro mani, mettono in evidenza come il fondamento nascosto delle dichiarazioni dei diritti umani, grande portato della Rivoluzione francese, sia proprio la sicurezza, intesa essenzialmente come sicurezza nel libero godimento della proprietà privata. Quindi la triade che domina questo manifesto della borghesia – al culmine della sua fase rivoluzionaria – non è, come solitamente si sente ripetere: libertà, eguaglianza e fraternità, ma, piuttosto: libertà, proprietà ed eguaglianza. Dove la proprietà è il termine medio che illumina gli altri due, facendo sì che la libertà sia intesa come libero usufrutto della propria proprietà al fine di ampliarla, di modo che a essere effettivamente liberi sono solo i proprietari, mentre agli altri non resta altro che la libertà di far sfruttare dai primi l’unica merce di cui sono ancora in possesso, ovvero la forza lavoro. Tanto che la stessa eguaglianza è funzionale essenzialmente a tale libera compra-vendita della forza lavoro, al fine di sfruttarne il valore d’uso per produrre quel plusvalore – rispetto al valore di scambio della forza-lavoro corrisposto al salariato – da cui deriva il profitto dell’imprenditore, vero scopo finale dell’intero processo produttivo nella società capitalistica.
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La battaglia di Caracas: il potere popolare e la guerra non convenzionale
di Militant
Da qualche mese l’esercito degli Stati Uniti sta preparando un’inedita esercitazione militare in Brasile, con il pieno appoggio del presidente Michel Temer, subentrato a Dilma Rousseff dopo un golpe istituzionale lo scorso agosto. Con il significativo slogan di “America Unida”, il prossimo novembre le forze armate statunitensi mostreranno i muscoli, e coordineranno unità speciali dell’esercito peruviano e colombiano in territorio brasiliano. L’esercitazione si svolgerà nella città di Tabatinga, non lontano dal confine con la Bolivia (dove lo scorso 17 agosto Evo Morales ha inaugurato la prima scuola militare antimperialista latinoamericana) e a poca distanza dal Venezuela[1]. Dopo la smilitarizzazione delle Farc-Ep in Colombia (la più grande organizzazione guerrigliera nel paese e un possibile alleato della resistenza popolare venezuelana in caso di conflitto militare), gli Stati Uniti approfittano del momento di crisi del blocco progressista latinoamericano per riprendere il controllo militare dell’area. In quest’ottica, il ritorno di governi neoliberisti in paesi come il Brasile e l’Argentina ha infatti riaperto la strada all’utilizzo delle forze armate ufficiali in territorio latinoamericano, che così potranno supportare il lavoro sporco realizzato da attori “non convenzionali” già attivi nello smembramento della resistenza popolare del “continente rebelde” (come le organizzazioni paramilitari e il narcotraffico).
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Un phastidioso antecedente: la Società Gestione Attivi
di Luca Fantuzzi
L'altro giorno mi sono imbattuto in un post assai phastidioso, il quale - ricapitolando la situazione di Montepaschi - innalza sin dal titolo ("Dicono sia colpa della UE. Ma è colpa della realtà") un peana alla nuova dea dei liberisti de' noartri, cioè la signora TINA (i cui sacerdoti, detto per inciso, sarebbero i frodatori di Uber o i monopolisti di Google o gli sfruttatori di lavoro minorile cinese di Apple, ma lasciamo perdere).
A dire il vero, in mezzo a tante fanfaluche, un pregio l'articolo ce l'ha: spazza via dal campo della discussione il terrorismo mediatico (e, a dire il vero, interessato) sugli esuberi più o meno inventati, i soldi del contribuente più o meno sprecati, e si concentra - ripercorrendo il folle piano messo su dal tandem Renzi-JP Morgan, poi miseramente affondato - sulla questione reale dell'affaire Monte dei Paschi, cioè il deconsolidamento dei crediti problematici.
Per chi vive in una comunità che ha sentito nella propria carne viva questa vicenda, si tratta della sensazionale riscoperta della ruota, o dell'acqua calda...
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«Con dolore e vergogna...». Simone Weil e il problema del colonialismo
di Federica Negri
«La collettività è più potente dell’individuo
in tutti gli àmbiti, salvo uno solo: il pensare»
(Quaderni, I, circa 1933)
1. Premessa
La consapevolezza di Simone Weil rispetto al problema del colonialismo è immediatamente evidente sin dai primi articoli negli anni Trenta, dai quali cogliamo chiaramente i motivi del suo dissenso e, soprattutto, la grande acutezza con la quale affronta una questione spinosa e difficile.
Il tono dominante di questi scritti è amaramente ironico, un riso sardonico che taglia l’argomento con una lucidità che non lascia spazio ad alcun fraintendimento sul piano logico.
Questi testi, nei quali Simone Weil affronta esplicitamente la questione del colonialismo sono importanti, non assolutamente marginali, perché – come tenterò di dimostrare – sono fortemente connessi a tematiche e discussioni fondamentali nella sua filosofia, come quella sulla natura del diritto o a quella sullo sradicamento1. Vedremo che anche la questione della forza e dell’impossibilità di sottrarsi al meccanismo violento, complicano la questione e rendono le sue argomentazioni drammaticamente problematiche e, quindi, ancora più attuali.
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“L’inganno e le bugie”
di Elisabetta Teghil
L’esperienza neoliberista oggi può dirsi compiuta. Sono alcuni decenni almeno che si sta realizzando ed attuando e dal colpo di Stato in Cile in cui è stata sperimentata sono passati più di quarant’anni. Ha rivelato di essere il risultato di un voluto e devastante inganno imperniato su delle bugie grossolane che parlavano di crescita economica della società e di esaltazione delle capacità dell’individuo che si sarebbero realizzate con il riconoscimento del primato del mercato, inganno a cui ha chiesto di sacrificare tutto, da un minimo di giustizia sociale alla tutela dell’ambiente, ai contratti nazionali, ad una equa retribuzione, alla sanità e all’istruzione pubblica e gratuita….
Ma, malgrado tutto ciò, l’ideologia neoliberista sulle virtù del libero scambio continua ad imporsi grazie ad un apparato economico e politico che viene presentato come un dogma.
Il centro della nuova religione sono gli Usa e il Regno Unito che impongono alle istituzioni multilaterali il bello e il cattivo tempo, che manipolano i dati e le informazioni scomode in particolare riguardo all’occupazione e al potere d’acquisto delle popolazioni. E fanno questo non solo e non soltanto nei riguardi dei paesi che una volta si chiamavano in via di sviluppo, ma anche dei paesi occidentali utilizzando il grimaldello dei partiti così detti di sinistra.
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Macchinismo, programma minimo di classe e riduzione dell'orario di lavoro
di Marco Beccari
Per opporsi con efficacia alle conseguenze del macchinismo (riduzione del salario e disoccupazione) i comunisti devono realizzare l'obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
Il presente articolo trae spunto dal materiale didattico (lucidi) preparato da Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma, e presentato ad una serie di seminari “Sull’attualità del pensiero economico di Marx”, tenuti presso l’Università Popolare A. Gramsci, nell’anno accademico 2016-2017.
* * * *
I capitalisti introducono le macchine nella produzione con lo scopo di ridurre il numero di lavoratori necessari per fabbricare lo stesso numero di merci, oppure per produrre più merci con lo stesso numero di ore di lavoro e di lavoratori [1]. Ciò avviene al fine di diminuire il costo del lavoro e, quindi, aumentare il plusvalore relativo per singolo addetto [2]. La missione storica del capitalismo, che determina lo sviluppo delle forze produttive, è proprio la produzione massima di plusvalore dal lavoro umano. A tal proposito la macchina agisce come alleato del capitale nella lotta di classe che si sviluppa tra capitale e lavoro. La macchina “diventa l'arma più potente per reprimere le insurrezioni...degli operai...contro l'autocrazia del capitale” [3]. I capitalisti, infatti, possono sfruttare meglio i salariati con l’aumento del numero di disoccupati.
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La Francia di Macron
Un primo tentativo di approcciare in modo non ideologico il fenomeno-Macron
di Sebastiano Isaia
Non mi convince affatto la chiave di lettura che ci presenta il nuovo Presidente francese nei panni dell’ennesima creatura tecnocratica creata a tavolino dai soliti “poteri forti mondialisti” generati dal Finanzcapitalismo. Burattino e burattinai, insomma. Per Massimo Franco «Macron è il prodotto di un esperimento tecnocratico della banca d’affari Rotschild, [è] figlio dell’élite tecnocratica [che] incarna una strategia europeista e centrista che ha fatto tabula rasa sia del gollismo, sia della sinistra» (Il Corriere della Sera): troppo semplice per i miei gusti. Questo senza nulla togliere alla forte connotazione tecnocratica e “finanzcapitalistica” del nuovo inquilino dell’Eliseo, matrice che sono ben lungi dal negare. Anche l’interpretazione di Macron (cioè delle politiche “neoliberiste” che egli incarnerebbe alla perfezione) come la vera causa del successo che comunque il Front National ottiene nell’elettorato di estrazione operaia e proletaria (per cui chi ha votato per il candidato della «cupola finanziaria mondialista» di fatto avrebbe portato acqua al mulino della “destra populista”) mi appare troppo riduttiva e semplicistica, e in ogni caso essa non coglie tutta la complessità della crisi sistemica che ormai da anni travaglia in profondità la società francese.
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La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico di Domenico Moro
Recensione di Barbara G.V. Lattanzi
La maggioranza delle posizioni riguardo al fenomeno del jihadismo si può grosso modo dividere in due filoni, che corrispondono pressappoco alle visioni orientalista e occidentalista dei rapporti con il mondo islamico. Alla prima, connotata da un etnocentrismo occidentale, possiamo ascrivere i contributi viziati da una visione vetero-positivista che relega i fenomeni religiosi a elementi residuali incompatibili con un progresso tecnico e sociale in senso democratico. Alla seconda critica appartengono soprattutto le categorie occidentali derivate e influenzate da esigenze economiche e politiche legate all’imperialismo. La maggior parte dei contributi in questo senso è ascrivibile quindi a una di queste due correnti opposte tra loro, entrambe inefficaci sia dal punto di vista epistemologico che da quello della prassi politica. Tali opposte concezioni si collocano infatti entrambe allo stesso livello trivializzante come apologia del sistema globale lacerato dal cosiddetto scontro di civiltà.
Per uscire dall’impasse che impedisce una corretta analisi del fenomeno e del significato dei fatti storici degli ultimi anni è necessario un salto di qualità che permetta una visione ampia del sistema mondiale cogliendone contraddizioni e limiti per definire la funzione delle guerre comprese quelle che chiamiamo “di religione”.
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Una polifonia ‘negativa’
Editoriale del n. 2 di Consecutio Rerum
di Miriam Aiello*
“Chinati, ti devo sussurrare all’orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridio delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c’è mano, e non c’è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque”
(I. Brodskij «Elegie romane»)
‘Non essere’ e ‘nulla’ sono i due nomi più noti di un antico e indocile cruccio del pensiero, la cui storia è lastricata in egual misura di orrore e di fascinazione, di condanna e di salvezza.Quest’idea liminale ha, con le sue numerose sembianze (non-essere, nessuna cosa, nullità, vuoto, zero) dato filo da torcere all’antico non meno che al contemporaneo, innervandosi in procedimenti logici (astrazione, negazione, negazione determinata) o addirittura ponendosi a fondamento di veri e propri indirizzi teorici (nichilismo, me-ontologia).
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I “crimini dell’economia”. Una lettura criminogena del capitalismo
Intervista a Vincenzo Ruggiero*
Vincenzo Ruggiero, I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico, Feltrinelli, 2013
Professor Ruggiero, Lei è autore del libro I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico pubblicato per i tipi di Feltrinelli: in che modo la prospettiva criminologica può esser utile nell’analisi del pensiero economico?
L’idea di scrivere ‘I crimini dell’economia’ mi è venuta dopo aver letto molte analisi economiche della criminalità. Gli economisti, infatti, hanno visitato spesso il terreno della criminologia, esaminando la logica razionale dei reati. In difesa del suo lavoro sul crimine come scelta, il Premio Nobel per l’economia Gary Becker ha fatto notare che anche chi commette reati può essere trattato da homo oeconomicus, e ha ricordato ai lettori che due grandi fondatori della disciplina criminologica, Beccaria e Bentham, applicavano esplicitamente un approccio economico nella loro analisi dei delitti e delle pene. Il mio libro intende restituire la visita, proponendo una lettura criminologica del pensiero economico. Del resto, il sapere economico si occupa di creazione e acquisizione di ricchezza, di mercati, di legittimità e devianza dalle regole che guidano l’arricchimento. È questo un campo che appartiene anche all’indagine criminologica.
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CRASHKURS – Il mondo è troppo ricco per il capitalismo
di Massimo Maggini
Riproponiamo qui un testo scritto dal gruppo Krisis nel novembre 2008, poco tempo dopo l’emergere della crisi economica mondiale, deflagrata a causa dello scoppio della bolla immobiliare statunitense provocato dalla diffusa insolvenza legata ai famosi mutui subprime (ma l’innesco avrebbe potuto darlo un qualsiasi altro fattore economico pericolante, fra i molti presenti già allora – e più ancora adesso -, nel fragile panorama economico mondiale).
Crediamo che il messaggio di questo articolo, breve e sintetico ma quanto mai denso ed efficace, meriti di essere ancora una volta fatto circolare.1
In maniera concisa e tagliente, il gruppo Krisis mette qui in evidenza alcuni punti critici della crisi economica ma, soprattutto, delle risposte che ad essa vengono date. La ricerca spasmodica di un responsabile, epurato il quale si aprirebbero nuovi orizzonti per far tornare le cose al loro posto e riprendere il glorioso cammino tracciato dalla filosofia dei lumi, ha sempre caratterizzato le reazioni alle crisi capitalistiche.
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La rivoluzione contro il Capitale (di Marx)
Gramsci e il 1917
di Alvaro Bianchi e Daniela Mussi
Ottanta anni fa – il 27 aprile 1937 – Antonio Gramsci muore dopo aver trascorso la sua ultima decade in un carcere fascista. Riconosciuto a livello internazionale molto più tardi per il lavoro teorico svolto in quelli che saranno pubblicati come Quaderni del Carcere, Gramsci iniziò a fornire un contributo di riflessione di taglio politico durante la Grande Guerra, quando era un giovane studente di linguistica presso l’Università di Torino. Già allora, i suoi articoli pubblicati sulla stampa socialista costituivano un atto di sfida non soltanto alla guerra in corso, ma anche alla cultura liberale, nazionalista e cattolica imperante in Italia.
All’inizio del 1917 Gramsci lavora come giornalista in un quotidiano socialista di Torino, Il Grido del Popolo, e collabora con l’edizione piemontese dell’Avanti!. Nei primi mesi che seguono alla Rivoluzione di Febbraio in Russia, le notizie a riguardo erano ancora scarse, in Italia. In massima parte ci si limitava alla riproduzione di articoli provenienti dalle agenzie giornalistiche di Londra e Parigi. Sull’Avanti! si seguivano gli eventi russi attraverso gli articoli firmati da “Junior”, pseudonimo di Vasilij Vasilevich Suchomlin, un Socialista Rivoluzionario in esilio.
Per fornire ai socialisti italiani informazioni affidabili, la direzione del Partito Socialista Italiano (PSI) inviò un telegramma al deputato Oddino Morgari, che si trovava a L’Aia, chiedendogli di recarsi a Pietrogrado ed entrare in contatto con i rivoluzionari. Ma la missione fallì e Morgari fece ritorno in Italia nel mese di luglio.
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Facebook ai tempi della governance globale
di Giovanna Cracco
Il 16 febbraio Mark Zuckerberg pubblica su Facebook - dove altro? - quello che subito i media definiscono un "manifesto politico": si intitola "Building Global Community", Costruire la comunità globale (1). Il documento segue una fase critica: nei mesi immediatamente precedenti, per due volte il social network è finito sotto l'attenzione dell'opinione pubblica durante la campagna presidenziale statunitense, prima con l'accusa di aver penalizzato i post a favore di Trump e promosso la visibilità di quelli pro Clinton, poi catapultato nella discussione mediatica sulla post verità, in quanto ritenuto responsabile di avere contribuito alla diffusione di fake news che avrebbero favorito sia la vittoria della Brexit che quella di Trump (2). Ne è seguita a dicembre la dichiarazione dello stesso Zuckerberg che Facebook debba oggi essere considerata una media company, ossia una società con responsabilità editoriale, e non una semplice piattaforma veicolo di contenuti caricati dagli utenti, con la conseguente dichiarazione d'intenti di voler adottare un sistema di controllo sui post pubblicati.
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Debito: tra squilibri di potere e opposti usi politici
di Biagio Quattrocchi
Un dialogo con il nuovo libro di Marco Bersani sulla questione del debito , sulla sua trasversalità alle diverse dinamiche economiche e sulle molteplici modalità di utilizzo concretizzatesi storicamente. Con lo sguardo dentro l'attualità dei conflitti contro l'austerity e il dominio della finanza
È da poco uscito l’ultimo libro di Marco Bersani dal titolo Dacci oggi il nostro debito quotidiano , edito da DeriveApprodi (pp. 172, 12 €). Prima di ogni cosa, si tratta di un riuscito lavoro di ricerca militante. Il libro presenta una critica dell’economia politica del debito (pubblico e privato), ma vuole essere principalmente, come sostiene lo stesso autore, uno strumento per organizzare la lotta sugli effetti del debito sulle nostre vite. È un libro che nasce dall’interno dei conflitti sociali sviluppati sui temi della finanza negli ultimi 16-17 anni almeno. Non poteva essere altrimenti. Marco in tutto questo periodo ha organizzato lotte, promosso campagne, realizzato centinaia di iniziative su terreni collegati alla finanziarizzazione dell’economia. Ricorderete l’inizio dei duemila, quando attraversavamo le strade di Genova, la campagna di Attac sulla Tobin tax, oppure il lavoro più recente svolto intorno alla privatizzazione di Cassa Depositi e Prestiti, o ancora, la straordinaria campagna referendaria sull’acqua bene comune. Ecco, dietro tutte queste lotte c’è sempre stato il suo prezioso lavoro organizzativo.
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“La sinistra deve ritrovare se stessa”
Francesco Postorino intervista Carlo Galli
Nel suo ultimo libro, “Democrazia senza popolo” (Feltrinelli, 2017), Carlo Galli ha ripercorso la sua esperienza parlamentare alla luce dei risultati cui è giunto in veste di studioso della politica. Nell'intervista qui presentata, si richiamano i tratti principali di questa riflessione
Carlo Galli, storico delle dottrine politiche, da qualche anno si cimenta nella dimensione pratica della politica. Parlamentare critico del Pd, ne prende formalmente le distanze quando il renzismo scopre le sue carte neoliberiste. Decide, infatti, di non votare riforme importanti quali il “jobs act”, la “buona scuola” e la riforma costituzionale. Legato al modello francofortese, Galli ha a cuore un progetto politico-culturale intenzionato a rivisitare in un’ottica socialdemocratica il rapporto tra capitale e lavoro. Ed è per questo che l’intellettuale progressista denuncia la “terza via” contemporanea, quel pensiero ibrido che insegue la vittoriosa narrazione del capitale e che, per certi versi, adotta gli strumenti ermeneutici del disordine nichilistico. Per risolvere la crisi strutturale in cui versa la società dei diseguali, la sinistra a suo parere dovrebbe riscoprire se stessa riabilitando la trama dell’equità sociale.
* * * *
Il titolo del suo ultimo libro recita: Democrazia senza popolo (Feltrinelli 2017). Com’è risaputo, anche la sinistra è senza popolo. Crede vi siano le condizioni per ricucirne il legame?
Si tratta in realtà di due questioni diverse. Fine della efficacia della rappresentanza politica (un tema vecchio di almeno centocinquanta anni) e fine dell’efficacia di una proposta politica (la sinistra come partito di massa che propone un profondo riequilibrio economico sociale e politico nelle società occidentali).
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Il segreto di Macron e della revanche €uropea? La mosca cocchiera reinventa la ruota
di Quarantotto
1. Questo post cercherà di scavare oltre la mera constatazione di sconquassi sociali, arbitrii plateali dell'oligarchia economica, eversione strisciante (ma anche no) dei principi fondamentali della Costituzione, e, soprattutto, della incessante propaganda antidemocratica profusa dalla grancassa mediatica, impegnata a fare il sicario prezzolato della democrazia del lavoro (come in sostanza ci rivelava Gramsci, invitando a boicottare i media, già negli anni '20).
Vorrei introdurre l'argomento muovendo da una sintesi che ci ha proposto Bazaar, relativamente al "come" l'assetto istituzionale del neo-liberismo, incarnato oggi da L€uropa, avrebbe superato lo stato di crisi, dicono addirittura rafforzandosi, almeno oggi nei giorni dell'esaltazione trionfale dell'elezione di Macron:
"La Terza forza - ovvero il gregge moderato - è la stessa forza che doveva rincorrere la Terza via. Qualla che non è il prodotto di alcun Aufhebung.
Più ordoliberismo per tutti.
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Per la rinascita del marxismo in Occidente
L’analisi di Domenico Losurdo
di Aldo Trotta
Manca ormai da tempo un dibattito teorico-politico sullo stato di salute e sulle prospettive del marxismo in Italia e non solo. Un dibattito tanto più necessario e urgente a fronte di una sinistra residuale che, dopo più di un quarto di secolo di abiure e di congedi dalla propria storia, continua ad annaspare nelle sabbie mobili di un “nuovismo” esasperato ed esasperante, alla ricerca affannosa e inconcludente di “nuovi” orizzonti teorici, di “nuovi” linguaggi, di “nuove” forme e pratiche politiche, di “nuove” identità, e via declinando. L’ultimo volume di Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì e come può rinascere, può senza dubbio fornire un contributo prezioso per provare a rianimare una discussione che vada oltre le pur importanti contingenze politiche. Pubblicato da poco per i tipi della Laterza, il testo si presenta nel panorama editoriale nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, in una fase storica in cui sullo scenario internazionale piovono bombe come fossero coriandoli, i focolai di crisi aumentano e i rischi di una conflagrazione bellica su ampia scala si addensano sempre più pericolosamente all’orizzonte, nella preoccupante assenza di un movimento pacifista in grado di far sentire preventivamente la sua voce prima che l’incendio divampi.
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Il buon uso dell'indignazione
di Augusto Illuminati
Con questo primo articolo apriamo uno spazio di dibattito sul tema populismo, verso il seminario di Euronomade, che si terrà dal 16 al 18 giugno a Roma, a ESC. Ospiteremo volentieri i contributi che ci perverranno
Ognuno si porta dietro gli anni e i pregiudizi che ha, siate clementi.
Per esempio, qual è la contraddizione principale oggi in ballo sul materialissimo piano ideologico? Il populismo dilagante o il neoliberalismo ancora saldo in sella? Interessante, non tanto per aderire all’uno o all’altro, ma per decidere se associarci o meno alle campagne in corso. Campagne orchestrate e finanziate in pari misura da forze geopolitiche e finanziarie ben note e da cui ci sentiamo egualmente distanti.
Populismo: «epíteto peyorativo como crítica política conservadora sin validez epistémica», scriveva Enrique Dussel nella seconda delle Cinque tesi sul populismo del 2007. Pensava naturalmente al neopopulismo latino-americano e ai regimi progressisti che si erano affermati al volgere del millennio in Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador e Brasile, non alle “comunità del rancore” dei sovranisti di sinistra e alle formazioni xenofobe e neofasciste. Per dirla con Rancière, «la nozione di populismo serve ad amalgamare tutte le forme di politica che si oppongono al potere delle competenze autoproclamate e per ricondurle a un’unica immagine: il popolo arretrato e ignorante se non astioso e brutale. Il potere del popolo è assimilato allo scatenamento di un branco razzista e xenofobo», quando oggi il razzismo è gestito dallo Stato, come dimostra la legislazione sulle migrazioni e sulle classi pericolose – pensiamo ai malfamati decreti Minniti subito tradotti in leggi e retate.
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Operaismo, post-operaismo? Meglio neo-operaismo
di Andrea Fumagalli
Una riflessione sull’utilizzo dei termini “operaismo”, “post-operaismo” e “neo-operaismo”. Non una semplice questione terminologica, bensì una questione di metodo e di sostanza utile alla comprensione dell’attuale dinamica delle soggettività del lavoro e del conflitto sociale. Nel testo si confutano anche alcune fantasiose e strumentali ricostruzioni di chi vorrebbe interpretare ciò che non capisce (o, meglio, non vuole capire)
La ricerca teorica di parte dei contributi apparsi sui siti di Commonware, Effimera, EuroNomade si muove sulla falsariga della metodologia operaista. Una metodologia che prende piede nella conricerca e nell’inchiesta sulla condizione operaia ai tempi dello sviluppo delle prime lotte dell’operaio massa.
Credo che su ciò possiamo in linea di massima concordare, pur essendo pienamente coscienti che ci muoviamo oggi in tempi strutturalmente differenti e affrontiamo problematiche teoriche e analisi empiriche assai diverse da quel tempo. C’è tuttavia un insegnamento di metodo che lega quei tempi all’oggi con un sottile filo rosso. Si tratta dell’intuizione, fornita dai Quaderni Rossi, che il rapporto capitale – lavoro è un rapporto tra soggettività in conflitto: soggettività diverse che si muovono su piani diversi e asimmetrici. Possiamo tradurre questa intuizione, come fa il primo Tronti di Operai e Capitale, nella constatazione tanto semplice quanto illuminante che il lavoro esprime una propria soggettività ontologica (composita e, per questo, degna di essere analizzata) che può comunque fare a meno del capitale; altrettanto non si può dire del capitale, la cui esistenza dipenda dal rapporto con il lavoro e per questo necessita di subordinarlo.
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Né da destra né da sinistra. Riflessioni dopo l’Eliseo
di Mimmo Porcaro
1. Mezzi fascisti e falsi antifascisti
In Francia è andata come doveva andare, secondo i pronostici e soprattutto secondo la logica. La trappola dell’antifascismo in assenza di fascismo è scattata alla perfezione e, anche se non è stata questa la causa principale della vittoria di Macron, è comunque il caso di parlarne, non foss’altro per le castronerie che si sono udite, al proposito, anche da questa parte delle Alpi.
Va ricordato, prima di tutto, che l’europeismo padronale di cui Macron è al momento l’eroe riconosciuto, ha da tempo messo in atto con efficacia una precisa strategia di dissoluzione de iure e de facto delle Costituzioni antifasciste, lavoriste e semi-socialiste che vigevano prima della sublime invenzione della “governance multilivello” dell’Ue. Tale europeismo ha consapevolmente dissolto la sostanza e la forma della democrazia parlamentare sia togliendo potere ai parlamenti nazionali sia traslando questo potere ad organismi non-parlamentari posti scientemente “al riparo dal processo elettorale”.
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Alle radici del nostro presente
di Militant
Questa Storia di Lotta continua è uno dei ragionamenti più importanti che è possibile leggere sugli anni Settanta, ancora oggi. E’ una storia quasi in presa diretta, scritta nel 1978, pubblicata nel 1979, e nonostante ciò in grado di esplorare in profondità gli anni Settanta come davvero poche altre opere sull’argomento. Il tentativo di sciogliere il nodo gordiano degli anni Settanta, come ripetuto varie volte, non produrrà risultati significativi fuori dalla lotta di classe. Detto altrimenti, sarà solamente un nuovo e duraturo ciclo di lotte politiche che saprà darsi da sé gli strumenti culturali e politici per razionalizzare l’esperienza del decennio ’68-’77, assumendo e, al contempo, liberandosi da quel vincolo. Eppure questo dato di fatto non ci assolve dall’onere della ricerca della comprensione di quel decennio. Non per mero interesse storiografico, quanto per necessità politica. In questa ricerca, favorita in tal senso dal quarantennale del Settantasette, non per caso ci siamo imbattuti in due storie di Lotta continua. Perché, nonostante le differenze che idealmente ci distanziano da quella storia, Lotta continua fu il soggetto che più consapevolmente produsse riflessioni su se stesso e sul contesto socio-politico di quegli anni, il movimento-partito in cui più apertamente trovarono sede confronti tra posizioni politiche diversificate; in altre parole, Lotta continua fu il soggetto di movimento degli anni Settanta più assimilabile a un partito, inteso nel senso migliore, e al tempo stesso maggiormente attraversato dalle istanze di movimento.
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Un esempio di lotta antimperialista
La Repubblica Popolare Democratica di Corea
di Eros Barone
Il testo che segue è un estratto del discorso che Ernesto Che Guevara tenne il 6 gennaio 1961 alla televisione cubana al rientro da un viaggio della delegazione cubana nei Paesi socialisti. Non risulta che sia stato pubblicato in Italia, sicché la traduzione è stata condotta sul testo pubblicato in rete nel sito dell’Esercito di Liberazione Nazionale colombiano, che mette a disposizione l’opera completa del rivoluzionario argentino.
«Fra i Paesi socialisti che abbiamo visitato personalmente, la Corea è uno dei più straordinari. Forse è quello che più ci ha impressionato rispetto agli altri. Ha solo 10 milioni di abitanti e l’estensione di Cuba, un po’ meno, circa 110mila kmq; la stessa estensione territoriale della parte sud della Corea, però con la metà degli abitanti. È stata devastata a causa di una guerra così incredibilmente distruttiva che delle sue città non lasciò nulla, e quando uno dice niente è niente; è come i piccoli villaggi che gente come Merob Sosa e Sánchez Mosquera [due capi militari dell’esercito cubano nel periodo della dittatura di Batista] bruciava qui, e dei quali non rimaneva nient’altro che cenere. Così rimase, ad esempio, Pyongyang, che è una città di un milione di abitanti. Oggi non si vede un solo resto di tutta quella distruzione; tutto è nuovo. L’unico ricordo che resta sono, in tutte le strade, i buchi delle bombe che cadevano una dopo l’altra.
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Miserabile accumulazione: Salari, produttività e impoverimento relativo dei lavoratori
di Maurizio Donato*
Nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione del lavoratore, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare
L'attenzione notevole rivolta negli ultimi anni ai cambiamenti intervenuti nella distribuzione del reddito da numerosi studiosi (Milanovic, Picketty, Deaton) può essere utilizzata correttamente se si considerano le crescenti disuguaglianze come effetto e non come causa della crisi.
Salari fermi al livello di sussistenza
Per Karl Marx, la parola “miseria” non indica la povertà assoluta, avendo egli chiarito nel I libro del Capitale (in particolare nei par. 3 e 4 del cap. 23) che la legge dell'immiserimento della classe operaia non è contraddetta dalla possibilità che i salari dei lavoratori crescano durante l’accumulazione di capitale, almeno fino a un certo livello. Nella sua analisi, Marx distingue tre definizioni del salario. In primo luogo, e a un livello più immediato, il salario rappresenta la quantità di denaro che il lavoratore riceve dal suo datore di lavoro: è il salario “nominale” o “monetario”. Tuttavia, in un mondo in cui spetta ai capitalisti decidere quantità e prezzi della produzione, non possiamo accontentarci di considerare i salari nominali, ma dobbiamo considerare la quantità effettiva di beni e servizi che i salari sono in grado di acquistare, cioè i salari “reali”.
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Tsipras ed Unione Europea: per un bilancio politico
di Fosco Giannini*
La Grecia è di nuovo sotto il torchio. Il popolo greco è per l’ennesima volta in pochi anni sotto la mannaia liberista dell’Unione Europea. Martedì 2 maggio, ultimo scorso, il governo greco ha firmato un altro pre-accordo con i creditori internazionali, volto a dimostrare quanto la Grecia abbia “ben lavorato”, quanti nuovi tagli sociali abbia fatto negli ultimi venti mesi ( come richiesto dalla BCE e dal FMI) al fine di ottenere un possibile taglio del debito.
Il testo del pre-accordo dovrà essere valutato, ed eventualmente ratificato, il prossimo 22 maggio dall’Eurogruppo, previa – tuttavia – approvazione del Parlamento greco. E qui potrebbe esserci la prima sorpresa, la concretizzazione del paradosso: l’opposizione di destra al governo Tsipras, non unendosi, ma assommandosi oggettivamente alle lotte sociali, sindacali ( uno sciopero generale è previsto per il 17 maggio) e del Partito Comunista di Grecia ( KKE), potrebbe avere la forza di ostacolare il pacchetto liberista che il governo ellenico ha approntato per l’Eurogruppo. Pacchetto che, tuttavia, passerà.
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“Non ci rappresentano?”
Jacques Rancière ed Ernesto Laclau discutono su “stato” e “democrazia”
a cura di Amador Fernández-Savater*
Presentiamo un dialogo sulla democrazia e sul dispositivo politico della rappresentanza tra i filosofi Jacques Rancière, ispiratore di quello che è stato il movimento 15M di Spagna, ed Ernesto Laclau, ispiratore teorico di riferimento di Podemos. Il 16 ottobre 2012, nell’università di San Martín di Buenos Aires, il filosofo francese Jacques Rancière intervenne alla conferenza “La democrazia oggi”, all’interno di una più lunga settimana di conferenze a Buenos Aires e Rosario organizzate da UNSAM e la casa editrice Tinta Limòn.
Nel suo discorso, Rancière sviluppa la sua già nota riflessione sul tema: la democrazia non è un regime di governo, ma una manifestazione, sempre dirompente e conflittuale, del principio egualitario. Per esempio, quando i proletari del secolo XIX decidono di non agire come se fossero semplicemente “forza lavoro”, ma persone uguali alle altre per intelligenza e capacità, capaci di leggere, pensare, scrivere o autorganizzare il proprio lavoro. La democrazia si configurerebbe in questo modo come l’ingovernabile stesso nella sua manifestazione, ovvero, l’azione egualitaria che rompe l’organizzazione gerarchica dei luoghi, delle parti sociali e delle funzioni, aprendo il campo del possibile e ampliando le definizioni della vita in comune.
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