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Le vere ragioni della lunga recessione italiana
di Guglielmo Forges Davanzati
La lunga recessione italiana non dipende né dall’elevato debito pubblico né dall’adozione della moneta unica, come le narrazioni dominanti – ovviamente su sponde politiche diverse – provano a spiegarla. Si tratta di motivazioni che, nella loro semplicità, sono facilmente divulgabili e, per un’opinione pubblica disattenta o poco informata, facilmente assimilabili. Non vi è però dubbio in merito al fatto che l’adesione alla moneta unica ha contribuito ad accentuare i problemi, sia perché l’impalcatura istituzionale dell’UME è di fatto costruita in modo da produrre deflazione e recessione[1], sia perché, attraverso l’attuazione di misure di austerità, contribuisce alla crescita del debito, in particolare nei Paesi periferici.
La recessione italiana andrebbe piuttosto inquadrata in una prospettiva di carattere più generale che attiene a ciò che viene definito il declino economico italiano: quella italiana è una crisi nella crisi, che non trova eguali nel resto d’Europa[2]. Per darne conto, può essere sufficiente il solo dato per il quale nel 2014 l’Italia è stato l’unico grande Paese europeo a sperimentare un tasso di crescita ancora di segno negativo, con un Mezzogiorno che continua a diventare sempre più povero (SVIMEZ, 2015).
La categoria del declino economico attiene a una prospettiva di lungo periodo ed è difficile individuare una data esatta dal quale farlo partire.
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Vendola, Tobia e "il valore di scambio elevato al cubo»
di Sebastiano Isaia
Il direttore di Avvenire Marco Tarquinio ha avuto la bella idea, e lo dico senza alcuna ironia, di far scendere in campo il noto comunista di Treviri contro Nichi Narrazione Vendola a proposito della sempre più scottante questione dell’utero oggetto di transazione mercantile. «Stavo per ricorrere a un’immagine di papa Francesco o di Benedetto XVI, ma poi ho pensato che a Nichi Vendola era meglio dedicare una citazione di Karl Marx, quella che pubblichiamo qui sotto. Il triste mercato dell’umano cresce, e ha ingressi di destra e di sinistra. Si smetta di chiamarli “diritti”» (1). Qui mi limito a osservare che i “comunisti” alla Vendola o alla Bertinotti meritano invece proprio le perle luogocomuniste di un Papa Francesco, considerato che tali personaggi non hanno mai avuto nulla, e sottolineo nulla, a che fare con il comunismo marxiano. Questa considerazione naturalmente va estesa a quanti a vario titolo si richiamano alla tradizione del cosiddetto “comunismo italiano”, declinazione italica dello stalinismo internazionale. Ma non è di questo che intendo scrivere brevemente adesso.Veniamo al regalo che Tarquinio ha voluto consegnare al neo padre, nonché ideologo della “famiglia arcobaleno”, oggi al centro dell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, sempre pronti a trovare occasioni utili a creare opposte tifoserie. Si tratta di uno splendido passo marxiano inteso a colpire la concezione robinsoniana (astorica, adialettica, idealistica, piccolo-borghese) di Proudhon circa la genesi dello scambio, il quale trovò infine la sua forma più sviluppata nella moderna società borghese, non a caso stilizzata da Marx come «una immane raccolta di merci» – e questo oltre un secolo e mezzo fa! Leggiamo:
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La responsabilità sociale del filosofo*
di György Lukács
Devo scusarmi subito in apertura se arriverò a rispondere alla questione solo dopo lunghi giri. Primo, [perché] mi sembra che la questione in sé non sia stata finora sufficientemente chiarita. Secondo, e più importante, perché scorgo nella situazione attuale problemi del tutto particolari, che rinviano oltre una specificazione normale della questione generale e la cui analisi soltanto consente teoricamente una risposta concreta.
I nostri ragionamenti devono dunque culminare nelle due questioni seguenti, fra di loro strettamente connesse: esiste una responsabilità specifica del filosofo, che va oltre la responsabilità normale di ogni uomo per la propria vita, per quella dei suoi simili, per la società in cui vive e il suo futuro? E inoltre: tale responsabilità nella nostra epoca ha acquistato una forma particolare? Per la teoria dell’etica, entrambe le questioni implicano il problema se la responsabilità contenga un momento storico-sociale costitutivo. È un interrogativo che va posto subito all’inizio, giacché proprio l’etica moderna, specialmente quella che si è sviluppata sotto l’influenza di Schopenhauer prima e di Kierkegaard poi, pone l’accento sul fatto che il comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita mira proprio a tenersi lontano da tutto ciò che è storico-sociale per pervenire all’essere ontologico, in contrapposizione netta a tutto l’essente. È ovviamente impossibile trattare qui, sia pure per grandi linee, tutto questo complesso di problemi. Possiamo occuparci solo di quegli aspetti che riguardano oggettivamente il nostro problema.
1. Nell’etica, così come si è configurata sinora, possiamo osservare – grosso modo** – due correnti decisive. La prima considera rilevante esclusivamente l’atto in sé della decisione etica, del comportamento.
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Il capitale fisso e l’intelligenza generale della società*
Su “general intellect” e dintorni
di Gianfranco Pala
“Le manifatture prosperano di più dove meno si consulta la mente, di modo che l’officina può esser considerata come una macchina le cui parti sono uomini”, scriveva il maestro di Smith, Adam Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, già nel 1767. E quelle parti “umane” della macchina non contengono più neppure un briciolo di “intelligenza generale” del processo. Tutt’al più conservano, per poco tempo ancora, alcuni segreti e astuzie. La separazione del lavoro dal sapere, anziché essere superata col cosiddetto postfordismo (come alcuni vorrebbero far credere), e tuttavia neppure creata da esso, rimanda alla divisione del lavoro storicamente rilevante nelle società classiste, ai fini dell’affermazione del dominio di una classe (casta, ordine, ecc.), che è quella tra lavoro mentale e lavoro fisico. Con lo sviluppo della grande industria, il lavoro mentale e quello intellettuale (o meramente fisico cerebrale) vengono sottomessi realmente al capitale per la sua autovalorizzazione, nella produzione di plusvalore e poi nella sua circolazione. Non solo, ma i loro stessi risultati, derivanti dalla combinazione del lavoro sociale, sono continuamente incorporati come scienza e tecnica nel corpo materiale delle macchine del capitale.
L’ossificazione della moderna divisione classista del lavoro si ha perciò col passaggio dalla manifattura alla grande industria.
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L’uomo senza quantità
Decostruzione del privilegio e anarchismo socio-rivoluzionario
di Tyler Miranda

manifestolibri, 2013, p. 46.
Milano, Mondadori, 2014, p. 14.
(1971/99), § 12, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 87.
Come ho già avuto più volte occasione di sostenere in precedenti interventi, il cosiddetto “discorso preliminare sul privilegio” – decostruzione antropologica di ogni principio di destinalità sociale delle traiettorie esistenziali dei gruppi come degli individui che li compongono – trova, fuor di ogni ragionevole dubbio, una sua non trascurabile anticipazione storica in alcune precise prese di posizione politiche (e topiche) che appartennero all’anarchismo rivoluzionario ottocentesco di Michail A. Bakunin.
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La mutazione antropologica che viviamo
Piergiorgio Giacchè
Dove siamo?
“Ovunque la gente – in condizioni molto diverse – si chiede: dove siamo? La domanda è storica, non geografica. Cosa stiamo vivendo? Dove ci stanno portando? Cosa abbiamo perso? Come andare avanti senza una visione plausibile del futuro? Perché non riusciamo più a vedere cosa c’è oltre la nostra esistenza personale? Gli esperti ben pagati rispondono: Globalizzazione, Postmodernismo, Rivoluzione delle comunicazioni, Liberismo. I termini sono tautologici ed evasivi. All’angosciosa domanda ‘dove siamo?’, gli esperti rispondono: ‘Da nessuna parte!’”
Si può cominciare da questa frase di John Berger1 oppure da altre più elaborate considerazioni sulla “fine della storia”, ma il risultato non cambia: una sensazione di smarrimento fa il paio, ma fa anche contrasto, con un senso di delusione. Insomma, non sappiamo dove siamo, oppure lo sappiamo fin troppo bene?
Il fatto è che “da nessuna parte” è un luogo e un modo che esiste: ce lo si può figurare come la stazione del treno dove eravamo saliti con orgogliosa sicurezza. Un luogo vasto e un mondo fermo, dove si doveva finalmente arrivare e come volevasi dimostrare… Un tempo – ma si può dire fino a ieri – si festeggiava l’accelerazione di quel treno, ci si compiaceva di essere “in transizione” dal vecchio piccolo mondo tradizionale al nuovo grande spazio senza frontiere, con la sensazione di essere al centro della Storia e nel cuore dell’eterna battaglia tra permanenze e innovazioni.
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Quando gli interessi finanziari si sposano con le istituzioni
Le crisi economiche, l’impoverimento culturale, le deformazioni del linguaggio
Sergio Bruno
1. Un tentativo di controinformazione colta
Quando interessi forti, quelli della gente molto ricca e potente, si sposano con le istituzioni per ottenere la possibilità di ottenere legalmente il loro tornaconto e per guidare le azioni pubbliche a proprio vantaggio, le nozze avvengono tramite il coinvolgimento di persone che occupano o occuperanno posizioni influenti nelle istituzioni e, da trent’anni in qua sempre più, nelle tecnocrazie, nazionali e internazionali. Per rendere fattibile questo deleterio matrimonio occorrono varie condizioni:
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un impoverimento culturale e una mancanza di curiosità storica talmente diffusi da impedire di attingere saggezza e capacità diagnostica dagli eventi passati,
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la creazione di un prestigio artificiale intorno alle tecnocrazie e ai think Tank da esse più o meno direttamente partoriti,
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la frammentazione delle competenze dei funzionari di livello medio delle tecnocrazie, che rende loro difficile avere una visione di insieme, coniugata nel corso del tempo ad un fluido funzionamento di meccanismi di cooptazione legati a comprensibili motivazioni di carriera, indipendenti dai requisiti di onestà personale (che possono essere ottimi) e alla carenza di capacità critiche robuste, combinate con il coraggio, da parte dei cooptandi1,
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Quando il paziente è l’Italia
Elvio Fachinelli al cuore delle cose
di Marco Dotti
Elvio Fachinelli, Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989), a cura di Dario Borso, DeriveApprodi, Roma 2016
Il 21 dicembre 1989, un giovedì, a Milano, moriva Elvio Fachinelli. In quelle ore, in un altrove che credevamo non ci riguardasse troppo ma coglieva forse meglio e certo più di tanti scenari il cuore infinitamente nero del nostro tempo che proprio Fachinelli aveva saputo indagare con il rigore eccentrico del flâneur, Nicolae Ceausescu, uno di quei piccoli uomini senza rigore e senza smalto che talvolta fanno la storia, si affacciava dal suo palazzo presidenziale e ripeteva una menzogna di lungo corso.
Nelle parole pronunciate in quello che fu il suo ultimo discorso pubblico, il conducător mostrava un misto di incredulità e disprezzo. Incredulità rispetto ai fatti di Timişoara, alle rivolte, ai minatori, allo sgomento per la “necessaria” repressione. Disprezzo per una una realtà che non solo gli era sfuggita di mano, ma proprio non vedeva più, continuando imperterrito a parlare di “società plurilateralmente sviluppata” e di “splendore del socialismo rumeno”. Il giorno dopo, di quello splendore e di quello “sviluppo onnilaterale” sarebbe rimasta solo la polvere. Il ritorno all’ordine non aveva avuto luogo. E noi, scomparso Fachinelli, avevamo uno sguardo in meno per cogliere ciò che davvero stava mutando fuori, dentro e persino oltre di noi.
Elvio Fachinelli era nato a Luserna, in Trentino, nel dicembre di sessantun anni prima.
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Cambio di marcia. Intro-versioni dell’urbano
di Ubaldo Fadini
Con questo testo di Ubaldo Fadini proseguiamo la costruzione del dossier dedicato alle questioni dell’ecologia politica nelle sue declinazioni connesse all’attualità politica. Fadini interroga con grande originalità l’opera di André Gorz, di cui ci siamo occupati sia direttamente (Penser l’exode de la société du travail et de la marchandise) che indirettamente (introduzione Ecologia e libertà). Il saggio è un estratto dal suo recente libro Divenire corpo. Soggetti, ecologie, micropolitiche, ombre corte (2015)
Nel suo testo sulla Conversione ecologica, G. Viale ci indica l’opportunità (forse la necessità…) di un cambiamento “spirituale” che concerna il nostro modo di vivere complessivo, lo stile di esistenza, comprensivo appunto del produrre e del consumare, del relazionarsi agli altri e all’ambiente. Questo cambiamento (una vera e propria “conversione”) non può che qualificarsi come “ecologico”, in quanto si misura concretamente con i limiti degli spazi antropologici all’interno dei quali ci troviamo ad operare. La sensibilità intellettuale qui in gioco ha un sapore tipicamente “esistenzialista”. Viale parla di un essere “gettati” nell’ambiente e i limiti di quest’ultimo sono così caratterizzati: “(…) limiti che sono essenzialmente temporali; sia perché fanno i conti con il fatto che siamo esseri mortali in un mondo destinato a durare anche dopo di noi, e per questo toccano il nucleo più profondo della nostra esistenza; sia perché ci ricordano che non si può consumare in un tempo dato più di quello che la natura è in grado di produrre; né inquinare in un tempo dato – inquinare inquiniamo e inquineremo sempre tutti, chi più e chi meno – più di quanto l’ambiente riesce a rigenerare. Questo vale tanto per il singolo che per una comunità, per una nazione, per l’umanità intera” (1). In una prospettiva che non è certo lontana da quella delineata in alcune pagine di A. Gorz (con il suo particolare “marxismo esistenzialista”), Viale sottolinea come la conversione ecologica si disponga sotto una veste progettuale che deve tener conto oggettivamente della crisi economica, con la sua dimensione finanziaria: non è infatti pensabile un cambiamento radicale della realtà che insista soltanto sui comportamenti individuali; è indispensabile gettare lo sguardo (e fare eventualmente leva…) sui comportamenti collettivi, quelli che sembrano articolarsi in modo tale da tenere unite le qualificazioni ambientali e sociali degli eventi.
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I linguaggi della Narcoguerra
di Militant
La “guerra alla droga” è lo strumento politico attraverso cui gli Stati uniti mantengono il controllo amministrativo ed economico di alcuni Stati dell’America Latina e centrale. Non è una lotta del “bene contro il male”, soprattutto laddove il primo è rappresentato dagli Usa o, peggio ancora, dalle sue particolari agenzie repressive (Cia, Dea, Nsa); l’obiettivo non è quello di estinguere il problema, sia perché questo è il prodotto di una domanda incontrollabile dei paesi occidentali, sia perché droga e narcos costituiscono privilegiati strumenti di controllo di territori e dinamiche sociali da utilizzare come “agenti di prossimità”; è, infine, una questione eminentemente politica e non semplicemente criminale, d’ordine pubblico, militare o in qualche modo tecnica: è politica perché deriva da specifiche cause sociali che la determinano; perché è prodotto diretto degli accordi neoliberisti di libero scambio tra paesi subalterni all’economia Usa; perché serve ai politici locali per costruire legittimazione che poi riversano contro le popolazioni povere dei rispettivi contesti e per facilitare gli accordi di libero scambio di cui sopra. Sebbene scomparsa dai radar dei media occidentali, la lotta alla droga costituisce uno dei più rilevanti ambiti di gestione imperialista dei territori. In questi anni è soprattutto il mondo della cultura di massa ad essersene occupata, con linguaggi e obiettivi differenti, a volte opposti. E’ interessante capire come avviene il racconto della “guerra alla droga”, alla luce di alcuni specifici lavori usciti in questo anno, che contribuiscono a dare una panoramica degli interessi e delle sensibilità sul tema in questione.
Dei due imprescindibili romanzi di Don Winslow (qui e qui) ce ne siamo occupati tanto in passato e di recente.
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La performance zoppa e il cantiere del «comune»
Christian Laval
Christian Laval oggi alla «Scuola di politica» di Napoli. Un’anticipazione dell’intervento del sociologo sulla radicalizzazione del neoliberalismo
Stiamo vivendo una forte accelerazione dei processi economici e securitari che stanno trasformando nel profondo le nostre società. Abbiamo a che fare con un’accelerazione del processo di uscita dalla democrazia. Da una parte vi è la potenza rinnovata dell’offensiva rivolta contro i diritti sociali ed economici dei lavoratori; dall’altra parte, la moltiplicazione dei dispositivi securitari rivolti contro i diritti civili e politici dei cittadini. Stato d’emergenza anti-sociale in nome della disoccupazione e della perdita di competitività da un lato; stato d’emergenza securitario permanente dall’altro: le due vie d’uscita dalla democrazia e dallo stato di diritto si completano e si appoggiano reciprocamente.
Uscita accelerata dalla democrazia per mezzo di questa duplice e connessa radicalizzazione, neoliberale e securitaria: questa è la diagnosi che si può fare della dinamica politica dominante nella quale siamo coinvolti. La radicalizzazione neoliberale è proprio uno dei fenomeni che maggiormente caratterizzano il periodo che stiamo vivendo. Come spiegare questa radicalizzazione neoliberale? Perché e in che modo il neoliberalismo è uscito più forte dalla crisi? Questa radicalizzazione deriva dalla razionalità dello stesso neoliberalismo. La crisi, che è la conseguenza delle politiche neoliberali, è in effetti anche la causa di questa radicalizzazione neoliberale. La crisi, in tutte le sue forme, e alla luce degli aspetti più oggettivi come di quelli più retorici della propaganda ufficiale, è al tempo stesso il principale strumento e il principale argomento della disciplina che è oggi imposta alla popolazione e ai lavoratori. Questa crisi, al tempo stesso conseguenza e causa della radicalizzazione, è diventata uno strumento di governo, una razionalità per governare, un argomento costante delle riforme dette strutturali.
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Lo Stupro di Timor Est: ”Sembra Divertente”
di John Pilger
Alcuni documenti segreti saltati fuori dagli Archivi Nazionali Australiani ci danno la possibilita’ di dare un’occhiata al come uno dei piu’ grandi crimini del Xxmo secolo fu eseguito e tenuto nascosto. I documenti ci permettono anche di capire come e per chi il mondo funziona.
I documenti si riferiscono a Est Timor, al giorno d’oggi chiamata anche Timor-Leste, e furono scritti da diplomatici dell’ambasciata Australiana di Giacarta. La data era Novembre 1976, meno di un anno dopo che il dittatore Indonesiano Generale Suharto si era impossessato di quella che allora era una colonia Portoghese nell’isola di Timor.
It terrore che ne segui’ ha pochi paralleli: neanche Pol Pot riusci’ a assassinare, proporzionalmente, cosi’ tanti Cambogiani quanti ne uccisero Suharto e i suoi colleghi generali a Est Timor. Massacrarono quasi un terzo della popolazione che allora contava quasi un milione di persone.
Questo fu il secondo olocausto di cui Suharto si rese responsabile. Un decennio prima, nel 1965, Suharto si impadroni’ del potere in Indonesia in un bagno di sangue che porto’ alla morte di piu’ di un milione di vite umane. La CIA riporto’:” In termini di numero degli uccisi, i massacri costituiscono uno dei peggiori assassinii di massa del XXmo secolo”.
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E' guerra! Ecco i retroscena. Con delle proposte per reagire
Renzi riporta l'Italia in Africa per (ri)colonizzare la Libia
Patrick Boylan
Stiamo per entrare in guerra. Silenziosamente, con il dibattito parlamentare ridotto a zero. Il nostro compito più urgente: suonare l'allarme. Per farlo è prevista una giornata di manifestazioni contro la guerra il 12 marzo
Ieri il Giornale ha svelato che lo scorso 10 febbraio il Consiglio dei Ministri ha varato, segretamente, l'autorizzazione all'utilizzo di forze speciali italiane in Libia, al di fuori di qualsiasi autorizzazione dell'ONU e senza l'invito del governo libico, ancora in formazione (ma i cui principali esponenti hanno già fatto capire che considererebbero qualsiasi invasione europea come un atto di aggressione). Trattandosi dell'invio di forze speciali per una “operazione di emergenza” e non (ancora) dell'invio delle truppe regolari, si è potuto evitare il vaglio parlamentare.
L'ordine di invasione sarebbe imminente e attende solo la firma del Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Si tratta, concretamente, d'inviare per ora “solo” una testa di ponte il cui scopo dichiarato sarebbe quello di proteggere alcuni impianti petroliferi che interessano l'ENI; in seguito il governo conta di inviare diverse migliaia di truppe ma spera di annacquare il relativo dibattito parlamentare includendo l'invasione della Libia tra le “missioni di pace all'estero” da approvare in un pacchetto complessivo.
Ma quale sarebbe l'emergenza attuale in Libia che giustificherebbe l'invio immediato delle forze speciali italiane? Si tratta forse di proteggere certi impianti petroliferi, adocchiati dall'ENI, dalla minaccia del cosiddetto “Stato Islamico” (o “ISIS” o “Daesh”)?
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Vita quotidiana. Tra Freud e Heidegger
Enrica Lisciani-Petrini
1. Se c’è un aspetto sul quale val la pena di focalizzare l’attenzione – se si guarda, anche con uno sguardo di sorvolo, al quadrante storico che va da Baudelaire fino ai giorni nostri – è la pervasiva e crescente irruzione della vita quotidiana a tutti i livelli. Dall’arte (cinema, fotografia, letteratura, pittura, come anche nella musica) fino agli altri ambiti della realtà, emerge – con l’avvento soprattutto della vita metropolitana – una visione delle cose che si separa dalle forme spirituali, perfette, armoniose, dalle figure eroiche del passato, per lasciare il posto alle forme informi della vita anonima e brulicante, refrattaria ad ogni qualifica, del quotidiano. Sì che alla figura dell’eroe (ovvero dell’eroina) subentra quella dell’uomo qualunque, del “chiunque” anonimo, insomma dell’«uomo senza qualità» per dirla con la celeberrima espressione di Musil. Il che smantella quella nozione di soggetto che trova nel personaggio dell’eroe, effigiato in una luminosa aureola identitaria, quale soggetto incomparabile, individualmente unico e insostituibile, il suo emblema principe. Non a caso, del resto, il processo di progressiva, per dir così, “quotidianizzazione” del reale va di pari passo proprio con quella radicale dissoluzione della categoria di soggetto che ha attraversato, come ben si sa, l’intero Novecento.
Solo che – ecco il punto che in questa sede vorrei sviluppare – l’irruzione della vita quotidiana conferisce a quella dissoluzione una connotazione molto significativa.
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In Iran hanno vinto i centristi
Occidente accecato dai pregiudizi
Nicola Pedde*
Una grande confusione ha caratterizzato la lettura dei risultati elettorali iraniani da parte della stampa internazionale, nell'interpretazione di un voto per le elezioni parlamentari e dell'Assemblea degli Esperti in Iran che ha visto i principali titoli dividersi tra una vittoria netta dei riformisti e del presidente Rohani e le smentite dall'Iran che hanno dato invece per vittoriose le forze conservatrici.
La ragione di questa confusione è in larga misura da individuarsi nel modo in cui, ancora una volta, gli europei e gli occidentali in genere si ostinano a leggere le dinamiche politiche e sociali dell'Iran, delineando una netta linea di demarcazione tra i riformisti e i conservatori.
I riformisti, per gli occidentali, rappresentano il "desiderata politico" con cui misurarsi e che immaginano come una forza ideologica anti-regime, anti-rivoluzionaria e pro-occidentale, animata dal solo desiderio di mutare il connotato politico dell'Iran in un qualche ibrido vicino ai modelli occidentali.
Allo stesso tempo, i conservatori sono visti dalla gran parte degli occidentali come un insieme di anziani teocrati radicali, fanaticamente religiosi e anti-democratici, animati dal solo desiderio di mantenere in vita l'apparato tradizionale islamico forgiato con la rivoluzione.
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Contro l’utero in affitto
Luisa Muraro, Paolo Ercolani, Diego Fusaro
1. Luisa Muraro: utero in affitto, mercato delle donne
Intervista di Lucia Bellaspiga a Luisa Muraro in Avvenire 4 novembre 2015
«La tratta e la schiavitù sono già un crimine riconosciuto e condannato a livello internazionale, invece contro l’utero in affitto, la forma più odiosa di sfruttamento del corpo delle donne, bisogna combattere. Siamo ancora in tempo». Luisa Muraro, filosofa e figura di riferimento del femminismo italiano, fondatrice a Milano nel 1975 della Libreria delle Donne, è persona difficile da circoscrivere: «Figura storica del femminismo? No, ho cominciato prima del femminismo, con il Comitato per la pace nel Vietnam, che fu iniziazione politica di molta gente della mia generazione, prima ancora del Sessantotto. Poi fondai un piccolo circolo dissidente dedicaito a Bernanos per il suo documento sulla guerra di Spagna. Infine l’incontro con femministe davvero storiche come Lia Cigarini e Carla Lonzi, e la nascita della Libreria delle Donne…».
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L'utero in affitto e i clerico-fascisti di sinistra
di Turi Comito
Le deboli obiezioni di coloro che si battono per l'utero in affitto, le loro sottovalutazioni, le distorsioni che non vogliono dibattere
Malgrado mi fossi ripromesso con me stesso e con altri amici di non parlarne più, torno sulla questione dell'utero in affitto o, se si preferisce GPA (gestazione per altri), per due motivi.
Il primo è che il dibattito in questi giorni ha assunto i toni di una vera guerra di opinioni come non ne vedevo da tempo e siccome io sono schierato con chi è contrario a questa pratica non mi sottraggo alla chiamata alle armi.
E il secondo è che mi sento molto urtato nel vedermi accostato a personaggi tipo Adinolfi o a un qualunque retrogrado cardinale di Santa Romana Chiesa. Con questa gente, a parte l'aria che respiro, non ho nulla in comune.
Quindi esporrò alcune mie considerazioni - che potranno interessare qualcuno, essere liberamente criticate da altri o semplicemente ignorate da tutti - solo per evitare fraintendimenti.
Prima di cominciare vorrei però sottrarmi ad una specie di obbligo che pare sia, in questi giorni, necessario da parte di chi parla di queste cose. Non mi interessa nulla della questione di Vendola né mi interessa augurargli tutto il bene possibile a lui e famiglia. Sinceramente non ne sento la necessità altrimenti avrei dovuto pure fare gli auguri alla nipote della regina d'Inghilterra per i figli che ha avuto e a tutta un'altra infinita serie di personaggi pubblici che hanno avuto figli, in una maniera o nell'altra, e di cui non mi è mai fregato assolutamente niente.
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Diritti delle coppie omosessuali: proviamo a “comprendere”
di Walter Moretti
Riceviamo da Fabio Bentivoglio questo contributo alla discussione sui diritti di Walter Moretti, che pubblichiamo volentieri (M.B.)
Se siamo qui a scrivere sulla questione dei diritti delle coppie omosessuali, dopo aver letto e sentito milioni di parole in proposito, è perché ritengo che il dibattito sia a un livello a dir poco avvilente, perché monopolizzato da quelli che Massimo Bontempelli nel suo scritto “Diciamoci la verità” (Koiné, Gennaio/giugno 2001 ed. C.R.T.) ha definito i teorici del “libertarismo arbitraristico”, tipico della sinistra progressista, a fronte del falso moralismo repressivo tipico dei cattolici e della destra.
Prima ancora di dividersi in merito alla questione in oggetto, ritengo di fondamentale importanza cercar di comprendere perché oggi il tema del diritto delle coppie omosessuali di sposarsi e avere figli (queste due possibilità sono strettamente collegate tra di loro, nonostante i tentativi di farli apparire come scindibili, perché se anche il parlamento non dovesse legalizzare l'adozione, tale possibilità dovrà comunque esser concessa per via giudiziaria) sia avvertito come una questione così dirimente, addirittura un discrimine di civiltà, in un’ epoca in cui l’economia e di conseguenza la politica hanno fatto piazza pulita di tutti i diritti sociali acquisiti dal dopoguerra fino all’inizio degli anni ‘80. Non mi occupo professionalmente di filosofia e di storia (che coltivo per mio interesse personale), ma credo che se sapute interrogare, queste discipline siano in grado di darci delle “lezioni” che consentono di meglio decodificare le questioni del nostro tempo. Sono “lezioni” che costano fatica, ma credo che valga la pena riproporle sia pure in termini ultra sintetici.
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Dove casca l'asino del neoliberista
di Leonardo Mazzei
Nazionalizzare per privatizzare: le pittoresche contraddizioni del sig. Giavazzi
Pubblicizzare le perdite per privatizzare i profitti: sai che novità!
Il "bostoniano" della Bocconi, al secolo Francesco Giavazzi, ce l'ha riproposta ieri mattina sul Corsera come fosse l'innovazione del secolo. Quando, invece, è quel che Lorsignori van facendo da decenni. Questa volta si tratta di nazionalizzare le perdite del Monte dei Paschi di Siena (Mps), per mettere le mani sui profitti delle maggiori aziende che lo Stato ancora controlla.
Nell'articolo Giavazzi non si occupa solo di questo. Già il titolo dell'edizione cartacea è un doveroso omaggio all'indiscussa presunzione del soggetto: «Le 5 cose da fare per ripartire». Il Nostro prende atto che la ripresa non c'è —sai che scoperta! E perché non c'è? Perché il Renzi del Jobs act è sì bravo, ci mancherebbe!—, ma è troppo attento alle scadenze elettorali. Eh, bei tempi, quando non c'era neppure la seccatura del voto!
Dunque, cosa bisogna fare? Ovviamente dar retta a lui. Nei 5 punti elencati, ve n'è perfino uno condivisibile (il rilancio degli investimenti pubblici). Per il resto è la solita solfa fatta di liberalizzazioni, come se non fossero in atto da un quarto di secolo; di imponenti tagli alla spesa pubblica per consentire una forte riduzione delle tasse; di nuove massicce privatizzazioni.
Ovviamente le tasse che Giavazzi vuol tagliare sono solo quelle delle imprese.
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Elvio Fachinelli, il dissidente
Esce in questi giorni da DeriveApprodi un libro molto atteso, Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989) di Elvio Fachinelli (255 pp., € 18), che ci restituisce la parte sinora oscurata di un’opera che per il resto è giustamente celebrata, a livello editoriale, da marchi come Adelphi e Feltrinelli. L’infaticabile Dario Borso ha rintracciato sessantuno testi dispersi, per lo più brevi o brevissimi, che Fachinelli andò pubblicando in quegli anni sulle sedi più diverse: dalle riviste di politica e cultura alle quali collaborò (Quaderni piacentini, Quindici, anche la prima alfabeta: con la relazione al convegno milanese ispirato nel 1984 al libro omonimo di George Orwell, Le vivenze, uscita sul numero di dicembre dello stesso anno) oltre ovviamente quella che fondò (L’erba voglio, uscita dal 1971 al ’77: quando venne chiusa, dopo la pubblicazione del numero 29-30 – e una perquisizione di polizia), ai settimanali e ai quotidiani: L’Espresso, la Repubblica, il Corriere della Sera (sembra un altro secolo, e in effetti lo era; era, però, appena trent’anni fa).
Si compone attraverso questi tasselli una specie di mosaico dunque, più che un affresco, della realtà psichica italiana (e non solo). Come scrive Borso nella sua prefazione, «il paziente suo più complicato fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana»: un trattamento che procedeva «per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano pur senza spiegarla (senza risposta cioè) una realtà in continuo movimento, ossia un sommovimento».
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Collasso del Kurdistan iracheno
di Andre Vltchek
Soleva essere presentato come una storia di successo. Ci raccontavano che in mezzo a un Medio Oriente stuprato, circondato da disperazione, morte e dolore, brillava luminosa come una fiaccola di speranza una terra di latte e di miele.
O era più come una torta circondata da marciume? Quel luogo eccezionale era chiamato Kurdistan o, ufficialmente, ‘Regione Kurdistana’.
E’ qui che il vittorioso capitalismo globale è andato riversando ‘massicci investimenti’ mentre l’occidente stava ‘garantendo sicurezza e pace’.
Qui imprese turche stavano realizzando e finanziando innumerevoli progetti, mentre le loro autobotti e poi un oleodotto trasferivano in occidente quantità sbalorditive di petrolio.
Nell’elegante aeroporto internazionale di Erbil uomini d’affari, soldati ed esperti della sicurezza europei socializzavano con specialisti ONU dello sviluppo.
Che cosa importa che il governo della Regione Kurdistana continuava a scontrarsi con la capitale, Baghdad, sulle riserve di petrolio o sulla portata dell’autogoverno e su molti altri temi essenziali.
Che cosa importa che (come accade spesso in società estremamente capitaliste) gli indicatori macroeconomici erano improvvisamente in spaventoso contrasto con la crescente miseria della popolazione locale.
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Le crisi dell'Unione Europea
Franco Russo
Basta scorrere i titoli delle Conclusioni dell’ultimo Consiglio Europeo (17-18 dicembre 2015), per cogliere la gravità delle crisi in cui si dibatte l’UE: migrazioni, terrorismo, unione monetaria, mercato interno, clima, Brexit, ISIS e Siria. Leggendole ci si accorge subito che l’UE le affronta con il consueto approccio: varare misure per affrontare nell’immediato le crisi senza essere mossi da prospettive di lungo periodo, attuarle passo dopo passo, sempre però in funzione della costruzione e gestione del mercato unico sovranazionale, il vero e solo grande disegno delle élite europee. Nella ‘realtà effettuale’, per usare parole di Machiavelli, quelle che si vanno compiendo non sono scelte di routine, anche se l’UE le presenta business as usual. Questo approccio non è casuale, in quanto tipico del pluridecennale metodo funzionalista – ‘da cosa nasce cosa’, ciò che raffinati esegeti chiamano ‘effetti di spill over’; in secondo luogo, perché questa routine dai tratti burocratici esprime la consapevolezza delle élite europee dell’ampiezza dei loro poteri in grado di imporre le proprie scelte senza che in nessun paese – neanche là dove sono stati infranti equilibri politici come in Spagna Grecia e Portogallo – governi, partiti, sindacati o movimenti abbiano l’intenzione e, soprattutto, la forza di opporvisi. A scontrarsi, almeno a parole, con l’UE sono formazioni di estrema destra che si battono esclusivamente contro l’ingresso dei migranti e che come alternativa prospettano al più il ritorno allo Stato-nazione, ormai indebolito dalla devoluzione di poteri sovrani; oppure sono capi di governo, come Renzi, che sperano grazie alle polemiche con la Commissione di lucrare consensi nei sondaggi d’opinione e alle elezioni.
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Intellettuali declassati
Gli intellettuali, l’impegno e la fine delle utopie
di Andrea Amoroso
Pubblichiamo un estratto del saggio contenuto ne Le nuove forme dell’impegno letterario in Italia, a cura di Federica Lorenzi e Lia Perrone (Giorgio Pozzi Editore, 2015)
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
Sandro Penna
Thomas Mann, Tonio Kröger
Quello della fine dell’”intellettuale-legislatore”, per riprendere ancora la definizione di Bauman, è un mantra che in Italia va avanti non da anni, bensì da decenni. È già a metà degli anni Settanta (in un saggio poi confluito nella volume Il critico senza mestiere), che il critico Alfonso Berardinelli parla di prendere atto di una
avvenuta dissoluzione di un corpo ideologico al cui interno sono state vissute quasi tutte le vicende italiane degli ultimi trent’anni [nei quali] poesia e letteratura sembrano, inoltre, aver perduto del tutto il loro carattere di relativa e simbolica centralità all’interno del sistema culturale. [1]
Quando Berardinelli scrive queste righe siamo nel 1975; poco più di un decennio dopo Zygmunt Bauman conierà la sua fortunata e abusata definizione, efficace certamente dal punto di vista comunicativo ma non altrettanto convincente dal punto di vista concettuale.
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Foucault contro il Leviatano
“La grande soif de l’Etat” di Arnaut Skornicki
Paolo Missiroli
Scrivere un libro sullo Stato e su Foucault può apparire o impresa impossibile o banale ripetizione. Impresa impossibile in quanto Foucault è notoriamente il teorico del potere inteso come relazione e non come cosa che si possiede e che sta in un luogo od in un altro e, per questo, un grande critico dello statocentrismo, cioè di ogni analisi (Hobbes) che consideri il potere risiedere nelle mani dello Stato, cioè del detentore della violenza fisica in ultima istanza. Banale ripetizione perché in effetti Foucault dello Stato ha parlato parecchio, sopratutto nei corsi tenuti al College de France dal 1975 al 1980. In quegli anni ha elaborato le assai conosciute e spesso abusate, sopratutto in Italia, categorie di biopolitica e governamentalità, ed ha approfondito e studiato la storia del liberalismo e del neoliberalismo, tutti concetti evidentemente legati a quello di Stato. Ognuno di questi termini è stato soggetto di saggi ed articoli a non finire e l’ennesimo libro sulla governamentalità nel pensiero di Foucault, o sulla concezione neo ed ordo liberale dello Stato, non desterebbe alcun interesse.
L’ultimo libro di Arnault Skornicki, La grande soif de l’État (La grande sete dello Stato), per Les praires ordinaires, non risulta né assurdo né banale. Questo è dato, credo, da una duplice motivazione: in primo luogo l’approccio dell’autore, che è essenzialmente comparativo (non a caso il sottotitolo è Michel Foucault avec les sciences sociales), che gli consente numerosi excursus tra vari autori come Bordieou, Elias, Weber, Poulantzas ed altri, utili sia per comprendere il pensiero di Foucault sui vari punti, sia per allargare il respiro del testo, rendendolo così un libro non tanto su Foucault ma sullo Stato.
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Perché l’euro è condannato
di Vincent Brousseau
Dal sito de l’Union Populaire Républicaine – nuovo movimento politico francese che si propone il ristabilimento della democrazia con l’uscita dalla UE e dall’euro – una interessante analisi del Prof. Vincent Brousseau sul meccanismo e la dinamica dei saldi Target2: essi sono allo stesso tempo condizione necessaria dell’unione monetaria, ma anche pomo della discordia; riprendendo la loro fuga in avanti, portano ad una situazione sempre più irragionevole e inaccettabile
Qualche giorno fa, l’UPR ha segnalato che i saldi Target avevano ripreso la loro fuga in avanti, cosa sulla quale i media francesi rimangono straordinariamente discreti.
Il grafico accanto mostra l’evoluzione di questi saldi Target da prima dell’inizio della crisi fino ad ora. Questi saldi sono debiti e crediti in un sistema chiuso; la loro somma è quindi pari a zero, il che spiega l’aspetto simmetrico del grafico. I debiti (in basso) riflettono i crediti (in alto).
La fase 2011-2013 è stata un momento di panico. Col passare del tempo, abbiamo accumulato dati sufficienti per poter fare una constatazione: Se non si considera questo episodio di panico, si può constatare ora che il ritmo di fondo della progressione non si è mai interrotto. La Bundesbank accumula ogni anno, in media, circa 80 miliardi di crediti supplementari. E, dal 2008, si arriva a un rispettabile totale di 600 miliardi.
Per dare un ordine di grandezza, vorrei ricordare che il bilancio totale della Bundesbank all’inizio dell’euro era solo di 250 miliardi, e nel 2005, di 300 miliardi.
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