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Federico Caffè sulla controffensiva neoliberista degli anni Settanta
di Thomas Fazi
Estratto dal libro di prossima uscita “Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè” di Thomas Fazi (Meltemi, 2022)
Alla metà degli anni Settanta, si sviluppò in Italia un fervente dibattito su quelli che nel discorso pubblico erano presentati come i due “mali” del paese: l’inflazione e gli squilibri con l’estero. Per ironia della sorte, la discussione vide confrontarsi da un lato il relatore della tesi di dottorato di Mario Draghi, Franco Modigliani, e dall’altro il relatore della sua tesi di laurea, Federico Caffè.
La tesi di Modigliani, a grandi linee, era la seguente: esiste un unico livello del reddito (in termini macroeconomici) compatibile con la stabilità dei prezzi, dato il livello dei salari reali. Ciò implica che ogni sforzo per accrescere l’occupazione sopra quel tasso determinerà inflazione, anche se non si raggiunge un reddito coerente con il pieno impiego delle risorse. Per questo motivo, l’Italia si trovava attanagliata in una sorta di ciclo infernale inflazione-svalutazione-disoccupazione, di cui il principale responsabile, per Modigliani, era la scala mobile (cioè il meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione).
Era quindi nell’interesse dei lavoratori stessi, e compito dei sindacati, cancellare la scala mobile, rivedere lo statuto dei lavoratori (che creava “assenteismo”) e accettare un livello salariale più basso, compatibile con la piena occupazione e con l’equilibro dei conti con l’estero. Questo, ammetteva Modigliani, «richiede qualche sacrificio ai lavoratori», ma in cambio la classe operaia avrebbe ottenuto la difesa dell’occupazione, il riassorbimento della disoccupazione e la fine dell’inflazione.
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Discussione intorno al senso della guerra
di Roberto Fineschi
Sabato 9 aprile, il Centro Casa Severino e l'Associazione di Studi Emanuele Severino hanno promosso un incontro interdisciplinare sul tema della guerra. Il video è disponibile a questo link. Qui sotto la trascrizione minimamente rivista del mio intervento
Da una parte vorrei tentare di fare un discorso più generale diciamo di quadro. Facendo questo inevitabilmente ci si presta alla critica di non cogliere la drammaticità del presente: quando muoiono persone, si distruggono città è difficile distogliere lo sguardo; ovviamente si tenta di farlo non per ignorare il dramma ma per proporre una riflessione più ampia, inquadrata in un contesto di sistema, in questo caso relativo al concetto di guerra e violenza nella modernità e, a fortiori, anche al caso ucraino.
La guerra non è certo una novità contemporanea; da quando esistono società complesse l'uomo ha sempre fatto guerre; da sempre i filosofi se ne sono occupati, ma più recentemente è nata una disciplina che in modo più politically correct ha cercato di affrontarla in maniera ancora più esplicita: le relazioni internazionali. In esse si cerca di sciogliere il nodo della guerra non per giustificarla da un punto di vista morale, ma per spiegarne la necessità fattuale nel mondo politico (i rapporti di potere producono degli equilibri che non si tratta di giudicare perché belli o brutti, ma semplicemente in quanto instaurano un ordine) o nel tentativo di evitarla proprio per le caratteristiche che ha. Tanto gli approcci realisti e neorealisti, quanto quelli che hanno invece cercato una via diplomatica, non violenta alla soluzione delle controversie internazionali di stampo liberale o neoliberale (Bobbio ad esempio), a mio modo di vedere hanno una questione filosofica di fondo che consiste nel partire da una concezione che dal punto di vista di Marx è criticabile, vale a dire il contrattualismo: considerare la formazione dell'istituzione statuale come un contratto sociale, che naturalmente si risolve poi diversamente in diversi filosofi.
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Ti tirano le pietre
di Il Pedante
«Tu sei buono e ti tirano le pietre. Sei cattivo e ti tirano le pietre. Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, sempre pietre in faccia prenderai!» cantava Antoine nel 1967. Qualcosa del genere accade oggi, mentre una serie di inanellate «emergenze» chiede ogni volta soluzioni in deroga ai principi etici e giuridici che varrebbero in tempi «ordinari». I più attenti hanno già osservato che si è così normalizzato lo «stato di eccezione» teorizzato dai filosofi del diritto, cioè la sospensione a tempo indeterminato delle garanzie e dei vincoli che intrecciano la trama dello Stato di diritto e la conseguente espansione dei poteri governativi ben oltre le previsioni dell’architettura costituzionale (la quale, per inciso, non prevede alcuno stato di eccezione). Il prolungamento di queste forzature sta in effetti deformando il nostro modello sociale oltre il punto elastico di ritorno alla normalità. Nel diventare esso stesso normalità, sta agendo come la testa d’ariete di un’operazione riformistica che non teme né opposizioni né limiti, siano essi di natura parlamentare, elettorale etica o legale.
I più attenti ancora hanno notato che, per quanto diversi siano per intensità e natura i trigger dell’eccezione, i rimedi invocati sono sempre gli stessi e sempre peggiorativi del benessere materiale e sociale dei cittadini. Ne ho scritto su queste pagine all’alba della stagione «pandemica» e ne scrivo ora a proposito della guerra in corso in Ucraina. Cambiano i luoghi, i pericoli, i protagonisti e gli scenari, ma come «sempre, pietre in faccia prenderai».
Consideriamo la sospensione annunciata delle importazioni di fonti energetiche dalla Russia, che oggi coprono un quarto del nostro fabbisogno e soddisfano due quinti dei nostri consumi domestici e industriali di gas naturale, e quindi quasi un quarto di quelli elettrici.
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“Fate l’amore non fate la guerra”
di Eugenio Donnici
1.
Sul finire del ventesimo secolo, il protagonista del documentario Operazione Canadian bacon, di Michael Moore, raccoglie i cadaveri dei disoccupati che si suicidano buttandosi nelle spettacolari acque delle cascate del Niagara, la guerra fredda è finita da pochi anni e la florida industria di testate nucleari è in profonda crisi. Il consenso dei cittadini americani nei confronti del Presidente degli USA precipita, mentre gli industriali, per vendicarsi dei danni subiti, vorrebbero scatenare una guerra globale. Il Governo russo si tira fuori dall’escalation militare, esplicitando di voler sostenere la produzione di elettrodomestici, di autovetture, di materiale edile e in generale di tutti quei beni e servizi di cui necessitano i propri cittadini, dato che un’ampia fascia di bisogni materiali rimangono ancora insoddisfatti.
Non c’è scampo! Occorre inventarsi un nemico! I guerrafondai fanno appello al patriottismo e coadiuvati dagli esperti della propaganda mettono in piedi una potente macchina denigratoria nei confronti del pacifico Canada.
La satira pungente di Moore ci dice fondamentalmente due cose:
-
le lobby statunitensi delle armi avrebbero trovato a ogni costo nuovi “nemici”, pur di continuare ad incamerare esorbitanti extraprofitti derivanti dal macabro business;
-
l’acuto pensiero dell’autore manda in frantumi le terribili semplificazioni secondo le quali tutti gli americani appoggerebbero “l’economia di guerra”.
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Il sogno liberale
di Andrea Zhok
Come mi è capitato di sottolineare altrove, la nozione di “liberale” è strutturalmente ambigua per ragioni storiche. Purtroppo tale ambiguità continua a creare confusione e a smussare le armi dell’analisi, dove di volta in volta, di fronte agli stessi eventi, si finisce per invocare l’aggettivo “liberale” a volte come causa di oppressione, a volte come fattore di emancipazione (così ha fatto recentemente, ad esempio, il prof. Orsini). Di fronte all’irreggimentazione, al controllo sociale, alla crescita di impulsi persecutori che ha tratteggiato questi ultimi due anni c’è ancora chi lo caratterizza utilizzando l’aggettivo “illiberale”, come se tutto ciò fosse estraneo e contrario all’essenza del liberalismo.
È perciò opportuno tentare un breve chiarimento concettuale e terminologico. Non provo qui a fornire un’analisi dello sviluppo storico e delle sue ragioni – svolta in altra sede – ma mi limito ad esplicitare l’ambiguità del termine liberalismo e a ribadire perché l’uso emancipativo del termine è latore di confusione.
I. Il liberalismo perfezionista
Esiste davvero una forma emancipativa del liberalismo?
Sì, esiste, si tratta di un’idea che concepisce il liberalismo come staccato dalla sua componente economica e che lo pone come una visione teorica che promuove il libero sviluppo umano. Questa concezione può essere chiamata “liberalismo perfezionista”, laddove il termine “perfezionista” è utilizzato nella filosofia morale contemporanea per definire una teoria che pone il senso dell’azione umana nell’esercizio e nel libero sviluppo delle proprie facoltà.
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Resistenza ucraina?
di Valerio Romitelli
In occasione del 25 aprile quest’anno un dibattito si impone. Il tema è ovviamente riguarda i possibili accostamenti tra quello che è accaduto in Italia tra il 1943 e il 1945 e quello che sta accadendo in Ucraina a seguito dell’abominevole aggressione russa.
L’Anpi dichiarandosi contro l’invio di armi da parte del governo italiano a sostegno di quello di Zelensky ha già escluso ogni facile similitudine tra i combattenti schierati con quest’ultimo e i partigiani italiani operanti negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale. Ciò nonostante la tentazione di una simile associazione continua a riproporsi a livello dell’opinione dominante nel nostro paese trovando anche sostegni non scontati.
La prima domanda che sarebbe il caso di porsi è come mai ciò avvenga in occasione di questo conflitto, mentre niente di simile negli ultimi vent’anni è avvenuto in riferimento ad altre guerre di invasione e ad altre conseguenti reazioni armate da parte degli invasi, come accaduto ad esempio in Iraq, Libia, Siria, Yemen. Anzi sarebbe da ricordare anche lo scandalo che travolse chi, a proposito della strage di Nassiriya di soldati italiani, tentò di giustificarla come atto di resistenza da parte del popolo iracheno invaso. Se ne dovrebbe concludere che la resistenza legittima sia solo quella condotta in nome di “valori occidentali”? In ogni caso, così certo non era per i partigiani italiani tra i quali primeggiava il riferimento alla vittoria sovietica sui nazisti a Stalingrado.
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Marx, Il Capitale, I, (5-9). Una guida per principianti
di Antonino Morreale
Nel primo libro del Capitale, col capitolo 4, la “trasformazione del denaro in capitale”, Marx ha chiuso la sua vacanza “logico-deduttiva”, “hegeliana”, per scaraventarsi nel mondo. Il “denaro” si è trasformato in “capitale”, grazie al casuale ritrovamento di qualcosa di particolare, la forza-lavoro che lo ha fatto crescere. Una volta afferrato il concetto del capitale è possibile riconoscerlo nella storia ed esporne lo sviluppo. La logica ha guidato la ricerca storica. Giunti a questo, il capitale ormai non si può più permettere di lasciare ai ritrovamenti casuali del plusvalore “assoluto” il proprio destino storico, perciò ha creato il proprio presupposto, il proprio plusvalore specifico, unico “relativo” a sé. Ha provato a chiudere il cerchio per garantirsi un’esistenza eterna, circolare, una “circulata melodia”. Da adesso, è di questo che Marx si occuperà.
Cap.5 Processo lavorativo e processo di valorizzazione
“L’uso della forza-lavoro è il lavoro stesso. Il compratore della forza-lavoro la consuma facendo lavorare il venditore di essa. Per tale via, quest’ultimo diviene actu forza-lavoro che si attua, lavoratore, ciò che prima era solo potentia”1.
Anche se, come si vedrà, è faticoso e poco lineare, questo capitolo ha una importanza speciale. Marx vi svela il sorgere del “plusvalore assoluto”.
Processo lavorativo
Ripartiamo da lì, dal finale del cap. 4; dal teatrino messo in scena dal capitalista. Da una parte l’acquisto di forza-lavoro da parte del “sorridente e significativamente compiaciuto”, “possessore di denaro”, che “marcia in testa come capitalista”; dall’altra, “il possessore della forza-lavoro”, “timido, riluttante” che “non ha da aspettarsi altro che la -concia”2.
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Ebbene sì, sono nazisti, e allora?
Quando anche i tecnocrati esibiscono la svastica
di Piotr
Ospito questo terzo contributo di Piotr sulla guerra russo-ucraina che l'autore aveva intitolato "Verso il lato oscuro di Krypton". Dal momento che Superman è il personaggio dei Marvel che amo di meno, avevo pensato di cambiare il titolo in "Verso il lato oscuro di Gotham", ma poi mi è venuto in mente 1) che Gotham non ha un lato oscuro perché è tutta oscura, 2) che il tema è troppo inquietante perché si pensi di alleggerirlo con un titolo fumettistico, per cui ho preferito un titolo più "contenutistico" che meglio aderisce alle tesi dell'articolo. Ho ritenuto opportuno premettere questa spiegazione perché il lettore non resti spiazzato dalla frase con cui Piotr conclude il suo testo (Carlo Formenti).
* * * *
«Lassù sulle montagne bandiera nera:
è morto un partigiano nel far la guerra.
È morto un partigiano nel far la guerra,
un altro italiano va sotto terra.
Laggiù sotto terra trova un alpino,
caduto nella Russia con il Cervino.
Ma prima di morire ha ancor pregato:
che Dio maledica quell'alleato!
Che Dio maledica chi ci ha tradito
lasciandoci sul Don e poi è fuggito.
Tedeschi traditori, l'alpino è morto
ma un altro combattente oggi è risorto.
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Il 22 aprile la “variante operaia” incontra quella studentesca
Contropiano intervista Roberto Montanari
Intervista a Roberto Montanari sindacalista della Usb nel settore della logistica. Nel nostro viaggio verso lo sciopero operaio e studentesco del 22 aprile, abbiamo chiesto alcune valutazioni a chi agisce in un settore strategico della catena del valore capitalistica come la logistica.
* * * *
Il 22 aprile ci sarà uno sciopero “operaio” convocato da Usb e una manifestazione nazionalea Roma. Avete declinato questa giornata di conflitto come la rimessa al centro della “variante operaia” nell’agenda politica del paese. Che cosa significa?
Nel passaggio a questo terzo millennio il capitale ha avuto la capacità di riarticolarsi, nella crisi, mutando anche “tecnicamente” la forma di chi coopera alla produzione della sua ricchezza.
La classe operaia di tipo fordista, così densamente compatta, così fortemente relazionata al tessuto sociale e addirittura territoriale, è stata segmentata, divisa addirittura sul piano globale, dando corpo a quelle che Luciano Vasapollo (tra i primi e più rigorosi studiosi/militanti) ha definito le catene globali del valore.
Utilizzo come esempio l’immagine del vecchio quartiere operaio Mirafiori di Torino. Era un mondo che conteneva altri mondi: c’era il fabbricone, c’era un territorio circostante nel quale lavorava l’indotto, vivevano gli operai, studiavano i loro figli, si muovevano, si divertivano, organizzavano la resistenza operaia allo sfruttamento. Ora è un “non luogo”, vuoto, con reperti di archeologia industriale, un quartiere senza servizi, abbandonato a se stesso.
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Ucraina 2022: per un internazionalismo attivo e operante
di Rostrum
Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale; e oggi è dimostrato che questa è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti. K. Marx, La guerra civile in Francia, 1871.
Da quando l’uomo ha la dote di pensare prima di agire, per sfuggire al mantenimento degli impegni, alle conseguenze concrete delle astratte affermazioni, l’avvocatismo che si annida in ogni essere pensante è ricorso sempre alle distinzioni. Così oggi ci rigetta tra capo e collo la distinzione tra guerra di offesa e guerra di difesa, tra l’invasione della patria altrui e la protezione del territorio nazionale. E gli antipatrioti di ieri scrivono una lettera che distrugge dieci volumi, mille discorsi, mille articoli, e marciano alla frontiera. A. Bordiga, In tema di neutralità: al nostro posto!, Avanti!, 16 agosto 1914.
Una caricatura del 4 agosto 1914
Nell’ultimo mese, in Italia, salvo poche eccezioni, abbiamo assistito al “4 agosto” di gran parte della sedicente sinistra rivoluzionaria. Una triste farsa, nella quale l’opportunismo, il socialsciovinismo, la falsificazione del marxismo hanno gettato la maschera di fronte all’atteggiamento da assumere verso la guerra imperialista in Ucraina. Un esito preannunciato da decenni di tanti piccoli segnali, e che una crisi tutto sommato ancora “parziale” ha precipitato con inesorabile rapidità.
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La realtà della guerra, il fantasma dell’opposizione
di Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta
1- La guerra in corso rivela ed esaspera le dinamiche profonde che hanno determinato la nostra storia a partire dalla dissoluzione dell’Urss. A quella dissoluzione non ha corrisposto il parallelo e “logico” scioglimento della Nato. E questo perché Washington doveva evitare che la fine del collante anticomunista avvicinasse eccessivamente l’Unione europea, e in particolare la Germania, alla Russia, dando vita così ad un’alleanza potenzialmente esiziale per il dominio statunitense. Da qui la spinta (favorita dalla preferenza tedesca per le ragioni economiche rispetto a quelle strategiche) all’inclusione di Polonia, Ungheria ecc. nell’Ue. Da qui il placet al consolidamento dell’Unione stessa, così ampliata, come mezzo per tener legata la Germania. Da qui l’evidente e inesorabile allargamento della Nato a Est, col momentaneo esito attuale. Non si tratta di un piano delineato in tutte le sue parti e tappe. Nessun vero stratega fa piani del genere e, soprattutto, lo stratega in questione era ed è internamente diviso, quantomeno sui tempi e sui modi: Trump contro Biden, Biden contro il Congresso, Dipartimento di Stato e Pentagono contro tutti e in reciproca frizione. Ma alla fine, anche grazie alla confusione, prevalgono gli apparati più duraturi e soprattutto la parte dominante, più dinamica e aggressiva, del capitalismo statunitense, rappresentata soprattutto dal Partito Democratico. E questo si traduce in una politica tesa ad acuire i conflitti tra Europa e Russia (anche in risposta all’incremento dei rapporti di Berlino e Roma con Mosca), a rinfocolare la questione ucraina, a mettere quindi in conto una guerra e a trasformarla, una volta scoppiata, nell’occasione per impantanare Putin, aumentare la dipendenza politica ed economica dei partner europei, rafforzare la posizione del dollaro e con essa la pretesa, ormai folle, del dominio assoluto dell’ Occidente “americano” sul resto del mondo. Ossia sulla stragrande maggioranza del genere umano.
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Jason W. Moore e il concetto di Capitalocene
di Bollettino Culturale
Introduzione
Jason W. Moore legge il capitalismo come una successione di specifici regimi ecologici, in cui l’accumulazione del capitale da un lato e la “produzione della natura” dall’altro sono processi concepiti come dialetticamente intrecciati. Moore propone di rompere con la concezione del capitalismo come formazione economico-sociale che, quando si dispiega, agisce semplicemente sulla natura. Questa concezione è da lui definita “cartesiana”, cioè che separa Natura e Società. Moore sostiene la necessità di concepire il capitalismo come una formazione storico-sociale che si è sviluppata attraverso le relazioni tra le società e la natura in quanto il capitalismo non ha un regime ecologico specifico, il capitalismo è un regime ecologico. Nel corso della sua elaborazione teorica rielaborerà la concezione marxista della storia, impegnato a incorporarvi la dimensione ecologica. Traendo ispirazione dalla prospettiva ereditata dall’École des Annales francese, in particolare da Fernand Braudel e dal suo concetto di Longue Durée, e dal lavoro dei teorici del Sistema-Mondo come Giovanni Arrighi, Moore costruisce una teoria del capitalismo come Ecologia-Mondo.
Moore pone con questo concetto di Ecologia-Mondo le basi di una sorta di “materialismo storico-ecologico” in cui la storia del capitalismo e dei modi di produzione precedenti è intesa come un susseguirsi di regimi ecologici che strutturano i processi di accumulazione e “produzione della natura”. Con questa proposta, Moore sostiene che invece di scrivere la storia dell’impatto del capitalismo sulla natura, è possibile indagare la relazione generativa tra “l’accumulazione infinita” e la “produzione infinita della natura”.
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La situazione militare in Ucraina
di Jacques Baud per The Postil
Il problema non è tanto sapere chi ha ragione in questo conflitto, ma mettere in discussione il modo in cui i nostri leader prendono le loro decisioni
Parte prima: La strada per la guerra
Per anni, dal Mali all’Afghanistan, ho lavorato per la pace e ho rischiando la vita. Non si tratta quindi di giustificare la guerra, ma di capire cosa ci ha portato ad essa. Noto che gli “esperti” che a turno in televisione analizzano la situazione sulla base di informazioni dubbie, il più delle volte ipotesi elevate a fatti, non riescono a farci capire cosa sta succedendo. È così che si crea il panico.
Il problema non è tanto sapere chi ha ragione in questo conflitto, ma mettere in discussione il modo in cui i nostri leader prendono le loro decisioni.
Proviamo ad esaminare le radici del conflitto. Si comincia con quelli che da otto anni parlano di “separatisti” o “indipendentisti” del Donbass. Già questo non è vero. I referendum condotti dalle due sedicenti Repubbliche di Donetsk e Lugansk nel maggio 2014 non sono stati referendum per l’“indipendenza” (независимость), come hanno sostenuto alcuni giornalisti senza scrupoli , ma referendum per l’ “autodeterminazione” o l’ “autonomia” (самостоятельность ). Il termine “pro-russo” suggerisce che la Russia fosse una parte del conflitto, il che non era il caso, il termine “di lingua russa” sarebbe stato più onesto. Inoltre, questi referendum sono stati indetti contro il parere di Vladimir Putin.
In realtà, queste Repubbliche non cercavano di separarsi dall’Ucraina, ma di avere uno status di autonomia, garantendo loro l’uso della lingua russa come lingua ufficiale. Però il primo atto legislativo del nuovo governo risultante dal rovesciamento del presidente Yanukovich, è stata l’abolizione, il 23 febbraio 2014, della legge Kivalov-Kolesnichenko del 2012 che aveva reso il russo una lingua ufficiale.
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Circa David Brooks, “La globalizzazione è finita”
Ovvero, ancora del “fardello dell’uomo bianco”
di Alessandro Visalli
Nel 1899 nella rivista “McClure’s” Rudyard Kipling pubblicò la poesia “The White Man’s Burden” il cui sottotitolo era “The United States and the Philippines Islands”, con riferimento alle guerre di conquista che la potenza americana aveva compiuto rispetto alle colonie spagnole[1].
“Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Disperdi il fiore della tua progenie–
Obbliga i tuoi figli all’esili
Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia–
Popoli da poco sottomessi, riottosi,
Metà demoni e metà bambini
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Resistere con pazienza,
Celare la minaccia del terrore
E frenare l’esibizione dell’orgoglio;
In parole semplici e chiare,
Cento volte rese evidenti,
Cercare l’altrui vantaggio,
E produrre l’altrui guadagno.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Le barbare guerre della pace–
Riempi la bocca della Carestia
E fa’ cessare la malattia;
E quando più la mèta è vicina,
Il fine per altri perseguito,
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La globalizzazione è finita?
Quattro domande a Sergio Bologna e Giovanna Visco
a cura di Paolo Perulli
Due specialisti di logistica mondiale, Sergio Bologna, presidente di AIOM, Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi di Trieste, e Giovanna Visco, blogger di Mari, Terre, Merci, intervistati da Paolo Perulli
1. La globalizzazione è davvero finita? Il governatore della Banca d'Italia parla di pericolo che ci sia un «brusco rallentamento o un vero e proprio arretramento dell’apertura dell’interdipendenza della globalizzazione». La fine insomma del mondo così come si era andato configurando dalla fine della Guerra Fredda in poi. Con il rischio di tornare a una dimensione più regionalizzata, con minori movimenti di «persone, merci, capitali e investimenti produttivi più bassi». Ora «i progressi dell’ultimo decennio non potranno che rallentare». Condividete quest’ analisi che è propria delle élites tecnocratiche? O ritenete piuttosto che sia necessaria una profonda revisione delle modalità con cui la globalizzazione si è affermata in passato?
Sergio Bologna: Probabilmente è il concetto di globalizzazione che non basta più a contenere la complessità dei fenomeni in atto. Che cosa vuol dire? Che la circolazione delle merci e delle persone non ha più barriere? Dalla fine della guerra fredda la situazione è sempre stata così. Vuol dire che i sistemi produttivi si sono articolati su dimensioni planetarie? Quindi il re-shoring sarebbe il regresso della globalizzazione? Mi sembra un po’ curioso. Il re-shoring o il back shoring sono del tutto compatibili con l’esistenza e lo sviluppo della globalizzazione. Vuol dire che abitudini, stili di vita, di consumo, forme di comunicazione sono comuni a tutto il mondo? Con la diffusione di Internet e della telefonia mobile, dei social e dei whatsapp, ormai tutto il mondo comunica allo stesso modo ma non significa affatto che gli stili di consumo siano simili. Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che la globalizzazione può convivere con fenomeni di ri-regionalizzazione, di neo-autarchie, e con tutta una serie di cose che noi non abbiamo ancora sperimentato (es. l’isolamento d’intere zone del pianeta dai collegamenti Internet) ma che sono ipotizzabili.
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L’imbroglio ucraino
di Lanfranco Binni
Lo spettacolo osceno della guerra, la ripugnante pornografia dei suoi disastri (sì, ancora Goya) che tutto distruggono, senza tempo né luogo né ragioni, travolgendo vittime e carnefici in folli danze macabre arcaiche e postmoderne, impone con la forza delle sue immagini spietate e strazianti l’orgia totalitaria dell’autodistruzione, costi quello che costi, in un tripudio di armi e propaganda. L’imbroglio ucraino, inganno, groviglio e cortocircuito di strategie economiche e militari esplicite e occulte, sempre comunque iscritte in processi storici determinati dalla logica elementare delle cause e degli effetti, riserva oggi ai territori metropolitani dell’Europa quei trattamenti che il colonialismo e l’imperialismo occidentali hanno riservato e continuano a riservare ai popoli del mondo, il cibo del potere.
In Europa non è la prima volta. La dissoluzione dell’Unione sovietica accelerò la corsa delle potenze occidentali del sedicente “mondo libero” all’accaparramento di quell’immenso mercato, di quegli immensi giacimenti di materie prime, finalmente disponibili: la fiera dell’Est, un potenziale bengodi del libero mercato occidentale e locale; liquidato il riformismo di Gorbaciov con il colpo di stato di Eltsin, si sviluppò a tappe forzate (affari, corruzione, formazione di una nuova classe dirigente oligarchica) la definitiva disgregazione dello Stato sovietico e la sua riorganizzazione su un modello di satrapia inserita nelle strategie finanziarie occidentali.
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La guerra e il declino del re dollaro
di Domenico Moro
L’effetto boomerang delle sanzioni sul ruolo egemonico del dollaro
La guerra è sempre più “senza limiti”, contemplando un’ampia gamma di misure e mezzi non letali ma comunque devastanti per gli stati e le popolazioni che ne sono oggetto. Tra i diversi tipi di guerra non letale c’è la guerra economica e finanziaria, che si declina anche come guerra valutaria, utilizzando le valute e gli scambi tra queste come strumento per piegare il nemico.
Gli Usa da tempo utilizzano il dollaro, che è la moneta di riserva e di scambio internazionale, come strumento di guerra e di pressione sui propri avversari. Quest’uso è particolarmente evidente nel conflitto tra l’Ucraina, sostenuta dagli Usa, e la Russia. Gli Usa hanno fatto in modo di espellere la Russia dal circuito Swift, che è un servizio di messaggeria necessario agli scambi internazionali di merci. In più, hanno bloccato le riserve in dollari detenute dalla Banca centrale russa e sottoposto la Russia a uno spettro di sanzioni che si allarga sempre di più e che coinvolge banche, singoli capitalisti, imprese, spazi aerei, viaggi. Tutto questo mira a colpire il rublo, svalutandolo e alimentando l’inflazione e portando la Russia al default del debito. Recentemente l’agenzia di rating Standard & Poor ha declassato il debito estero russo a causa di un “default selettivo”, perché Mosca ha pagato in rubli un bond denominato in dollari. Soprattutto, la Russia è minacciata dal blocco delle importazioni delle sue materie prime energetiche, da parte dell’Ue, che ne è il principale acquirente mondiale.
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Crisi ucraina: i punti qualificanti per una pace possibile
di Bruno Steri
Fatti rimossi e sentimenti a corrente alternata
«(…) Questa guerra, come ha detto Lucio Caracciolo sulla rivista di geopolitica Limes, sarà ricordata come un “collasso dell’informazione”, intrisa com’è di bugie e omissioni. (…) Lo scorso 23 febbraio, la tivù satellitare Al Arabyia denuncia via Twitter un massacro: “10mila morti e 50mila feriti in Libia”, con bombardamenti aerei su Tripoli e Bengasi e fosse comuni. La fonte è Sayed Al Shanuka, che parla da Parigi come membro libico della Corte penale internazionale. La “notizia” fa il giro del mondo e offre la principale giustificazione all’intervento del Consiglio di Sicurezza e poi della Nato: per “proteggere i civili”. Non fa il giro del mondo invece la smentita da parte della stessa Corte Penale internazionale. (…) E la “fossa comune” in riva al mare? E’ il cimitero (con fosse individuali!) di Sidi Hamed, dove lo scorso agosto si è svolta una normale opera di spostamento dei resti. (…) I soldati libici sono sempre definiti “mercenari”, “miliziani”, “cecchini”. “I mercenari, i miliziani e i cecchini di Gheddafi violentano con il Viagra”: è stata l’accusa della rappresentante Usa all’Onu Susan Rice. Ma Fred Abrahams, dell’organizzazione internazionale Human Rights Watch, afferma che ci sono alcuni casi credibili di aggressioni sessuali (del resto il Governo libico e alcuni migranti muovono le stesse accuse ai ribelli) ma non vi è la prova che si tratti di un ordine sistematico da parte del regime».
Questo è ciò che scriveva il 14 giugno 2011 Famiglia Cristiana nel Dossier ‘Libia: e se fosse tutto falso?’, a proposito dell’attacco Nato alla Libia di Gheddafi. Potremmo aggiungere alla galleria dei ricordi più raccapriccianti la fialetta che Colin Powell agitò davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2003, a suo dire contenente antrace “iracheno”, per giustificare l’aggressione ad un Iraq additato come produttore di armi di distruzione di massa: una menzogna costata centinaia di migliaia di vittime civili.
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Guerra, capitalismo, ecologia
Sui limiti di comprensione della filosofia ecologista
di Maurizio Lazzarato
Pubblichiamo il primo di tre interventi programmati a opera di Maurizio Lazzarato sui temi della guerra in corso sulla soglia dell’Europa. Lazzarato, che ha già pubblicato lo scorso 7 marzo un testo a riguardo nella sezione «mundi» di Machina (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-in-ucraina-l-occidente-e-noi), è autore del recente libro L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione. Classi e minoranze, ombre corte. Nel 2019 DeriveApprodi ha pubblicato il suo Il capitalismo odia tutti. Fascismo e rivoluzione.
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Di fronte alla guerra scoppiata in Ucraina, il filosofo ecologista Bruno Latour, è smarrito, sopraffatto dagli eventi: «Non so come tenere insieme le due tragedie», l’Ucraina e la tragedia del riscaldamento globale. L’unica cosa che afferma è che l’interesse per l’una non deve prevalere sull’interesse per l’altra.
Non riesce a cogliere la loro relazione, eppure sono strettamente legate perché hanno la stessa origine. Latour, per capirci qualcosa, dovrebbe prima ammettere l’esistenza del capitalismo, che è il quadro nel quale le due guerre emergono e si sviluppano.
La guerra tra Stati e le guerre di classe, di razza e di sesso hanno da sempre accompagnato lo sviluppo del capitale perché, dai tempi dell’accumulazione primitiva, sono le condizioni della sua esistenza. La formazione delle classi (degli operai, dei colonizzati, delle donne) implica una violenza extra-economica che fonda il dominio e una violenza che lo conserva, stabilizzando e riproducendo i rapporti tra vincitori e i vinti. Non c’è capitale senza guerre di classe, di razza e di sesso e senza Stato che ha la forza e i mezzi per condurle! La guerra e le guerre non sono delle realtà esterne, ma costitutive del rapporto di capitale, anche se da molto tempo sembra che ce ne siamo dimenticati. Nel capitalismo le guerre non scoppiano perché ci sono gli autocrati brutti e cattivi contro i democratici belli e buoni.
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Guerra e scongelamento della crisi globale
di Raffaele Sciortino
Il mondo che conoscevamo prima del 24 febbraio 2022, oggi, non esiste più.
È a partire da questo dato di fatto, terrificante nella sua chiarezza, che il 2 aprile abbiamo voluto organizzare un momento di discussione, a Modena, sul mondo di domani, la guerra in Europa e il destino della globalizzazione, di cui oggi cominciamo a riportare gli interventi. Due invitati d’eccezione: Raffaele Sciortino, autore di I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios 2019) oltre che di numerosi altri contributi, e Silvano Cacciari, della redazione di «Codice Rosso» di Livorno e autore di La finanza è guerra, la moneta è un’arma (in uscita a breve per La Casa Usher). Una discussione di alto livello quindi – o tutto o niente, ormai dovreste conoscerci –, per capire quella che è la “temperatura” del sistema capitalistico globale, al netto del riscaldamento climatico e dei “condizionatori spenti”; un “provare la febbre” a una fase che, già prima della precipitazione ucraina, appariva torrida, e che la messa in mora di un nuovo conflitto armato dentro l’Europa, tra attori e potenze mondiali sull’orlo della crisi di nervi, non può che “accompagnare solo” (cit.) al punto estremo di fusione.
Non ci interessa ripetere la cronaca della guerra o dare cristalline indicazioni politiche. Ci muove, per ora, l’urgenza di possedere la complessità di tendenze, traiettorie e scenari. Sebbene questa crisi sia (fino adesso) localizzata in Ucraina, si dispiega infatti su vari livelli – militari, economici, geopolitici – che abbracciano il mondo intero, sia fisico che immateriale; che chiamano in causa l’egemonia del dollaro, l’ascesa della Cina, la decadenza occidentale – anche se ben vedere ci sono tanti Occidenti, e questa crisi mette in luce i diversi loro interessi: l’Europa, dell’Ovest e dell’Est, quella mediterranea, la Russia eurasiatica, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il resto dell’anglosfera, e via discorrendo.
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La guerra del Draghistan
di Gandolfo Dominici[1]
Nella neolingua dell’orwelliana colonia atlantista del sultanato del Draghistan la guerra si chiama pace e per ottenerla basta spegnere i termosifoni e l'aria condizionata.
Infatti, il sultano del Draghistan è passato dal suo già mirabile “non ti vaccini, muori e fai morire” all'altrettanto laconico e tranchant “Preferite la pace o l’aria condizionata?”. Qualcosa che suona come “accendi l’aria condizionati e uccidi un bambino ucraino”.
Poco importa che anche un bambino di due anni possa notare la mancanza di nesso logico tra l'aria condizionata (quindi le implicite sanzioni finalizzate al non comprare il gas russo) e una trattativa per ottenere la pace con la Russia.
Logica vorrebbe che per ottenere quella che nella paleo-lingua italiana si definiva “pace” sarebbe opportuno creare un clima di distensione per favorire il dialogo che difficilmente si può ottenere con sanzioni o, peggio ancora, inviando armi ad una delle due fazioni in conflitto.
Ma - evidentemente - i padroni di oltre oceano non vogliono questo, e il sultano della colonia del Draghistan - insieme al coro degli altri suoi omologhi europei - obbedisce incurante delle disastrose conseguenze economiche, sociali e (sperando che mai avvenga) militari.
Sempre nella scuola di Orwell, e come nel caso della precedente emergenza (o per meglio dire “stato di eccezione”) Covid, allo Stato ed alla stampa occorre generare paura e odio per un nemico cosicché, per combatterlo, bisognerà obbedire. Così, mentre nel caso del Covid il nemico erano (e per inerzia lo sono ancora) i “no-vax”, ora il nemico è un paese “avversario” che è tale per volontà di chi comanda.
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L’imminente rivoluzione finanziaria globale: la Russia segue il copione americano
di Ellen Brown
Ellen Brown ha scritto un articolo imperdibile che spiega con rara lucidità quale sia la posta in gioco dello scontro in atto tra Russia e Stati Uniti. Se in Italia esistesse ancora un giornalismo economico (o anche solo un giornalismo), di questo si dovrebbe parlare. Nessun paese ha sfidato con successo l’egemonia globale del dollaro USA prima d’ora. L’articolo originale in inglese è nel suo blog e qui di seguito eccone la traduzione.
I critici stranieri hanno sempre stigmatizzato il “privilegio esorbitante” che ha il dollaro USA come valuta di riserva globale. Gli Stati Uniti possono emetterla sostenuti nient’altro che dalla “piena fede e credito degli Stati Uniti “. I governi stranieri, avendo bisogno di dollari, non solo li accettano nel commercio, ma acquistano titoli statunitensi, finanziando efficacemente il governo statunitense e le sue guerre estere.
Ma nessun governo è stato abbastanza potente da rompere quell’accordo fino ad ora. Come è successo e cosa significherà per gli Stati Uniti e le economie globali?
L’ascesa e la caduta del petrodollaro
Innanzitutto, un po’ di storia: il dollaro USA è stato adottato come valuta di riserva globale alla conferenza di Bretton Woods nel 1944, quando il dollaro era ancora sostenuto dall’oro sui mercati globali. L’accordo prevedeva che l’oro e il dollaro sarebbero stati accettati in modo intercambiabile come riserve globali, i dollari sarebbero stati convertibili in oro su richiesta a $ 35 l’oncia. I tassi di cambio di altre valute sono stati fissati rispetto al dollaro.
Ma quell’accordo è stato rotto dopo che la politica “guns and butter” del presidente Lyndon Johnson ha esaurito le casse degli Stati Uniti finanziando sia la guerra in Vietnam che i suoi programmi sociali “Great Society” all’interno. Il presidente francese Charles de Gaulle, sospettando che gli Stati Uniti stessero finendo i soldi, cambiò gran parte dei dollari francesi in oro. Altri paesi seguirono il suo esempio o minacciarono di farlo.
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Autodeterminazione dell’Ucraina?
di Alessandro Mantovani
«Se [per la propria affermazione nazionale] un paio di Erzegovini vogliono dare il via ad una guerra mondiale che costerebbe mille volte gli uomini che popolano l'intera Erzegovina; questo secondo me non ha nulla a che fare con la politica del proletariato» (Engels a Bernstein, 22-25/2/1882) 1
«Essere per la guerra in tutta l'Europa per la sola ricostituzione della Polonia significa essere un nazionalista della peggior specie, significa porre gli interessi di un piccolo numero di polacchi al di sopra degli interessi di centinaia di milioni di uomini che soffrono la guerra» (V.I. Lenin, "I risultati della discussione sull'autodecisione", 1916)
«Quanto più pura è ora la lotta del proletariato contro il fronte generale imperialista, tanto più imperioso si fa, evidentemente, il principio internazionalista: "Un popolo che opprime altri popoli non può esser libero"» (Lenin, "I risultati della discussione sull'autodecisione", 1916)2.
Ogni grande evento storico determina svolte. In particolare le catastrofi, e nessuna più della guerra. Tutto accelera, gli animi si accendono, le forze sociali si mettono in moto. Sono destinate a divaricarsi inesorabilmente tra chi la guerra la vuole e chi la subisce. Ma all'inizio il quadro si presenta diverso: lo sciovinismo e l'isteria bellicista imperano. ''Armiamoci e partite! Prendiamo misure di guerra e tirate la cinghia!'', è l'assordante boato dei media che copre ogni voce dissonante, mentre gli esitanti si danno un gran daffare, con ragionamenti tortuosi, per esorcizzare il momento in cui dovranno decidere: o per la guerra, o contro.
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Marxismo ed ecologia. Analisi di un dibattito internazionale
di Francesco Barbetta
Il volume di Jacopo Nicola Bergamo, Marxismo ed ecologia. Origine e sviluppo di un dibattito globale (ombre corte, 2022) – che la recensione di Francesco Barbetta discute nel dettaglio – si propone di fare il punto su un ambito di discussione, quello appunto dell’eco-marxismo, in grande fermento negli ultimi anni.
Un buon modo per inquadrare la dinamica del confronto è quello di distinguere tra analisi che si propongono di mostrare la dimensione ecologista dell’opera di Marx – in modo tale che il Moro di Treviri si presenti come ambientalista ante litteram – e analisi che invece si propongono di interrogare l’archivio marxiano a partire dalla politicizzazione della crisi ecologica tra gli anni 60 e 70 del secolo scorso – a partire, cioè, da un insieme di problemi che, semplicemente, non esisteva ai tempi in cui Marx scriveva.
Del primo gruppo fanno parte i teorici della frattura metabolica (Burkett, Foster, Saito), del secondo chi ha esplorato strade più sperimentali, spesso sulla scia dei movimenti sociali (Federici, Merchant, O’Connor). Vi sono poi voci (Malm, Moore, Salleh) che rivendicano una continuità forte col pensiero di Marx – e pure con il marxismo – senza esprimersi direttamente su questo passaggio.
Quasi superfluo concludere ribadendo che la posta in gioco del dibattito in oggetto non è filologica ma politica: solo la riflessione collettiva potrà trasformare le varie opzioni teoriche in efficaci strumenti del conflitto sociale (Emanuele Leonardi).
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Il libro di Jacopo Nicola Bergamo, Marxismo ed ecologia. Origine e sviluppo di un dibattito globale (Ombre Corte, Verona 2022), consente al militante italiano di conoscere a grandi linee varie letture del rapporto tra ecologia e marxismo.
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Desaparecidos
Alba Vastano intervista Enrico Calamai
Intervista al Console Enrico Calamai “ lo Schindler di Buenos Aires”. A cura di Alba Vastano per il mensile Lavoro e Salute
Due anni di stillicidio di informazione terroristica. Il virus dell’infodemia corre pressante almeno da un biennio sul filo delle nostre vite. Molto prepotente da inizio pandemia, fino ad oggi con la guerra in corso in Ucraina. I fili della paura che avviluppa la nostra esistenza li gestiscono strumentalmente i soliti pochi noti, i signori del potere e della guerra.
La vittima è la verità sulle dinamiche storiche, economiche e geopolitiche che l’hanno provocata, ma la verità non è la sola vittima. A pagare lo scotto peggiore della guerra sono migliaia di persone costrette a fuggire dalla normalità della loro vita. Ad abbandonare tutto il loro mondo, a nascondersi nei bunker, a patire la fame. Spesso anche a morire sul ciglio di una strada, mentre fuggono dalle loro case distrutte dai bombardamenti.
Loro sono lì e noi qui a vedere dai monitor questo esodo forzato e la strage degli innocenti come fosse un film, come un dramma avulso dalla nostra realtà. Possiamo provare rabbia, pena, odio verso un leader o l’altro, ma noi siamo gli estranei della guerra, finché noi non diventiamo loro, accogliendo realmente le loro sofferenze e ribellandoci a tanta crudeltà, rifiutando la guerra e la sua possibile escalation voluta dalle potenze imperialiste. La guerra è stupida e crudele. Vuol dire che ci sono uomini stupidi e crudeli che detengono enormi poteri e soggiogano i loro popoli, rendendoli inermi. Le guerre più cruente hanno sempre avuto origine da forme di governo a matrice fascista, con un dittatore al comando. La storia ne è piena.
Basterebbe ricordare quanto accadde nella metà degli anni ‘70 in America latina. In Uruguay, Cile e Argentina si avvicendarono forme di dittature violentissime e molte furono le vittime. In Argentina, nel periodo dei generali, sparirono molte persone e di loro non se ne seppe più nulla. Solo alcune riuscirono a salvarsi e a fuggire, grazie anche all’intervento del console italiano in Argentina, Enrico Calamai.
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