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La crisi ingravescente del sindacato collaborazionista
di Eros Barone
L'esportazione dei capitali fa realizzare un lucro che si aggira annualmente sugli 8-10 miliardi di franchi, secondo i prezzi prebellici e le statistiche borghesi di anteguerra. Ora esso è senza dubbio incomparabilmente maggiore. Ben si comprende che da questo gigantesco soprapprofitto - così chiamato perché si realizza all'infuori e al di sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del "proprio" paese - c'è da trarre quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore dell'aristocrazia operaia. E i capitalisti dei paesi "più progrediti" operano così: corrompono questa aristocrazia operaia in mille modi, diretti e indiretti, aperti e mascherati. E questo strato di operai imborghesiti, di "aristocrazia operaia", completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per i salari percepiti, per la sua filosofia della vita, costituisce ai nostri giorni...il principale puntello sociale (non militare) della borghesia. Questi operai sono veri e propri agenti della borghesia nel movimento operaio, veri e propri commessi della classe capitalista nel campo operaio..., veri propagatori di riformismo e di sciovinismo, che durante la guerra civile del proletariato contro la borghesia si pongono necessariamente, e in numero non esiguo, a lato della borghesia, a lato dei "versagliesi" contro i "comunardi". Se non si comprendono le radici economiche del fenomeno, se non se ne valuta l'importanza politica e sociale, non è possibile fare nemmeno un passo verso la soluzione dei problemi pratici del movimento comunista e della futura rivoluzione sociale.
V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, dalla Prefazione alle edizioni francese e tedesca, 1920.
Il documento qui riportato è il riassunto della relazione svolta il 19 dicembre del 2019 da Nino Baseotto, segretario confederale della Cgil, al Direttivo nazionale di questo sindacato. Il riassunto, reperibile sul sito web della federazione varesina del Partito comunista italiano, è stato redatto da Cosimo Cerardi, segretario di tale organizzazione politica, presente alla riunione locale in cui la suddetta relazione è stata nuovamente esposta dal suo autore. 1
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Carl Schmitt spiegato ai giovani
Niccolò Rapetti intervista Carlo Galli
La complessità e la irriducibilità a formule del pensiero politico di Carl Schmitt sono immediatamente evidenti guardando alla sua travagliata fortuna scientifica. Si tratta innanzitutto di un reazionario cattolico, un conservatore compromesso nel regime hitleriano; negli anni però la sua critica anti-imperialista e anti-liberale ha iniziato a piacere molto anche alla sinistra e pur nel suo evidente anti-americanismo il suo libro Il nomos della Terra è oggi lettura obbligata per gli ufficiali di marina americana. Professor Carlo Galli, mi viene spontanea una domanda: di chi è Carl Schmitt?
È un grande giurista del diritto pubblico e del diritto internazionale, che ha avuto il dono di un pensiero veramente radicale, e la sorte di vivere in un secolo di drammatici sconvolgimenti intellettuali, istituzionali e sociali. Ciò ne ha fatto anche un grande filosofo e un grande scienziato della politica; e lo ha esposto a grandi sfide e a grandi errori.
È innanzitutto necessario chiarire la posizione di Schmitt nella storia delle idee e del diritto: Carl Schmitt è «l’ultimo consapevole rappresentante dello jus publicum europaeum, l’ultimo capitano di una nave ormai usurpata». Che cos’è lo jus publicum europaeum? Come e quando inizia il suo declino, che Schmitt attraversò «come Benito Cereno visse il viaggio della nave pirata»?
Lo jpe è l’ordine del mondo eurocentrico della piena modernità; un ordine che è anche Stato-centrico, al quale Schmitt sa di appartenere anche se è ormai in rovina. Un ordine, per di più, che egli stesso decostruisce, mostrando che si fondava sul disordine, cioè non solo sull’equilibrio fra terra e mare ma anche sulla differenza di status fra terra europea e terre extra-europee colonizzate.
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Da Saverio Saltarelli alle Sardine: quale odio?
L'altro 12 dicembre
di Fulvio Grimaldi
Amici, lettori, ciò che mi auguro leggiate qui sotto e ricordiate non c’entra niente col Natale, col suo bambinello e i suoi re magi (pastori e sovrani insieme ai piedi di un neonato che insigniscono di divinità: interclassismo e monarchia assoluta ante litteram); non c’entra con il disgustoso panzone con cui la Coca Cola ci ha corrotto le feste e neanche col capodanno. Ma c’entra col solstizio e con il ritorno della luce celebrato dai nostri avi meno dediti a strumentali superstizioni. E il ritorno della luce può essere anche inteso come ritorno della verità. Una verità riabilitata dal ricordo. E io questo ricordo me lo voglio portare nell’anno venturo e in tutti quelli successivi, finchè occhio e cuore saranno in grado di ricevere luce. Poi gli occhi si chiuderanno, ma la luce non si spegnerà.
https://www.youtube.com/watch?v=eWgJUdln3wg Compagno Saltarelli, un mio amico e compagno, cantato da Pino Masi
L’altro 12 dicembre. Quello dimenticato. Quello quando in piazza non c’erano Sardine ben vestite, benparlanti, sorridenti, applaudite con standing ovation dall’universo del comando perché “moderate” e ostili a ogni conflitto (che non sia con l’opposizione). Quando in piazza, a fare una denuncia non gradita agli autori della Strage di Stato dell’anno prima e tantomeno gradita a chi stava alle spalle dell’anarchico innocente Giuseppe Pinelli, quando volò da una finestra della Questura di Luigi Calabresi, c’erano decine di migliaia di manifestanti contro quella strage e quella “caduta”. Tra loro Saverio Saltarelli, 22 anni, studente abruzzese, facchino a Milano, rivoluzionario. Un poliziotto gli spacca il cuore con un candelotto lacrimogeno, “arma non letale”.
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Alcune considerazioni critiche intorno al “sovranismo”
Guglielmo Forges Davanzati (Università del Salento)*
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
E’ una falsa astrazione considerare una nazione, il cui modo di produzione è fondato sul valore, e per di più organizzata capitalisticamente, come un corpo collettivo che lavora unicamente per i bisogni nazionali. (KARL MARX, Il Capitale, libro III).
Una coscienza culturale europea esiste ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione verrà realizzata la parola nazionalismo avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale municipalismo. (ANTONIO GRAMSCI, 1931)
1. Introduzione
Il sovranismo economico è una linea di politica economica basata sulla convinzione che è solo il recupero della sovranità monetaria a poter generare crescita. La sovranità monetaria è intesa nella duplice accezione della possibilità accordata alla Banca centrale di stampare moneta e della possibilità della valuta nazionale di essere svalutata rispetto a valute concorrenti. Si propone, a riguardo, un modello nel quale la possibilità di stampare moneta da parte della Banca centrale fa sì che l’espansione del debito pubblico non costituisca un problema, dal momento che i titoli di Stato verrebbero acquistati dalla Banca centrale. Si aggiunge che la svalutazione della moneta – che presuppone, nel caso italiano, l’abbandono dell’euro - accresce le esportazioni, dunque la domanda aggregata e l’occupazione. Si immagina che questi interventi non abbiano costi e, di norma, questa proposta prescinde dall’esistenza di classi sociali e dunque dei possibili effetti redistributivi di queste misure.
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A proposito del libro di Paolo Ferrero, operaio alla Fiat
di Maria Grazia Meriggi
Il libro di Paolo Ferrero sul ’69[1] chiude un anno di convegni, seminari, volumi di ricerca storica anche accademica sullo stesso argomento, ma si propone esplicitamente come un testo militante, di sollecitazione politica. Il che non significa – al contrario – che non tenga conto di molte acquisizioni storiografiche e non fornisca validi elementi di conoscenza per un pubblico di potenziali lettori giovani, molto lontani da quegli eventi. Polemizza esplicitamente e con efficacia contro una lettura che più che dagli storici è stata data dalla stampa e dai media in generale: il ’68 come una ribellione culturale e di costume di studenti della piccola e media borghesia, momento festoso di modernizzazione dei costumi, nel senso delle “fratture post-mterialistiche”, il ’69 come momento novecentesco e “arcaico” di rivendicazione economica e sociale tradizionale, insidiata dalle anticipazioni della violenza degli anni ’70.
Di questa immagine caricaturale e ideologica il libro fa giustizia mettendo costantemente in luce il carattere composito socialmente dei protagonisti del ’68 studentesco come del ’69 operaio, dove entrano in campo – qui anticipiamo il discorso che seguirà – operai e operaie giovani, con una scolarità più elevata dei loro padri ma di prima immigrazione dal Sud, privi di una cultura del mestiere e di una acclimatazione agli ambienti e all’intensità dello sfruttamento del lavoro industriale. Nel “biennio rosso” alla liberazione dei corpi dal perbenismo soffocante delle famiglie praticata nel ’68 rispondeva la libertà e l’integrità dei corpi dalle costrizioni intollerabili dei ritmi e della nocività praticate nel ’69, con scambi continui fra studenti e lavoratori, resi possibili dal “lavoro alle porte” in cui si impegnarono tutti i gruppi politici in quegli anni.
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Guerra, colonialismo, razzismo, autoritarismo ed austerity
La grande rimozione europea
di Sergio Scorza
La storia dei paesi europei dalla fine della seconda guerra mondiale ai nostri giorni è costellata di orrori, tragedie e buchi neri e noi – proprio mentre è appena trascorso la cinquantennale della strage di piazza Fontana – ne sappiamo qualcosa.
Lungi dall’aver segnato una discontinuità rispetto a quella storia, L’Unione Europea, così come è stata concepita e strutturata, sembra incarnare e rendere ancora più oscuri/e complessi/e i vizi e le dinamiche della solita vecchia Europa.
Il lato oscuro della Francia
” Si des Arabes se promènent in a forét, le printemps i n’a rien ay voir. Ce ne peut étre que pour assassiner leurs contemporains” [1] scriveva, con ironia mista a dolore, Albert Camus nel maggio del 1947. Nella Francia del dopoguerra quelli che osserva lo scrittore sono “segni”: un titolo di giornale che suona già come condanna di un cittadino di origini arabe sospettato d’omicidio e che sottende il pregiudizio che se si è arabi e si passeggia per un bosco, la ragione non può essere la primavera.
Che cosa “segnalavano” per Camus quei segni? Segnalavano come si sta diffondendo la «malattia stupida e criminale» del razzismo. Ebbene, 14 anni dopo, il 17 ottobre del 1961, circa 30.000 persone sfilavano pacificamente per le vie di Parigi. I cortei, che avevano l’intenzione di raggiungere il centro della città, erano costituiti da donne, uomini e bambini; furono aggrediti dalla polizia a colpi di pistola e di armi da fuoco, vennero uccisi, gettati vivi nella Senna ed alcuni furono ritrovati impiccati nei boschi. I morti furono quasi 300 più alcune migliaia di feriti.
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Intervista al professor Franco Berardi
di Vox Populi
Franco Berardi, detto Bifo, nasce a Bologna il 2 novembre del 1949. Tra i protagonisti del movimento del ’77, in particolare della sua ala creativa e fuori dalla tradizione leninista sorta intorno alla rivista A/traverso, ha partecipato attivamente all’esperienza politica di Potere Operaio.
Tra i fondatori di Radio Alice, alle fine degli anni ’70, dopo la chiusura della radio, spicca nei suoi confronti un mandato per “istigazione di odio di classe per mezzo radio”. Ripara a Parigi, dove ha modo di frequentare Felix Guattari e Michel Foucault. Tornato in Italia, ha modo di collaborare con molte riviste tra cui DeriveApprodi, alfabeta2 ed anche il giornale di Rifondazione Comunista “Liberazione”. Tra i suoi libri più importanti ricordiamo: Contro il lavoro del 1970; Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio del 1994; Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione del 1995; Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto del lavoro all’emergere del cognitariato del 2004; Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk. L’esaurimento della modernità del 2013; e Futurabilità del 2019.
* * * *
1) Hai partecipato da protagonista al movimento del ’77, durante questo periodo hai fondato la rivista A/traverso e Radio Alice. Volevo chiederti che legami hanno queste esperienze con il situazionismo e che ruolo hanno avuto nel contestare il partito leninista come forma di organizzazione della lotta del movimento comunista.
Ho letto Debord per la prima volta nel 1977, lo avevo sentito nominare, avevo qualche vaga informazione sul situazionismo anche prima, ma non era qualcosa di ben definito nella mia mente.
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Sardine: l'arroganza di una minoranza
di Leonardo Mazzei
Né ridere né piangere. Né sopravvalutare né sottovalutare. Torniamo a fare analisi del "movimento delle sardine". Che sia "spontaneo" oppure un prodotto di laboratorio non cambia la sostanza: Salvini è il bersaglio, il fine è debellare "populismo" e "sovranismo". Per questo esso è funzionale al regime dell'élite euro-liberista
Sardine a natale
Le sardine manifesteranno a Bologna il prossimo 19 gennaio, cioè esattamente una settimana prima del voto regionale in Emilia Romagna. Forse basterebbe questo a chiudere il discorso su quale sia la loro funzione. Ma di questi tempi ci si emoziona per poco, specie quando entra in campo la piazza.
Secondo il modo di ragionare di certuni, il fatto che la gente manifesti sarebbe di per sé positivo. E questo indipendentemente dalle motivazioni, dai contenuti, dagli obiettivi, dai settori sociali realmente coinvolti nella mobilitazione. Il buffo è che queste argomentazioni vengono spesso da quella "sinistra" che considera i cortei della destra salviniana come redivive adunate fasciste dell'Italia che fu. Eppure anche quella è gente che scende in piazza...
Ma lasciamo perdere queste corbellerie. Il fatto è che la grande stampa continua ad enfatizzare il fenomeno in tutti i modi, segno inequivocabile di come ci si trovi di fronte ad un movimento sistemico, gradito come nessun altro alle neoliberali oligarchie dominanti. Tutto ciò è chiaro come il sole, ma siccome la confusione sotto il cielo è grande, non sarà male provare a fissare in alcuni punti un giudizio più netto su queste piazze benpensanti. Ecco perché ci occuperemo delle sardine a Natale.
Le sardine: un movimento neo-conservatore
Come tutte le cose del mondo, anche le sardine hanno le loro contraddizioni. Ma questo non significa che non abbiamo un'anima. O, come dice qualcuno (magari per criticarle), che non abbiano contenuti. L'anima c'è, ed è quella della conservazione. I contenuti ci sono, e sono quelli della delega alle istituzioni e ancor più ai "competenti", cioè di fatto ai funzionari del capitale, ai tecnici delle oligarchie finanziarie che dominano il nostro tempo.
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“Razionalità della demarcazione”. Contributo al dibattito su scienza e guerra
di Flavio Del Santo*
Ho seguito con grande attenzione il dibattito su scienza e guerra tra Angelo Baracca[1] e Vincenzo Brandi,[2] recentemente apparso su Contropiano.
Desidero iniziare raccogliendo l’appello di Angelo Baracca il quale, nella sua risposta a Brandi[3] affermava: “i miei allievi sarebbero i più indicati per dire se il mio Manuale Critico di Meccanica Statistica del 1979, impostato secondo questa concezione [storico-materialistica], riesca a fornire un’interpretazione del ricorso a metodi statistici più convincente dell’affermazione implicita che sono imposti dalla natura dei processi macroscopici.”
Poiché sono stato un allievo di Angelo Baracca quando egli era professore di fisica all’Università di Firenze, vorrei cogliere l’occasione per rispondere a questo commento e riaffermare alcune delle idee che sono al centro del presente dibattito, cercando però di contestualizzarle nel panorama contemporaneo.
Questo intervento non vuole essere una difesa delle posizioni di Baracca (che tuttavia tendo a condividere), ma cercherò piuttosto di mettere in luce come queste posizioni si siano evolute e diffuse dagli anni Settanta ad oggi; sviluppi di cui probabilmente nessuno dei due autori è completamente al corrente. Al contempo, però, ritengo che alcune precisazioni di carattere generale debbano essere giustapposte al commento critico di Vincenzo Brandi, il quale sembra puntare nella direzione tradizionale di una scienza “oggettiva” e “neutrale”.
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Non solo Popolare di Bari
Intervento dello Stato e moneta pubblica per rilanciare l’economia
di Enrico Grazzini
La brutta storia della Banca Popolare di Bari dice chiaramente che le banche sono “troppo importanti per essere lasciate in mano ai banchieri”. Le indagini giudiziarie sono in corso, ma lo stato è ancora una volta dovuto intervenire per salvare i risparmiatori. Lo stato però non dovrebbe essere costretto a salvare d’urgenza le banche in pericolo con improvvisi decreti notturni spendendo i soldi dei contribuenti: dovrebbe innanzitutto avere una sua autonoma potestà monetaria, un potere monetario almeno pari a quello degli istituti privati di credito. Il caso della banca di Bari è tutto meno che isolato: la crisi riguarda e ha riguardato anche il Monte dei Paschi di Siena, la Banca Carige, o nel recente passato, la Banca del Veneto, o quella di Vicenza, ecc, ecc, ecc. Il problema non è solo che la Banca d’Italia di Ignazio Visco forse ha commesso qualche errore e qualche distrazione di troppo! O che le regole dell’Unione Bancaria e dell’Unione Europea – a favore del bail in e contro l’intervento pubblico, considerato aiuto di stato che distorce la competizione - hanno aggravato pesantemente la crisi bancaria italiana invece di risolverla. Il problema strutturale è che, se lo stato non ha nessun potere monetario, allora il bilancio statale, l’economia italiana e gli investimenti pubblici sono bloccati, e che tutta l’economia nazionale – non solo le banche, ma anche le industrie, vedi i casi Ilva, Alitalia, Whirpool, AST, ecc. – è ferma ed è sempre sull’orlo del collasso. La questione è strutturale: lo stato dovrebbe potere intervenire sia in campo bancario che più in generale nell’economia con le sue banche pubbliche e con una sua (quasi)moneta per sviluppare l’economia italiana, svoltare e finalmente portarla fuori dalla crisi.
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Il processo Stalin. L’ultimo libro di Ruggero Giacomini
di Salvatore Tinè
Il libro di Ruggero Giacomini Il processo Stalin (Castelvecchi, 2019) costituisce un importante contributo ad una riflessione critica sul ruolo e le stesse responsabilità personali di Stalin in alcuni dei momenti insieme più drammatici e controversi della storia dell’URSS degli anni ’30 e ’40. La prospettiva da cui tale riflessione viene sviluppata si differenzia infatti radicalmente da un’ottica puramente e aprioristicamente demonizzante o criminalizzatrice della figura di Stalin, favorendo piuttosto una valutazione critica di essa non solo più oggettiva e fondata sulla documentazione storica oggi disponibile ma anche più attenta alla straordinaria complessità e contraddittorietà degli oggettivi processi storici in cui la direzione politica del dirigente comunista si dispiegò lungo quei due terribili decenni.
La serrata critica condotta da Giacomini di quel vero e proprio “processo a Stalin” post mortem, che Kruscev tentò di costruire nel suo celebre “rapporto segreto” al XX Congresso del PCUS nel febbraio del 1956, delle sue contraddizioni e delle sue stesse falsificazioni, mira in questo senso a collocare la personalità e l’opera di Stalin non solo nel contesto del più generale processo di edificazione del socialismo in Urss e delle lotte di classe che lo scandiscono drammaticamente ma anche nel quadro internazionale, insieme europeo e mondiale, segnato già nel corso dei primissimi anni ’30. dalla prospettiva, avvertita dal gruppo dirigente sovietico come ormai incombente, della guerra.
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Massimo Recalcati. Le nuove melanconie
di Maria Laura Bergamaschi, Anna Stefi
L’ultimo libro di Massimo Recalcati, Le nuove melanconie, si apre con un esergo tratto dal Vangelo di Giovanni, lo stesso esergo che Giacomo Leopardi scelse come ingresso a La ginestra: “e gli uomini vollero le tenebre piuttosto che la luce”. Il godimento senza limite, cifra del capitalismo, ha assunto oggi un nuovo volto, complementare al primo, diventando godimento della chiusura: dall’iperattività all’autoreclusione. Così i confini – porosi, aperti, essenziali perché si produca relazione – sono diventati muri. L’esito di questo essere-per-le-tenebre sarebbero dunque i disturbi melanconici sul piano della sofferenza individuale – l’esistenza come peso da trascinare, l’assenza del sentimento della vita, il culto del denaro e del possesso –, e la difesa a oltranza dei propri confini identitari sul piano del vivere sociale – una nuova pulsione securitaria che separa gli uni e gli altri.
L’espansione maniacale capitalistica, scrive Recalcati, ha lasciato attorno a sé solo un mucchio di ceneri, e quello cui assistiamo è una nuova deriva melanconica. Il rapporto solipsistico con l’oggetto ha prodotto una chiusura autoconservativa del soggetto su se stesso, spezzando ulteriormente ogni legame sociale: “l’esigenza della protezione si confonde con una condizione di asservimento”. La vita rinuncia alla vita in cambio della sua difesa.
Il discorso fascista trae la sua forza da questo desiderio consustanziale alla vita umana di difendersi dalle perturbazioni del mondo esterno. L’identità è minacciata dallo straniero e i porti devono essere chiusi per evitare ogni contaminazione: rinunciare al gioco della vita per evitare la quota di rischio che ogni gioco implica, la perdita di padronanza che l’assunzione del proprio desiderio chiede.
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Rosa Luxemburg critica dell’economia politica
In questo centenario dalla morte della rivoluzionaria polacca pochi hanno approfondito il suo apporto alla teoria economica, che è stato invece fondamentale per lo sviluppo del marxismo
Nel centenario della morte, Rosa Luxemburg (1871-1919) è stata ricordata come socialista, per il suo ruolo nel pensiero femminile e per la straordinaria personalità che viene fuori dal suo epistolario. Qui vogliamo ricordare anche il suo fondamentale contributo alla critica dell’economia politica, in primo luogo con i libri L’accumulazione del capitale (1913) e Introduzione all’economia politica (1912 ).
L’accumulazione è senz’altro da considerare l’opera principale di Rosa Luxemburg. Lo scopo dell’opera era rispondere al quesito «dove sono i consumatori del plusvalore?». La risposta della rivoluzionaria polacca è che dentro un sistema puramente capitalistico sarebbe impossibile reperire la domanda per il consumo di merci prodotte in regime di accumulazione. Tale domanda dovrebbe ricercarsi altrove. E proprio per trovare questa domanda aggiuntiva nasce secondo Rosa Luxemburg l’imperialismo. Infatti, la conquista di nuove colonie da parte degli Stati a economia capitalistica andò di pari passo con la concorrenza, militare ed economica, per accaparrarsi nuovi spazi di accumulazione dopo la saturazione delle economie interne. Ma la lotta per la spartizione di queste zone pre-capitalistiche porta prima o poi alla saturazione dell’intera economia globale, in un mondo divenuto integralmente capitalistico. A quel punto si verifica il crollo del sistema per la carenza della domanda del sovrappiù.
Per questa sua teoria Rosa Luxemburg è stata accusata – anche da illustri marxisti come Lenin o Sweezy – di «crollismo sottoconsumista». Ma andiamo con ordine. Alla fine proveremo a spiegare come si difende da queste accuse e perché il suo contributo fu sottovalutato dai marxisti suoi contemporanei e successivi.
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Schiavitù senza padroni
di Alessandro Della Corte
Qualche tempo fa sono capitato su un articolo divulgativo che parlava di un recente esperimento di fisica fondamentale[1]:
Prendete un pallone. Da calcio, da basket, da pallamano; non importa. Sparatelo con un cannone e riprendete la scena con telecamere ad altissima definizione. […] Ora è il momento di fare un passo in avanti: rimpicciolite il pallone fino a farlo diventare un oggetto quantistico (un elettrone, un fotone; non importa) e ripetete l’esperimento con un mini-cannone e una mini-telecamera. Vi accorgerete che le cose cambieranno parecchio. Senza tirarla troppo per le lunghe, non riuscirete più a concludere la misura come prima. Perché la vostra mini-telecamera perturberà irrimediabilmente la traiettoria del mini-pallone, diventando di fatto parte integrante e attiva dell’esperimento. […] Piccola pausa: cosa vuol dire entangled? Il termine entanglement, che non ha una precisa traduzione italiana, definisce un bizzarro (l’ennesimo) fenomeno quantistico in cui due o più particelle sono intrinsecamente collegate tra loro in modo tale che le azioni o le misure eseguite su una di esse abbiano effetto istantaneo e irreparabile sulle altre. Con questo in mente, torniamo all’esperimento.
Eccetera, eccetera. Testi di questo tipo mi deprimono. Non perché l’esempio scelto (abbastanza a caso) sia particolarmente cattivo nel suo genere; si trovano facilmente cose molto più invereconde. Il mio problema è il genere stesso, e in particolare lo stile tipicamente usato. Si avverte l’ansia, il terrore che il lettore si spaventi, o peggio ancora si annoi e smetta di leggere. Lo si percepisce dal periodare convulso, dall’abbondanza di espressioni tipiche del parlato che dovrebbero dare sollievo tra una parola difficile e l’altra, dai grassetti distribuiti generosamente e un po’ a caso.
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Autonomia differenziata, sfruttamento generalizzato
di coniarerivolta
Con la fine del Governo giallo-verde, sembrava essere caduta nel dimenticatoio la riforma leghista per eccellenza: l’autonomia differenziata. A ben vedere, tuttavia, essa sembra soltanto rinviata. Se, come pare probabile, il prossimo sarà un governo di centrodestra a trazione leghista, si può scommettere che il regionalismo differenziato sarà uno dei primi punti all’ordine del giorno. E non è neanche detto che si debba aspettare il prossimo esecutivo. Nel disperato (e, probabilmente, illusorio) tentativo di conquistare il consenso dell’imprenditoria settentrionale, potrebbe essere lo stesso governo giallo-rosè ad anticipare i tempi di questa sciagurata riforma. D’altro canto, le recenti dichiarazioni del Ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia, in base alle quali la bozza di una fantomatica “legge quadro” sarebbe quasi pronta, appaiono come dei tristi presagi.
Tuttavia, al di là di qualche fumosa dichiarazione, ad oggi dell’autonomia differenziata si sa forse meno di prima. All’epoca della trattativa tra il Conte-I e le Regioni, interessate all’attuazione dell’articolo 116 della Costituzione, circolavano soltanto delle bozze di accordo, che non avevano mai trovato una forma definitiva. Trarre conclusioni su come, concretamente, avverrebbe il trasferimento di competenze e quindi di risorse dallo Stato alle Regioni è dunque pressoché impossibile. Logica vuole, tuttavia, che tale trasferimento comporti necessariamente un disimpegno da parte dello Stato, nel finanziamento delle competenze in questione, e un aumento delle risorse che le Regioni vorranno trattenere per adempiere ai nuovi compiti.
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Domenico Losurdo, alla testa del marxismo militante
di Joào Quartim de Moraes1
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
Coincidenza non casuale, nello stesso momento in cui si riuniva per la prima volta a Sào Paulo il gruppo fondatore di “Critica marxista”, Domenico Losurdo pubblicava Dalla rivoluzione d’Ottobre al nuovo ordine internazionale (novembre 1993). Erano gli anni infausti nei quali lo smantellamento del blocco sovietico poneva fine a quattro decadi di equilibrio strategico USA/URSS, favorendo il predominio incontrastato del blocco occidentale riunito nell’alleanza militare del Patto Atlantico. Lunghe colonne di disertori aderivano alla Democracy e alla Globalization Made in USA e giustificavano il loro cambio di fronte con il pretesto della nuova fase storica, convinti che l’insuccesso di Gorbaciov e il golpe di Eltsin fossero solo l’ultima conferma del definitivo fallimento del marxismo. Tristi pappagalli del pensiero unico neoliberale preconizzavano, con la scomparsa dell’URSS, l’inizio di un’era di pace senza più muri né frontiere.
Non mancava, tuttavia, chi si sforzava di tener salda la propria posizione davanti alla valanga reazionaria che rovinava sul blocco sovietico e sotterrava sotto le sue macerie anche l’eurocomunismo. Tra questi, Domenico Losurdo: nel gennaio del 1991, al culmine dello smottamento, pubblicava il primo di una lunga serie di articoli in difesa del lascito della rivoluzione d’Ottobre del 1917. Losurdo aveva già ottenuto un vastissimo riconoscimento accademico internazionale per i suoi studi di filosofia e di storia politico-culturale della Germania (Kant e, principalmente, Hegel) realizzati tra il 1983 e il 1989. In seguito, aveva pubblicato La comunità, la morte, l’Occidente: Heidegger e l’“ideologia della guerra” (Torino, 1991) e Hegel e la libertà dei moderni (Roma, 1992). Ma a consacrarlo come uno dei maggiori storici e teorici del marxismo del nostro tempo era stato certamente Democrazia o bonapartismo, pubblicato nel 1993.
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Esiste una Gig economy?1
di Kim Moody2
Il lavoro sicuro non è mai stato una caratteristica del capitalismo. Poiché la concorrenza spinge l'accumulazione da un settore, o da un luogo, all'altro nella ricerca di profitti attraverso gli alti e bassi delle crisi periodiche, questa altera necessariamente i modelli occupazionali e l'organizzazione del lavoro. Nel lungo periodo, il capitalismo degli Stati Uniti ha spostato l'occupazione dall'agricoltura e dall'industria a lavori spesso etichettati come servizi.
Per un breve periodo successivo alla seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni '70, il sistema delle economie capitaliste sviluppate sembrava garantire un po’ di sicurezza ai settori della classe operaia, soprattutto in quello della produzione. Questa illusione venne eliminata con l'aumento della turbolenza economica che caratterizzò l'era neoliberista, a partire dall'inizio degli anni '80, quando furono cancellati milioni di posti di lavoro nella manifattura mentre la produzione continuava a crescere.
Insieme a crisi più profonde, metodi di produzione più snelli e nuove forme di misurazione e di sorveglianza del lavoro hanno portato non solo alla sua intensificazione attraverso lo "sviluppo costante" che ha distrutto i posti di lavoro, ma anche l'outsourcing verso imprese a basso reddito localizzate spesso appena fuori dall’ “autostrada" o all'estero. I tassi di partecipazione della forza lavoro sono diminuiti e l'insicurezza è diventata la norma per milioni di esclusi prodotti da tali cambiamenti.
Nel bel mezzo di questi cambiamenti strutturali, che spesso provocano disorientamento, alcuni commentatori e accademici hanno visto quello che ritengono sia l'ascesa di nuovi tipi di lavoro intrinsecamente più instabili e irregolari rispetto a quelli dell'ultimo mezzo secolo e più.
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Il 25 e 26 gennaio nasce Nuova Direzione
di Nuova Direzione
A Milano si costituisce Nuova Direzione. Approveremo le tesi politiche e lo statuto e decideremo insieme come avviare una serrata presenza sulla scena politica italiana. Chi ci conosce o approva le nostre idee può partecipare da subito, entrare nella discussione delle tesi ed aiutare a definire un nuovo modo di fare politica.
Una Nuova Direzione. Perché?
Oltre la destra, oltre la sinistra. Per il socialismo.
Questa è la nuova direzione che il paese deve scegliere. Un socialismo tutto da inventare, integralmente nuovo. Legittimato dalle diseguaglianze, dalle crisi, dal disastro ambientale e dai rischi di guerra prodotti dal capitalismo. Un socialismo necessario anche per l’Italia, perché solo un forte intervento pubblico può far rinascere il paese e aumentarne la capacità di autodeterminazione, ma solo una gestione socialista e popolare può evitare che esso funzioni come sostegno ai grandi gruppi privati.
Un socialismo che non è un modello predeterminato, da applicare ovunque, ma la ricerca dei modi più adeguati, e quindi diversi da luogo a luogo, per limitare il potere del capitale e favorire quello dei lavoratori.
Un socialismo che, così considerato, non è affatto morto nel novecento, ma si presenta in gradi diversi e con le inevitabili contraddizioni sia nell’esperienza cinese, sia in quella sudamericana, sia nei nuovi orientamenti che sorgono in Inghilterra e negli stessi Stati Uniti. E che può ripresentarsi in Italia dimostrando di saper coniugare l’interesse delle classi subalterne e l’interesse nazionale.
Destra e sinistra in Italia, due facce del liberismo
Entrambe vogliono precarizzare il lavoro (salvo inventarsi adesso correttivi di facciata). Entrambe puntano sull’immigrazione, sfruttandola in modi diversi, per indebolire i lavoratori. La destra con politiche minacciose, che avvelenano la cultura del paese, ma lasciano volutamente irrisolto un problema che è fonte perpetua di voti; la sinistra con la vantata propensione all’accoglienza illimitata, che si accompagna a goffi tentativi di limitazione dei flussi.
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Il capitalismo secondo Nancy Fraser
di Carlo Formenti
Basterebbero i titoli dei quattro capitoli – Concettualizzare il capitalismo, Storicizzare il capitalismo, Criticare il Capitalismo, Contestare il capitalismo – per dare un’idea dell’ambizione teorica che ispira un libro come Capitalism (da poco pubblicato in edizione italiana dall’editore Meltemi nella collana Visioni eretiche, diretta da chi scrive). Il volume porta come sottotitolo “Una conversazione con Rahel Jaeggi”, ma il lettore capisce presto che siamo lontani dalla mera registrazione di un dialogo (infatti le autrici spiegano che il libro è stato “costruito” a posteriori, usando le conversazioni come una semplice traccia): ci troviamo, piuttosto, di fronte a due discorsi che scorrono paralleli e quasi indipendenti l’uno dall’altro. Quanto all’artificio retorico dell’alternanza fra domande (perlopiù della Jaeggi) e risposte (perlopiù della Fraser) si intuisce che maschera a stento le divergenze fra le autrici, che vengono attutite dall’atteggiamento amichevole di due donne che si stimano, rispettano e apprezzano reciprocamente, ma anche (sia detto senza ironia) da un certo bon ton accademico.
Del resto non potrebbe essere altrimenti, dal momento che le rispettive visioni filosofiche ed epistemologiche coincidono solo marginalmente: pur conservando entrambe un forte ancoraggio al pensiero di Marx, le due autrici si propongono infatti di oltrepassarne i limiti attraverso percorsi diversi: la Fraser tenta di superare la classica contrapposizione fra struttura e sovrastruttura “contaminando” Marx con Polanyi, attingendo al contributo di autori come Harvey, Arrighi e Wallerstein (mentre Gramsci, pur restando sullo sfondo, pesa in misura tutt’altro che marginale) e aggiungendovi molto del suo; Jaeggi si pone lo stesso obiettivo partendo invece dalla rivisitazione critica di maestri tardo francofortesi come Habermas e Honneth, “annaffiati” da robuste dosi di Foucault.
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Il secondo Brexit, lotte di classe in Francia e il “Che fare” che ci aspetta
di Paolo Azzaroni
In Inghilterra il mondo del lavoro soffre di una malattia che si direbbe incurabile. Miseria, precarità, angoscia, sentimento di abbandono.
Da 15 anni e più, sinistra e destra l’hanno spinto nel vicolo cieco del neoliberismo. Le politiche di austerità condotte dall’Unione Europea hanno sostenuto profitti colossali e la loro trasformazione in rendite speculative. In inghilterra, come in Francia o, ancora peggio in Italia o in Grecia si lavora con una pistola puntata dietro la schiena, o non si lavora affatto o in modo precario. Salari e prestazioni sociali si sciolgono come neve al sole.
Gli Stati si trasformano in Stati provvidenza per le multinazionali : miliardi di euro di regali senza l’ombra di una contropartita, esoneri fiscali che si aggiungono all’evasione fiscale. La politica dell’offerta ha creato una situazione di Keinesismo alla rovescia : La provvidenza va ai piu ricchi e l’austerità è riservata alla grande maggioranza, in una parola, al mondo del lavoro.
Le popolazioni europee le hanno provate tutte : Si è votato a destra e non ha funzionato, si è votato a sinistra idem con patate, si è provato con l’estrema sinistra (in Grecia), peggio ancora. C’è chi ha accusato Alexis Tsipras e i suoi amici di tradimento e c’è chi l’ha finalmente assolto dicendo che non poteva fare diversamente.
In realtà sinistra e estrema sinistra sono, oggi, unite come due dita della stessa mano. Se tradimento c’è stato, esso va cercato in un’epoca piu remota. Bisognerebbe rimontare al periodo in cui gli azionisti delle grandi imprese ( vi ricordate quando li si chiamava Capitale Avanzato ?) hanno lanciato un deal con i dirigenti dei partiti detti « progressisti », rottamando cosi il vecchio Stato clientelare, le sue banche, le sue imprese di Stato, e la sua moneta… Vi ricordate i buoni del tesoro al 12% al netto delle tasse ? Ebbene oggi , in cambio abbiamo il MES ovvero il furto organizzato dei risparmi popolari.
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Né sardine, né pesci in barile
di Militant
L’istantanea migliore, a livello di analisi delle “sardine”, l’ha fornita probabilmente “La Stampa”, lo scorso 11 dicembre, vale a dire il giorno dopo la manifestazione di Torino. Il quotidiano padronale, infatti, accomunava la piazza torinese alla contemporanea iniziativa di Milano, in cui seicento sindaci accompagnavano la senatrice a vita Liliana Segre in una passeggiata in Galleria, insieme a migliaia di milanesi, per protestare contro la campagna di offese di cui, incredibilmente, era stata fatta oggetto una sopravvissuta ad Auschwitz. Le due piazze, in effetti, erano assolutamente speculari: promossa dal basso (Torino) e suggerita dall’alto (Milano) si incontravano le due facce dell’Italia “civica e civile”, nella tappa intermedia di un percorso che, nato poco più di un mese fa, avrebbe visto molte città italiane aderire ai flash-mob delle “sardine”.
E la sinistra di classe, e quelli come noi? Infastiditi, inorriditi, incuriositi, indifferenti: abbiamo manifestato, da un mese a questa parte, una gamma di atteggiamenti così vari da confermare l’inossidabile difficoltà a incontrarsi, oggi, nelle idee, prima ancora che nelle lotte e nelle vertenze. Ne deriva che la posizione di chi manifesti una lontananza totale – difficilmente eccepibile, peraltro – dalle sardine finisca quasi per essere giudicata come ‘rozza’, ‘elementare’ e ‘superficiale’, lontana – quel che è peggio – dalla necessaria complessità che caratterizza oggi la politica post-ideologica. Sgomberiamo il campo dagli equivoci: nessuna struttura della sinistra radicale rivendica una piena adesione al neonato movimento, né paiono esserci entusiasti endorsement da parte di intellettuali e testimonial di riferimento, a eccezione del compagno Erri De Luca, che avrà avuto i suoi buoni motivi. Al netto di ciò, non manifestare quantomeno interesse verso le occasionali piazze animate da pesciolini di carta e di cartone era considerato pari a rinunciare a un approccio che mischia Machiavelli e realpolitik e che oltraggia quel tempismo, quella capacità di stare con gli occhi aperti, quella propensione a cogliere l’attimo che dovrebbe caratterizzare ogni militante politico.
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Ok, Boomer! Per una vecchiaia meno seria
di Mauro Portello
Fermo restando che “rendere la vita meno seria è una fatica immane e una grande arte”, come dice John Irving, vale comunque la pena insistere nella riflessione sulla vecchiaia per la semplice ragione che solo facendolo possiamo pensare di riuscire a escogitare qualcosa di meglio che ce ne possa difendere. Chissà, magari proprio nella vaghezza del qualcosa sta il “meno serio” di cui abbiamo bisogno.
“Ok, boomer!” si è sentito rispondere sarcasticamente un anziano deputato neozelandese qualche settimana fa dalla sua giovane collega venticinquenne Chlöe Swarbrick che intendeva dire “Adesso tocca a noi”. E così il baby-boomer diventa il nuovo soggetto sulle spalle del quale dovrà compiersi il salto evolutivo della concezione della vecchiaia, piaccia o no. Con la cultura disinvolta, spregiudicata e ribelle della sua umanità rock dovrà affrontare la sfida. E, per questo in particolare, sono convinto che François Jullien abbia ragione quando dice che “quel che viene prima è la dimensione culturale”, che ciò che si pensa, oggi, può essere più determinante di ciò che si fa, più di quanto si creda. Personalmente sono convinto che la nuova vecchiaia ne sia un’importante verifica.
È un vero tourbillon antropologico con cui stiamo facendo i conti. Tutti possono verificare che nella propria vita quotidiana degli ultimi tre decenni sono apparse nuove abitudini alimentari, linguistiche, estetiche, economiche, morali, provenienti appunto da quel mondo globale che non sempre per tutti è ancora facile identificare e utilizzare. E l’interazione con l’informazione globalizzata che la Tecnica ci mette a disposizione è probabilmente la maggiore fonte di questi cambiamenti. Gli adattamenti culturali sono in corso.
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Derivati finanziari: salvare il sistema per non cambiarlo
di Giovanna Cracco
Derivati finanziari. Li abbiamo conosciuti nel 2007, non come la miccia che ha innescato la crisi dei subprime ma la benzina che ha trasformato l'esplosione di una bolla in un enorme incendio, poiché erano il liquido su cui galleggiava il sistema finanziario mondiale. Per qualche tempo sono stati sulle pagine dei quotidiani, economici ma non solo, nel tentativo di capire cosa fosse accaduto, dopodiché sono tornati nell'ombra nella quale vivono e proliferano. Hanno di nuovo fatto una fugace comparsa l'estate scorsa, quando Deutsche Bank ha presentato il piano di ristrutturazione per non fallire - creazione di una bad bank dove scaricare i titoli spazzatura e licenziamento di 18.000 persone sugli attuali 91.700 dipendenti - con un numero che è difficile afferrare perché sfugge alle scale di grandezza a cui riusciamo a dare un significato: 48.000 miliardi di euro è il valore nominale dei derivati oggi detenuti dalla banca tedesca (1). Per inserire la cifra in un discorso di senso, il Pil italiano nel 2018 è stato di 1.753 miliardi, pari dunque al 3,65% dell'ammontare dei derivati della Deutsche Bank. Una sola banca possiede titoli finanziari per un valore nominale equivalente a più di 27 volte il prodotto interno lordo di un Paese di 60 milioni di abitanti, la settima potenza manifatturiera al mondo. E questo all'alba di una recessione economica e in una fase di bolle sui mercati (2). Significa che dal 2007 nulla è cambiato? Qual è oggi la situazione nell'universo parallelo dei derivati finanziari?
Future e opzioni sono esistiti fin dalla seconda metà deN'800: al Chicago Board of Trade si scambiavano quelli sul grano per tutelarsi dalle variazioni di prezzo dovute alla ciclicità della produzione e per un secolo furono legati solo alle commodities
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Scienza e guerra. Prosegue la discussione
di Angelo Baracca
Una risposta alle osservazioni di Vincenzo Brandi.
«La questione se al pensiero umano appartenga la verità oggettiva non è una questione teorica ma pratica. È nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica»
[Karl Marx, seconda tesi su Feuerbach]
Le osservazioni critiche di Vincenzo Brandi al mio articolo “Scienza e Guerra” sono certo utili per sviluppare un dibattito che appare necessario, anche se sembra dimostrare che 50 anni di critica, costruttiva e attiva, fondata sul materialismo storico di Marx non ha lasciato una traccia duratura. Le mie risposte purtroppo non possono essere sintetiche perché è necessario entrare nel merito di varie questioni.
Una prima annotazione, che non ha una rilevanza centrale ma rientra nelle incomprensioni. Io per brevità mi sono limitato a citare Archimede e Lazare Carnot (che Brandi definisce esempi “poco felici”, avrei potuto citare molti altri) da un lato per dare l’idea che il problema è molto antico riferendomi a un personaggio storicamente famoso, e dall’altro approfittando per citare una figura, Lazare (del quale mi sono occupato molto in passato), che è poco conosciuta ma estremamente rilevante sul piano sia scientifico che politico e militare.
Non avevo minimamente intenzione di dare giudizi di valore o morali. Avrei potuto citare il Nobel per la chimica Fritz Haber (del quale pure mi sono occupato) il quale convinse lo Stato Maggiore ad impiegare gas tossici, vietati dalla Convenzione dell’Aja, di cui la Germania era firmataria: sotto la sua direzione fu creata nel 1915 prima unità di Gastruppe, Haber supervisionò personalmente i preparativi per l’attacco di gas tossico vicino alla città belga di Ypres, 22 aprile 1915; alla fine della guerra erano circa 1.000 i chimici impiegati nelle armi chimiche (per la cronaca collaborò occasionalmente anche il Nobel per la fisica Walther Nernst), un precedente di 20 anni, poco noto, della Big Science del Progetto Manhattan. Forse Haber era semplicemente un “patriota”!?
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Intervista politico-filosofica
Gianluca Sacco intervista Carlo Galli
Dalla lettura del suo ultimo libro Sovranità, soprattutto dal capitolo finale, appare oggi, semplificando, che sovrana in Europa sia per lo più la Germania. Il sovranismo è invece, sempre secondo il suo testo, una specie di reazione agli aspetti potremmo dire tirannici di questa sovranità, ovvero l’euro, e in particolare l’ordo-liberalismo, una dottrina economica tedesca che, per dirla alla Foucault, «pone lo Stato sotto sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello Stato». È corretta questa lettura? È l’ordo-liberalismo, secondo lei, il vero tiranno d’Europa?
L’ordo-liberalismo è una forma di pensiero economico particolarmente cogente e estremamente attenta a determinare e a preservare attraverso la politica le condizioni dell’equilibrio economico: la libera concorrenza e l’esclusione delle interpretazioni dell’economia in chiave conflittuale. L’ordo-liberalismo è l’economia sociale di mercato tedesca, a sua volta alla base del marco. Tutti sappiamo che l’euro è stato esemplato sul marco, e tutti sappiamo che l’euro ha nella propria costituzione delle regole di carattere strutturale; ci dicono che l’economia deve essere un’economia fondata sulla esportazione e non sulla domanda interna, che lo Stato deve avere i conti pubblici in ordine, che lo Stato non può essere il signore della moneta, che questa è una variabile indipendente. Ora tutti sanno che gli Stati dell’eurozona vi hanno aderito attraverso procedure democratiche che sono state in ogni caso legali, perché hanno coinvolto i governi e i parlamenti degli Stati membri. Quindi parlare di tirannide è improprio, almeno dal punto di vista tecnico. Ma detto questo, dobbiamo sottolineare altri aspetti.
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