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Scenari della “grande frattura”
di Andrea Zhok
Assistere ad un evento di portata storica, sapendo che è tale, è un privilegio raro. Spesso gli eventi storici si celano sotto spoglie oscure e solo a posteriori si scopre che una soglia decisiva è stata passata. Nel caso dell’epidemia di Covid-19 possiamo dire con ragionevole certezza che si tratta di una soglia storica decisiva, che si sta dispiegando davanti ai nostri occhi.
Il privilegio di questa nostra posizione è che di principio potremmo esercitare qualche influenza sul percorso: oggi si fa la storia.
Nell’analisi storica, anche della storia corrente, previsioni e profezie sono roba da scommettitori, ma ciò che si può esaminare razionalmente sono le tendenze di fondo. E dunque, quali tendenze possiamo rintracciare negli eventi cui stiamo assistendo?
1) Il mondo di ieri
L’irruzione dell’epidemia sul palcoscenico mondiale ha creato le condizioni per una planetaria rottura dell’inerzia, un brusco risveglio. Le coscienze occidentali hanno vissuto nell’ultimo mezzo secolo in una dimensione di artificio crescente, con l’opprimente impressione di abitare un vortice in perenne accelerazione e senza via d’uscita. Il processo noto come “globalizzazione” (o più correttamente, “seconda globalizzazione”, dopo quella che precede la prima guerra mondiale) è stato presentato con i caratteri di un ‘destino ineluttabile’. È stato così presentato costantemente e ricorrentemente dall’intellighentsia progressista, liberale, neoliberale, ma anche dalla maggior parte dei sedicenti ‘conservatori’.
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Il covid-19, l'inadeguatezza del capitalismo e la necessità della pianificazione
di Domenico Moro
Una crisi potenzialmente più profonda di quella del 1929
Quella davanti a cui ci troviamo è una sorta di “tempesta perfetta”, che dimostra l’inadeguatezza storica del modo di produzione dominante, quello capitalistico. Infatti, la Pandemia del Covid-19 interviene in un momento delicato per l’economia mondiale, in cui la ripresa ciclica perdeva vigore anche a causa di eventi come la Brexit, i dazi protezionistici e il rallentamento dell’economia tedesca. In gran parte del mondo più avanzato e industrializzato le attività sono bruscamente rallentate e in certi settori fondamentali sono del tutto o quasi del tutto ferme. Metropoli come New York, Madrid e Milano sono in quarantena.
Solo in Italia si calcola che il 60% delle attività produttive sia bloccato. Ciò significa che ogni settimana si perdono 10-15 miliardi di Pil. I primi decreti del governo hanno bloccato a casa quasi otto milioni di lavoratori pari al 44% dei dipendenti attivi, ma tale percentuale è destinata a crescere per i nuovi blocchi previsti dal governo. L’entità della perdita di Pil e soprattutto di aziende e posti di lavoro dipenderà dalla durata della serrata che, a sua volta, dipenderà dalla durata della pandemia. Gli esperti dicono che anche dopo il superamento del picco bisognerà mantenere in atto misure di contenimento, che continueranno a gravare sull’attività produttiva anche perché prima di avere la disponibilità di un vaccino passerà un anno e c’è la possibilità che a dicembre prossimo si verifichi una recrudescenza della pandemia influenzale. Secondo le parole di Draghi le conseguenze economiche e lavorative della pandemia saranno “bibliche”.
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Epidemie, complotti, crisi e sfere di cristallo
di Piotr
La povera gente seguiva a piedi i carrettelli carichi di due magri sacconi e di quattro seggiole sciancate; e nelle brevi soste fatte per riprender fiato, per asciugare il sudore grondante dalle fronti terrose, scambiava commenti sulle notizie del colera, sull’origine della pestilenza, sulla fuga generale che spopolava la città. I più credevano al malefizio, al veleno sparso per ordine delle autorità; e si scagliavano contro gl’ «italiani», untori quanto i borboni. Al Sessanta, i patriotti avevano dato a intendere che non ci sarebbe stato più colera, perché Vittorio non era nemico dei popoli come Ferdinando; e adesso, invece, si tornava da capo! Allora, perché s’era fatta la rivoluzione? Per veder circolare pezzi di carta sporca, invece delle belle monete d’oro e d’argento che almeno ricreavano la vista e l’udito, sotto l’altro governo? O per pagar la ricchezza mobile e la tassa di successione, inaudite invenzioni diaboliche dei nuovi ladri del Parlamento? Senza contare la leva, la più bella gioventù strappata alle famiglie, perita nella guerra, quando la Sicilia era stata sempre esente, per antico privilegio, dal tributo militare? Eran questi tutti i vantaggi ricavati dell’Italia una?... E i più scontenti, i più furiosi, esclamavano: «Bene han fatto i palermitani, a prendere i fucili!...» Ma la rivolta di Palermo era stata vinta, anzi la pestilenza, secondo i pochi che non credevano al veleno, veniva di lì, importata dai soldati accorsi a sedare l’insorta città...
(Federico De Roberto, I Viceré, 1894)
1. In questi giorni vengono segnalati come “interessanti” alcuni video. Non sono stati prodotti in diretta connessione con la crisi Covid-19 ma in questi giorni stanno ricevendo nuova attenzione e hanno una rinnovata circolazione. Uno è italiano e l'altro sembra statunitense.
In quello italiano vengono dette cose anche esatte sulla finanziarizzazione mentre nei sottotitoli scorrono strani testi che parlano (ovviamente con prudenti punti di domanda qua e là) di “complotti mondialisti” e di “Illuminati”.
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Crisi, pandemia e comunismo
di Michele Castaldo
I grandi eventi sollecitano curiosità, ricerca, approfondimenti, apprendimento, riflessioni, polarizzano le persone secondo interessi e determinano orientamenti. Il coronavirus mi pare che sia entrato prepotentemente in scena ponendo una serie di questioni che magari fino al giorno prima si discutevano con apatico distacco. La storia umana, come ogni altra storia di tutte le specie della natura, impone i suoi ritmi chiamando ognuno a misurarsi con i problemi posti. E purtroppo, se dovessimo misurare la tenuta del modo di produzione capitalistico dalla capacità della sinistra di esaminarlo per abbatterlo, potremmo dire che vivrebbe in eterno.
Nel mio articolo precedente, “Il virus dell’uomo capitalistico”, scrivevo: «Dobbiamo avere la consapevolezza di non sapere cosa vuol dire comunismo, ma di sapere quello che ormai la gran parte della specie umana non dovrebbe più volere, ovvero la supremazia delle leggi della concorrenza e del mercato che hanno dominato il mondo per oltre 500 anni».
Mi avventuravo però in una previsione scrivendo: «Pertanto nel caos che da oggi sempre di più aumenterà con scenari a noi sconosciuti è necessario trovare la forza di denunciare le cause della crisi dell’attuale modo di produzione, e prepararsi a stare al posto che ci compete», quasi a prevedere certe proposte che sarebbero venute fuori a indicare “che fare” da parte di organizzazioni e personaggi illustri.
In queste note ne prendo due a campione, di un personaggio e di una organizzazione, per una prima e serena riflessione al riguardo.
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Note sulla crisi economica II
di Pungolo Rosso
Tempesta finanziaria, interventi emergenziali, lacrime e sangue per il proletariato
Dalla stesura del testo Il “cigno nero” e’ qui (13 marzo), la situazione è andata peggiorando a grandi passi, fino a sfiorare scenari catastrofici. I dati economici, le dichiarazioni dei personaggi chiave e le decisioni dei più importanti centri di governo dell’economia mondiale si susseguono a ritmo incalzante.
La situazione è in costante evoluzione e si fatica a seguirne gli sviluppi. Dopo i crolli record di tutte le Borse mondiali, di cui si dà conto nelle note che seguono, Wall Street e le altre piazze finanziarie internazionali hanno fatto registrare aumenti record, che travalicano i rimbalzi tecnici legati ai riacquisti di titoli per monetizzare i capital gains guadagnati con le vendite allo scoperto, e testimoniano innanzitutto di una estrema volatilità dei mercati borsistici che, con ogni probabilità, si protrarrà a lungo.
Si fanno quindi sentire le conseguenze delle manovre monetarie assolutamente eccezionali messe in campo dalla FED, dalla BCE e dalle altre Banche Centrali e gli imponenti stanziamenti di bilancio che tutti gli Stati imperialistici stanno preparando. Non c’è dubbio che l’insieme di questi interventi sarà finalizzato al sostegno del sistema (banche e grandi imprese, in primis), costi quello che costi. Ma i capitalisti di tutti i paesi già si interrogano sul che fare e con quali strumenti affrontare la crisi, quando sarà forse sotto controllo l’epidemia di covid-19 ma infurierà quella economica, la disoccupazione di massa, i probabili rincari dei generi di prima necessità, ecc.
Non possiamo prevedere la strada specifica che ciascuno Stato percorrerà, ma è certo che la classe lavoratrice tutta dovrà fronteggiare un’offensiva di inusitata violenza, in cui la crescita del nazionalismo e gli appelli all’unità “di tutto il popolo” assumeranno sempre più minacciosamente i caratteri di un ultimatum verso le masse affinché si prostrino davanti alle rapaci esigenze capitalistiche, mentre le avanguardie di classe verranno additate come “nemici della patria” da perseguire e disperdere.
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I fantasmi di una recessione prossima ventura
Le sue implicazioni sul piano di classe e su quello internazionale
di Gianfranco Greco
L’incendio della Grenfell Tower è la tragedia che ha riguardato un grattacielo, o meglio un termitaio, in cui erano accatestati/alloggiati poveri, immigrati, gente comune che ha avuto origine dall’incendio, nel 2017, di pannelli altamente infiammabili che costituivano il rivestimento esterno del medesimo grattacielo, pannelli il cui utilizzo – dato tristemente rilevante – consentiva un miserevole risparmio di 2,5 euro a metro quadro ma che – a causa della loro pericolosità – erano stati già banditi dal resto d’Europa. Al tirar delle somme quello spregevole risparmio, in linea con le regole auree dell’economia borghese, ha avuto quale tragico corrispettivo la morte di 78 persone.
Il fattaccio della Grenfell Tower emblemizza, con cruda trasparenza, le crescenti criticità che involgono una realtà britannica tutta sospesa all’interno di una stucchevole pantomima, la Brexit, che, contrariamente ai desiderata di settori della borghesia britannica che hanno sempre considerato il permanere del Regno Unito nella UE come fastidioso orpello capace di mortificare i sogni degli hardbrexiters, tutti presi a favoleggiare di una “Singapore on Thames”, ossia un regno della finanza ultra-liberista completamente avulso da regole sul lavoro e sull’ambiente, è rimasta impantanata in tutta una serie di problemi, risolti i quali ne sorgerebbero – come per le teste dell’Idra di Lerna – altri ancora. Stando a tale scenario Londra metterebbe a profitto la fuoriuscita dall’Unione europea attestandosi quale spazio di intermediazione tra il sistema finanziario Usa e società della UE il cui preminente obiettivo sarebbe l’accesso ai mercati statunitensi.
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Grande Recessione e teoria macroeconomica: una crisi inutile?
di Giancarlo Bertocco e Andrea Kalajzic
La crisi finanziaria del 2007-08 e la successiva Grande Recessione hanno indotto molti economisti a riconoscere che il modello teorico elaborato a partire dagli anni Settanta del secolo scorso aveva un limite fondamentale che consisteva nel trascurare il sistema finanziario e il fenomeno delle crisi. In altri termini, il modello sosteneva che non si sarebbero potute verificare crisi analoghe alla Grande Depressione degli anni Trenta e alla Stagflazione degli anni Settanta del secolo scorso.
Questa è la regione per la quale gli economisti non sono stati in grado di prevedere l’arrivo della crisi poiché, come ha sottolineato Turner: “Non puoi vedere arrivare una crisi se hai teorie e modelli che ipotizzano che le crisi non sono possibili” (A. Turner, Between Debt and the Devil, Princeton University Press, 2016). Le crisi che si verificarono nel secolo scorso spinsero gli economisti a sostituire la teoria dominante con una teoria alternativa. La Grande Depressione determinò l’abbandono della teoria neoclassica e l’affermazione della teoria keynesiana. La Stagflazione, invece, spinse gli economisti a sostituire la teoria keynesiana con una nuova versione della teoria neoclassica che sottolineava l’assoluta efficienza delle forze del mercato. A differenza di quanto successo nel secolo scorso, la crisi contemporanea non sta spingendo gli economisti a sostituire il modello dominante, noto tra gli addetti ai lavori come il New Keynesian Dynamic Stochastic General (DSGE) Model, con una teoria alternativa.
Secondo alcune recenti indagini, circa il 75% degli economisti sostiene che il fatto che il modello dominante trascurasse il sistema finanziario non costituisce una ragione sufficiente per sostituirlo con un modello alternativo.
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Gli ultimi bagliori del neoliberismo ovvero “lo struzzismo economico” al tramonto (si spera)
di Antonio Carlo
ALBERTO MINGARDI, La verità vi prego sul neoliberismo, Marsilio, Venezia, 2019, pp. 398
ALBERTO ALESINA, CARLO FAVERO, FRANCESCO GIAVAZZI, Austerità quando funziona e quando no, Rizzoli, Milano, 2019, pp. 343
Entrambi i volumi qui analizzati sono l’espressione più chiara di quello che chiamo “lo struzzismo economico” o accademico, che consiste nel nascondere la testa davanti ad una realtà inguardabile. Tale fenomeno concerne non solo larga parte delle teorie economiche, ma anche la statistica: così fingiamo di credere che in USA i disoccupati siano solo 5-6 milioni, mentre i 24-40 milioni di scoraggiati che lavoro non lo cercano più perché sono disperati, non vengono considerati disoccupati ma inattivi o uomini persi, e cioè scomparsi dalle statistiche della forza lavoro; inoltre accettiamo tranquillamente che venga considerato occupato chi il lavora anche un’ora alla settimana, come l’operaio a tempo pieno dell’industria o il pubblico dipendente1. Inoltre dal 2010 parliamo di ripresa nei paesi avanzati (che detengono la gran parte della ricchezza mondiale) anche se assai spesso l’incremento del PIL non basta neanche a pagare il peso degli interessi sul debito pubblico , un debito pubblico nel quale non conteggiamo spessissimo il debito del settore della previdenza, dell’assistenza e della sanità2.
Quando i problemi che la realtà pone appaiono irresolubili il contegno del sistema consiste nel nascondere la testa sotto la sabbia.
Il primo dei volumi qui analizzato difende il neoliberismo che non è responsabile di tutti i mali del mondo; ovviamente il vero responsabile è il capitalismo nel suo complesso, nell’ambito del quale il neoliberismo è solo una pessima teoria economica i cui difensori hanno legittimato anche le dittature di Pinochet e di Videla.
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Il mondo fantastico va avanti
di Michael Roberts
Il mondo fantastico continua. Negli Stati Uniti e in Europa, gli indici dei mercati azionari hanno raggiunto nuovo massimi storici. Anche i prezzi delle obbligazioni si avvicinano ai massimi storici. Gli investimenti, sia in azioni che in obbligazioni, stanno generando enormi profitti per le istituzioni finanziarie e per le compagnie. Per contro, nell'economia «reale», in particolare quella dei settori produttivi e dell'industria dei trasporti le cose vanno in maniera deprimente. L'industria automobilistica mondiale si trova in grave declino. Nella maggior parte delle compagnie automobilistiche, i licenziamenti dei lavoratori sono già stati messi in agenda. Nelle compagnie delle maggiori economie, i settori manifatturieri si stanno contraendo. E come misurato dai cosiddetti "Purchasing Manager Indexes" (PMI) [indici dei direttori degli acquisti], che sono indici che misurano la situazione e le prospettive della compagnie, stanno rallentando e ristagnando anche i grandi settori dei servizi.
Ieri, è stata resa pubblica l'ultima stima della crescita del PIL reale degli Stati Uniti. Nel terzo trimestre di quest'anno (giugno-settembre), l'economia degli USA si è espansa in termini reali (vale a dire, dopo che è stata dedotta l'inflazione dei prezzi) secondo un tasso annuo del 2.1%, in calo rispetto al 2,3% del precedente trimestre. Sebbene questa sia, storicamente una crescita modesta, l'economia degli Stati Uniti sta facendo meglio di qualsiasi altra grande economia.
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Ancora su i dieci anni che sconvolsero il mondo
di Piero Pagliani
Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, euro 25,00
I libri che permettono di orientarsi tra quanto sta succedendo, non sono poi molti. Sono invariabilmente scritti da autori che non si concentrano su un solo punto – tipicamente l’economia – ma prendono in considerazione la complessità delle società umane e della loro storia.
A parte il II e III libro del Capitale di Marx, che io consiglio sempre di ripassare, per quanto riguarda la letteratura contemporanea non italiana suggerirei per iniziare coi lavori di Giovanni Arrighi, Karl Polanyi, Samir Amin, David Harvey e Michael Hudson (non specifico le opere perché si trovano facilmente con una ricerca sul web).
Per quanto riguarda l’Italia la scelta ricade su pochi autori che condividono una particolare caratteristica “esogena”: non essere noti al pubblico che si forma sulle pagine culturali, economiche o politiche dei media mainstream.
Ma l’Italia è un Paese dove si stanno ancora a sentire due economisti che quando la Lehman Brothers fallì scrissero su un prestigioso quotidiano che non ci sarebbe stato alcun contagio, che la crisi dei subprime sarebbe stata passeggera ed era dovuta sostanzialmente al fatto che il pubblico statunitense non sapeva calcolare il montante quando chiedeva un prestito.
Non sapendo nulla di economia, ma conoscendo quasi a memoria i lavori degli autori sopra citati, io affermai invece (assieme a pochi altri) che c’era da aspettarsi una crisi almeno decennale. Non ci voleva in realtà un grande sforzo d’immaginazione e fui persino troppo ottimista.
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Bolla finanziaria. È in arrivo la (seconda) tempesta perfetta?
di Giovanna Cracco
L’estate più pazza del mondo, così è stata definita la stagione da poco conclusa. E lo è stata, indubbiamente. Ma non per il Papeete, la caduta del governo giallo-verde, la nascita di quello giallo-rosso ecc. Non per le vicende italiane, insomma. La follia si è manifestata nei mercati finanziari europei e statunitensi: da una parte, alcuni dati non si sono storicamente mai registrati prima, dall’altra ce ne sono di già visti nel 2007, prima dell’esplosione della bolla dei subprime. A mettere insieme le tesserine del puzzle, l’immagine che si viene formando è molto più che preoccupante.
Parliamo di finanza, materia tecnica complicata, cercheremo di semplificarla.
Nel mercato dei titoli di Stato si registrano tassi negativi. La quotazione cambia di giorno in giorno, ma il quadro generale da agosto è che i bond sovrani a dieci anni di Germania, Francia, Svizzera, Olanda, Finlandia, Danimarca, Austria, Svezia e Giappone hanno rendimenti sotto lo zero, e quelli di Spagna e Portogallo sono a un passo dall’averli. Per la prima volta nella storia, il 21 agosto la Germania ha emesso un Bund a 30 anni a tasso negativo (-0,11%), collocando 824 milioni su 2 miliardi, arrivando così ad avere rendimenti negativi su tutte le durate dei titoli, a breve e a lunga scadenza.
Anche le obbligazioni corporate (emesse da società private) a tripla A iniziano ad andare sotto lo zero. L’indice Bloomberg Barclays Euro Corporate Bond registra il 27 agosto rendimenti negativi per il 46% dei titoli, in una crescita vertiginosa dato che erano appena il 3% a dicembre 2018 (vedi grafico 1, pag. 8).
La logica è la medesima in entrambi i comparti: è la domanda crescente da parte degli investitori che porta i rendimenti in territori negativi. Semplificando all’estremo, significa che pago per investire il mio capitale invece di guadagnarci, un controsenso in termini.
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Capitali europei, la festa Usa è finita
di Claudio Conti
Con un articolo in calce di Guido Salerno Aletta
Qualche giorno fa “i falchi” del sistema finanziario europeo – Jens Weidmann, presidente di BundesBank; Oliver Bate, ceo di Allianz; Francois Villeroy de Galhau, governatore di Banque de France; Klaas Knot, pari grado di quella olandese – hanno attaccato pubblicamente Mario Draghi, presidente uscente della Bce, per la sua politica di tassi “eccessivamente accomodanti” e il recente rilancio del quantitative easing (acquisto di titoli di stato sul mercato, per 20 miliardi al mese).
Un fatto inconsueto, che rivela un “malessere” di lunga durata, esploso solo ora che “l’italiano” se ne va e sta per subentrare Chistine Lagarde, notoriamente molto più “sensibile” ai richiami di alcuni di questi poteri.
Più o meno negli stessi giorni, Donald Trump tuonava contro il suo governatore della banca centrale – Jerome Powell, alla testa della Federal Reserve – per aver seguito negli ultimi anni una politica monetaria diversa, se non opposta, rialzando per qualche tempo i tassi di interesse.
Siccome a questi livelli del potere non si discute della migliore teoria economica, ma di vantaggi, sarà meglio dare un’occhiata ai dati sui movimenti di capitali speculativi (quelli alla ricerca dei migliori rendimenti).
La consueta impietosa analisi di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza chiarisce efficacemente cos’è accaduto nell’ultimo decennio post-crisi del 2007-2008.
E ci spiega che i capitali europei si sono riversati in quantità crescente verso il mercato Usa proprio perché garantiva tassi di interesse superiori a quelli europei, da tempo fermi a zero.
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Il fiato corto delle politiche monetarie di fronte alla recessione globale
A.De Nicola e B.Quattrocchi intervistano Christian Marazzi
L’ombra della recessione torna a minacciare l’economia globale: spuntate le armi con cui si è affrontata la crisi poco più di dieci anni fa, il dibattito attorno a nuove misure economiche può forse aprire inediti terreni di rivendicazione per le lotte sociali
Dopo poco più di dieci anni dalla crisi globale ritorna l’ombra della recessione. Se di nuova crisi, forse, si potrà parlare, non potrà che avere, ovviamente, altre caratteristiche. Sul piano dei mercati finanziari diversi indicatori sembrano annunciarla. Alcuni osservatori sembrano preoccuparsi dell’inversione della curva dei rendimenti tra titoli a breve e a medio lungo-periodo: un dato che segnala le aspettative negative degli operatori finanziari sul futuro dell’economia. Cosa ne pensi e cosa sta accadendo nei mercati finanziari?
La questione della recessione, della sua previsione, pone alcuni interrogativi che vanno al nocciolo di quanto sta accadendo. Teniamo conto che di forte rischio di recessione si parla già dalla fine dell’anno scorso. Si è concluso il 2018 con questo interrogativo: come andrà il futuro dell’economia? Soprattutto perché, a seguito dell’aumento dei tassi della FED, c’erano stati disordini nei mercati finanziari.
Anche per quanto riguarda la questione dell’inversione della curva dei rendimenti – che certamente, dal punto di vista storico, è un segnale premonitore dell’inizio di una recessione – non è in assoluto una novità, perché già mesi fa si andava in quella direzione. Il problema, casomai, è che adesso l’inversione delle curve dei rendimenti riguarda gli USA, mentre prima riguardava i paesi europei.
Più in generale, anche la possibilità stessa di fare previsioni lascia un po’ perplessi. Bisogna tener conto che l’economia americana da 122 mesi è in fase espansiva e credo che sia di nuovo corretto parlare di una sorta di “grande moderazione” – come quella che si era imposta prima del 2008.
Cosa vuol dire tutto questo? Che le fasi espansive sono più lunghe e che minore è la frequenza delle recessioni. Però, quando queste avvengono, sono molto violente. Dunque, se ci sarà una recessione nei prossimi mesi, sarà devastante.
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Un target da centrare (prima che sia troppo tardi)
di Francesco Cappello
È noto come l’export tedesco sia pari alla metà del Pil della Germania. Aver puntato tutto sulle esportazioni rende oggi l’economia tedesca fragile, a causa, ad esempio, della rapidissima diffusione dei dazi che hanno fatto crollare le esportazioni. Si pensi, in particolare, al mercato delle auto verso la Cina. Lo scorso giugno, le esportazioni tedesche sono scese dell’8% rispetto all’anno precedente con tendenza al peggioramento.
La Ue, complessivamente, è in surplus rispetto al resto del mondo. È il mercantilismo a connotare la politica economica dei paesi dell’eurozona. Il suo strumento principale essendo l’ordoliberismo.
Nell’area euro, pur di risultare in surplus rispetto al mondo (esportiamo più di quanto non si importi), non si è esitato a operare svalutazioni interne, che mantenendo bassi salari e stipendi, distruggendo lo stato sociale, limitando il più possibile gli investimenti pubblici, accettando un equilibrio di sottoccupazione, hanno penalizzato i mercati interni dei singoli paesi europei; tutto al fine di vincere la competizione, producendo merci capaci di imporsi sui mercati grazie all’alto rapporto qualità prezzo raggiunto.
Il mercato interno europeo si sta ridimensionando pericolosamente a causa della deflazione imposta dall’euro. Anche la crescita dell’export italiano è stata realizzata al ribasso, nel tentativo di ovviare alla fissità del cambio imposta dalla moneta unica, che ha impedito le fisiologiche svalutazioni e rivalutazioni, consentendo accumuli patologici di attivi e passivi delle bilance commerciali europee (i saldi che i paesi in surplus hanno accumulato registrati dal sistema dei pagamenti europeo, Target 2, ammontano a circa mille miliardi di euro, di cui 800 tedeschi!). I conseguenti spostamenti criminali di capitali, dai paesi in surplus a quelli in deficit, atti a profittare della situazione, fino a ridurre in povertà estrema questi ultimi (esemplare il caso della Grecia), costretti a ridurre a zero il loro stato sociale, svendere i loro patrimoni pubblici, asset, i fattori stessi della produzione ecc..
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Siamo vicini al collasso?
di Marino Badiale
Sono ormai in molti a sostenere che l’attuale organizzazione economica e sociale è destinata a finire, in maniera più o meno traumatica, nell’arco di qualche decennio. In Francia si parla, forse con un po’ di ironia, di “collapsologie” come di una nuova disciplina scientifica che studia appunto il collasso prossimo dell’attuale organizzazione sociale [1,2,3]. Intendo qui provare a riassumere i termini fondamentali della questione. Cercherò di sostenere che in effetti vi sono argomenti ragionevoli a favore della tesi del collasso prossimo. Questo ovviamente non implica che si possano fissare dei limiti temporali precisi, né che si possano fare ipotesi ragionevoli su quale potrà essere la nuova forma di organizzazione sociale che sostituirà l’attuale.
La tesi fondamentale che intendo esporre è che il collasso prossimo venturo deriverà dal concorrere di cause diverse, sarà cioè il risultato del confluire di diversi processi di crisi. Stiamo cioè entrando in una fase storica nella quale meccanismi di diverso tipo porteranno a problemi sempre maggiori nella riproduzione dell’attuale ordinamento sociale. Nessuno di tali problemi probabilmente sarebbe in sé tale da causare una crisi irreversibile, ma mi sembra ragionevole pensare che sarà proprio la loro contemporaneità a innescare il collasso.
Le crisi fondamentali che stanno confluendo assieme possono essere schematizzate sotto tre grandi etichette: crisi economica, crisi egemonica, crisi ecologica.
Esaminiamole in quest’ordine.
La crisi economica scoppiata nei paesi occidentali nel 2007/08 presenta caratteristiche che hanno spinto alcuni economisti a introdurre (o reintrodurre) il concetto di “stagnazione secolare” [4,5]. È certo vero che la fase più acuta della crisi è stata superata, e che alcuni paesi hanno ritrovato tassi di crescita economica sostenuti.
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Ma cos’è questa crisi
di Michele Castaldo
Rodolfo De Angelis cantava negli anni ’30: “Ma cos’è questa crisi: […] L'esercente poveretto non sa più che cosa far e contempla quel cassetto che riempiva di danar […]”. Se è vero che la storia non si ripete mai uguale a sé stessa, e quando si ripete ha i connotati della farsa, va detto che questa crisi non è una farsa.
Si, è una crisi seria, molto seria e ad essere preoccupati sono innanzitutto lor signori, cioè categorie sociali e personaggi di un potere che vedono scuotere un intero sistema che sembrava incrollabile fino a qualche decennio fa. Cerchiamo di raccapezzarci qualcosa nelguazzabuglio nazionale all’interno di un caotico quadro mondiale.
Il problema è Salvini? Mettiamo subito in chiaro una cosa: Salvini è l’effetto e non la causa dello spettacolo che sta vivendo l’Italia in questa fase. Il problema vero – dunque la causa – è quel 37/38% di elettori (stando ai sondaggi) che lo vorrebbero presidente del consiglio, e perché no? presidente della Repubblica, visto che è così deciso, incisivo, chiaro, schietto, insomma così popolare? Un uomo del fare, un uomo dei sì, un uomo del produttivismo, un uomo che mette l’Italia e gli interessi degli italiani al di sopra di tutti gli altri.
Manovre internazionali? Certo, quelle non mancano mai, ma non inganniamo noi stessi: le manovre prendono piede lì dove c’è il terreno favorevole, tanto è vero che Steve Bannon può ben vantarsi di aver favorito la nascita di un governo come quello giallo verde, ma non potrebbe ascrivere a proprio merito il salto elettorale della lega prima del marzo 2018 ein meno di un anno il travaso di alcuni milioni di voti dal M5S alla Lega di Salvini, in modo particolare al sud. Insomma la storia non la fanno i personaggi che studiano a tavolino come muovere milioni di persone in un senso piuttosto che in un altro. I complottisti si inseriscono in tendenze oggettive cercando di favorire quella che più va incontro ai propri interessi. Il Complotto in assoluto non esiste: l’Urss implose perché le leggi del mercato la fagocitarono. La Jugoslavia implose per le stesse ragioni.
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Un ciclo trentennale è finito. E ora?
di Dante Barontini
I cambiamenti d’epoca risultano facili da leggere solo a distanza di tempo. Ai posteri è semplice vedere le date spartiacque, le decisioni di svolta, l’emergere e l’affondare di protagonisti collettivi.
A chi vive dentro, invece, tocca il compito di cogliere i vari segnali, distinguere ciò che è rilevante da quello che non durerà nulla, connettere quei punti e individuare una prospettiva nel buio oceano denso di onde.
Da qualche tempo andiamo dicendo che la globalizzazione è finita. Quel periodo iniziato formalmente con la caduta del Muro e subito dopo dell’Urss, segnato dal trionfo del neoliberismo capitalistico e dall’egemonia assoluta statunitense, dall’affermarsi di un “pensiero unico” che accompagnava l’esistenza reale di un mercato mondiale altrettanto unico, dove le uniche variabili di prezzo erano rappresentate dalle monete e soprattutto dal lavoro umano.
In quest’arco di tempo ha preso corpo reale anche l’Unione Europea, quasi-Stato fatto di trattati sagomati sull’interesse nazionale dei paesi più forti, fonte di diseguaglianze mai viste sotto la coltre retorica della “comunità”. Germania e Francia ne sono state protagoniste, costruendo o conservando in modo diverso la propria prosperità a scapito degli altri partner, soprattutto mediterranei, e attingendo alle infinite possibilità di delocalizzazione nei paesi dell’Est europeo.
La crisi esplosa oltre dieci anni fa ha fatto prima traballare quegli equilibri. La crisi Usa e l’emersione prepotente della Cina come potenza economica gli hanno dato la spallata definitiva. Le economie occidentali a guida anglosassone rimangono stagnanti solo grazie a politiche monetarie così espansive da aver reso negativo il rendimento del denaro (un controsenso, in ambito capitalistico), indice rivelatore di una “avversione al rischio” degna di una classe di rentier, non certo di imprenditori.
L’apparizione dei Trump, dei Bannon o dei Salvini è un effetto di questa crisi di egemonia e dell’impossibilità di “conservarli”. Così come le frequenti stragi messe in atto da suprematisti bianchi, negli Usa come in Nuova Zelanda, sono la reazione stragista di una perdita di centralità mondiale dell’uomo bianco anglosassone e protestante.
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Andre Gunder Frank, “Riflessioni sulla nuova crisi economica mondiale”
di Alessandro Visalli
Il libro raccoglie i testi di alcune conferenze di Andre Gunder Frank nel cruciale periodo 1972-77, quando la crisi economica sistemica nella quale siamo ancora immersi si stava affacciando alla consapevolezza della sinistra critica, estendendosi dalla sua prima forma, connessa con la crisi energetica (che però è solo un sintomo), fino alla generalizzazione in occidente delle politiche di austerità sostenute ovunque dai partiti socialdemocratici e da quelli ‘eurocomunisti’. Leggeremo questo testo nel contesto dello studio delle diverse diramazioni della “teoria della dipendenza” (e poi dei “sistemi mondo”) che stiamo svolgendo e che sono riassunti provvisoriamente nel post “Sviluppi della teoria della dipendenza”.
Si tratta comunque di una serie di testi di occasione che si collocano in una fase decisiva: si è appena prodotto il trauma della ‘decapitazione’ della “teoria della dipendenza”, da parte del generale Pinochet[1], e Frank, lavorando in stretta connessione con Samir Amin, sta cercando un nuovo schema interpretativo che successivamente si addenserà nella “teoria dei sistemi mondo”. Siamo ancora lontani dalla crisi del 1999, quando lo stesso Frank rompe con la “banda dei quattro” (o, meglio, con i restanti tre membri) formulando la base della sua “teoria del sistema-mondo”[2], e Gunder Frank è certamente ancora marxista. Per fornire ancora un qualche contesto, nel biennio successivo a quello di queste conferenze (per lo più tenute tra il 1974 ed il 1976) si avrà la conclusione del ciclo di crescita della sinistra comunista italiana (ormai divenuta “eurocomunista”, come vedremo) e l’offerta di “sacrifici senza contropartite”, insieme all’esordio al centro della scena del “vincolo esterno”[3].
Ma riepiloghiamo le posizioni a questo momento: innestandosi sul tronco della “teoria della dipendenza” di Prebisch, Furtado, Dos Santos, ma innestandovi elementi derivanti dalla sua solida formazione economica[4] e dalla scuola americana di Baran e Sweezy, Gunder Frank negli anni sessanta sviluppa la tesi che per comprendere la persistenza dei fenomeni di sottosviluppo, che interessano l’America Latina, è necessario allargare lo sguardo e focalizzare le relazioni economiche, commerciali e finanziarie, che connettono le élite dei paesi in una catena funzionale alla perpetuazione dei rapporti di sfruttamento.
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Crisi globale e capitale fittizio
di Raffaele Sciortino
Excursus dal volume Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 34-41
Ma qual è il nesso profondo tra globalizzazione finanziaria e crisi globale? Ovvero, come andare oltre il livello descrittivo? È una domanda, chiaramente, dalle importanti implicazioni politiche oltreché teorico-analitiche. In questa scheda alcune indicazioni sulle principali posizioni e sull’ipotesi guida di questo lavoro.
All’indomani della crisi sembra ci siano tutte le condizioni per un ritorno in auge delle ricette keynesiane, vista la débacle in corso del cosiddetto neoliberismo. Per i neo-keynesiani l’eziologia della crisi, letta come crisi principalmente se non esclusivamente finanziaria, sta in primo luogo nel greed di Wall Street, nell’eccessiva avidità della finanza speculativa che avrebbe perso il senso del limite anche a causa delle misure di deregolamentazione degli anni Novanta - in primis l’abolizione nel 1999 da parte del Congresso statunitense del Glass-Steagall Act che, varato sotto il New Deal, prevedeva la separazione tra attività bancaria tradizionale e speculativa - da parte di una classe politica disinvolta e ammaliata dai successi del corso neoliberista.1 A questa diagnosi i post-keynesiani, la sinistra del keynesismo, aggiungono gli effetti deleteri per i livelli della domanda complessiva del sottoconsumo delle masse dovuto alla caduta del monte salari complessivo negli ultimi decenni.2 La terapia proposta è la ri-regolazione della finanza per un maggiore controllo sugli eccessi speculativi, nonché un peraltro assai cauto ritorno all’intervento statale, basato per lo più su politiche monetarie lasche opposte a quelle della scuola austriaca - che vede la crisi come un classico caso di deflazione da debito causata da tassi di interesse eccessivamente bassi - al fine di stimolare la domanda aggregata, eventualmente rivista nell’ottica della green economy. Non si arriva dunque a proporre, in genere, un vero e proprio nuovo New Deal con politiche redistributive significative. Del resto, a questo fine i problemi in Occidente sarebbero enormi se non insormontabili.
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Point Break: Crisi globale - sindacato internazionale
di Daniele Canti*
Dal fallimento della banca d'affari Lehman Brothers avvenuto a settembre 2008 sono trascorsi oltre dieci anni. Sino a pochi mesi or sono, secondo la vulgata, la crisi era ormai alle nostre spalle ed il problema era agganciarsi alla ripresa. Ora qualche dubbio che non ci sia nulla a cui agganciarsi comincia a farsi largo.
Ma anche quando vengono avanzate riserve sul radioso futuro che ci attenderebbe, lo si fa soltanto sull’onda dell’ultimo rilevamento dato in pasto dai mass media e non in base ad un analisi più approfondita del sistema e delle sue contraddizioni.
Partiamo dal 2008.
L’elemento decisivo per la crescita della bolla immobiliare fu la riduzione continua dei tassi praticata dalla Federal Reserve che favorì l’indebitamento delle famiglie americane.
Tra il 2000 ed il 2003 il tasso della FED passò dal 6,5% all’1%. I lavoratori americani compravano case, i mutui erano vantaggiosi, il prezzo degli immobili saliva. Il valore degli immobili dati in garanzia si gonfiava a dismisura. La FED, resosi conto della bolla immobiliare che si era creata, dal 2004 al 2006 alzo il tasso d’interesse al 5,5%. I lavoratori, in pochissimo tempo, si ritrovarono con rate di mutui molto più alte che non riuscivano a pagare. Gli immobili crollarono di valore. Nel frattempo, grazie alla “tripla A” attribuita dalle blasonate società di rating ai titoli di credito derivati dalla cartolarizzazione dei mutui subprime (sottoscritti prevalentemente da lavoratori precari), i fondi pensione dei lavoratori americani si fecero una scorpacciata di titoli spazzatura. Così in un colpo solo la working class americana perse il lavoro, la casa, la pensione.
Ma perché la Federal Reserve si comportò in modo così apparentemente irrazionale? La ragione è molto semplice. Risiede in un’altra bolla che era scoppiata nel 2001 quella delle dot.com , le aziende informatiche facenti riferimento a Internet. La politica monetaria espansiva messa in atto, era dunque la risposta al collasso economico derivato dalla precedente bolla speculativa.
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I dieci anni che sconvolsero il mondo
Introduzione
di Raffaele Sciortino
Raffaele Sciortino: I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, 2019
A un libro obiettivamente denso si addice un’introduzione la più possibile asciutta. Il lettore non troverà qui, dunque, un riassunto del contenuto ma qualche indicazione del quadro nel quale questo lavoro si inserisce, della sua articolazione, delle questioni di fondo che punta a sollevare.
Il quadro. I dieci anni che hanno scosso, se non ancora sconvolto, il mondo sono gli anni della prima crisi effettivamente globale del sistema capitalistico: scoppiata tra il 2007 e il 2008, essa ha investito a cascata i meccanismi della globalizzazione finanziaria, gli assetti geopolitici mondiali, le dinamiche soggettive delle classi sociali fin dentro un Occidente che sembrava bloccato per sempre sul mantra neoliberista. Dieci anni possono essere poca cosa a scala storica ma sono un periodo già discretamente lungo a scala generazionale, tanto più se forieri di trasformazioni significative. Poco per fare un bilancio storico ma non per tentare un primo bilancio del presente inteso come un passaggio della storia. Questo libro, allora, non è un lavoro storiografico canonico - pur basandosi su fonti rigorosamente vagliate - ma è un lavoro politico come figlio di questo decennio. Non solo perché per una sua parte rielabora, sistematizza e fornisce una cornice teorica ad articoli da me scritti in tempo reale man mano che la crisi globale e i suoi risvolti venivano a delinearsi. Ma soprattutto nel senso che è il tentativo di mettere in prospettiva questi dieci anni a partire dalla convinzione che sono in corso mutazioni importanti, per certi versi veri e propri punti di non ritorno.
La dinamica degli ultimi decenni - già esito della peculiare controrivoluzione succeduta al lungo Sessantotto e segnata dal sempre eguale dello Spettacolo mercantile lubrificato dal circuito del debito - si è rimessa in moto. E lo ha fatto, finalmente, a partire da sconquassi che originano non dalla periferia ma dal centro dell’impero del capitale, scuotendo il consenso neoliberista diffuso e il suo pilastro, il soft power statunitense, rimettendo in campo l’interventismo statale a salvataggio dei mercati, riaccendendo il conflitto inter-capitalistico, suscitando anche in Occidente reazioni sociali e politiche esterne e contrarie ai dettati dell’ortodossia liberale.
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Aprire gli occhi, leggere la crisi
di Sandro Moiso
Countdown. Studi sulla crisi. Vol.III, Asterios Abiblio Editore, Trieste Novembre 2018, pp.160, euro 15,00
Secondo le stime dell’ufficio statistico federale, a novembre, in Germania la produzione di beni di consumo è diminuita di oltre il 4%, i mezzi di produzione di quasi il 2% e i beni intermedi dell’1%. Il calo della produzione è stato avvertito anche nel settore energetico e delle costruzioni e tutti questi problemi sono associati alle difficoltà incontrate dall’industria automobilistica del paese governato da Angela Merkel.
Se la cosiddetta locomotiva tedesca non si dimostra più così capace di trainare il trenino europeo, anche dall’altra parte del mondo l’economia cinese inizia a dare i primi segnali di cedimento, mentre la guerra dei dazi tra USA e Cina aggiunge ulteriori preoccupazioni sullo stato “reale” dell’economia mondiale e allo stesso tempo per i titoli azionari statunitensi, il mese di dicembre scorso è stato il peggiore dal 1931, ovvero dalla Grande Depressione!1 Inoltre “le principali detenzioni estere di debito statunitense a ottobre sono calate di altri 26 miliardi […] Sempre in base a dati ufficiali riferiti allo scorso ottobre, gli investitori esteri hanno venduto altri 22,2 miliardi di dollari di titoli azionari statunitensi, il sesto mese di vendite di fila”.2 Così che al World Economic Forum di Davos, tra il 22 e il 25 gennaio, in sostituzione di tre rappresentanti assenti di altrettanti pezzi da novanta dell’establishment economico occidentale (Macron impelagato tra gilets jaunes e affaire Benalla; Theresa May incastrata tra un Parlamento ribelle e una possibile hard Brexit e Trump e la delegazione americana che hanno colto l’occasione dello shutdown federale per non prendervi parte), ha preso posto un’unica autentica convitata di pietra: la recessione mondiale.
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Fine di un’epoca
di Vladimiro Giacché*
La crisi del 2007 ha dimostrato che la crescita e i profitti nel capitalismo non possono più essere garantiti dalla speculazione finanziaria. È necessario un cambio di sistema
Per capire la prossima crisi, dovremmo guardare alle origini e all’evoluzione della precedente: dal 2000 al 2005, a causa dei bassi tassi di interesse, negli Stati Uniti emerse una consistente bolla finanziaria. Sul mercato immobiliare locale, i prezzi e il numero di contratti di mutuo raddoppiarono. A partire dal 2006, i prezzi iniziarono a scendere. Iniziò a sussistere un problema di eccesso di offerta, ovvero un problema di sovrapproduzione nel settore delle costruzioni. Nel 2007 si evidenziarono i primi problemi con i prodotti finanziari, che avevano a che fare con alcuni prestiti ipotecari statunitensi rischiosi (i cosiddetti mutui subprime).
Quello che segue è noto: massiccia insolvenza dei mutuatari, problemi nei mercati finanziari. Saltano alcuni fondi speculativi e banche specializzate. La crisi si diffonde in tutto il mondo, e sarà la peggiore dagli anni ’30.
Ma perché la crisi è stata così grave?
In primo luogo, i mutui subprime erano solo uno degli elementi costitutivi di un enorme edificio finanziario costruito in 30 anni. Nel 1980, la somma di tutte le attività finanziarie globali equivaleva approssimativamente al prodotto interno lordo (PIL) globale. Alla fine del 2007, il rapporto tra queste attività e il PIL (eufemisticamente chiamato anche “profondità finanziaria”) era del 356%.
In secondo luogo, questa ipertrofia finanziaria non era una malattia in sé, ma un “farmaco” (al tempo stesso) contro un’insufficiente valorizzazione del capitale e contro la massiccia sovrapproduzione di capitale e merci nel triangolo del capitalismo maturo (USA, UE e Giappone).
A questo punto dobbiamo fare un passo indietro. A partire dagli anni ’70, abbiamo registrato una crescita sempre più bassa e tassi di investimento in calo, in particolare in Giappone e nell’Europa occidentale. Ciò ha comportato un calo globale dei tassi di investimento rispetto al PIL mondiale, nonostante l’enorme aumento degli investimenti in molti paesi in via di sviluppo, specialmente in Cina. È interessante notare che l’ipertrofia della finanza e del credito, cioè del “capitale capitale produttivo d’interesse” (Karl Marx), si sviluppa parallelamente alla caduta degli investimenti.
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Crisi come arte di governo
di Dario Gentili
Perché la crisi è diventata il principale metodo di governo e disciplinamento della popolazione? Per capirlo – sostiene Dario Gentili nel suo ultimo libro, Crisi come arte di governo (Quodlibet, 2018) – bisogna fare una genealogia della stessa krisis, risalendo al momento in cui, nella Grecia antica, si sono consolidati i suoi significati più propri. Del libro pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore e dell'editore, che ringraziamo, l'introduzione
C’è un nesso tra il discorso dominante della crisi economica che dal 2008 sta colonizzando le politiche della gran parte dei Paesi del mondo e i Like/Dislike con cui, attraverso i social media, i cittadini globali si esprimono sugli argomenti più svariati e negli ambiti più disparati? A prima vista tale nesso può sembrare azzardato: come può una crisi economica che determina un discorso che vincola gli Stati a scelte obbligate trovare un corrispettivo nella più ampia diffusione e nella più radicale individualizzazione dell’esercizio della critica? Eppure, a ben vedere, le scelte obbligate dalla mancanza di un’alternativa che la crisi impone e la riduzione della critica all’approvazione o meno di un’alternativa prestabilita presuppongono la medesima modalità di giudizio: il giudizio pro o contro.
Infatti, il giudizio pro o contro – tra due opzioni tra loro opposte, che pone la scelta tra due alternative in contrapposizione – passa oggi per essere la modalità di giudizio per antonomasia. Ciò è riscontrabile tanto nelle questioni di portata pubblica quanto in quelle che concernono la condotta dei singoli individui. In generale, esso rappresenta il modello a cui ogni procedimento decisionale deve, in ultima istanza, essere riducibile, affinché si possa infine giungere a una decisione finale e risolutrice – sulla vita della società e sulla propria vita individuale. E tuttavia, sebbene in netta contrapposizione, le alternative che questa crisi e questa società costantemente pongono sembra non abbiano nulla di davvero risolutivo: uscire dalla crisi o imprimere una svolta alla propria personale condizione sociale ed esistenziale. Sembra pertanto che il giudizio pro o contro, per quanto mai come oggi si eserciti così frequentemente e diffusamente, non produca alcuna decisione effettiva – è questo, almeno in prima battuta, il nesso tra la crisi economica e lo statuto della critica al tempo dei social media.
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L’egemonia della paura
di Martino Avanti
Finita l'era dei compromessi forzati, l'attuale equilibrio mondiale fatto di finanziarizzazione e debito si regge sulla demonizzazione dell'altro da sé
La crisi economica iniziata nel 2008 è una crisi sistemica del modo di produzione capitalista. Il capitale, come forza sociale onnicomprensiva, come disciplina sulla società e sulla natura, appare sempre meno in grado di riprodurre adeguatamente la sua base sociale e naturale. Stiamo tuttavia perdendo la capacità di cogliere l’intreccio tra storia e geopolitica alla base dell’avvitamento disfunzionale del capitalismo. La cosiddetta “scuola di Amsterdam”, nel combinare marxismo (gramsciano) e relazioni internazionali ci permette di afferrare questi nessi strutturali. La recente pubblicazione di Transnational Capital and Class Fractions (curato da Overbeek e Jessop) ne offre un quadro d’insieme a quarant’anni dai primi lavori. Quanto segue ne presenta, integrandoli con l’analisi del presente, i concetti teorici più innovativi, concentrandosi principalmente sull’opera di Kees Van der Pijl.
Concetti onnicomprensivi di controllo
L’egemonia è una forma di dominio di classe che si basa sul consenso piuttosto che sulla forza; consenso che è attivo tra i gruppi che fanno parte del blocco sociale unificato da uno specifico concetto onnicomprensivo di controllo (neoliberalismo/liberalismo corporativo) e passivo per chi non ne fa parte ma manca della forza di modificarlo o concepire il mondo diversamente. Nelle fasi egemoniche, la società nel suo complesso assimila i principi e il modus operandi su cui riposa il dominio della frazione dominante, considerandoli normali.
Non è tuttavia il capitale in generale, quello con la “C” maiuscola, a esercitare l’egemonia, bensì una specifica frazione del capitale totale (produttivo/finanziario/commerciale), i cui esponenti sviluppano quelle che Gramsci chiamava filosofie spontane.
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