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 manifesto

L'America di Barack Obama

Rita di Leo

usa 2012 festa famiglia obama 1 gettyNel 1988 ero a Boston durante la campagna presidenziale tra il democratico Michael Dukakis e George Bush padre. Seguivo in tv la coloratissima kermesse tra i due che a un europeo sembrava una sfida paesana piuttosto che una battaglia politica. Poi arrivò il giorno della vittoria di Bush e il suo primo discorso da presidente iniziò con una lode all'America, il paese «dove era stato possibile a Dukakis, figlio di un povero emigrato greco, sognare di diventare presidente». Pronunciò gelidamente la sua lode-verdetto con la famiglia schierata alle spalle, tutti bianchi, biondi, upper class con giusto un genero ispanico, utile per i voti latinoamericani repubblicani.
Dopo 20 anni, nell'ultima campagna per la nomina del candidato presidente, una donna e un nero del partito democratico hanno lottato all'arma bianca per conquistarsi la nomina. Sono mesi che sull'evento leggiamo commenti prima stupiti, poi soddisfatti e infine trionfanti. Con la candidatura di Obama l'America si riconferma un esempio per l'universo tutto. I bellissimi discorsi di Obama lo sottolineano con grazia, la grazia del soft power rilegittimato. Sono ormai alle spalle gli anni tragici di Bush. Anche i più velenosi attacchi neocons contengono un pizzico di orgoglio giacché dopotutto la donna e il nero sono una bella propaganda per l'America. Poi (secondo i neocons) a novembre vincerà l'uomo bianco che crede nell'hard power così come lo richiede il big business e l'elettorato repubblicano che andrà a votare compatto a propria difesa.
Intanto spira un'aria favorevole dopo le tante disavventure che hanno appannato l'immagine del paese. Da ringraziare è il partito democratico, fedele al principio illuminista per cui il tempo lavora per il progresso e nel caso specifico per il ritorno del soft power e per la fine della discriminazione di genere e di razza. I mass media nazionali concordi raccontano che ancora una volta in America si sta facendo la «storia».

 

E' una storia che suscita qualche perplessità. Si è alzata tanta polvere sulla promozione di una donna a capo di stato come se Golda Meir, Margaret Thatcher, Angela Merkel, e le leader scandinave e latino-americane non costituissero alcun precedente. Come se le ministre francesi e spagnole e di altri paesi non avessero alcun peso. E effettivamente ben minore peso hanno le donne leader politiche dei paesi extraeuropei, promosse tali in quanto figlie o mogli di leader. Un po' come Hillary Clinton. La quale appunto costituisce un precedente ma per la società americana, per i suoi cittadini elettori. Una società che la campagna per le primarie ha messo sotto i nostri occhi per come essa è.

Abbiamo letto che gli operai bianchi non votano Obama perché non accettano un negro sopra di loro così come in passato non lo accettavano come commilitone in battaglia, come membro iscritto al loro sindacato, come vicino di casa. E così per gli ispanici e per gli italiani i quali da emigranti hanno assimilato il common sense per cui i negri sono destinati a rimanere ai margini di un ambiente sociale e antropologico con regole troppo rigide per loro. E così per gli ebrei che i negri li conoscono come tra i più incapienti dei loro affittuari o tra i clienti dei loro negozi. E infine come per gli agricoltori della provincia profonda per i quali i negri sono passati dallo status di servi a quello di lavoratori stagionali a più basso salario. (Degli asiatici, dei cinesi, degli arabi nessun sondaggio dà conto, sono lavoratori, consumatori ma ombre politiche).

Abbiamo letto che i neri, gli studenti e i laureati bianchi e gli intellettuali e persino una parte del ceto medio-alto sono entusiasti di Obama, lo hanno scelto, lo voteranno a novembre. E in ciò starebbe la prova del cambiamento nella società. Ma non è il contrario? L'elettorato che sostiene Obama esprime l'intenzione di rompere con la Casa bianca di Bush per quello che ha fatto dentro e fuori l'America. La voglia di rottura è così forte che ha penalizzato persino l'altro contendente democratico non perché è una donna ma perché è già stata alla Casa bianca. Anche lei fa dei bei discorsi e anzi i suoi sono più diretti ai gruppi sociali, maggiormente penalizzati dalla crisi economica in atto. Lei però parla come un politico. Obama è un profeta carismatico che dà voce al risentimento e alla delusione verso Washington da parte dei primi e degli ultimi della scala sociale, da parte del ceto medio-alto liberal e da parte dei neri. E' un po' come all'epoca del Vietnam. Ma questo significa che come in passato in prima linea vi è la minoranza del paese. Al momento i potenti mass media locali danno voce a una maggioranza ostile e diffidente verso Obama proprio per il cambiamento che rappresenta.

E è qui che sorgono molte domande. Perché l'America continua a trascinarsi senza affrontarle le questioni sociali e politiche che aveva già scoperto di avere irrisolte negli anni trenta con Roosevelt, negli anni Sessanta con Kennedy e Johnson e infine in tono minore con Carter? Nel male e nel bene l'Europa è cambiata e nell'ultimo mezzo secolo si è data un'identità culturale che si proietta sulla sfera economica e sociale. Basti fare l'esempio del parlamento europeo preoccupato per le sortite xenofobe del popolo di Bossi.

A Washington i giudici della Corte suprema, nominati a vita dal Presidente, detengono un potere assoluto che mette spesso a rischio le politiche sociali dei presidenti democratici come già fecero con Roosevelt. Come è possibile che d'allora non si è riusciti a cambiare? Come è possibile che ciascuno stato abbia le sue regole per il voto alle primarie, chi alza la mano e chi usa la scheda, lo stabilisce la tradizione. E che anche il voto finale per l'elezione del presidente sia a rischio di macchine antiquate come in Florida nel 2000? Dove - ricordiamolo - un giudice repubblicano decretò la vittoria di Bush contro Gore nonostante l'evidenza contraria. Come è possibile che un partito si affidi ai super delegati per decidere la nomina del candidato presidente? In Europa non accade dai tempi del partito dei notabili. Come è possibile che il giorno delle elezioni sia un giorno di lavoro? E che per avere il diritto al voto serva ancora una trafila burocratica settecentesca? E infine che la politica sembri una sceneggiata con i suoi attori, suggeritori, montaggio, vendita del prodotto. Ha la meglio chi confeziona meglio la merce.

E dopo queste domande viene spontaneo chiedersi di conseguenza perché l'America è considerata «il» paese politicamente all'avanguardia. Tanto da esser preso a modello qui da noi in Italia, e non tanto dal partito che ha vinto le elezioni ma da quello che le ha perse.

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