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Lavorare meno, lavorare Tutti
di Simone Fana
Negli ultimi decenni il mercato del lavoro italiano è stato al centro di numerosi interventi legislativi, che con tonalità diverse hanno individuato nell’eccesso di rigidità della regolamentazione dei rapporti di lavoro e del sistema di relazioni industriali il freno alla competitività dell’economia nazionale. Le riforme promosse negli ultimi 20 anni hanno condiviso l’esigenza di intervenire sul costo del lavoro, ritenuto eccessivo e causa dei bassi tassi di occupazione e della crescita della disoccupazione strutturale. Tuttavia, la scelta di perseguire politiche di moderazione salariale, attraverso interventi di riduzione del cuneo fiscale e di ampliamento dei margini di flessibilità per le imprese, ha avuto un impatto minimo sulla ripresa dell’occupazione e sulla riduzione della disoccupazione. Non fa eccezione a questa tendenza di lungo periodo la riforma promossa dal governo Renzi, nota come Jobs Act. Il contenimento del costo del lavoro, lungi dal favorire la dinamica della produttività e la competitività dell’economia nazionale, ha agito nella direzione di ridurre ulteriormente lo stimolo agli investimenti privati, accentuando il ricorso a forme di lavoro precario e a bassa qualificazione. L’esplosione dei voucher o “buoni lavoro” si inserisce in questo solco che ha visto i governi di centrodestra e centro-sinistra convergere su una politica di moderazione salariale, favorendo processi di sostituzione di lavoro stabile con forme di impiego precarie e prive di tutele.
In questo quadro, un’alternativa alle politiche degli ultimi decenni richiede in primis un rovesciamento di prospettiva, a partire dalla necessità di individuare interventi di stimolo all’occupazione e di contrasto alla precarietà, rimettendo al centro le esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici rispetto a quelle delle imprese.
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Automazione e disoccupazione tecnologica. Sharing e gig economy
di Carlo Formenti
Proponiamo un adattamento dell’intervento di Carlo Formenti all’iniziativa organizzata da Noi Restiamo al Politecnico di Torino il 10 maggio 2016. L’intervento non è stato rivisto dal relatore ed eventuali errori sono quindi da considerarsi a carico nostro. Il titolo è redazionale
Parte I
Il lavoro che ho fatto negli ultimi 10-15 anni all'Università del Salento è stato in larga misura dedicato alla sociologia della rete che oggi, da quando sono felicemente approdato alla pensione, continuo a proseguitare; il giorno dopo che ho smesso di insegnare Teoria e tecnica dei nuovi media sono felicemente tornato a quelli che sono sempre stati i miei interessi fondamentali, che riguardano il socialismo economico e la sociologia politica. E ogni volta che mi tocca sentire qualcuno che mi telefona e mi dice "Professore, perché non viene a questo incontro su Internet e la società", subito mi si rizzano i capelli sulla testa; nel senso che in qualche modo dà per scontato che esista una sfera autonoma della dimensione della tecnologia e della rete come articolazione attuale della dimensione della tecnologia non sovradeterminata dai processi economici, politici, sociali, culturali e quant'altro. E che, viceversa, oggi sia possibile ragionare dei processieconomici, politici, sociali e culturali prescindendo dal fatto che ormai le tecnologie di rete sono parte della nostra vita quotidiana, del nostro lavoro e delle relazioni sociali, del nostro viaggiare, sentire, stringere amicizie, ecc. Quindi, tendo sempre a riportare il tema a degli aspetti molto più determinati e specifici; in particolare, per quanto riguarda la questione del rapporto tra nuove tecnologie e lavoro, metterò a fuoco un aspetto molto particolare, che è quello di Uber, più altre esperienze che vengono variamente denominate di "sharing economy" o, negli Stati Uniti, di "gig economy", con una apertura più ampia rispetto al discorso e secondo me più interessante per il ventaglio di fenomeni che viene preso in considerazione.
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Abrogare i voucher è una questione di democrazia e civiltà
Marta Fana
Il verdetto della corte costituzionale sui referendum sociali promossi dalla Cgil ha giudicato ammissibili i quesiti riguardanti l’abrogazione dell’istituto dei voucher e l’introduzione della clausola di responsabilità negli appalti per le imprese. Ha invece bocciato il quesito sul ripristino dell’articolo 18. Tra i due quesiti ammessi, quello che ha più fatto discutere è sicuramente il primo: i voucher.
L’accanimento contro l’ipotesi di abolizione dei voucher è stato clamoroso. Tuttavia, a un profluvio di interviste a sostegno dei buoni lavoro, agli scoop sull’utilizzo da parte della Cgil, fa da contraltare un mondo del lavoro sempre più povero e precario, delegittimato della sua funzione sociale e da questo bisogna ripartire quando si discute di voucher.
Occorre andare con ordine: capire da un lato la portata, sul sistema economico e delle relazioni industriali, dell’esplosione dei voucher dopo la loro totale liberalizzazione; dall’altro va fatto un ragionamento complessivo sui voucher per rivelare l’ideologia alla base della loro strenua difesa.
Spesso infatti, oltre alle argomentazioni deboli sul piano fattuale (ne parliamo più avanti), l’esistenza dei buoni lavoro viene assunta non solo come inevitabile di fronte a un’economia che conta tre milioni di disoccupati, ma allo stesso tempo come utile a garantire la flessibilità di cui hanno bisogno le imprese per svolgere il proprio compito di creazione di valore e ricchezza.
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Dal sommerso ai robot
Lo stato di salute del lavoro e le sfide che ci aspettano
di Francesco Seghezzi
Nelle ultime settimane il dibattito politico sul lavoro è stato calamitato dal tema dei voucher, al punto che, immaginando uno straniero che legge per la prima volta le notizie del nostro Paese, potrebbe facilmente pensare che la maggioranza della popolazione italiana venga oggi retribuita mediante buoni lavoro.
Ma, volendo provare a tracciare alcune delle tematiche che il mondo del lavoro dovrà affrontare nel 2017, la prima affermazione da fare è che quello dei voucher è un piccolo problema, piccolissimo, come ci ha ricordato qualche giorno fa la prima nota congiunta sui dati del lavoro prodotta da Istat, Inps, Ministero del lavoro e Inail: i voucher corrispondono allo 0,23% del costo del lavoro complessivo italiano.
Questo non significa che non vi siano casi di abuso e non vi siano settori che colpevolmente utilizzano questo strumento per ridurre il costo del lavoro e le tutele dei lavoratori, ma di certo non siamo di fronte al problema principale del problematicissimo mercato del lavoro italiano.
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Per comprendere la natura dello Stato Sociale e la sua crisi
di Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 1/2017
Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Abbiamo più volte sottolineato, nei nostri precedenti quaderni, che stiamo attraversando una situazione nella quale prevale uno stato di confusione sociale generale. La maggior parte di noi non sa infatti che cosa sta succedendo, e anche quando ripete continuamente che “siamo in crisi”, ne ha un’idea vaga, come quelle dei nostri lontani antenati sui terremoti e sulle epidemie. Né possiamo far affidamento sui responsabili della cosa pubblica che, spesso in coro con i loro stessi oppositori, si ostinano a ripetere vecchi luoghi comuni validi in passato . In molti rinunciano così a cercare un senso della situazione, o si appoggiano sull’ipotesi opportunistica che tutto dipenda da comportamenti devianti di individui malvagi, che, cercando il loro tornaconto, causano un danno agli altri.
Tuttavia questa interpretazione costituisce l’ingenua reazione di chi non sa nulla di come intervengono normalmente le trasformazioni sociali. Coltivando l’erronea convinzione che gli esseri umani sovrastino strutturalmente la propria realtà, credono che normalmente sussista il potere di determinarne l’evoluzione, conformandola alla propria volontà. E se la loro azione non produce gli effetti sperati, ciò può accadere solo perché la volontà di qualcun altro imprime alle cose quella tendenza di cui si soffre. Ora, la volontà è senz’altro una condizione del cambiamento.
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Contro la disuguaglianza, ripensando il futuro
Luciano Gallino, la responsabilità e la speranza
di Lelio Demichelis
Un onore, come si dice. Parlare di Luciano Gallino, a quasi un anno dalla sua scomparsa (8 novembre 2015) è un onore per me che l’ho conosciuto, anche se tardi, il mio primo incontro con lui è avvenuto circa vent’anni fa. Non sono quindi un suo allievo nel senso classico e universitario del termine, ma sicuramente lo sono stato – e tale mi considero - per le molte cose che ho imparato da lui e che Gallino mi ha insegnato; lui che, quindi, è stato per me sicuramente un maestro, e uso deliberatamente questo termine ormai diventato fuori moda. Maestro nel senso di colui che parla, dialoga, suggerisce, propone, critica anche e corregge, a sua volta apprezzando e incoraggiando le strade, magari in parte diverse, intraprese poi dall’allievo. Maestro nel senso di avere indicato un percorso divenuto poi in gran parte comune (pur con alcune differenze), per avere condiviso riflessioni, analisi e interpretazioni della realtà. Per me, Luciano Gallino è stato questo – come maestri per me sono stati, in modi e con intensità e con forme diverse, Michel Foucault per quanto riguarda le forme del potere moderno, Günther Anders per le sue riflessioni sulla tecnica, e la Scuola di Francoforte per l’analisi dell’industria culturale, ancora della tecnica come apparato e delle nuove forme di alienazione e di omologazione.
Ma c’è anche altro, che mi lega a Gallino: la sua formazione sociologica era iniziata alla Olivetti, come tutti saprete, all’Ufficio studi e relazioni sociali.
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Capitalismo digitale
Controllo, mappe culturali e sapere procedurale
di Renato Curcio
Incontro-dibattito sul libro L’egemonia digitale. L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, a cura di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2016), presso il Csa Vittoria, Milano, 20 ottobre 2016
La letteratura sul mondo di internet, sui cambiamenti che la nuove tecnologie digitali stanno generando, è abbastanza vasta. Tuttavia è una letteratura tendenziosa, perché o affronta il problema in maniera molto teorica oppure dal lato dei social network, che in apparenza è quello più diffuso o quello su cui si cerca di attirare maggiormente l’attenzione. Ma questo territorio, pur nella sua importanza – noi abbiamo cercato di farne una lettura con L’Impero virtuale, un lavoro che ha preceduto questo – è un aspetto secondario, perché il vero nodo delle tecnologie digitali è ciò che caratterizza il passaggio dal capitalismo industriale-finanziario a quello che tutti chiamano capitalismo digitale. Un passaggio interno al modo di produzione capitalistico, e dunque anche al modo di consumo, di conduzione delle mappe culturali, e questo caratterizza una trasformazione sociale profondissima che non coinvolge soltanto alcuni aspetti della vita sociale e comunicativa, ma il nostro modo di essere all’interno della società, alla radice.
Il passaggio dal capitalismo industriale-finanziario – che ha dominato l’Ottocento, il Novecento e l’inizio del secolo attuale, e che tuttora occupa uno spazio consistente del modo di produzione capitalistico, benché in declino – a quello attuale, rappresentato da una oligarchia industriale e produttiva completamente nuova che quindici anni fa non esisteva (aziende come Google, Amazon, Facebook...), è caratterizzato da due tendenze che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: una è l’enorme velocità delle transazioni e delle trasformazioni.
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Lottare nella Gig Economy
Collettivo Clash City Workers
Con l’espressione gig economy si indica generalmente un modello economico dove la prestazione lavorativa non è pensata come duratura e continuativa, ma come saltuaria, discontinua, on demand. Ha conosciuto una certa popolarità da un anno a questa parte, anche a causa del suo utilizzo da parte di Hillary Clinton in alcuni discorsi della sua campagna elettorale. Può essere inserita nella vasta famiglia che include anche la sharing economy, e con essa tutti quei termini che negli ultimi anni hanno cercato di definire – più a livello mediatico che sul piano scientifico – forme economiche che si pretendono nuove, ‘oltre’ il funzionamento del sistema capitalistico per come l’abbiamo conosciuto nel corso del XX secolo.
Il termine gig viene dall’inglese americano, e indica un lavoretto o, più generalmente, un incarico di durata breve o indefinita. La caratteristica più importante che le aziende operanti nella gig economy si attribuiscono è quella di non avere un rapporto diretto con i ‘dipendenti’ che, infatti, figurano come lavoratori autonomi che collaborano con le imprese. Conseguentemente queste ultime pretendono di presentarsi non come tali, bensì come semplici piattaforme (applicazioni) che mettono in comunicazione la domanda e l’offerta di una determinata merce o di un servizio.
Può essere capitato a molti di noi, di non avere voglia di uscire e di farci portare il cibo a casa, utilizzando una qualche app tra le moltissime che stanno nascendo in questi anni, oppure di ricorrere a Uber per spostarci da un luogo all’altro. Ecco, questi so-no perfetti esempi di gig economy. La questione, tuttavia, è particolarmente intricata, e analizzare alcuni casi concreti potrebbe aiutare a chiarirci le idee.
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Il Jobs Act, ovvero del diritto ottocentesco applicato alle dinamiche sociali odierne
(e un P.S. sul tradimento della CGIL)
di Luca Fantuzzi
Ponendosi in prospettiva storica, l'esperienza dei tre governi dell'offensiva neoliberista in Italia (Monti, Letta, Renzi) sarà simboleggiata essenzialmente dalla riforma del mercato del lavoro e di quello pensionistico, prima con la Legge Fornero e poi con il Jobs Act (che della Legge Fornero è sostanzialmente la continuazione e l'inasprimento).
Non ci vuole un particolare sforzo di fantasia nel pensare che i prossimi, invece, saranno gli esecutivi del taglio definitivo del welfare (a compendiarli, immagino una riforma complessiva del Sistema Sanitario Nazionale, che certo sarebbe stata assai più facile se al referendum costituzionale voluto da Renzi avesse vinto il fronte del "sì").
Mi sembra però opportuno spiegare perché il Jobs Act è un simbolo (il che, tra parentesi, ne avrebbe fatto l'idolo polemico ideale per chi, da destra o da sinistra, avesse voluto fare un'opposizione "costruttiva" al partito egemone, ritagliandosi a mio parere spazi elettorali significativi). Il Jobs Act è un simbolo perché - pur composto da una legge delega, da vari decreti delegati e da una pletora di D.M. attuativi - ha una straordinaria unità di intenti, è tutto percorso - dall'inizio alla fine - da un'unica "visione" della funzione del diritto, delle dinamiche economiche, potremmo dire delle modalità di interazione delle diverse forze sociali.
Mi spiego meglio.
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Più flessibilità del lavoro crea davvero più occupazione?
Ecco cosa dicono i dati
di Emiliano Brancaccio, Nadia Garbellini e Raffaele Giammetti *
Studi pubblicati dalle principali istituzioni internazionali smentiscono l’idea che le deregolamentazioni del lavoro aiutino a creare occupazione e a ridurre la disoccupazione. La letteratura empirica in materia rivela che la riduzione delle tutele dei lavoratori risulta statisticamente associata non alla crescita degli occupati ma all’aumento delle disuguaglianze
La libertà di licenziamento e le altre forme di deregolamentazione del lavoro favoriscono le assunzioni? Svariati esponenti di governo e del mondo dei media hanno sostenuto che l’aumento dell’occupazione che si è registrato negli ultimi mesi in Italia sarebbe frutto della ulteriore flessibilità dei contratti sancita dal Jobs Act. Questa tesi, come vedremo, non trova riscontri nella ricerca prevalente in materia. Un primo dubbio sulla supposta relazione tra riforma del lavoro e occupazione sorge mettendo semplicemente a confronto i dati ufficiali sull’Italia con quelli relativi agli altri paesi europei. Dall’entrata in vigore del Jobs Act, la crescita dell’occupazione dipendente nel nostro paese è stata molto più modesta rispetto all’aumento medio degli occupati che si è registrato nell’eurozona; nello stesso arco di tempo, inoltre, non si rilevano significativi avvicinamenti dell’Italia alla media europea (dati Ameco Eurostat). In altre parole, paesi in cui negli ultimi due anni non si sono registrati cambiamenti nella legislazione del lavoro, hanno visto crescere l’occupazione decisamente più che in Italia.
L’esito di questa banale comparazione non è casuale. Dopo un ventennio di ricerche dedicate all’argomento, la più influente analisi economica ha escluso l’esistenza di relazioni statistiche significative tra precarizzazione del lavoro e occupazione.
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Redistribuire il lavoro
Ascanio Bernardeschi intervista Giovanni Mazzetti
Il sistema capitalistico non è più capace di riprodurre il lavoro e le politiche keynesiane tradizionali non sono in grado di mediare una nuova fase di sviluppo. Serve una rifondazione che non è mai iniziata
Nonostante la quotidiana narrazione secondo cui l'uscita dalla crisi sarebbe dietro l'angolo, anzi sarebbe già iniziata, temiamo che essa perdurerà ancora per qualche anno e che forse non abbia ancora espresso il peggio di sé stessa.
Da militanti comunisti riteniamo che ci sia bisogno di un ulteriore sforzo di analisi sulle sue caratteristiche e che uscirne in positivo – e non con i massacri sociali fin qui perpetrati, che poi, è dimostrato dai fatti, aprono la strada alla destra peggiore – non sia possibile senza profonde trasformazioni sociali.
Fra gli strumenti di contrasto all'involuzione sociale assume grande rilevanza la riduzione dell'orario di lavoro. Questo giornale si propone di focalizzare il tema con una serie di approfondimenti [1].
Abbiamo deciso di parlarne con Giovanni Mazzetti, già professore all'Università della Calabria.
Confrontarci con lui ci è sembrata una via obbligata perché ha dedicato gran parte della sua vita a questo tema, pubblicando numerosi saggi in proposito, e perché è il responsabile del Centro Studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro a parità di salario e per la redistribuzione del lavoro complessivo sociale, sul cui sito [2] è possibile trovare materiali preziosi, anche di carattere formativo per i militanti.
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Il lavoro è fatica
Una prima riflessione sul nesso fra scuola, lavoro, Carta Costituzionale
di Renata Puleo
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 1 comma 1).
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 comma 2).
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art.4 comma 1).
[…] I non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo cerebrale e muscolare-nervoso non sempre è uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. […] non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens.
A. Gramsci, Quaderni 4 (XIII);12(XXIX).
[…] Con fatica ne trarrai nutrimento tutti giorni della tua vita […] con il sudore del tuo volto mangerai il pane […].
Genesi, 3-17/19.
Questo è un contributo sul nesso fra la Carta Costituzionale e i problemi attuali del sistema scolastico italiano, un commento sul concetto di lavoro che emerge dal testo di riforma della scuola, con l’applicazione del comma 33/passim della legge 13/07/15 n 107 cd. La Buona Scuola, e il relativo costituirsi dell’istituto Alternanza-Scuola-Lavoro (ASL).
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Europa. Competizione globale e lavoratori poveri
di Lucia Pradella*
"Generazione Erasmus o Working Poor Generation? Ce lo chiedevamo a fine giugno qui, in seguito al risultato della Brexit e del dato del voto giovanile (ben diverso da quanto emergeva dai mega titoloni di certa stampa). Ce lo chiediamo di nuovo oggi dopo la vittoria di Trump, continuando a cercare di capire la nostra pancia per conoscere le risposte di cui abbiamo realmente bisogno." [Noi Restiamo]
La disoccupazione ha raggiunto livelli senza precedenti in Europa occidentale. I salari sono in discesa e si intensificano gli attacchi all’organizzazione dei lavoratori. Nel 2013 quasi un quarto della popolazione europea, circa 92 milioni di persone, era a rischio povertà o di esclusione sociale. Si tratta di quasi 8,5 milioni di persone in più rispetto al periodo precedente la crisi.
La povertà, la deprivazione materiale e il super-sfruttamento tradizionalmente associati al Sud del mondo stanno ritornando anche nei paesi ricchi d’Europa.
La crisi sta minando il “modello sociale europeo”, e con esso l’assunto che l’impiego protegge dalla povertà. Il numero di lavoratori poveri – lavoratori occupati in famiglie con un reddito annuo al di sotto della soglia di povertà – è oggi in aumento, e l’austerità peggiorerà di molto la situazione in futuro.
Alcuni critici sostengono che l’austerità è assurda e contro-producente, ma i leader europei non sono d’accordo. Durante l’ultima tornata di negoziati con la Grecia l’estate scorsa, Angela Merkel ha dichiarato: “Il punto non sono alcuni miliardi di euro – la questione di fondo è come l’Europa può restare competitiva nel mondo.” C’è del vero in tutto questo. Quello che la Merkel non dice è che i lavoratori in Europa, nel Sud dell’Europa in particolare, competono sempre di più con i lavoratori del Sud del mondo.
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Dal successo al declino
Le piccole imprese e il paradosso dell’economia della conoscenza
di Ugo Pagano
Ugo Pagano, partendo da un’affermazione di Marcello De Cecco del 2013, riconduce il successo e il successivo declino del modello italiano di piccole imprese al mutamento intervenuto nel contesto in cui viene prodotto, tutelato e utilizzato quel particolare fattore produttivo che è la conoscenza e sostiene che il declino è iniziato quando, in seguito a iniziative del governo americano, la conoscenza da bene pubblico è divenuta, a livello globale, bene privato. Pagano indica anche le implicazioni di policy della sua analisi
In un’intervista a La Repubblica del 2013 Marcello De Cecco così rispondeva al giornalista che gli domandava cosa mancasse all’Italia per essere la Germania:
Intanto una politica industriale. E quindi, a monte, una classe politica in grado di concepirla. Noi siamo stati a lungo, e incomprensibilmente continuiamo ad essere, orgogliosi di un tessuto industriale parcellizzato, quello delle Pmi. Siamo stati così bravi a venderlo – il “capitalismo dal volto umano” e altre scemenze – che anche Clinton veniva a Modena per studiarlo. Salvo poi continuare, loro, a puntare sulla grande industria. Come si può competere nella globalizzazione con unità produttive da una dozzina di persone? Finché potevamo svalutare la lira ha funzionato…
Per De Cecco svalutazioni della lira e deterioramento della qualità dell’industria italiana erano parte di un circolo vizioso per il quale egli non aveva alcuna nostalgia. Anche per questo, nonostante le sue pungenti critiche alle politiche tedesche, De Cecco rimase sempre dell’idea che l’Italia non dovesse uscire dall’euro e dovesse invece dotarsi di una struttura produttiva adeguata alle sfide globali superando i problemi posti dal nanismo delle sue imprese.
Ma cosa c’è alla radice del declino del modello italiano basato sulle piccole imprese? La tesi che sosterrò è che vi è soprattutto il mutato contesto nel quale viene prodotto, tutelato e utilizzato quel particolare fattore produttivo che è la conoscenza.
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Riflessioni sul caso Foodora*
di Gianni Giovannelli
I think you will findBob Dylan
Nei giorni scorsi (7-8 ottobre) quasi tutti i quotidiani italiani (cartacei e on line) hanno riportato la notizia di uno sciopero attuato dai fattorini torinesi per rivendicare, contro Foodora, un miglioramento delle loro condizioni lavorative. Evidentemente si trattava proprio di una notizia; e in effetti lo è, non solo per l’accaduto in sé stesso, ma soprattutto per le possibili conseguenze future di una protesta che presenta indubbi elementi di grande suggestione simbolica. Non sarà forse stato davvero il primo scontro di classe nell’ambito della sharing economy, e magari la partecipazione attiva non avrà raggiunto percentuali altissime; ma questo non toglie che si tratti dell’esordio inatteso, nella scena della comunicazione, di una schiera del tutto nuova. Questa è la società dello spettacolo, e si è così rappresentata ad uso del pubblico una rivolta; questo allestimento virtuale è un fatto ulteriore che si affianca allo sciopero reale. La cronaca di un fatto ha per fine la costruzione di altri accadimenti.
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Michelangelo Severgnini: La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
Diego Giachetti: Dopo la fine del comunismo storico novecentesco
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin

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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio

Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato

Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata

Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung

Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare

Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica

Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica

Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto








































