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Immaginario e senso comune

di Enrico Livraghi

oppio afganoL'alluvione ha investito tutti. Ha spazzato via la sinistra cosiddetta arcobaleno (impronuciabile sintagma), ma ha fatto franare anche la supponenza autocratica del PD di Walter Veltroni (un vero e proprio stratega da pizzicheria). E però non ha lasciato indenni neppure i movimenti, che infatti, se non hanno mai smesso di formicolare, ora sono obbligati a dirigere lo sguardo oltre le macerie.
Dunque, questo si sente dire: ripartiamo dai movimenti. Lo dicono perfino quelli che si erano distratti, e che oggi, après le déluge, intrappolati nella ritualità verticistica dei redde rationem, cercano una ben faticosa palingenesi. Riportiamo dunque in primo piano quella prassi di intercettazione del mutamento, quella capacità di percezione dei frantumi antropologici che solo chi è immerso nei pori fisici del tessuto sociale è in grado oggi di praticare. Rimettiamo almeno in gioco la ricerca sul campo, vale a dire quella lente di ingrandimento che può portare in primo piano l'origine e le conseguenze della scomposizione cosiddetta postfordista delle forme del lavoro, ossia i travestimenti e le metamorfosi odierne del processo di auto-valorizzazione del valore.

Va da sé che bisogna ricominciare dal basso, dai bisogni reali, magari dai territori e dalla loro difesa contro ogni forma di voracità distruttiva: ripartire da quelle reti solidali locali, pluraliste, complesse, almeno là dove esse si mostrano in grado di contrastare la rapina dei beni comuni, ovvero di confliggere, di ricostruire un legame sociale necessariamente attraversato dalla differenza di genere, e di sottrarsi al dominio incontrastato delle pure logiche del profitto e delle conseguenti forme di potere (governance e guerre incluse). Si tratta - è evidente - di una conditio sine qua non per riprendere a scavare. Tutto assolutamente necessario. Tutto imprescindibile.

Però, quali sono oggi i movimenti? I "No Dal Molin"? I "No Tav"? I "No Ponte"? I "No(rd)Est"? Quant'altri? Sono questa attualità plurale, diversificata, meticcia e dialogante, oppure sono altro ancora? Non sembrino interrogativi campati in aria. Perché, anzi, fiutandola, l'aria, guardandosi in giro, osservando in controluce e incrociando flussi di discorso, si può oggi captare un potenziale rischio per i movimenti: il rischio - letale - che essi si trasmutino inconsapevolmente in Movimenti proprio con la M maiuscola. Che essi, insomma, diventino autoreferenziali.

Forse mai come adesso è stato necessario caricare i movimenti di un che di specifico: non per incastrarli in qualche schema fossile, ma per afferrarne la direzione reale. Non era un movimento anche la Lega Lombarda iper-identitaria? Non era un movimento anche quello dei "girotondini", confluiti più o meno tutti nel PD o nell'Italia dei valori (quantomeno nel voto)? Non voleva essere un movimento (abortito) anche quello della piazza "family day"? Sono di questa stoffa i movimenti che possono praticare una qualche forma di antagonismo e riorganizzare il conflitto? Evidentemente, no. Quali movimenti, dunque, dopo la fase no-global, o alter-global o, forse, post-global?

Ripartire dai territori va bene (prima chissà dove eravamo), ma rifiutando ogni forma di indifferenza verso i processi di fondo, e mai dimenticando che i territori rappresentano una rifrazione prismatica della sfera globale, uno spaccato dei flussi di mondializzazione del capitale, che certo non si interromperanno dall'oggi al domani, malgrado il grippaggio squadernato del modello neo-liberista. Ancorarsi nei territori, sì, ma per destrutturare l'ordine del discorso imposto dal linguaggio dominante, anzi per disgregare il linguaggio stesso in quanto forma non secondaria di questo dominio, e non per una qualche forma di localismo autoriflesso. Tanto per fare un esempio: assumere come tema il lemma scivoloso del cosiddetto federalismo, o quello, ancor più destabilizzante (per noi), dell'immigrazione "clandestina" (come aleggia nell'aria, e anche nelle parole di certi personaggi già iper-antagonisti) - ovvero accettare un tale linguaggio - significa subire di fatto parole, mitologie e ordine simbolico della destra, malgrado le intenzioni radicalmente opposte.

Un movimento che magari tematizza la superfluità delle categorie teoriche, e quindi pratica di fatto l'indifferenza rispetto al filo logico profondo dei processi e delle trasformazioni, è un soggetto che finisce per contemplare se stesso e si preclude la percezione delle antinomie reali, cioè smarrisce la visione dell'esterno. In questo rischia fortemente di apparire speculare al suo opposto, che vorrebbe contrastare, e che invece gli si presenta come identico. Certe teorizzazioni di qualche area di movimento rischiano di mostrarsi - appunto - come speculari, e in fondo subalterne, all'americanismo parvenu del PD veltroniano, per esempio nell'indifferenza rispetto all'opposizione lavoro-capitale, oppure rispetto alla distanza tra sinistra e destra. Cose che vengono dichiarate arcaiche e puramente ideologiche: legittimo, se non fosse che l'unica ideologia rimasta in campo, viva e vegeta, è proprio quella di destra, così come l'unica potenza (vincente) è quella del capitale.

Possiamo dirlo in altre parole: c'è in giro un potenziale rischio di distacco, di astrazione strisciante dalle fasi contingenti in cui sempre i movimenti vengono in superficie; di inavvertita pietrificazione, o meglio, sostantificazione dell'idea stessa di movimento. Il rischio, dunque, di una trasformazione dei bisogni reali in puri dati di conferma del Movimento in quanto tale, così depotenziati della loro forza d'impatto. È un esperienza già vissuta: dentro un simile orizzonte i movimenti finiscono per incastrarsi in un circolo vizioso, meramente tautologico, in cui essi sembrano poggiare su se stessi, riproducendo inopinatamente lo stesso rovesciamento che vizia la struttura dei partiti - in particolare quelli nati nella Seconda e Terza Internazionale. Quel rovesciamento che si manifesta in una beffarda riproduzione in sedicesimo della struttura dello Stato moderno rappresentativo (oggi travestita da governance mondiale), e che trasforma un'organizzazione di lotta in uno strumento di potere in cui i reali soggetti fondanti, quindi costituenti (ieri la classe, oggi chissà), si riducono a una pura concrezione ideologica al servizio del vertice. Struttura mistificante, perché spaccia l'interesse di parte come interesse generale: una lezione elementare, oggi completamente dimenticata, oscurata sotto la cosiddetta "complessità" sociale (chiamata anche mucillagine, o poltiglia vischiosa).

Cedere a questa insidia, inciampare in questa vera e propria struttura epistemica dell'ideologia (altro che i suoi cascami mediatici), non pare proprio cosa esaltante per i movimenti, specie quelli che fanno dell'urgenza di uscire dal Novecento il loro trampolino di (ri)lancio.

A proposito di uscita dal Novecento e di inadeguatezza delle vecchie categorie interpretative (novecentesche, appunto) è forse bene non essere così drastici. C'è un pensiero che considera i nodi del Novecento tutt'altro che sciolti. Dice, ad esempio, Mario Tronti: "Noi siamo ancora alle prese con il passaggio-Novecento e il secolo appena trascorso non è stato attraversato efficacemente dal pensiero critico. È stato catturato dal pensiero dominante, in quanto i vincitori dell'età delle guerre civili europee e mondiali hanno imposto il loro senso della storia, della storia passata, un senso che oggi è diventato senso comune intellettuale di massa. Allora un compito è quello non tanto di una critica, come si è detto, delle narrazioni ideologiche del Novecento, quanto quello di una critica delle narrazioni ideologiche sul Novecento, che sono, appunto, seguite alla conclusione del secolo" (discorso raccolto in Teologia e politica al crocevia della storia, ed. Albo Versorio, Milano 2007, corsivi nostri).

Si sa, queste affermazioni di Tronti non sono nuove: le ripete da tempo, almeno a partire da La politica al tramonto (1998), e d'altra parte rappresentano una scansione del discorso che muove dal tentativo di rideclinare la famosa "autonomia del politico" e si arena nel disincanto, per non dire nel fallimento proprio del "politico". Però, quel gioco tra del e sul, tra preposizioni riferite alle narrazioni intorno al Novecento, dice qualcosa di pregnante che forse è bene non eludere proprio in vista dell'invocato esodo dal "secolo breve" e dalle sue griglie concettuali.

Quali sono le categorie e i concetti da abbandonare, quali da ripensare, quali, eventualmente, da conservare? Intorno a questi interrogativi, non sarebbe il caso di andare oltre la mera dimensione giornalistica da "pagina culturale" (per dire dei casi "alti", tacendo delle chiacchiere pelose da grande quotidiano "indipendente")? Il pensiero critico non può produrre nessuna discontinuità concettuale se non a petto di un continuum del pensiero stesso che solo permette di cogliere il discreto, di mettere a nudo la differenza, ossia, nel caso, una possibile innovazione teorica (e di progetto).

Un esempio per tutti: come mai la cultura ambientalista, ecologista, non è mai stata capace di mettere a punto un vero pensiero e una vera teoria ecosistemica, e questo non solo a livello nostrano ma bensì planetario? Ci si può accontentare di un semplice annuire alle tematiche che affermano l'antitesi tra natura e capitale come prioritaria, oggi, rispetto a quella tra lavoro e capitale? È facile rilevare che uno dei corni di questa (apparentemente) duplice contraddizione - il capitale, appunto - permane sia in una forma sia nell'altra. Non risulta, però, che il pensiero ecologista attuale abbia mai dato segno di capire che proprio il permanere della categoria "capitale" rende permanente anche l'altro corno della contraddizione, quello rappresentato dal lavoro (forza lavoro, lavoro vivo), e come per questa via il tema della crisi ecologica (prossima ventura?) si presenti come crisi del modo di produzione e di valorizzazione del capitale stesso.

Si potrebbe anche dire attraverso una specie di sillogismo. Che cos'è il capitale, infatti? È quel modo di produzione del plusvalore fondato sull'opposizione di lavoro vivo e lavoro morto, cioè, appunto, sull'antitesi lavoro-capitale. Quindi l'opposizione natura-capitale si presenta come "opposizione dell'opposizione". Non è un gioco di parole, perchè delle due l'una: o si ritiene obsoleto, o addirittura fallato, quel concetto del modo di produzione del capitale che si fonda sull'opposizione (irriducibile) tra lavoro soggettivo e lavoro oggettivato, ovvero sullo scambio forza lavoro-denaro; oppure si deve concedere che l'antitesi natura-capitale è tutta interna all'antitesi lavoro-capitale (come il giovane Marx aveva già intuito).

Sarebbe peraltro opportuno che gli eventuali fautori della suddetta obsolescenza del nesso lavoro-capitale, producessero qualche blocco di analisi e qualche corpo di teorie capaci di distinguere una propria autonoma negazione di questo perno della teoria marxiana dalla negazione operata dal liberismo, e non tanto da quello classico, quanto da quello cosiddetto liberal riformista, ex-comunista: una negazione, quest'ultima, che in realtà nasconde una vera e propria rimozione.

Alla fine, tornare ad afferrare un pensiero critico forte, senza alcuna sudditanza verso nessuno dei "padri fondatori", è forse il tema cruciale dell'oggi: un pensiero adeguato al mutamento, cioè all'altezza delle trasformazioni economico-sociali di fine-inizio secolo, enormemente spaesanti, ma anche - come sempre - storicamente determinate e non certo un dato di natura. In fondo, produrre pensiero critico è anche affare dei movimenti, soprattutto nelle fasi in cui essi si mostrano capaci di egemonia. Egemonia che significa consapevolezza di come la geologia dei movimenti - il loro proprio statuto - consista nell'intercettare i processi reali e al tempo stesso nel venire continuamente da essi sorpassati. Come è noto, è già successo: per esempio in tempi recentissimi, tra Seattle, Genova e Firenze. Ma anche in tempi non tanto remoti: nei dintorni del '68, e anche prima, con l'eperienza di «Quaderni Rossi» e di «Classe Operaia». Esperienza - si badi - del tutto extraparlamentare, "minoritariamente egemonica", che alla fine neppure il sindacato ha potuto ignorare, e perfino l'ottuso Pci, frastornato dalle lotte operaie.

Questo ricominciare a dirigere un altro sguardo sul mondo può essere anche la condizione essenziale per ricostruire un immaginario, ritessere una trama perduta di desideri e di emozioni e liberare i sogni di futuro, evitando che quest'ultimi si trasmutino in una sorta di supplenza onirica del sol dell'avvenire.

Ma forse rideclinare pensiero, sogni e desideri non basta. Non basta, se un tale percorso non si progetta sul campo, vale a dire, tra l'altro, non si pone nella prospettiva di uno scontro frontale - duro, epocale, e dagli esiti incerti - con il senso comune: soprattutto il senso comune intellettuale di massa, per dirla ancora con quel Tronti di cui sopra. Quel senso comune che rischia di inquinarci tutti.

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