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Appuntamenti mancati
Le lontane radici del declino
di Rossana Rossanda
La parabola della sinistra dallo scontro nell'XI congresso al Sessantotto, al compromesso storico di Enrico Berlinguer, quando il maggior partito della classe operaia chiude gli occhi sulla società italiana, aprendo così la strada al suo scioglimento. «Il sarto di Ulm» di Lucio Magri, diario di una crisi tra passato e presente.
Il sarto di Ulm di Lucio Magri (Saggiatore, pp. 442, euro 18) è una riflessione seria e serrata, forse la prima, sulle scelte che hanno guidato il Pci dalla seconda guerra mondiale sino alla fine. Volontaria. Altro sarebbe stato imporsi nell'89 una riflessione di fondo su di sé, altro dichiarare la liquidazione. Magri ne cerca le cause nella problematica che si apriva negli anni Sessanta e nelle divisioni del gruppo dirigente davanti ad essa. Questa è la tesi de Il sarto di Ulm.
Lucio Magri è una figura singolare. Era entrato nel Pci negli anni Cinquanta, poco più che ventenne, alle spalle l'esperienza della gioventù democristiana a Bergamo, assieme a Chiarante, nella temperie dei Dossetti e soprattutto di Franco Rodano, figura atipica di cattolico acuto e fuori dei ranghi. Viene accolto nella segretaria di Bergamo e poi nel regionale lombardo, e di là scenderà a Botteghe Oscure. Quando entra nel Pci molto è avvenuto dal 1945. L'Italia ha avuto una grande resistenza, nessun tribunale alleato ha processato i suoi crimini di guerra, il Pci ha partecipato da una posizione forte alla Costituente, il più della ricostruzione è stato fatto, e anche del partito. Era ancora sotto botta per il 18 aprile, quando un folle attenta alla vita di Togliatti. Attentato che suona, e non era, comandato dal governo, gli operai occupano le fabbriche in uno sciopero generale illimitato.
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Il PCI è morto da tempo, ma non era scritto che dovesse finire così
di Alberto Burgio
Nelle librerire l'ultimo libro di Lucio Magri: "Il sarto di Ulm. Una possibile storia del PCI"
Questi ultimi cinque anni, chiusa la rivista del manifesto, Lucio Magri li ha spesi perlopiù a pensare e scrivere un libro (Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, il Saggiatore, 454 pp., € 21) che giunge in questi giorni in libreria. Anzi, è probabile che a questo libro Magri abbia cominciato a pensare molto prima, già nei giorni della «svolta» di Occhetto che condusse alla liquidazione del Pci.
Di che si tratta? In prima battuta, della storia del comunismo (idee e pratica politica) in Italia e nel mondo (con particolare attenzione al Pci e all’Unione sovietica) nella seconda metà del Novecento (non senza tuttavia affrontare le pagine più cupe del terrore staliniano). È una vicenda che lo spirito del tempo e la storiografia dei vincitori (con l’attiva complicità di tanta parte della sinistra post-comunista) rappresentano come un gigantesco fallimento. E che invece Magri ricostruisce – lui dice: «restaura» – con ammirevole pazienza e autonomia di giudizio, nel suo complicato chiaroscuro. Errori («omissioni, reticenze, bugie»), ma anche successi nella difesa dei diritti del lavoro. Colpe gravi, ma anche grandi meriti nella costruzione della democrazia. È curioso, ed è anche questo un segno ironico dei tempi: ci voleva uno che dal Pci venne addirittura radiato (sorte toccata non a molti) per avere un racconto serio di questa storia, scevro dalle miserie e dalle banalità che ci sommergono.
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La storia rovesciata…
Sulle origini della II guerra mondiale
a cura di Andrea Catone
Pezzo dopo pezzo, anniversario dopo anniversario, i dominanti riscrivono la storia, impongono la loro narrazione degli eventi, perché essa divenga senso comune e privi le masse subalterne della loro identità di resistenza e di lotta, in modo da sradicare la possibilità stessa di una rinascita e ricostruzione comunista, indispensabile per rovesciare lo stato di cose presente segnato dal dominio pervasivo del capitale e dell’imperialismo.
In questa campagna demolitrice della storia comunista, accanto alla grande stampa borghese, si colloca in pessima compagnia anche il manifesto, che, al di fuori di qualsiasi contestualizzazione storica e di un uso rigoroso delle fonti, si appiattisce sul modello di quell’uso politico e strumentale della storia affermatosi coi libri di Pansa.
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Giorgiana Masi, le pistole e gli spari
Enrico Campofreda
Le piazze nella tarda primavera del 1977 venivano vietate al ‘Movimento' e conseguentemente a tutti i "disturbatori", compresi i radicali dei primi referendum. La studentessa del liceo Pasteur, colpita da un proiettile della polizia sul lungofiume accanto a ponte Garibaldi, lasciò sull'asfalto la sua giovane determinazione di vincere la paura con cui Andreotti e Cossiga governavano
Fumo e blindati, candelotti e scudi, poi la pistola e la bisaccia. Le tante pistole e gli spari.
Questo vedeva chi dopo le prime cariche della polizia nelle romane piazza Navona e san Pantaleo si ritrovava schiacciato a Campo de' Fiori tempestato da lacrimogeni e colpi d'arma da fuoco. Non si doveva manifestare a Roma come a Bologna, le piazze nella tarda primavera del 1977 venivano vietate al ‘Movimento' e conseguentemente a tutti i "disturbatori", compresi i radicali dei primi referendum. Proprio il grande passo civile della vittoria del referendum sul divorzio, prima sconfitta elettorale della Dc, si voleva celebrare quel pomeriggio. Dal ricordo festoso si passò al dramma. Più d'un manifestante venne ferito da colpi sparati da falsi manifestanti che altro non erano che agenti di Ps usati provocatoriamente dal Ministero degli Interni per seminare paura e poi morte. E la morte prese alle spalle Giorgiana Masi, studentessa del liceo Pasteur, colpita da un proiettile sul lungofiume accanto a ponte Garibaldi, dopo che i giovani erano stati spinti da Parione a Trastevere. Un intero pomeriggio in cui migliaia di agenti predisposti dal responsabile degli Interni Cossiga cercarono ripetutamente di uccidere usando - lo testimoniarono un'infinità di passanti - pistole d'ordinanza e non.
Lo mostrò più d'un filmato, contraddicendo le affermazioni giurate di Cossiga che sosteneva come nessuno, proprio nessun agente, avesse sparato, la polizia invece voleva vendicare il celerino Passamonti ucciso nelle settimane precedenti durante altri scontri al quartiere san Lorenzo. Le squadre speciali in quei mesi di governo Andreotti sorretto dalle astensioni della sinistra non erano una novità.
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Storia alla sbarra
Il sessantotto oltre la memoria dei protagonisti
Luigi Cavallaro
Il quarantennale della rivoluzione mondiale alimenta la pubblicazione di testimonianze sullo spirito del tempo passato. Tuttavia sono opere che non riescono ancora a misurarsi con la distanza necessaria alla ricostruzione storica di quel periodo
Delle somiglianze e dissimiglianze fra il mestiere di giudice e il mestiere di storico hanno scritto in molti, e largo consenso trova ormai la tesi che individua nel ricorso al cosiddetto «paradigma indiziario» (giusta l'espressione di Carlo Ginzburg) il terreno metodologico comune a entrambi: a fini normativi nel caso del giudice, che ricostruisce un fatto sempre e solo allo scopo di imputarne colpe e responsabilità; a fini esplicativi nel caso dello storico, che, secondo Marc Bloch, deve invece «comprendere» ciò che è successo e perché, non certo mettersi a distribuire «elogi o biasimi agli eroi morti».
Ma cosa s'intende per «paradigma indiziario»? Ogni giudice lo sa bene: significa ricostruire un fatto attraverso una serie di indizi, principalmente documenti e testimonianze, filtrati attraverso la logica e le cosiddette massime d'esperienza (come ad esempio le leggi della fisica). Il giudice, infatti, è chiamato a dirimere una controversia che concerne in primo luogo «cosa accadde» e solo dopo «cosa giuridicamente ne consegue». E si tratta di una controversia concernente un fatto di cui egli, prima del processo, non conosce nulla; più esattamente, di un fatto di cui egli non deve conoscere nulla: precise norme di diritto positivo impongono infatti al giudice di attenersi esclusivamente alle prove fornite dalle parti e gli vietano di far ricorso alla cosiddetta «scienza privata», cioè ad una conoscenza dei fatti di causa che egli possa aver attinto aliunde (ad esempio, da un confidente privato o da un articolo di cronaca). Addirittura, gli impongono di astenersi se egli ha conosciuto di quella stessa causa in un altro grado del processo o perfino se «ha dato consiglio» riguardo ad essa in una qualche altra sede.
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Memorie di una classe da sempre irriducibile
Sergio Bologna
Operai e lavoratori in carne e ossa, in tutta la loro realtà. È stato il cinema italiano, e in parte la televisione, a «sbirciare» dentro le industrie. Francesca Comencini, con il suo «In fabbrica» ha fatto un film proprio su quello «sguardo», non sulla storia, restituendo così una dignità perduta
Dobbiamo essere grati a Francesca Comencini. Ha riportato gli operai nello spazio pubblico. Quelli che lottavano intendo, quelli degli anni Settanta, quando l'Italia era ancora un paese civile, malgrado le stragi di stato e la guerriglia urbana. Un paese con salari decenti, che permettevano di vivere, potevi ammalarti e far figli, senza che questo fosse considerato un autolicenziamento. Era un paese di passioni civili e di conflitti sociali. Oggi lo guardano con commiserazione o con orrore (il terrorismo!). Lo guardano «loro», quelli che hanno ridotto il nostro paese in un territorio dove il culo di una «velina» vale assai più del cervello del miglior ricercatore.
Sono ben distribuiti tra Destra e Sinistra questi «loro», forse più di là che di qua ma quelli di qua più nefasti, più miserabili.
Sono in parte quei «loro» che ci hanno restituito Berlusconi dopo un anno e mezzo di ottuso malgoverno e in parte quelli che hanno esercitato il loro sporco mestiere e da tempo si sono ritirati o sono morti. Lasciamoli stare, a godersi la pensione, ma non lasciamo perdere l'occasione che Francesca Comencini ci offre per tornare con la memoria agli anni Sessanta e Settanta, per provare a ragionare di nuovo di quel tema così a lungo dimenticato, trascurato: le condizioni di lavoro e il conflitto sociale.
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Prima e dopo la strage di stato
Marco Grispigni
L'anno degli studenti non fu un allegro festino. Lo stato non tardò a metter mano alla pistola. In Italia e in Europa. La tanto esecrata «società permissiva» colpì duro fin dall'inizio. E nel 1969 arrivò la bomba di Piazza Fontana
Sous le pavé, la plage !, recitava un poetico e famoso slogan francese. Chissà se anche sotto il selciato dell'Università di Roma - allora ne esisteva una sola, La Sapienza - i giovani della fotografia hanno trovato la loro spiaggia?
Una foto del '68: ci sono sassi, bastoni e assembramenti di giovani. Il clima non sembra particolarmente teso, ma di certo non ci troviamo in una strada della San Francisco della Summer of Love.
Il '68 fu anche violento: non soprattutto, come dicono i suoi detrattori, quelli per cui chiunque si ribelli, tanto più se decide di farlo nella strada, è un terrorista in erba. Ma non fu neanche un movimento pacifista, composto solo da giovani gentili, ma un po' inquieti, che chiedevano ai gruppi dirigenti di svecchiare la società, di farsi un po' più in la. Non fu un movimento pacifico che solo l'ideologia (e la ripresa del marxismo) rovinò e portò verso gli oscuri anni '70, come dicono alcuni ormai attempati personaggi, nostalgici della loro gioventù, quelli del breve '68, un movimento che durò lo spazio di un mattino. Il '68, la rivolta mondiale, iniziata anni prima in alcuni paesi, e poi continuata in altri, al di là dell'anno mirabile, fu anche violenta: fin dall'inizio. Ebbe la sua fascinazione per "il lato oscuro della forza", come la definisce Augusto Illuminati nel suo interessante (e divertente) libro sul '68 (Percorsi del '68. Il lato oscuro della forza, Derive Approdi, 2007). Fu un movimento di chi rispondeva "yes, we can", a chi gridava "ribellarsi è giusto".
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A Lenin non piaceva Frank Zappa
di Girolamo De Michele
Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita: Avete pagato caro non avete pagato tutto. La rivista «Rosso» (1973-1979), 109 pp.+DVD con la raccolta completa della rivista, DeriveApprodi, Roma, 2008, € 18.00.
«Pat Garret e Billy Kid erano due che facevano una loro battaglia contro i proprietari fondiari. Ma Pat Garret era un legalitario: non gli piaceva che Billy ammazzasse i nemici anche alla festa di nozze quando lui aveva deciso per la tregua con l’esercito, la polizia, i proprietari. Pat fa la scelta e diventa sceriffo. A malincuore. Di fatto diventa alleato dei proprietari, non senza cercare, ogni tanto, di lasciare perdere Kid e di mantenere una buona fama tra i suoi vecchi compagni.
Ma, in fin dei conti, Pat spara contro Kid. La storia finisce lì. Qualcuno immagina che il Kid sia stato solo ferito e come ogni eroe degli oppressi, rinasca dopo ogni ferita e alla fine trionfi su Garret. Il “compromesso storico”, la questione sindacale della battaglia delle vertenze, Enrico B. e Luciano L. sono fratelli gemelli di questo vecchio Garret. Era l’autunno 1973».
Cominciava così l’articolo Pat Garret e Billy Kid ovvero i consigli del sindacato e l’autonomia operaia sul numero 10, maggio 1974, di Rosso, all’indomani della chiusura della vertenza dell’Alfa Romeo. Un numero che, non per caso, ammoniva in prima pagina: «Una crisi è vera crisi se è crisi del padrone». Si noti: “padrone”, non “lavoratore che intraprende”. Non è un mero slittamento semantico: nomina sunt consequentia rerum.
Bastano questi pochi elementi a dare l’idea di cos’è stata la rivista Rosso: non, come ultimamente è capitato di nuovo di dover sentire (in spregio persino alle verità giudiziarie) “la struttura illegale di Autonomia Operaia”, ma un potente laboratorio dell’antagonismo sociale degli anni Settanta. Di questa rivista l’editore DeriveApprodi ci restituisce oggi tutta la forza, e tutte le contraddizioni, in un DVD che ne riproduce l’intera vita, dal marzo 1973 al maggio 1979, un mese dopo quel 7 aprile che inaugurò con un colpo di mano giudiziario un’epoca in cui, come ricordano Chicco Funaro e Paolo Pozzi, «l’eresia dev’essere eliminata» e nessun compagno «avrà più tempo o modo di occuparsi di una rivista». Accanto al DVD, un densissimo saggio di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita: Avete pagato caro non avete pagato tutto. La rivista «Rosso», arricchito dai contributi di Funaro e Pozzi e da uno stralcio dell’intervista sull’operaismo di Toni Negri del 1979.
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Quel movimento che aprì la via alla globalizzazione
Marco Revelli
Il Sessantotto si diffuse nel pianeta cambiando radicalmente il mondo anche se fu sconfitto. E può essere considerato come l'avvio di una rottura antropologica che vent'anni dopo è emersa con forza alla superficie
Valle Giulia. Era il primo marzo del 1968. La rivolta degli studenti arrivava per la prima volta sulle prime pagine dei giornali e dei telegiornali. Per la verità il Sessantotto italiano era incominciato qualche mese prima, già dalla fine del '67, quando erano state occupate prima la Cattolica di Milano - un vero e proprio sacrilegio -, poi Palazzo Campana a Torino. Ma le notizie erano rimaste confinate nelle pagine locali. C'erano volute le cariche della polizia in assetto da combattimento, le camionette rovesciate, il fuoco e le pietre, gli arresti e i feriti, perché il sistema dei media si accorgesse della cosa. C'era voluta, insomma, la violenza perché il Sessantotto diventasse un evento mediatico.
Le riflessioni sofferte dei cristiani ribelli di Milano, i controcorsi di Torino, più di un mese di studio collettivo e autogestito da parte di centinaia di giovani in rivolta mentale, le «tesi della sapienza» di Pisa, non avevano ricevuto nessuna attenzione al di fuori degli ambienti universitari in sommovimento, né da parte della politica, né da parte dell'informazione. Le immagini (ancora in bianco e nero, allora) delle scalinate di architettura di Roma, invece, esplosero sugli schermi televisivi con la forza di un terremoto.
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La stella dell'Ottobre
Fuori sincrono. Memoria e bilancio di un evento europeo - Intervista a Mario Tronti
La «follìa» di Lenin fra politica, economia, teologia. Il salto al di là di quello che c'è, il confine sottile fra potere e dominio, la lotta impari fra rottura e continuità, i conti fra il comunismo e lo Stato Perché la rivoluzione si mangia i suoi figli e si capovolge in oppressione? La potenza della storia è più forte di quella della politica
Ida Dominijanni
Né il 24 né il 26 ma il 25 di ottobre 1917, per il nostro calendario il 7 novembre, novant'anni fa giusto oggi: il tempo della rivoluzione, per Lenin, era un'ora esatta. Né prima né dopo, l'ora che o la cogli o passa e non torna. Il novantesimo, per un anniversario, è invece un tempo incerto: non ha la passione calda e partigiana del decennale né la distanza fredda e ponderata del centenario; per le regole del grande show mediatico è un fuori sincrono, per i criteri politici del presente un'assurdità. Mario Tronti la mette in metafora: «Questo anniversario è come una stella che cade in una palude. Ma quando cade una stella ci tocca un desiderio. Il mio è questo, che nei dieci anni che ci separano dal centenario accada qualche sorpresa, che renda almeno possibile il discorso».
Il discorso sull'Ottobre, nonché quello sulla rivoluzione di cui l'Ottobre continua a essere simbolo imprescindibile, oggi è in effetti un discorso impossibile. E non da oggi, né solo dall''89 o dal '91, quando il crollo del Muro di Berlino prima e dell'Urss poi ha travolto, con gli esiti, anche l'inizio dell'esperimento sovietico: il revisionismo storico era al lavoro già da prima, e in vent'anni ha reso di senso comune l'equivalenza fra i due totalitarismi, comunista e nazista, del Novecento, quando non, à la Nolte, l'interpretazione del secondo come reazione (legittima) al primo. Di contro, una memoria «ortodossa» del mito dell'Ottobre resiste nella sinistra europea, ma senza carica e in difensiva, come se le mancassero, prima che le giuste risposte, le giuste domande da rivolgere a quell'evento.
Novant'anni dall'inizio e sedici dalla fine dell'esperimento sovietico: ancora troppo pochi per la giusta distanza che serve a un bilancio storico e teorico?
Evidentemente sì, ancora troppo pochi per un bilancio lucido, realistico e anche disincantato. Una volta chiesero a Chu en-lai: quali, secondo lei, le conseguenze della Rivoluzione francese? E lui: troppo presto per dirlo. Però, rifugiarsi nella retorica minoritaria, o in un culto passivo della memoria, non serve a niente, lanciarsi nei giudizi di valore nemmeno. Bisogna piuttosto rimettere a punto delle coordinate, provare almeno a interpretare la storia visto che è diventato sempre più difficile cambiarla. Prima coordinata: la Rivoluzione d'ottobre sta dentro la Grande guerra. Senza guerra mondiale, niente rivoluzione russa. Nel 1914 finisce quella che Polanyi chiama la pace dei cento anni, nel '17 l'Ottobre apre l'età delle guerre civili mondiali, a cominciare da quella che subito si consuma all'interno della Russia.
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Il Giano bifronte del secolo breve
Enzo Traverso
Un'esperienza che ha sempre oscillato tra un desiderio di modernizzazione e la riproposizione delle antiche forme di tirannia dello zarismo Un percorso di lettura sulla svolta impressa dall'Ottobre sovietico alla storia novecentesca a partire dal volume di Marcello Flores «1917. La Rivoluzione» per Einaudi
Nel 1927, a dieci anni dalla nascita del potere sovietico, Ejzenstejn realizzava Ottobre, un film che celebrava la rivoluzione russa e ne inscriveva il mito nell'immaginario collettivo del XX secolo. La presa del potere da parte dei bolscevichi si trasformava così in insurrezione di popolo, sotto la guida del partito di Lenin. Per lungo tempo, la rivoluzione sarà pensata al contempo come epopea e come strategia militare. Da Lenin a gran parte della «nuova sinistra» degli anni Settanta, questo paradigma rimarrà immutato. Sul versante storiografico, il film di Ejzenstejn troverà un equivalente in un classico come la Storia della rivoluzione russa di Trockij, corrispettivo novecentesco delle storie della Rivoluzione francese di Michelet e Carlyle, arricchito dalla sensibilità del testimone, dall'acume concettuale del teorico e dall'esperienza del capo militare.
Il mito dell'Ottobre rosso non è sopravvissuto al crollo del socialismo reale. Era anzi già sbiadito da tempo. Vi è tuttavia un'altra lettura della rivoluzione russa, una sorta di contro-mito nato negli stessi anni e parallelo all'agiografia sovietica, che sembra invece aver tratto nuovo vigore dalla svolta del 1989. Si tratta di una lettura ideologica del comunismo come fenomeno totalitario che attraversa la storia del Novecento, edificato nel 1917 da una banda di fanatici e perpetuato in un'orgia di violenza fino a Gorbaciov. Questo è il succo, senza caricature, dei libri di sovietologi americani come Richard Pipes o Martin Malia, di uno storico come Ernst Nolte, per il quale i crimini nazisti furono una brutta copia di quelli bolscevichi, o di un anticomunista enragé come Stéphane Courtois, ossessionato dall'idea di provare che le vittime del comunismo furono più numerose di quelle del nazismo.
Sotto le macerie dell'illusione
Con stile più sofisticato e blasé, François Furet aveva dato il suo contributo all'interpretazione del comunismo come fenomeno di natura essenzialmente ideologica, frutto di una malsana «passione» antiliberale che riuscì ad accecare gli intellettuali del XX secolo. Sulla scia di Tocqueville, egli inseriva l'Ottobre russo in un ciclo storico più vasto avviato dalla Rivoluzione francese e interpretava la svolta del 1989 come il trionfo definitivo della democrazia liberale sulle macerie dell'«illusione» rivoluzionaria.
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Ciliga nel paese della grande menzogna
di Paolo Sensini
Libertaria - Il piacere dell'utopia
«L’enigma della rivoluzione russa, che l’umanità, che il movimento operaio internazionale debbono risolvere, è il seguente: come si è riusciti ad abolire di fatto tutto ciò che costituisce la Rivoluzione d’Ottobre, pur conservando le forme esteriori, a risuscitare lo sfruttamento degli operai e dei contadini senza ristabilire i capitalisti privati e i proprietari fondiari, a iniziare una rivoluzione diretta a sopprimere lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e terminarla istituendo un nuovo tipo di sfruttamento?». Sono queste le domande a cui Nel paese della grande menzogna1 riesce probabilmente a fornire la più completa e approfondita spiegazione che sia mai stata tentata, insieme a un ridottissimo numero di altri lavori, sulla realtà della Russia «comunista». Al punto che, considerato il suo valore testimoniale, potremmo azzardarci a definire tale scritto come una sorta di Odissea dei tempi moderni. Una narrazione avventurosa in cui Ante Ciliga è stato capace di decifrare, con una prosa allo stesso tempo densa e suggestiva, tutte le sfaccettature di quello che senza alcun dubbio rappresenta uno dei più complessi «enigmi» presentatisi alla ribalta della storia in questo scorcio di fine millennio.
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Il processo decostituente
Luigi Ferrajoli
La legge di revisione costituzionale recentemente approvata rappresenta la demolizione non solo dellaCostituzione repubblicana del 1948, ma del paradigma stesso della democrazia costituzionale. Decostituzionalizzazione della democrazia e costituzionalizzazione del berlusconismo. La battaglia in difesa della costituzione.
Ogni carta costituzionale può essere considerata come la carta d’identità dell’ordinamento da essa costituito e disegnato. Ciò vale per la Costituzione
italiana del 1948, come per tutte le altre costituzioni, le quali sono di solito, se degne del loro nome, patti di convivenza generati dall’accordo di tutte le forze politiche rappresentative delle società cui sono destinate. La legge di revisione costituzionale recentemente approvata dalla maggioranza berlusconiana è invece la carta d’identità della destra, che riflette la concezione e soprattutto la pratica della democrazia che è propria di questa destra e che questa destra pretende di imporre come nuova carta d’identità della Repubblica.
Questa legge, d’altro canto, non si limita a stravolgere la carta costituzionale del 1948. Essa persegue la trasformazione in costituzione formale di mutamenti già in larga parte intervenuti in questi ultimi anni nella costituzione materiale della Repubblica. Riflette, in breve, una deformazione della democrazia già di fatto avvenuta. È quasi certo che essa sarà spazzata via dal referendum. E tuttavia essa esprime e formalizza una concezione anti-parlamentare ed extra-costituzionale della democrazia largamente penetrata nel ceto politico e nel senso comune, anche di sinistra, e già tradottasi in un’alterazione di fatto del nostro assetto costituzionale.
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Sotto il pavé
di Tito Pulsinelli
Anche il nostro corrispondente dal Venezuela, Tito Pulsinelli - che di '68 se ne intende - interviene nella discussione sul libro di Alessandro Bertante Contro il '68, iniziata su Lipperatura e proseguita su Carmilla, su Georgiamada e in vari altri siti.] (V.E.)
E’ immaginabile che si possa scrivere un pamphlet intitolato “Contro il 2001”? Semplicemente no, perchè è senza densità, privo dei significati e delle evocazioni simboliche che il '68 ha emanato. E, nonostante le smisurate fatiche negazioniste, continua ancor oggi a essere un punto di snodo. Non è ancora una moneta o una medaglia per le bancarelle dei rigattieri.
Rimane pur sempre un momento unico di rottura generalizzata, forse “il” momento, magico per la sua simultaneità trans-geografica, scaturita dal grembo di una sola generazione, forse nemmeno intera…
Questo è il suo limite assoluto, che l’ha trattenuto sul terreno epidermirmico della politica, condannandolo al vuoto della rappresentazione. Nessun cambiamento profondo e multivalente è possibile senza che prendan vita i sogni dell’arcobaleno, di tutto l’arco in un baleno: dei nonni, dei padri e dei bimbi.
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