Sul cosiddetto neo-togliattismo giuridico degli anni Settanta
di Michele Prospero*
§1. Il marxismo italiano tra forma e teologia politica
Al culmine dell’età dei diritti, con le strategie di cittadinanza maturate nel cosiddetto secolo socialdemocratico, ci fu una significativa rinascita della riflessione politico-giuridica di ispirazione marxista in tutto l’Occidente. «La teoria giuridica nella tradizione marxista non dogmatica fu ripresa negli anni ’70. Di particolare importanza furono la raccolta di due volumi curata da Hubert Rottleutbner (1975) e Norbert Reich (1972), così come i numeri del 1971-73 di Critical Justice. Accanto a queste pubblicazioni, maturò una temporanea rinascita di una teoria giuridica di sinistra (all’epoca ancora chiamata marxista) riscontrabile nella Germania occidentale, nel dibattito francese, oltre che italiano e americano. Autori come Joachim Pereis, Norbert Reich, Wolfgang Abendroth, Thomas Blanke, Wolf Paul, Oskar Negt, Ulrich K. Preuß, Nicos Poulantzas, Burkhard Tuschling, Umberto Cerroni e Toni Negri o Monique Chemillier-Gendreau, Isaac D. Balbus e Sol Picciotto, o Franz Neumann e Otto Kirchheimer. Questi studiosi hanno mostrato un interesse particolare per l’attività dello Stato, i suoi margini di manovra e il suo potenziale di governo»1. Per quanto riguarda il panorama repubblicano degli anni Settanta, si assiste a una ripresa della elaborazione concettuale e, quanto agli approdi della ricerca, nel complesso «non mi sembra che nel dibattito giuridico italiano, sia pure latamente inteso, vi fossero stati, con la sola, significativa eccezione di Cerroni, dei precedenti degni di nota»2. Una spinta all’affinamento del lavoro critico sul diritto viene anche dalle esigenze della pratica politica. Lo stesso segretario del Pci Berlinguer sollecitava un contributo della teoria.
La filosofia è presentata come un arnese indispensabile per la politica, e «senza l’analisi marxista sarebbero del tutto inspiegabili non solo le attuali posizioni del Pci, ma anche la stessa crescita della sua forza organizzata e dei suoi consensi elettorali»3. Questo aggancio del partito alla filosofia, della politica contingente al pensiero politico, serviva per scacciare l’incubo di un partito «praticistico» che evolveva come una mera macchina di potere dimenticando compiti critici. All’elaborazione culturale veniva riconosciuta una incidenza politica, e quindi si invocava la cultura di sinistra a sospingersi oltre la mera filologia per consolidare la diagnosi reale dei processi e dell’organizzazione dei poteri.
Negli anni Settanta, con la grande crescita elettorale del Pci, aumentava anche il rilievo pubblico del dibattito filosofico interno ed esterno al partito. Ad affinare le armi della polemica, incentrata sui pretesi ritardi cognitivi ravvisabili nella filosofia comunista nel connettersi con le regole della democrazia-procedura, non ci pensava solo la cultura liberal-socialista, con Bobbio quale suo capofila4. Anche uno storico cattolico come Scoppola condivideva l’assunto della estraneità del Pci rispetto ai canoni della cultura occidentale per «la mancata accettazione della ipotesi di una reversibilità del processo politico»5. Lo stesso compromesso storico appariva, in questa ottica, come «un progetto non coerente con la tradizione democratica occidentale». I critici liberal-socialisti e cattolici si soffermavano su delle pretese problematiche di principio ancora non risolte che in verità, già nelle dichiarazioni programmatiche per l’VIII congresso, il Pci aveva nel complesso sciolte (con il riconoscimento esplicito della regola di maggioranza, con l’accettazione delle implicazioni dell’alternanza alla guida dei governi, con la esaltazione delle funzioni insurrogabile dell’opposizione). Già con Togliatti si pose il tema della rottura con lo schema leninista di conquista del potere entro democrazie costituzionali consolidate. Postulando la necessità di accantonare le ambizioni primitive di sostituire, con «l’apparato dello Stato proletario», il vecchio Stato liberale visto quale macchina di potere da distruggere, Togliatti recuperava in piena trasparenza le forme parlamentari. Era esplicita la consapevolezza che, sposando il terreno democratico delle regole del gioco e della reversibilità delle funzioni, «è evidente che correggiamo qualche cosa di questa posizione» di Marx e Lenin6.
L’esperienza politica di adeguamento dei moduli d’azione istituzionale ai canoni di un regime parlamentare non aveva bisogno di conferme testuali, come ancora pretendevano i critici che però nelle loro polemiche fuori tempo trovavano appigli in molti saggi degli anni settanta, poco in sintonia con le innovazioni della prassi politica. Il problema vero sul quale insisteva Bobbio, più che sulla necessità di sempre nuovi esami per valutare l’apprendistato democratico, era la sensazione che la pratica politica del Pci, sulla via di risposte maturate sul terreno del lavoro istituzionale e sociale, si mostrasse ben più in avanti, nella comprensione e utilizzazione delle regole del gioco, rispetto alla consapevolezza teorica rintracciabile nelle pagine di alcuni filosofi marxisti. Alla condotta politica di una forza sostanzialmente critico-riformatrice, abile nell’utilizzare i luoghi istituzionali per introdurre elementi di socialismo, non corrispondeva una chiarezza quanto ai referenti analitici da impiegare come asse strategico nella guida trasformativa di un sistema politico competitivo. La celebre frase di Berlinguer che sanciva il valore universale della democrazia ebbe però una gestazione filosofica nel lavoro di Umberto Cerroni. «È sua la frase contenuta del discorso di Enrico Berlinguer al XV Congresso del PCI del 1977 (Roma, 3 aprile) in cui si affermava per la prima volta che la democrazia è un valore storicamente universale»7.
Rispetto alle obiezioni di Bobbio, una parte della filosofia comunista, soprattutto con Cerroni, accettava di entrare nella questione del metodo, e si situava in maniera piuttosto consenziente nel terreno della integrazione di alcuni nodi della sfida liberaldemocratica, integrando con innesti formali-procedurali un’antica propensione dellavolpiana (e anche ingraiana8) che enfatizzava la superiore virtù trasformatrice della democrazia diretta o di massa. Negli anni sessanta la prospettiva di Cerroni contestava l’impianto individualistico dello Stato moderno (la lettura cioè dello Stato di diritto come mera legalità a tutela della libertà-isolamento) e auspicava un consolidamento di istanze sociali che si diffondevano in modo che rispetto “alla coniugazione proprietà-ragione-democrazia rappresentativa subentra la coniugazione lavoro-consenso-democrazia governante o autogoverno”9. Con le istanze sociali, il partito di massa, la democrazia competitiva mutano gli antichi assetti del regime classico del costituzionalismo liberale, che andrebbero corretti con un ruolo centrale del parlamento, con un decentramento dell’amministrazione e “con il riconoscimento esplicito della imperatività del mandato”10. Negli anni settanta diventava più esplicita la considerazione positiva degli istituti della rappresentanza che andavano accolti come base di ogni ampliamento dei nuovi canali di partecipazione. «Il pluralismo politico –scriveva Cerroni- diventa non soltanto una necessità indotta dall’esterno e cioè dalle condizioni istituzionali oggettive della lotta politica, ma anche una necessità interna al movimento operaio che deve garantirsi da errori, abbagli, mitologie chiesastiche e deve assicurare l’emersione degli interessi e della volontà delle masse nel libero confronto delle argomentazioni»11. In una tale prospettiva, il rifiuto di considerare sulle orme di Kelsen il marxismo come una variante dell’anarchismo indifferente alla forma, comportava il riconoscimento delle procedure che definiscono i giochi competitivi entro un sistema del pluralismo politico e sociale. La democrazia-metodo non spegneva le istanze critiche di un movimento che aspirava al mutamento sociale e non si accontentava di garantire l’amministrazione dell’esistente secondo le compatibilità statiche del sistema.
È sul rapporto tra democrazia-metodo e progetto di trasformazione che si registrava la presenza di sensibilità assai diverse tra i filosofi del Pci. Una componente della cultura del Pci resisteva a ogni inclinazione a confondere l’innovazione sociale con l’adagiarsi nel solco liberaldemocratico, e con forza notava: «non direi che il Pci condivida oggi una concezione dello Stato di matrice liberal-parlamentare: ben altra è la nostra concezione della democrazia»12. Il pluralismo, nell’ottica di Mancina, è un valore da raccogliere «ove non sia ridotto a pluripartitismo» e riconosca, anche nella mappa dei poteri costituzionali, che la classe operaia è la classe generale13. Mancina e altri redattori di «Critica Marxista» rappresentavano «una zona di forte resistenza al rinnovamento teorico del marxismo italiano, in contrasto con la stessa linea teorica, duttile e pragmatica, dell’attuale gruppo dirigente del Pci»14. Queste resistenze analitiche delle nuove generazioni culturali post-sessantottine, rispetto a nodi che già Togliatti aveva spezzato con coerenza, rivelano una doppia velocità riscontrabile tra la nuova leva filosofica che inseguiva le correzioni analitico-programmatiche e la direzione politica del Pci che si misurava più tempestivamente con compiti di gestione della contingenza storica. La doppia velocità riscontrabile tra realismo dei politici nell’impiego del corredo procedurale del sistema parlamentare pluralista e residui di dottrinarismo filologico della cultura è alquanto palese. Tra i giuristi emergeva la distanza di una certa teoria critica del diritto rispetto alle condotte pratico-legislative dei comunisti. In tale quadro si assisteva alla circolazione dell’equivoca nozione di diritto diseguale, rilanciata nel dibattito anche da giovani giuristi come Aldo Schiavone15. Egli assumeva come bersaglio polemico «certe tradizioni oggi non più adeguate alle domande del presente, penso soprattutto al metodologismo di alcune formulazioni dellavolpiane»16. Contro il formalismo giuridico dellavolpiano, Schiavone rigettava il tentativo di saldare democrazia e istanze garantiste contrapponendovi una «scienza critica» tesa all’autogoverno di classe. Rispetto alla scoperta comunista della mediazione istituzionale e dell’astrattezza della categoria giuridica come contrassegno del moderno, egli auspicava una più marcata critica delle categorie del diritto privato per spezzare il dominio di forme astratte. Anche delle istanze vitalistiche penetravano nell’analisi e si ponevano in reazione rispetto al connubio tra politica del Pci e forme del diritto formale che viene considerato come una contrazione degli orizzonti della grande discontinuità.
Le istanze procedurali, avanzate dal «formalismo» di Kelsen, venivano considerate da alcuni filosofi marxisti come l’espressione inequivoca di una rete sistematica di regole e procedure che, se accettata, orientava le dinamiche di una «rivoluzione passiva» entro cui ogni grande innovazione era ostruita perché tesa a invocare «la ricostituzione sublimata di vecchi equilibri sociali».17 In precedenza, a mostrare sostanziali riserve verso le sollecitazioni provenienti dalla liberaldemocrazia fu Giuseppe Vacca che aveva raffigurato il sistema kelseniano come il tipico artificio di «un liberale post-storicista» che riduceva lo Stato all’ordinamento giuridico.18 In tal modo il normativismo perdeva dalle sue lenti la novità della mobilitazione delle masse e della diffusione del pubblico rimanendo così indietro rispetto a Schmitt nel cogliere «i mutamenti di forma del politico». Tra Korshc e Scmitt si saldavano talune reazioni verso i canoni liberaldemocratici. Scettico sull’inopinato «avallo ricevuto anche dall’interno del movimento operaio», che nulla più obiettava alla sua insidiosa ipotesi del fondamento «aclassista dello Stato», Vacca decodifica il normativismo giuridico di Kelsen come un «alt» rivolto alla massa operaia inteso a rammentare che «giunta sulla soglia dello Stato devi sapere che lo Stato non è affar tuo». Un ampio filone di studi marxisti, contro il tecnicismo della democrazia-metodo denunciato come una rinuncia alla contestazione delle radici di classe della democrazia, preferiva la strada giuridico-teologica riverniciata dal «tecnocrate della potenza» Schmitt. Veniva dimenticata la vicinanza di Kelsen al movimento operaio austriaco e alla sua democrazia e socialismo si preferiva la manutenzione delle categorie di Schmitt. Sul recupero del «realismo politico schmittiano», in una funzione del tutto ostile al «formalismo giuridico e al garantismo politico liberaldemocratico», espresse considerazioni molto critiche Danilo Zolo19.
Il Pci cresceva, si avvicinava al governo e però una fetta ampia della sua intellettualità (non solo il filone post-operaista) sognava, con le suggestioni di Schmitt, lo stato di eccezione, il trascendimento delle norme. Le procedure e le garanzie venivano denunciate come delle ingannevoli maschere che nel tempo avevano solo spoliticizzato lo Stato, incoraggiato la demistificazione delle ideologiche aperture dialogiche che tramutavano il nemico in un semplice concorrente elettorale, garantito dinanzi al rischio di una rivoluzione passiva il ritorno a fondamenti forti che ristabiliscono la connessione tra Stato e partito dominante, classe. Anche tra gli studiosi stranieri la riscoperta da sinistra del decisionismo politico di Carl Schmitt ha provocato qualche stupore. Dinanzi al rinascere di manifestazioni di antiparlamentarismo, di scetticismo sullo Stato di diritto raffigurato come ordine «invecchiato e inutilizzabile», di invocazione di una dimensione concreta-vivente ostile al diritto costituzionale di stampo kelseniano, Schmitt forniva una mappa concettuale depurata dalle compromissioni con la rivoluzione conservatrice degli anni Trenta. «Tra i comunisti italiani e francesi, i franchisti spagnoli e la sinistra sessantottina tedesca il saggio di Schmitt fu considerato un’opera di riferimento quando si cercavano alternative al parlamentarismo di impronta occidentale»20. Il significato del recupero in corso a sinistra delle categorie del politico di Schmitt viene così espresso da Ferruccio Masini. Nell’ipotesi di una carenza di fondamento, sprigionata dalle temibili neutralizzazioni liberali, con le loro scissioni formali e palesi perdite di sovranità imposte dai riti procedurali, Schmitt prospetta il valore in sé di una decisione incondizionata quale viatico per il recupero di una compatta e monistica totalità o nuovo ordine eretto dal sovrano su un inconfondibile sfondo teologico e teocratico21. Per questo, già sul finire degli anni ’70, la crisi del marxismo in Italia si dirigeva verso una conversione della intellettualità di sinistra verso Schmitt e la teologia politica.
§ 2. Dispute teoriche
Tra i filosofi e i giuristi di area comunista cominciavano a distinguersi delle differenti sensibilità. Una, erede della tradizione dellavolpiana, mostrava una sistematica curiosità verso il garantismo e le forme procedurali della democrazia, altre letture si spingevano istanze di superamento delle forme che imboccando o il modello consiliare della democrazia diretta o lo schematismo amico-nemico del decisionismo politico di Schmitt. Tra i giuristi del Pci c’era chi prospettava il superamento del diritto eguale e dei principi della rappresentanza, in vista di «una nuova democrazia» che oltre le forme definiva il recupero della vita come «un passaggio importante della transizione al socialismo»22. La sperimentazione giuridica, in una tale lettura, doveva essere modulata in vista di «un altro diritto e un altro Stato»23. Alla base del suo schema, per certi versi eccentrico rispetto alla maturazione incorso nella cultura programmatica del Pci, Schiavone collocava l’assunto che «la separazione fra Stato e società civile oggi non regge più»24 e quindi occorre proiettare l’azione politica oltre il diritto eguale, al di là della cornice dello Stato di diritto. Dinanzi alla «crisi della liberaldemocrazia, palesemente inadeguata», secondo Schiavone, occorreva ribadire la forte «esibizione del bisogno oggettivo di socialismo»25. Il dominio del concreto, la prospettiva di socializzazione esigevano delle strategie istituzionali alternative per «costruire forme di diritto diseguale per il superamento del diritto e dello Stato». Riaffiorava così uno schema binario semplice nella sua ossatura concettuale: da una parte la densità astratta dello Stato con le sue pretese di dominio, dall’altra il concreto che affiorava come una esterna strategia volta alla autogestione. La transizione si configurava come il concreto-vitale che si ribellava contro il dominio dell’astratto, come la democrazia sostanziale che si vendicava contro la «delega liberaldemocratica». L’autonomia privata andava perciò scavalcata per proiettarsi con la vita ben oltre la gabbia formale del diritto eguale. La rinuncia ai dispositivi normativi dell’astrazione, l’archiviazione della tradizionale mediazione giuridica d’impronta liberale-formale, per Schiavone si rivelava una scelta realistica nel tempo del meccanismo unico che trascendeva le forme «classiche, nel senso liberal-democratico»26.
Con una radicalità nella parte destruens che evocava una cesura qualitativa netta, Schiavone saltava il momento della continuità della forma: «insieme con quella del negozio, si consuma per intero la crisi del diritto privato come diritto formale ed eguale; anzi, in un certo senso, la possibilità stessa di pensare un diritto privato»27. Entro gli studi giuridici di intonazione civilistica Pietro Barcellona invitava a effettuare una analisi più articolata delle categorie del diritto privato. Il negozio giuridico non si configurava come una pura maschera dell’ideologia, era considerata come la forma che consentiva il funzionamento e la riproduzione del rapporto sociale. Al centro della ricognizione di Marx si collocava non la cancellazione della norma ma «la contraddizione fra l’esigenza della produzione di valorizzare il capitale e l’esigenza di soddisfare bisogni e interessi sociali non suscettibili di calcolo monetario»28. Entro questa polarità, la critica del diritto avrebbe dovuto lavorare non sulla evaporazione della forma ma su quello che Barcellona chiama «il paradosso della libertà contrattuale»; in base a esso «per affermarsi come principio generale la libertà contrattuale deve ignorare la disparità di potere sostanziale; e tuttavia per non ridursi a vuota formula deve essere corretta e subire restrizioni legali»29. Anche Luigi Berlinguer, in dissenso con verti declinazioni antiformaliste, rimarcava le debolezze delle proposte di un diritto diseguale affiorate entro la cultura comunista. «La frontiera garantista del diritto eguale», e quindi della norma giuridica, si confermava ai suoi occhi una risorsa preziosa anche dinanzi a processi (nuovo diritto del lavoro, di famiglia, ruolo del sindacato) che, nel nuovo intreccio di Stato e mercato, svelavano «l’accresciuto peso istituzionale della classe operaia», nel quadro di una crisi dei codici e dei testi unici («Forse non esiste più un codice civile, almeno come lo ha scritto il legislatore del 1942»), con unicità di misure che rischiavano di far perdere «una visione complessiva delle trasformazioni»30. Rispetto a certe semplificazioni delle dimensioni del politico moderno, occorre acquisire la consapevolezza che la trasformazione complessiva dello Stato e del potere «non può esaurirsi nella forma diretta della democrazia” e pertanto “riemerge il tema della rappresentanza»31 . Quali referenti filosofici delle posizioni che Berlinguer sintetizzava come punti di approdo più maturi nella cultura istituzionale dei comunisti italiani venivano evocati quelli di Cerroni. «Determinante è stato l’apporto di Umberto Cerroni, da tutti noi considerato un maestro. Ricordo la forza con cui soleva affermare e documentare che il marxismo (lui si proclamava comunque marxista) non aveva una sua teoria dello Stato, che invece non può mancare a un partito e a una filosofia politica che si qualifica democratica»32.
La posizione teorica di Cerroni si caratterizzava per il rigetto di un approccio economicistico che trascurava il ruolo specifico delle tecniche, delle forme e non coglieva la funzione non solo riproduttiva ma anche innovativa degli istituti politici e giuridici. Questo tratto è stato ben colto dalle discussioni che le opere di Cerroni hanno suscitato in Germania e recepite come frutto di un approccio non economicistico al diritto moderno quale funzione specifica e differenziata di una società completamente sinallagmatica che produce cose attraverso lo scambio. Nella cultura tedesca si richiama «la definizione precisa della forma giuridica in Cerroni, Marx und das moderne Recht, Berlin, 1974»33. Una certa eco ha esercitato la traduzione in tedesco delle opere sul marxismo e il diritto. Spiega U. K. Preuß che, oltre il riduzionismo che non risparmiava il lavoro di Pasukanis il quale scivolava «nell'identificazione diretta tra diritto e rapporto economico», Cerroni esaltava la funzione differenziata e specifica della forma astratta della politica e del diritto. «Si tratta di un postulato metodologico che deve essere applicato all'analisi giuridica in generale, poiché l'intero assetto giuridico moderno è caratterizzato da questa contraddizione. La pubblicazione relativamente tardiva dei saggi di Cerroni in Germania ha posto questo problema all'ordine del giorno con la massima urgenza»34. Sulla base della lettura del moderno come organismo unitario differenziato negli ambiti specifici dell’economia, del diritto è possibile cogliere il ruolo ambiguo della politica che è sia funzione del rapporto economico sia apertura ad altre logiche. La contraddizione della forma, che oscilla tra la «funzione» e la autonomia specifica, consente la confezione di politiche del diritto.
Colpisce il completo silenzio circa la vasta opera scientifica di Cerroni che si riscontra nelle recenti storie del marxismo italiano35. Eppure si tratta, secondo Sebastiano Maffettone, di «uno degli autori più significativi del pensiero politico italiano e uno dei pochi di sicuro rilievo internazionale»36. Negli anni settanta la sua produzione ebbe anche un riconoscibile impatto pubblico. Un giurista di scuola togliattiana, Salvatore D’Albergo, ha ribadito che «i contributi più significativi erano stati forniti dalle elaborazioni di Umberto Cerroni, con una copiosa indagine sui rapporti di Marx con il diritto moderno, risultando un retroterra destinato a pesare in una fase successiva nel campo specifico degli studiosi e operatori del vasto campo del diritto positivo, nel quadro dei rapporti tra jus conditum e jus condendum»37. Il contributo teorico di Cerroni si sviluppava entro un apparato critico delle tendenze che negavano la normatività del diritto in nome dell’autogoverno delle masse e rigettavano la teoria generale della norma giuridica in nome della politica di classe38. Sui rischi di «nichilismo giuridico» che dalla critica del vecchio diritto passava alla critica della mediazione giuridica e della norma in quanto tale Cerroni si era soffermato nelle sue pubblicazioni sul diritto sovietico. Il suo studio sul pensiero giuridico sovietico conteneva una precoce diagnosi dei limiti strutturali del socialismo realizzato, letto come una variante di autoritarismo che sterilizzava l’intervento popolare e la vita dei corpi rappresentativi, ed era incentrato sul primato del partito sulla mediazione giuridica istituzionale, sulle specifiche competenze degli organi costituzionali, sulla «generale svalutazione delle norme e delle procedure» in nome della finalità di partito39. Nel modello sovietico «le competenze dello Stato venivano sostituite dalle competenze di partito e le competenze di partito venivano statizzate»40. Gli echi di queste chiusure autocratiche secondo Cerroni venivano trascurati dalle scuole giuridiche della sinistra che reclamavano il diritto eguale, il superamento dello Stato di diritto. In certe declinazioni attorno al diritto diseguale riaffiorava, con la rinuncia al tratto differenziale del diritto-norma, la sordità verso «la problematica dei soggetti individuali» e l’accantonamento del diritto soggettivo come «tutela degli interessi privati nei confronti dell’amministrazione»41. La critica del diritto-norma nell’esperienza sovietica ha comportato una violazione dei diritti soggettivi e delle libertà, un offuscamento della distinzione tra «autonomia individuale e finalità sociali»42. In «uno Stato a fortissime strutture pubbliche» occupa «un posto rilevantissimo» la «tutela degli interessi legittimi», la «tutela del cittadino di fronte alla pubblica amministrazione», la disponibilità di efficaci «strumenti giurisdizionali» da attivare nei confronti del potere reso insindacabile nella sua attività amministrativa43. Cerroni rimarcava la carenza di un coerente sistema delle fonti, la negazione della divisione dei poteri e delle competenze tra i vari organi, la funzione di partito quale organo di governo al di fuori una cornice legale, il mancato primato della legge sugli atti normativi, e afferma la necessità di «un controllo giudiziale» sugli atti degli organi amministrativi, sulla base del riconoscimento della «differenza di interessi tra Stato e individuo»44.
Entro la filosofia marxista la posizione teorica più in sintonia con le categorie kelseniane in Italia rilanciate dalle opere di Bobbio era dunque quella assunta da Cerroni. In una lettera dell’8 agosto 1978 ad A. Macchioro lo stesso Bobbio scriveva: «Anche Cerroni è un marxista, anzi è un dottore di marxismo, un competente, uno specialista, un esegeta cui si ricorre per aver lumi su che cosa abbia detto veramente Marx: bene, hai letto l’intervista, pubblicata dagli Editori Riuniti? Dice le stesse cose che dico io, e lo dice in un modo così bobbiano che quasi quasi mi pareva in certi passi di essere io l’intervistato»45. Nella ricerca di Cerroni il recupero delle tecnicalità del moderno (diritto-norma, regola di maggioranza, sistema della rappresentanza) non comportava la rinuncia a una prospettiva comunista intesa come istanza critica del moderno. La peculiarità tecnica del diritto (norma, forma astraente) e l’ancoraggio agli istituti della politica (rappresentanza) veniva da lui recepita come connotazione imprescindibile di ogni cultura critica. L’evocazione del tradizionale mito del diritto diseguale rivelava come «irrilevante fosse in sostanza il modo specifico del funzionamento delle istituzioni statali» nella cultura marxista. La prospettiva dell’autogoverno delle masse doveva invece superare «la carenza di una mediazione tra democrazia formale e democrazia sociale, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta»46. Serve pertanto la mediazione giuridica e «una teoria delle libertà formali politiche e civili». Il diritto diseguale tendeva al contrario ad assumere una valenza anti-formalistica che si proiettava ben oltre il quadro del «diritto speciale» che si affermava come tendenza effettiva dell’ordinamento sfidato da problemi di inclusione sociale. Come ha notato Poulantzas «il fenomeno importante per qualsiasi studio di scienze politiche, particolarmente per le questioni riguardanti la democrazia capitalista, cioè l’atomizzazione della società civile come necessaria precondizione, come una condizione sincronica della possibilità della sua socializzazione, è stato quasi completamente ignorato dal pensiero marxista. Come esempio di una pressoché unica eccezione si può citare Umberto Cerroni, in particolare Marx e il diritto moderno (1962) e Per una teoria del partito politico in Critica Marxista (1963)»47.
La coppia Stato-società, nella riflessione di Cerroni, costituiva la struttura interpretativa di una considerazione analitica circa la più lunga durata delle forme (diritto, rappresentanza) rispetto ai contenuti materiali del rapporto di produzione. Una società solo civile (atomizzazione mercantile delle relazioni tipiche di una società che produce merci attraverso scambio di merci mediato dal negozio giuridico) era per lui il fondamento della astrazione giuridica e politica che si organizza come sfera necessariamente rappresentativa-generalizzante. Nei suoi lavori Poulantzas riconosceva alla elaborazione di Cerroni, e della scuola dellavolpiana, il merito di aver sfornato «opere importanti» in vista di «una scienza politica marxista»48. La scuola italiana ha tracciato «una scienza marxista dello Stato» incentrandola non in maniera semplicistica sulla volontà di classe ma sulla più complessa coppia società civile e Stato-norma. In tale ottica, lo Stato appariva come il momento di unificazione formale funzionale ai soggetti dello scambio atomistico. Il rilievo che avanzava Poulantzas era che questo riconoscimento della «autonomia specifica del politico», che si esprimeva in forme e norme, riferiva gli istituti astratti alla società civile e così trascendeva i «supporti di strutture» eliminando la lotta di classe. Secondo Poulantzas l’approccio di Cerroni era da contestare quando affidava un ruolo di direzione ai partiti di classe (e non riconosceva il condizionamento del potere politico dei monopoli) mentre non già i partiti ma lo Stato provvedeva a organizzare il mantenimento dei rapporti sociali di dominio49. Lo sforzo di Cerroni era teso a superare l’economicismo della tradizione marxista da lui ritenuta incapace di diagnosticare le condizioni di una politica costruttiva di nuovi rapporti di forza nella società. Il corredo tecnico della liberaldemocrazia, pienamente reintegrato in una visione socialista, non comportava una politica omologata agli schemi liberali di un governo minimo funzionale alle esigenze sistemiche dell’economia capitalistica.
Secondo un rilievo di Cerroni, oltre alla contraddizione reale del capitalismo (socialità versus privatezza dell’appropriazione) operava nel cuore del moderno una specifica contraddizione politica (istituti della democrazia versus regime della accumulazione). Il tempo della politica consentiva un governo progettante dis-funzionale teso alla liberazione del lavoro. Oltre al conflitto nei luoghi della produzione, i rapporti di forza potevano essere curvati grazie alla iniziativa politica dentro la rappresentanza. Per Cerroni il lavoro critico del movimento operaio andava condotto individuando «la contraddizione politica» che accompagna lo Stato rappresentativo, diviso tra aperture alla partecipazione e curvature privatistiche. Nella sua ottica «il problema diviene non tanto quello di una modellistica alternativa di democrazia diretta, quanto quello di una manovra della contraddizione politica che mina lo Stato rappresentativo» tra sovranità e delega, tra democrazia e rapporti di proprietà50. In una tale ottica si rivelava essenziale una accorta dimestichezza con le forme perché, secondo Cerroni, «se non c’è nulla di più anacronistico della concezione della proprietà, non c’è però nulla di altrettanto attuale, invece, della teoria dei diritti e delle libertà politiche»51. Scorporare diritti di libertà e rapporti di proprietà era possibile con una politica alternativa del movimento socialista. Tra i filosofi marxisti Cerroni è il primo ad assumere l’impianto della democrazia-metodo come asse di una teoria critica della democrazia che non ammainava gli obiettivi della trasformazione sociale. Egli precisava: «l’uso del termine democrazia non è più ambiguo se esso connota il metodo della democrazia politica, non il regime sociale. Si impone la distinzione fra la democrazia come metodo e la democrazia come sistema»52. Come metodo, la democrazia si configura come un registro minimo di tecniche che rendono legittima una controversia tra gli attori circa il sistema valoriale preferibile. Quale sistema, la democrazia evoca una ricomposizione delle scissioni costitutive della modernità. La democrazia-sistema può essere un obiettivo dei soggetti dell’innovazione, non esaurisce lo spettro dei contenuti sociali possibili. Entro la rappresentanza, nel piano delle regole si svolge la contesa per innestare, da sinistra, lavoro e cittadinanza, regolazione e socializzazione. Questi valori-interessi possono trionfare ma anche soccombere, senza intaccare l’invariante che è la democrazia-metodo. Che la pratica politica e la visione costituzionale possano aspirare a delle significative integrazioni, a mutazioni qualitative rilevanti rispetto alla cornice della rappresentanza liberale non significa che le procedure minime della competizione entro assetti pluralistici vengano poste in questione. Su queste tematiche dal forte impatto politico-strategico Cerroni sviluppava una polemica anche entro le sedi di partito. In un intervento al comitato centrale del Pci, Cerroni (28 luglio 1978) respingeva il recupero strumentale della nozione di egemonia «talvolta usato per rilanciare il tema della dittatura del proletariato» e metteva in guardia dalla critica del «formalismo» pluralistico presente tra gli intellettuali comunisti. Con il riconoscimento del valore storico universale della democrazia (da cui discende la necessità di non mettere tra virgolette il termine eurocomunismo), non sono state del tutto eliminate «incoerenze della elaborazione» che, così si esprimeva, giustificano gli attacchi degli avversari liberaldemocratici. Cerroni è scettico su certe impostazioni nelle quali egli vedeva il riaffiorare di tendenze, già sperimentate nella Russia, dove la norma giuridica veniva sacrificata e «la politica si configura come l’elemento in cui si risolvono tutte le mediazioni»53. Nelle tematiche attivistiche, che spruzzavano vitalismo classista e irridevano alla certezza del diritto e al principio di legalità, Cerroni scorgeva l’eco delle scuole volontaristiche sovietiche nelle quali «la scienza giuridica si scarica nella politica e in una politica che si identifica attivisticamente con la vita»54. Secondo Cerroni l’eredità del marxismo risultava del tutto appesantita da una «tendenziale identificazione del diritto con la politica» che affogava il momento tecnico della norma e la specificità formale della regolazione giuridica.
Un aggiornamento critico della teoria politica, per rendere la tradizione socialista all’altezza degli sviluppi della modernità, richiedeva il superamento del tradizionale approccio per cui il diritto è riconducibile in maniera semplicistica a volontà di classe. Si chiedeva Cerroni: «come può configurarsi il legislatore moderno, che pone il moderno diritto, come immediato portavoce della classe dominante se esso si identifica (può identificarsi) con un organo legislativo-rappresentativo eletto a suffragio universale e comprendente magari anche rappresentanti politici delle classi dominate?»55. Con le procedurali regole della democrazia, la norma posta risulta dal conflitto sociale che è giocabile con gli strumenti della politica. Il consenso può anche imprimere contenuti sociali alternativi rispetto a quelli connessi alle situazioni proprietarie e ospitati nei codici liberali. Su tali basi diventava concepibile un innesto tra democrazia-metodo e progetto di transizione. Nel quadro teorico di Cerroni, rileva Zolo, si recuperano gli aspetti tecnico-formali dell’ordinamento politico-giuridico e «con le sue rilevanti acquisizioni teoriche sembra contraddire nettamente l’orientamento economicistico e volontaristico sui cui si sostiene lo schema marxista-leninista classico della transizione al comunismo: le nozioni di conquista del potere politico, di dittatura del proletariato e l’idea stessa di transizione ne risultano problematizzate in radice»56. Sulla base della ricezione di alcune categorie di Cerroni, il giurista Francesco Galgano mise a punto un organico progetto di riforma degli istituti dell’economia nel quadro della transizione al socialismo. Egli avvertiva che nella elaborazione della riforma delle forme giuridiche dell’impresa si ricollegava «alla lucida analisi che da anni conduce Umberto Cerroni» sulla presenza di due strade per la transizione al socialismo che egli intende fondare con categorie giuridiche adeguate57.
§3. Dalla filologia alla politica del diritto
Prima della crisi ufficiale, il marxismo italiano aveva messo a punto, insieme alla disponibilità per una manutenzione innovativa della democrazia-metodo, anche un progetto di governo democratico dell’economia come veicolo di una transizione al socialismo. Una tale visione espansiva della democrazia, come governo pubblico dell’economia e non come semplice elezione interna all’unità produttiva, comportava il disegno di una estensione dei moduli del controllo politico. Dalle specifiche istituzioni dello Stato definite secondo le regole del consenso, la politica doveva penetrare anche entro la trama dei rapporti della società civile. Sul piano tecnico-giuridico Francesco Galgano ha formulato un progetto di riforma degli istituti giuridici ed economici in vista di una politica della transizione.
La sua proposta di un governo democratico dell’economia, «l’idea di fondo (enunciata con particolare chiarezza già fin dalle prime pagine de Le istituzioni dell’economia di transizione), è chiaramente ispirata alla più o meno coeva elaborazione di Cerroni (1973, 49 ss.; 1977, 57 ss.)»58. Una congiunzione tra la riflessione teorica (soprattutto sulle orme di quella condotta da Cerroni sulla socializzazione delle forme del potere) e l’elaborazione tecnico-giuridica (quella in particolare di Galgano, uno dei massimi studiosi di diritto commerciale) era alla base dell’ipotesi della transizione come sviluppo integrale della democrazia che dai luoghi del potere pubblico si diramava sin dentro i canoni del sistema economico.
Sulla scorta di talune intuizioni di Marx, contenute soprattutto nel terzo libro del Capitale59, dove si accennava alla scissione tra proprietà e controllo, al ruolo del manager sganciato dal possesso di capitale, Galgano conferiva un ruolo essenziale nei processi di valorizzazione al sistema creditizio e all’amministrazione del capitale che procedeva attraverso banche, politiche economiche, prelievo fiscale. Con il governo pubblico dell’economia, tra i fattori produttivi di valore subentra anche lo Stato, che opera come un «capitalista collettivo». Con un regime del finanziamento a tasso agevolato, con la traslazione dei costi d’impresa a carico dell’intera collettività, con le forme dell’investimento bancario in titoli del debito pubblico, il capitalismo mirava ad arrestare la tendenza alla caduta del profitto, accentuata anche dalle iniziative di lotta dell’organizzazione sindacale e dalle politiche di cittadinanza sociale che erodevano i profitti con la spinta salariale e le pratiche dello scambio politico60. Lo Stato, fino all’insorgere del neoliberismo che su scala mondiale determinò una radicale inversione di rotta nelle politiche sociali, estraeva, con gli strumenti del prelievo fiscale, quote consistenti di reddito dal lavoro e drenava il risparmio tramite le banche, che trasferivano contributi alle imprese (mutui pluriennali a tasso agevolato), appianavano bilanci in cospicua perdita. La legittimazione politica (sovranità) acquisiva così un ruolo strategico nel governo del ciclo e nella mediazione degli interessi economici (proprietà). Per questo, nell’affresco di Galgano, entro il capitalismo maturo «la contraddizione di base è fra pluralismo economico e costituzione politica»61. Il cittadino, con gli strumenti della democrazia, ha la possibilità di penetrare nello spazio della produzione, di ridefinire la categoria giuridica dell’impresa e infrangere il postulato di un potere economico separato dalla determinazione politica degli obiettivi. Nelle riflessioni sul governo democratico dell’economia, la cultura comunista, chiamata a esercitare «una funzione dirigente entro una economia capitalista», dilatava i suoi schemi tradizionali sino a riconoscere un regime di «pluralismo economico» con il ruolo produttivo della grande impresa, la funzione del mercato liberato dalla «soffocante pressione burocratica», delle banche62.
Il governo pubblico dell’economia non coincideva con nuove politiche di nazionalizzazioni che avrebbero incrementato disfunzioni, rendite parassitarie, perdita di competitività. L’esperienza italiana di economia mista (dove anche l’impresa privata è collegata al capitale pubblico) mostrava come «la mano pubblica nell’economia, una mano estesa sul 60 per cento dell’economia, non avesse prodotto alcuna socializzazione, ma burocratizzato la vita economica, assecondato manovre monopolistiche e spinte parassitarie, devalorizzato il capitale e distrutto ricchezza».63 La democratizzazione, come esperienza critica di de-burocratizzazione del pubblico e di limitazione del potere delle tecnocrazie private, si configurava come una crescita multifunzionale del ruolo del politico, che si esplicava nel governo dei meccanismi economici e sociali complessivi tramite un orientamento pubblico dei processi di accumulazione. Oltre al compimento accelerato del progetto costituzionale, uscito dalla fase di congelamento (decentramento, autonomie, programmazione, istituti nuovi di partecipazione dal basso), il modello dei cosiddetti giuristi neotogliattiani postulava una ridefinizione accorta delle competenze del governo pubblico, dell’azione amministrativa e dei canali della spesa pubblica. Veniva invocata una democrazia espansiva che riconduceva anche il sistema d’impresa (non solo di quella pubblica o partecipata ma, nel rispetto dell’autonomia decisionale, anche dell’azienda inserita nelle traiettorie del mercato) entro i canoni della programmazione democratica (mediazione politica, ruolo del parlamento e dell’amministrazione, logica di un piano per lo sviluppo e il condizionamento delle traiettorie d’impresa, dei flussi finanziari). Una cultura nuova della programmazione doveva mostrarsi capace di superare le angustie della direzione d’impronta centralistica di tipo orientativa o vincolante ma anche le illusioni riposte su un mero controllo giurisdizionale o sui meccanismi di vigilanza esercitati dal mercato medesimo. Allo schema di intervento di tipo verticale, con effetto congiunto di semplificazione e moltiplicazione degli spazi di potere (alto-basso; centro-periferia), occorreva aggiungere uno schema di valenza orizzontale che pervasivamente penetrasse nei punti nevralgici dell’organizzazione sociale (governo dell’economia secondo obiettivi sociali nel rispetto del sistema di concorrenza, del mercato e delle sue regole competitive, introduzione della Consob e di moduli di controllo delle grandi imprese)64.
La combinazione di un nuovo nesso amministrativo tra centro e periferia (concepito in vista di una generale diffusione della democrazia che comporta una centralità sistemica del parlamento e dei nuovi consigli regionali, con una camera delle regioni a completare il disegno) e di un potenziamento del profilo decisionale degli organi della programmazione centrale e interregionale, dovrebbe assicurare al tempo stesso una direzione economica efficace (produttivistica e calibrata secondo un ampio respiro strategico) e un coinvolgimento dei cittadini e dei produttori nella gestione della società e delle aziende. Competenza, per definire politiche di piano efficaci nel loro rendimento economico, e partecipazione, per aprire un senso collettivo di responsabilità, sono invocate come risorse indispensabili, e non tra loro alternative.
Ciò sorreggeva una programmazione non verticistica-autoritaria, che anche nelle varianti illuministiche prevalenti nel centro sinistra si sviluppava senza un supporto conoscitivo-partecipativo adeguato. Un governo democratico dell’economia non si rivelava un fattore di inciampo ma diventava un propulsore capace di indirizzare un rilancio del mercato, di determinare una visibile accelerazione dei ritmi dello sviluppo. Per sottrarre l’economico al puro calcolo d’impresa (ossia per «ripudiare la concezione liberista del mercato come autonoma organizzazione economica della società, separata dallo Stato»65), occorreva estendere la competenza della programmazione dello sviluppo rivendicata dal governo politico sino ad abbracciare le preferenze del cittadino e la valutazione delle articolazioni pluraliste della società (democrazia industriale, ruolo espansivo del sindacato oltre i modelli di cogestione pescati come rimedi impotenti dinanzi ai ritrovati della finanza e controllo della proprietà). La democratizzazione dei circuiti decisionali dello Stato-apparato avrebbe ovuto scongelare i pericoli della burocratizzazione sempre associati all’incremento del raggio di intervento pubblico. Il problema di questo approccio era che l’istanza del decentramento non poteva contare su punti periferici tutti uguali ma su zone ampie di incertezza, di differenziazione nelle varie esperienze. E proprio questa pluralità di condizioni e relazioni comportava il rischio di una perdita di controllo, di connessione e di efficacia del decisore centrale. Non su queste basi di una critica immanente ma su un quadro di rigetto ideologico si muovevano le critiche avanzate contro il disegno costituzionale-democratico di espandersi entro i canoni dell’economico (efficace controllo degli investimenti, informazioni sui programmi di sviluppo aziendale, predisposizione di bilanci tipo per le società e i gruppi).
Riccardo Guastini parlava di un revisionismo neo-togliattiano, incardinato su di una deleteria inversione del rapporto tra struttura e sovrastruttura nel processo di estrazione del plusvalore e caratterizzato dalla estraneità rispetto al «lessico concettuale e lessicale del marxismo»66. Critiche di segno analogo si trovavano anche in Giovanni Tarello per il quale il progetto di socializzazione del potere politico, come propedeutica alla discussione del sistema proprietario, imboccava una strada «estranea alla tradizione dottrinale marxista la attribuzione di valore democratico di per sé alle strutture formali giuridiche del parlamentarismo e del decentramento amministrativo»67. Le proposte di governo democratico dell’economia vennero rigettate perché imperniate sulla sfera della circolazione-distribuzione e non saldamente ancorate sul terreno della produzione immediata. Per i critici il conflitto si svolgeva entro la fabbrica e non riguardava la della «contraddizione politica» tra forme della democrazia e rapporti capitalistici di produzione. Le sovrastrutture non erano rilevanti per l’azione di cambiamento. Su basi diverse si muoveva la contestazione di Toni Negri che non rigettava il «cerchio della circolazione» ovvero il piano giuridico-formale ma lo indirizzava in altre manifestazioni. I critici da sinistra del «neo-togliattismo giuridico» respingevano la riconduzione della genesi dal plusvalore ai programmi statali di utilizzazione a fini produttivi del risparmio, l’interpretazione dell’inflazione come fattore di riequilibrio e degli strumenti fiscali e rimarcano con forza la distanza dei processi politici di estrazione del plusvalore dai luoghi centrali della produzione e dai meccanismi classici dell’appropriazione privata68. Anche Negri polemizzava con le posizioni «riformiste» di Cerroni e riteneva da rigettare il feticismo istituzionale che le accompagnava69. Contro le letture positive delle mediazioni, degli organi costituzionali, e quindi delle suggestioni per l’autonomia del politico, Negri registrava più in generale un antagonismo fondamentale tra il comando (lo Stato) e il sociale e quindi affermava che la critica dell’economia politica avrebbe dovuto tradursi «immediatamente in critica dell’amministrazione, della Costituzione, dello Stato»70.
Anche per Negri, come per Cerroni e Galgano, era evidente la funzione politica nei processi di valorizzazione ma nella sua ottica questo non autorizzava un lavoro entro le mediazioni politico- rappresentative. Se in Cerroni il capitale costante, l’innesto della tecnologia e del sapere nei processi produttivi, attenuava il momento della coercizione o sussunzione formale del lavoro al capitale71, per Negri il processo di valorizzazione non confidava nella tecnica ma nel comando, da cui non era disgiunta la «violenza del rapporto di produzione» cui si contrapponeva «la resistenza» che matura nella «catena di lavorazione»72. Contro la macchina e il comando affiorava «l’emergenza della resistenza operaia» al potere capitalistico. Contro ogni idea di programmazione democratica dell’economia con politiche pubbliche adottate dallo Stato-piano occorreva la rivolta politica che immette crisi nel meccanismo economico di sviluppo e lo arresta. Secondo Negri la riproduzione del sistema invadeva sempre nuovi ambiti del sociale e così i nuovi percorsi della valorizzazione aprivano inediti processi conflittuali con al centro la questione dell’abbattimento degli istituti politici di dominio. La subordinazione del salario al profitto diventava una condizione generale, oltre la forza- lavoro, abbracciava «i proletari in divisa», le casalinghe73. L’antagonismo nuovo si riversava nel sociale, non era chiuso nella fabbrica e non aveva nelle istituzioni un punto di riferimento e di mediazione. Per Negri il tardo capitalismo con la compenetrazione pervasiva tra Stato e società superava la legge del valore e nella diffusione di un astratto lavoro sociale su cui sorvegliava un apparato statale di comando realizzava «la estensione del comando capitalistico al sociale»74. Il sociale che si ribellava contro il potere svelava l’attualità del comunismo come pratica conflittuale molecolare. Ciò spingeva Negri a una requisitoria aspra contro le categorie di Gramsci («vecchie questioni da demistificare») e Togliatti (una vera «ideologia estranea e nemica al movimento operaio»), in nome della soggettività, del «vivere insubordinato», della microfisica della rivolta e del comunismo inteso come «processo di disgregazioni continue», distruzione della forma75.
Entrambe le prospettive, quella costruttivistica di Cerroni-Galgano e quella nichilistica di Negri uscirono sconfitte dalle dinamiche degli anni Settanta. Il progetto di un governo democratico dell’economia rappresentava lo sforzo analitico più ambizioso e tecnicamente perseguibile per governare i processi economici e sociali all’insegna di un disegno di grande innovazione capace di proiettarsi oltre lo schematismo tra pianificazione dirigista e autonomia di mercato. Con i suoi limiti, questo approccio, che puntava a una riforma generale dell’economia e dello Stato, cercava di concepire un allargamento della democrazia, nel tentativo di conciliare piano e mercato, partecipazione e crescita. La proposta cercava di tracciare un sentiero nel percorso della transizione a un assetto sociale più avanzato ritenuto in gestazione nelle economie occidentali. Un articolato lavoro giuridico per una nuova legislazione nel campo economico industriale (ridefinire il ruolo giuridico dell’impresa, allargamento degli spazi d’informazione in un quadro di mercato de-burocratizzato e pluralista, ripensamento della programmazione entro un’ottica non dirigistica) veniva presentato come un momento di un lavoro in divenire per un mutamento sociale possibile in occidente («Il discorso riguarda i modi, e non già i fini, della transizione»76). Il limite della riflessione degli anni ’70 non era quello indicato da Zolo che contestava a Cerroni, in nome dei processi di rifeudalizzazione della sfera pubblica in atto, la presenza nelle «una notevole fiducia nelle virtù rivoluzionarie della democrazia formale» o principio rappresentativo proprio dello schema liberal- democratico 77. Il punto essenziale era che mentre il pensiero della sinistra, non solo i Italia, accarezzava l’idea della transizione al socialismo, come prospettiva praticabile nel tempo presente, la controffensiva delle forze dominanti, con la Trilaterale e la comparsa del nuovo conservatorismo anglo-americano, annunciava la ramificazione di un mondo diverso, con un più forte impatto delle dinamiche della internazionalizzazione della finanza e del mercato.
Come efficace sintesi di quella stagione si può estendere alla cultura italiana quanto ha scritto Frank Deppe sulla vicenda della cultura della sinistra tedesca. «Dalla fine degli anni Settanta, la consapevolezza dei deficit della teoria politica nella tradizione del pensiero marxista ha svolto un ruolo importante nel mio lavoro. Ciò divenne sempre più evidente alla fine del cosiddetto dibattito sulla genesi e derivazione statale. Si trattava di un tipico esempio di un “marxismo accademico” in gran parte distaccato dalla pratica e in definitiva solo auto-riflessivo, soprattutto perché la concentrazione sullo Stato – data l’importanza della società civile nel senso di Gramsci – comportava un restringimento del concetto di politica. Nelle opere di Louis Althusser e Nicos Poulantzas, Ralph Miliband, Perry Anderson, Göran Therborn, nei primi lavori di Bob Jessop e nei contributi di colleghi italiani come Umberto Cerroni, che si riferivano principalmente alla teoria dell'egemonia di Antonio Gramsci, la questione veniva sollevata. La teoria politica del marxismo si sviluppa a partire dalla fine degli anni ’60 nel contesto delle lotte dei movimenti operai e intellettuali nell’Europa occidentale. Bisogna considerare anche la sconfitta delle forze sociali e politiche basate sul marxismo, evidente fin dalla metà degli anni ’70, e che divenne poi più evidente nella grande svolta degli anni ’80»78. La sconfitta teorico-politica della sinistra europea, nel disegno di contestazione di assetti e istituti del capitalismo, ha in certa misura agevolato anche la disgregazione del cosiddetto socialismo realizzato.
Comments
Orbene, quali sono i tratti costitutivi e costanti del revisionismo? quale, se è lecito usare una formulazione weberiana, il ‘tipo ideale’ in cui esso rientra? I tratti che concorrono a definire il ‘tipo ideale’ del revisionismo mi sembrano i seguenti: a) la tesi che il socialismo possa essere perseguito e raggiunto senza una rottura di carattere radicale con il vecchio Stato; b) la tesi che tra democrazia e socialismo vi sia una continuità istituzionale; c) la tesi che premessa necessaria al socialismo sia una nuova direzione egemonica, senza un potere proletario organizzato in un nuovo Stato; d) la tesi che lo Stato borghese possa mutare di segno qualora il proletariato (o il suo partito o una coalizione che comprenda il suo partito) acquisisca il comando delle leve di governo in una struttura istituzionale immutata; e) la tesi, definitivamente abbandonata da Marx ed Engels nel 1871, che la classe operaia possa “semplicemente prendere possesso della macchina dello Stato [borghese] bell’e pronta e volgerla ai propri fini”.
Questa schematica elencazione è sufficiente per comprendere che le teorie revisionistiche, imperanti nella sinistra moderata e radicale degli anni Settanta e via via confluite nella ideologia borghese, da cui erano nate, durante i decenni successivi sino alle manifestazioni tardo-epigoniche attuali, sono nel migliore dei casi, come è stato detto con espressione icastica, ‘teorie della rivolu-zione senza rivoluzione’. In esse al concetto di ‘rottura’ che è implicito in una concezione del potere proletario viene sostituito il concetto di ‘processualità progressiva’, che delinea, per l’appunto, un processo nel corso del quale le classi lavoratrici o le forze genericamente progressive acquistano una sempre maggiore influenza nella cosiddetta ‘società civile’, conquistano sempre più vasti alleati, ma non pervengono mai, per dirla con il Gramsci dell’«Ordine Nuovo» (1919-’20), alla “creazione di un nuovo tipo di Stato… e sostituzione di esso allo Stato democratico-parlamentare”. La “teoria della rivoluzione senza rivoluzione” è, nella storia del movimento operaio, un ininterrotto filo giallo che va da Kautsky all’ultimo Togliatti e ai loro epigoni. Questo filo è da spezzare.