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Paul Baran, “Saggi marxisti”
di Alessandro Visalli
Paul Alexander Baran è stato uno dei più rilevanti economisti marxisti del novecento, nato in Ucraina nel 1909, da genitore socialista e menscevico, e morto in California nel 1964, negli ultimi tredici anni della sua vita fu l’unico docente ordinario marxista dell’accademia americana. Nel suo primo libro di grandissima rilevanza, de “Il surplus economico e la teoria marxista dello sviluppo”, viene formulata da “teoria della dipendenza” che identifica nell’arretratezza del terzo mondo il sostegno decisivo ai processi di accumulazione nei paesi industrializzati, superando la loro tendenza intrinseca alla stagnazione. Del resto questa tesi si connette sia con la ricostruzione della teoria marxista proposta da Paul Sweezy un decennio prima, sia con la sistemazione della teoria del capitalismo monopolistico. La permanente tendenza alla stagnazione è combattuta appunto con l’estrazione di risorse dai paesi tenuti in stato semi-coloniale: tesi che sarà sistemata nel suo libro del 1966 (postumo) con lo stesso Sweezy “Il capitale monopolistico”.
La sua formazione avviene in Europa, a Berlino, Francoforte sul Meno dove incontra Rudolf Hilferding e Parigi; quindi nel 1939 si trasferisce negli Stati Uniti e continua gli studi ad Harvard dove acquisisce il master in economia. Fa anche un’esperienza come ricercatore alla Federal Reserch bank di New York. Dal 1949 collabora alla rivista Montly Review, dalla quale sono tratti i presenti saggi, che coprono praticamente l’intero arco della sua produzione. Durante questi studi Baran si reca a Cuba, nel 1960, a Mosca, in Iran ed in Jugoslavia.
La raccolta dei saggi pubblicati nel 1976 nella collana viola dell’Einaudi, e tratti da Montly Review durante un giro decisivo degli anni cinquanta e sessanta, comprende il saggio “Sulla natura del marxismo”, del 1958, poco dopo la pubblicazione del suo primo capolavoro, e l’anno dopo quello “Riflessioni sul sottoconsumo”. Ma prima del capolavoro del 1957 si trovano “Meglio meno ma meglio”, del 1950, sull’avvio della guerra fredda ed il suo significato, e “Progresso economico e surplus economico”, del 1953, come “Riflessioni sulla programmazione e lo sviluppo economico in India”, del 1956.
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Il partito di Mattarella all’incasso
di Raffaele Sciortino
Se vogliamo andare oltre gli aspetti psicopatologici della situazione politica italica, è utile fare due considerazioni generali.
Primo. Già in occasione del varo del governo gialloverde pesante era stata l’ipoteca richiesta da Mattarella sia in tema di dicastero dell’economia sia più in generale a garanzia dell’affidabilità italiana nei confronti dei mercati e della UE. In questo annetto si è poi visto che anche il premier, un oscuro paglietta dallo sguardo sornione, era della cerchia del pdr, se non da subito sicuramente lo è diventato, nello stile trasformista tipico del suo ceto (e da sincero adepto di Padre Pio). L’obiettivo era chiarissimo: controllare, ostacolare, imbalsamare, svuotare i due partiti populisti per distruggere quanto di pericolosamente sociale e anti-establishment c’era nel consenso elettorale raccolto, per poi al momento giusto…
Se è così, nello show agostano - dietro i movimenti confusi delle comparse messi in risalto dalle cronache bulimiche dei media buone solo a rim(bambin)ire la gente - il protagonista principale è stato il partito di Mattarella: lo Stato profondo con le sue tecnocrazie ministeriali, Bankitalia, la magistratura, i corpi armati, gli incroci trasversali con la Chiesa, i media e il partito del Pil, probabilmente anche con una parte delle reti di potere meridionali spaventate dal progetto di regionalismo spinto della Lega. Tutti uniti a evitare un secondo round di scontro con la Ue sulla prossima legge di bilancio, uno scontro cui preferiscono uno sconto in cambio degli scalpi politici da offrire a Bruxelles.
Secondo. La crisi italica va provincializzata, collocandola sull’orizzonte europeo. Qui assistiamo ad una vera e propria crisi di governabilità dei sistemi politici di stati cruciali: dal Brexit - con il tragicomico mix di colpi di mano dei conservatori, immobilismo dei laboristi, spinte secessioniste scozzesi - alla Spagna priva da un pezzo di governi centrali stabili e a rischio secessionismo dei ricchi catalano, alla Francia scossa dal più importante scontro sociale di classe, in Occidente, dallo scoppio della crisi globale.
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Imprevisto in M.O.: vincono Siria, Iraq, Yemen. E anche l'Iran sta meglio
Il papa e gli altri corrono ai ripari, la Russia tra un colpo al cerchio e uno alla botte
di Fulvio Grimaldi
Jorge Mario Bergoglio, oggi Francesco, ha inviato un appello-protesta. A Trump? A Mohamed bin Salman? A Netaniahu? A Erdogan? No, a Bashar el Assad
Siria, ce ne fossero
Da otto anni la Siria, Stato libero, laico, di impronta socialista, multinazionale e multiconfessionale, baluardo arabo della decolonizzazione, della resistenza alle aggressioni e ai complotti da vicino e lontano, del sostegno alla lotta di liberazione dei palestinesi e dei popoli arabi, della solidarietà ai paesi che si oppongono all’imperialismo, è sotto attacco da parte di una coalizione internazionale che vanta il più grande potere militare, economico e finanziario del mondo. Da otto anni, con l’appoggio dell’Iran e di Hezbollah e quello prezioso, ma piuttosto selettivo, della Russia, il popolo siriano subisce il terrorismo di bande di mercenari jihadisti reclutate, istruite, armate e pagate da Usa, Nato, Israele, monarchie del Golfo, Turchia e la devastazione umana e materiale di bombardamenti Usa, Nato e israeliani, contro i quali non dispone di quelle difese che la Russia avrebbe potuto e dovuto fornirle, come le ha fornite alla Turchia, all’India che martirizza il Kashmir e ad altri paesi.
Da otto anni, incredibilmente, il popolo, l’esercito, le forze popolari siriane stanno sostenendo questa aggressione di potenze infinitamente superiori, a costo di inenarrabili sacrifici, perdite, sofferenze, dando al mondo degli oppressi, aggrediti, offesi e sfruttati un esempio di eroismo e una prospettiva di vittoria. Già per questo può vantare vittoria contro un vero e proprio asse del male. Vittoria alla quale ora non manca che la liberazione degli ultimi territori invasi e occupati dal nemico: la provincia di Idlib, santuario del terrorismo internazionale espulso dal resto della Siria, protetto dall’esercito e dalle armi di Erdogan, e il Nord-Est, un terzo del territorio nazionale, in Occidente chiamato Rojava.
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Tra Salvini e Open society: il futuro dell’anticapitalismo nell’inverno della sinistra
di Militant
Unione europea, questione nazionale e migranti hanno scavato l’ennesimo solco nella sinistra radicale. Eppure questo decennio di contrapposizione (esclusivamente) intellettuale lascia dietro di sé macerie su cui costruire ben poco. Non saremo forse di fronte a false flags su cui ci accaniamo in assenza di lotte di classe dal basso? Favorito dalla chiacchiera social, ben presto il confronto è scaduto sul piano della scomunica: “rossobruni” contro “dirittoumanisti” è l’unico terreno di confronto, il punto di mediazione è l’anatema vicendevole. Siamo davvero sicuri che da ciò potrà nascere qualcosa di fecondo nella piccola ridotta dell’anticapitalismo italiano? È lecito dubitarne. La polarizzazione ha invece schiacciato le due posizioni a ridosso l’una del “sovranismo” reazionario, l’altra del liberalismo illuminato, fronte entro cui trovano posto il Pd, la Chiesa di Francesco e le Ong quali modus ideologico dell’attivismo umanitario. Portare acqua al mulino altrui, soprattutto quando questo è nel caso o nell’altro chiaramente avverso alle sorti di una società migliore, può costituire una strategia? Il dubbio, fin troppo evidente, impone una verifica di ciò che siamo diventati, riconoscendo preliminarmente però un dato di fatto: in assenza di lotte di classe (cioè di lotte politiche, non di vertenze sindacali), questa esasperata conflittualità avviene su di un piano irrilevante. Non ci stiamo giocando nessuna partita politica: perché dunque tanto amore per la scomunica? Forse perché, consapevoli di ciò, sappiamo di giocare senza farci male, simulando una dialettica che in altri tempi avrebbe avuto una sostanza, e oggi è solo ritualità. Qui c’è bisogno di demolire gli idoli che di volta in volta innalziamo a difesa delle nostre ragioni, che molto spesso si rilevano parziali, incomplete, inefficaci.
Bisogna dunque sottoporre a verifica molti dei topos di questo decennio triste. Il populismo elettoralmente e culturalmente trionfante ha scardinato il giochetto entro cui, tutto sommato, vivacchiavamo: da una parte il babau berlusconiano, dall’altra il fronte progressista.
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Il femminismo è uno dei fronti della lotta di classe
Rebeca Martinez intervista Nancy Fraser
Gente come Hillary Clinton ha macchiato il nome del femminismo, associandolo al neoliberismo e alle politiche contro la working class. Per Nancy Fraser, femminismo vuol dire rovesciare il potere delle corporation, non dare loro un volto femminile
Negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescita di un movimento femminista working class, dalle proteste globali contro la violenza domestica e le molestie sul luogo di lavoro fino agli scioperi di massa che hanno caratterizzato l’8 marzo in Spagna, Polonia e oltre. Eventi che ci parlano di un femminismo anti-sistemico, capace di andare oltre la variante liberale e individualistica promossa da gente come Hillary Clinton.
Un’espressione di questa nuova ondata è il manifesto Femminismo per il 99% (Laterza, 2019). Le autrici insistono sul fatto che il femminismo non sia un’alternativa alla lotta di classe, ma rappresenti invece un fronte decisivo nella lotta per un mondo libero dal capitalismo e da tutte le forme di oppressione.
Nancy Fraser è co-autrice del manifesto, insieme a Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya. Rebeca Martínez di Vientosur ha parlato con lei del libro, della sua critica al cosiddetto «liberalismo progressista», e della sua idea di un femminismo che metta la voce delle donne working class e razzializzate al centro della scena.
* * * *
Cos’è esattamente il Femminismo per il 99%, e perché scrivere oggi un manifesto del genere?
Un manifesto è uno scritto breve che si vorrebbe non accademico, ma popolare e accessibile. L’ho scritto insieme alla femminista italiana Cinzia Arruzza, che vive a New York, e a Tithi Bhattacharya, donna anglo-indiana che insegna negli Stati Uniti.
Questa è la prima volta dal ‘68 – sono stata un’attivista negli anni Sessanta e Settanta – che ho scritto un libro di vera propaganda politica. D’altra parte, sono soprattutto una professoressa di filosofia.
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SottoZero
Scenari controversi: quanto positivi possono essere i tassi negativi?
di Francesco Cappello
Riceviamo da Francesco Cappello, autore del libro "Ricchezza fittizia povertà artificiosa. Paradigmi economici", questo interessante articolo sulla fase economica
Pro e contro il tasso negativo. Un mondo capovolto
Accendere un mutuo a tasso negativo significa che sarai tenuto a rimborsare un pò meno del capitale preso in prestito! Vi sareste mai aspettati che una Banca privata potesse proporre alla propria clientela mutui a 10 anni a tasso fisso negativo come ha cominciato a fare Jyske Bank (- 0,5%) che peraltro non è sola in questa apparente follia. Nordea Bank, ad esempio, vi permette la stipulazione di mutui per acquisto casa a 20 anni, allo 0% e prestiti con tassi negativi fino a 30 anni!
Comprare denaro è diventato assai conveniente. Ti permettono di restituire meno di quanto hai preso in prestito. Sembra un miracolo, non vi pare? (1)
Le banche accettano una piccola perdita rinunciando, apparentemente, alla remunerazione del capitale e quindi del servizio prestato. La ragione ufficiale sarebbe che prestare denaro a tassi elevati è divenuto rischioso, nel senso che i clienti della banca, nel caso in cui non riuscissero a rimborsare il prestito, rischierebbero di infliggerle una perdita maggiore di quella più contenuta nel caso in cui viceversa la banca accetti di praticare tassi sotto lo zero.
Ci si potrebbe chiedere come fa a sopravvivere una banca che non prende interessi ovvero come funziona la contabilità bancaria o quali altri attività remunerano il suo operato? Ecco, il fenomeno in atto, se non bastassero tutte le prove ed evidenze sul funzionamento delle banche e della creazione di moneta scritturale dal nulla, ce ne propone una di grande evidenza empirica, ormai sotto gli occhi di tutti. È il caso di dire che la contabilità bancaria, è venuta ormai allo scoperto… Quando la banca crea moneta scritturale dal nulla, tramite prestiti a interesse positivo, si comporta come un falsario legalizzato con l’aggravante (rispetto al falsario) di aggiungere al reddito monetario, derivante dalla creazione di moneta dal nulla, gli interessi.
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Tagliare i rami secchi
Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare
di Carlo Formenti e Onofrio Romano
Da qualche giorno è approdato in libreria, per i tipi di DeriveApprodi, "Tagliare i rami secchi", un dialogo fra me e Onofrio Romano sulla necessità di lasciarci alle spalle una serie di dogmi marxisti, se vogliamo che il messaggio di fondo dell'autore del "Capitale" - già attualizzato nel dilemma socialismo o barbarie - conservi tutta la sua potenza e non si trasformi in un balbettio accademico senza presa sul mondo reale. Diamo per scontato che saremo accusati di revisionismo dai militanti dei cespugli post neo comunisti. Poco importa: non è a loro che il nostro discorso è rivolto ma a tutti coloro che intuiscono che per lottare contro il capitalismo occorre dotarsi di nuovi strumenti culturali. Pubblico qui di seguito il testo integrale della prefazione e l'immagine della copertina
È luogo comune, quando si discute dell’attualità del marxismo, distinguere fra Marx e i marxismi. Questa distinzione serve a tutelare la purezza del pensiero del maestro dalle perversioni di cui si sono resi responsabili i discepoli che tale pensiero hanno malamente interpretato e applicato. Il punto di vista adottato dagli autori di questo libro è diverso: partendo dal presupposto che l’originario corpus teorico marxiano - accanto a straordinari elementi di attualità sia sul piano teorico che su quello politico - contiene tesi datate, incomplete e contraddittorie, assume che non lo si possa contrapporre né separare dai tentativi storici di calarlo nella realtà. Pensiamo che sia più utile cercare di capire quali concetti - presenti tanto in Marx quanto nelle varie tradizioni marxiste, anche se con diverse sfumature – vadano archiviati, in quanto non servono più alla trasformazione rivoluzionaria dell’esistente o rischiano addirittura di contribuire alla sua conservazione. Questa nostra provocazione non nutre intenzioni liquidatorie nei confronti del marxismo; al contrario: siamo convinti che tagliare i rami secchi della teoria, e abiurare certi articoli di fede delle ideologie che ha ispirato, significhi riattivarne la carica sovversiva nei confronti della società capitalista e ridare energia e prospettive alla speranza rivoluzionaria.
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Gli spazzini invisibili di internet
di Emily Drabinski
Un esercito nascosto di decine di migliaia di moderatori di contenuti è al lavoro ogni giorno – in condizioni spesso spaventose – per rendere Internet il pianeta abitabile che conosciamo. All’origine di tutto questo c’è la Silicon Valley
A Manila, nelle Filippine, nel cuore del grande centro commerciale di Eastwood del distretto di Quezon City, sorge un monumento «agli uomini e le donne che si sono impegnati con passione nel settore dell’outsourcing dei processi aziendali». Un uomo e una donna con cuffie e valigette 24 ore si rivolgono a un futuro radioso circondati da uccelli volanti d’acciaio. A pochi passi da lì c’è il bar Coffee Bean & Tea Leaf, dove Sarah T. Roberts ha intervistato un gruppo di moderatori di contenuti commerciali per il suo saggio intitolato Behind the Screen, il cui sottotitolo recita La moderazione dei contenuti all’ombra dei social media. La moderazione dei contenuti commerciali, o Ccm, è uno dei lavori più sporchi di questa stagione in cui internet è in mano alle grandi aziende tecnologiche. Il lavoro consiste nel rivedere, vagliare e rimuovere contenuti violenti, razzisti e inquietanti pubblicati sia su social network come Facebook e YouTube, sia nella sezione commenti dei siti web dei principali marchi.
Roberts racconta come quegli stessi fattori economici e sociali che producono per noi esperienze digitali quotidiane relativamente sterilizzate, producono anche una classe globale di lavoratori della moderazione dei contenuti commerciali, legati l’uno all’altro da condizioni di lavoro fatte di contingenza, salari al ribasso, velocità, carichi di lavoro sempre più alti, e sulla continua esposizione ai peggiori elementi dell’umanità, a qualunque ora del giorno o della notte. Roberts ha intervistato lavoratori di diverse categorie: filippini che lavorano normalmente nel settore dell’outsourcing (chiamato tecnicamente Bpo, Business Process Outsourcing) e accettano lavori di Ccm quando non sono disponibili posizioni più competitive nei call-center; oppure giovani laureati di San Francisco i cui grandi sogni tecnologici si trasformano in realtà di precariato a tempo indeterminato; fino a dirigenti di aziende appaltatrici americane che promuovono l’americanità dei loro moderatori umani, secondo una xenofobia pienamente in sintonia con la politica americana contemporanea.
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Ecco come uscire dall'euro
di Programma 101
Man mano che si avvicina la manifestazione LIBERIAMO L'ITALIA del 12 ottobre, la prima che rivendichi apertamente l'uscita dalla gabbia dell'euro, crescono, sia le adesioni sia coloro i quali si domandano: "Ma ce l'abbiamo le idee chiare su come rendere possibile l'uscita? Quali dovranno essere le misure politiche ed economiche affinché essa non sia un fiasco?". Domande legittime a cui questo documento, frutto di anni e anni di riflessioni e discussioni, offre la risposta
1. Riconquista della sovranità monetaria e controllo pubblico della Banca d'Italia
Il primo atto da compiere consiste nel ripristino del controllo pubblico della Banca d'Italia. Essa dovrà mettere in circolazione la nuova lira, sostenere la politica economica del governo, fungere da acquirente di ultima istanza dei titoli del debito pubblico ad un tasso d'interesse sostenibile. In questo modo lo Stato non avrà più bisogno di finanziarsi sui mercati internazionali. La Banca d'Italia - a differenza della Bce che ha come unico scopo la stabilità dei prezzi - dovrà dunque essere uno strumento decisivo di una Nuova Politica Economica volta alla lotta alla disoccupazione ed alla povertà, alla tutela dei risparmi, finalizzata al bene comune e non agli interessi di pochi.
2. Gestione dei nuovi cambi e dell'inflazione
Su questi temi il terrorismo del blocco eurista imperversa sui media. Si tratta di paure assolutamente infondate. L'Italia ha bisogno di svalutare rispetto alla Germania, ma questo non deve far pensare ad una svalutazione catastrofica rispetto alle altre monete. In caso di rottura completa dell'Eurozona, diversi studi prevedono anzi una sostanziale stabilità della nuova lira verso l'insieme delle monete dei singoli paesi, con svalutazioni (peraltro neppure troppo elevate) verso Germania, Olanda ed Austria ed addirittura rivalutazioni verso Francia, Spagna e Belgio. Le esagerazioni sono dunque fuori luogo, pura materia di propaganda, mentre la svalutazione con la Germania - che proprio grazie alla sua moneta svalutata ha un pazzesco surplus commerciale vicino al 10% del Pil - è assolutamente necessaria, ma non solo per l'Italia.
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Ab uno disce omnis (Da uno capisci come sono tutti. Virgilio)
di Fulvio Grimaldi
Il cosmopolita di Volturara appula... Piccoli sovranisti crescono?
“Sequitur clades, forte an dolo principis incertum” “Si verificò poi un disastro, non si sa se accidentale o per dolo del principe”. (Tacito, Annales, Libro XV)
“E tu, onore di pianti, Ettore, avrai, / Ove fia santo e lagrimato il sangue/Per la patria versato, e finchè il Sole / Risplenderà su le sciagure umane”.(Ugo Foscolo, I Sepolcri)
Ho fatto un sogno.
Non è quello di Martin Luther King, che non mi ha mai ispirato, come nemmeno quello di Nelson Mandela, o di Mahatma Ghandi, tre personaggi che sono riusciti, grazie al loro consociativismo con l’esistente, a combinare in sé, per le sedicenti sinistre, un martirio da nonviolenti per la libertà e, per l’élite, la conservazione nell’ordine delle cose garantito dal divide et imperasociale del capitale. Preferivo i sogni di Malcolm X, Lumumba e della guerriglia comunista antibritannica in India.
Comunque ho fatto un sogno. Poi diventato un incubo. E dato che il vissuto capita che si riversi nel sognato, ecco che in braccio a un Morfeo malevolo s’è ripetuto l’incubo a occhi aperti della standing ovation tributato al premier bis, in parallelo ,dalle volpi PD e dai gattini tafazzisti 5 Stelle, fino a ieri decisi a escludersi vicendevolmente dal globo terracqueo. Da fuori penetrano i cimbali, le fanfare, i tamburi della festa di Borse, rendimenti Btp, spread, tassi d’interesse, mercati tutti, l’intero establishment mondiale, addirittura Satana nelle vesti di Bill Gates.
Il mondo (di sopra e anche di mezzo) sorride a Conte
“Questo inciucio con il PD, che è sempre quello dei regali alle banche, di Mafia Capitale e di Bibbiano, mi fa schifo…. No grazie, meglio le urne”. (Davide Barillari, consigliere regionale del M5S)
Viva viva il presidente del Consiglio! Un premier sfornato dai grandi studi legali al servizio delle élites finanziarie e, dunque, vindice e chierico di UE, Usa, Trump, Nato, von der Leyden, TAV, Guaidò (e perciò Cia), Bergoglio e Padre Pio (lo stimmatizzato squadrista mena-socialisti del 1922).
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La faccia del trasformismo
di Eros Barone
...Viva Arlecchini
E burattini,
E teste fini;
Viva le maschere
D’ogni paese,
Viva chi sa tener l’orecchie tese.
Quante cadute
Si son vedute!
Chi perse il credito,
Chi perse il fiato,
Chi la collottola
E chi lo Stato.
Ma capofitti
Cascaron gli asini;
Noi valentuomini
Siam sempre ritti,
Mangiando i frutti
Del mal di tutti...
Giuseppe Giusti, Il brindisi di Girella.
In un articolo intitolato Crisi organica, venditori “napoletani” e ‘mezze classi’, articolo pubblicato in questo sito il 17 maggio dell’anno scorso, scrivevo che in quelle settimane la ricerca di un accordo fra i vincitori della tornata elettorale del 4 marzo 2018, vale a dire tra Di Maio e Salvini, rinnovava, all’insegna della “napoletanizzazione” della società italiana, che è ormai, sia nel bene sia nel male, un dato acquisito del costume nazionale) la storiella di quei due napoletani, dei quali uno vendette all’altro acciughe marce, mentre l’altro gliele pagò con lire false: “te ne accorgerai al momento di friggere”, “te ne accorgerai al momento di contare”.
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La vita delle scienze
Giancarlo Cinini* intervista Bruno Latour**
I filosofi sono sul sentiero di guerra”, c’è scritto sulla maglietta che indossa Bruno Latour. Come sia fatto questo sentiero di guerra è la domanda che non gli abbiamo fatto, ma ci viene da pensare a quei percorsi che un tempo, tra il ’15 e il ’18, si inerpicavano sopra i monti dell’Adamello e dell’Ortles e sui quali si confondevano i soldati, le nevi, le ferrate, la roccia e le pallottole: l’antropologo francese il suo sentiero filosofico l’ha percorso proprio dove i segni della natura e della cultura si sono sempre mescolati. Si è occupato soprattutto delle pratiche con le quali gli occidentali costruiscono la conoscenza su ciò che chiamano oggetti della natura, indagando come un etnografo i modi e i miti del fare scienza.
È l’autore della Actor-network theory, la teoria secondo cui ogni fatto sociale e ogni oggetto scientifico è il prodotto di un’intricata rete di relazioni e alleanze, tra umani e non-umani. Ha cominciato nel 1979, con Laboratory Life, studiando una particolare tribù del mondo occidentale: i neuroendocrinologi del Salk Laboratory di La Jolla, in California. La ricerca etnologica fu condotta a quattro mani con il sociologo Steve Woolgar e mirava a ricostruire i protocolli di ricerca, le tecniche di misura, gli strumenti, i miti dei ricercatori, che si mescolavano agli oggetti studiati.
Dieci anni dopo scriverà il suo primo saggio teorico, un’introduzione alla sociologia della scienza: La scienza in azione (1987), dove propose di “aprire la ‘scatola nera’ di Pandora” e di entrare nelle pratiche della tecnoscienza, un calderone fatto di laboratori, istituzioni e peer-review di riviste internazionali. Si è occupato del caso di Louis Pasteur in Microbi – Un trattato scientifico-politico (1984). Il grande scienziato Pasteur, racconta Latour, è un uomo abile, capace di spostarsi dai problemi dell’igiene pubblica alla fermentazione delle birre industriali, dalle malattie negli allevamenti alla pastorizzazione; Latour ne descrive il gioco di alleanze dentro e fuori le scienze, il modo in cui Pasteur trova ogni volta nuovi alleati, microbi, politici, allevatori, urbanisti preoccupati per l’igiene della città, produttori di birra.
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Rousseau, democrazie e decisioni
di Alessandro Visalli
Quel che sta accadendo nella trattativa per formare un nuovo governo italiano, tra il Movimento Cinque Stelle ed ilPartito Democratico è su un primo piano banale: le due forze politiche hanno i numeri per formare una maggioranza parlamentare e, come prevedono le procedure costituzionali, stanno cercando di verificare se ci sono le condizioni per farlo.
Trattano, dunque. Sui nomi dei ministri e sottosegretari, come ovvio, e sul programma. Data la situazione e la fretta che copre l’intera vicenda stanno mettendo carri davanti a buoi e discutono tutto insieme di nomi e programmi, anzi, fissano le caselle mentre cercano di mettere a fuoco il programma.
La situazione negoziale appare, del resto, altamente complessa, prendiamo qualche appunto sui contesti di questa dall’esterno verso l’interno:
a- Il quadro geopolitico, siamo al decimo anno di una ristrutturazione della governance mondiale, avviata con il segnale di rottura del 2008, nella quale ha ripreso centralità la mano pubblica (per lo più attraverso la surroga opaca delle Banche Centrali) e si sono definiti almeno tre piani di scontro globale, quello tra gli Usa in cerca di un nuovo modello che sostituisca l’obsoleto modello impostato a suo tempo dai conservatori (Nixon e Reagan) e portato avanti con entusiasmo dai democratici di “terza via” (da Clinton a Obama) e i suoi tre sfidanti, la Cina, l’Europa a guida tedesca e la Russia. La congiuntura si prevede tempestosa e forse prelude ad un nuovo punto di svolta, si sentono scricchiolii di nuova rottura finanziaria, lo scontro commerciale porta in fine i limiti di funzionamento del modello tedesco, la brexit sembra preludere ad un riposizionamento storico oltre la Manica del non-continentale anglosassone, la necessità impone al semi-egemone americano di non avere tutti nemici e quindi sembra avvicinarlo alla Francia, nuovo potenziale centro d’ordine europeo;
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Geopolitica di Macron
di Pierluigi Fagan
Torna sulle nostre pagine Pierluigi Fagan, che oggi analizza la proiezione geopolitica della Francia del Presidente Emmanuel Macron
Restiamo sulla notizia più recente, dopo l’incontro G7 di Biarrtiz, l’incontro annuale che il presidente francese ha col suo corpo diplomatico che si svolto l’altro ieri 27 agosto. Non è ancora pubblica la relazione 2019, ma è on line quella 2018. Per chi segue le questioni europee e la geopolitica, ma anche la politica nazionale, potrebbe esser istruttivo dargli almeno un scorsa per vedere che tipo di ampiezza di agenda venne svolta l’anno scorso.
Immaginare un Presidente del Consiglio italiano che affronta quei temi con quella prospettiva è inimmaginabile. Purtroppo, la differenza di peso tra Francia ed Italia è tutta lì. C’entra ovviamente la storia, la cultura, le tradizioni e molto altro ma è bene tenerne conto quando parliamo delle questioni europee o anti-europee poiché quella storia, quella cultura e quelle tradizioni pesano in entrambi i casi, sia che si voglia immaginare l’Italia in Europa, sia che la si voglia immaginare fuori. Il contesto delle relazioni internazionali e della geopolitica è quello ed anzi, viepiù si vorrebbe assumere autonomia o come molti dicono “sovranità”, maggiore dovrebbe esser la sofisticatezza di visione, alleanze, bilanciamenti, contrappesi necessari per intraprendere strade più ambiziose, quindi più rischiose.
La sovranità è nulla senza la potenza e la potenza se non la si ha la si dovrebbe costruire altrimenti si rimane alla petizione di principio, al post su Facebook o su Twitter, alla chiacchiera amatoriale, all’articolino dell’economista di periferia, ai vagiti di pianto da impotenza perché il mondo è brutto, cattivo, neoliberista ed anche un po’ imperialista.
Macron è sicuro: “stiamo vivendo la fine dell’egemonia occidentale”
Il discorso fatto da Macron quest’anno, subito dopo il G7, ha indubbiamente elementi di grande rilevanza e la prima cosa da notare è il silenzio con cui è stato accolto da parte dei principali organi di stampa occidentali, inclusi quelli che hanno una attenzione speciale alle questioni internazionali.
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Per combattere le disuguaglianze bisogna abbandonare subito le idee di Milton Friedman
Richard Feloni intervista il Nobel Joseph Stiglitz
- Joseph Stiglitz ritiene che la popolarità dell’ideologia del compianto Milton Friedman, vincitore come lui del premio Nobel per l’Economia, sia un fattore significativo alla base della forte disuguaglianza e della crescita modesta che caratterizzano attualmente gli Stati Uniti
- Friedman diceva che in un libero mercato, una società quotata in borsa esiste soltanto per servire i propri azionisti
- Per Stiglitz esistono abbondanti prove del fatto che queste condizioni che caratterizzano il libero mercato non possano essere soddisfatte
- Questo dibattito è in corso dagli anni Trenta del secolo scorso, ma sembra che il vento stia cambiando a favore di chi sostiene che si debba dare la priorità alla creazione di valore a lungo termine, togliendo importanza ai risultati a breve termine
All’incontro annuale del World Economic Forum, che si è tenuto a Davos (Svizzera) a gennaio, il Ceo di Business Insider Henry Blodget ha spiegato i motivi per cui è arrivato il momento di un “capitalismo migliore” (in inglese better capitalism, come il nome di questa rubrica).
L’attuale disuguaglianza che regna negli Stati Uniti, ha spiegato, è perlopiù legata a una reazione al ristagno iniziato negli anni Settanta del secolo scorso e durato troppo a lungo – una fase in cui la caccia ai profitti trimestrali ha dato luogo al cosiddetto short-termism, cioè l’ossessione tossica per i risultati a breve termine.
Quando Blodget ha avviato la discussione del panel che aveva organizzato, Joseph Stiglitz della Columbia University ha detto, riferendosi alle persone che a suo parere sono responsabili di quest’ideologia prevalente: “Voglio sottolineare che, in questo periodo, non è stato solo un gruppo di azionisti attivisti ma si è trattato anche di Milton Friedman”, il compianto economista e vincitore del premio Nobel (come Stiglitz). “E Friedman aveva torto.”
Nella sua influente raccolta di saggi del 1962, Capitalismo e libertà, Friedman proclamò che in un’economia libera “un’impresa ha una, e solo una, responsabilità sociale: usare le proprie risorse e condurre attività studiate per incrementare i suoi profitti, fintantoché rispetti le regole del gioco, vale a dire fintantoché pratichi una concorrenza libera e aperta, senza inganni o frodi”.
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È vero che la Germania può fare deficit e noi no?
di Thomas Fazi
Benvenuti a una nuova puntata della nostra rubrica “Le fake news economiche di Luigi Marattin”. In questi giorni i liberisti de’ noantri si stanno dando da fare per spiegarci perché la Germania – a differenza di noi – si può permettere lo stimolo fiscale da 50 miliardi recentemente annunciato dal governo tedesco. Ovviamente non poteva mancare un contributo del nostro economista preferito.
In un suo post, Marattin ci spiega che la ragione per cui la Germania può – e noi no – è che «la Germania ha “risparmiato” in tempi di ciclo favorevole (portando il debito al 60 per cento del PIL e conseguendo addirittura un avanzo di bilancio), al fine di poter spendere – e spendere tanto – in tempi di ciclo meno favorevole». Prosegue poi Marattin: «Per poter utilizzare la “politica fiscale controciclica” in sicurezza» – si dice anticiclica ma vabbè – «occorre aver fatto anche l’altro pezzo: tenere i conti in ordine quando le cose vanno meglio». Lezione che, secondo Marattin, sarebbe rimasta «sempre inattuata in Italia».
Quanto c’è di vero nell’analisi di Marattin? Ben poco, come vedremo. Tanto per cominciare, come abbiamo visto nelle prime due puntate (qui e qui), in un paese che emette la propria valuta non c’è alcuna relazione tra rapporto debito/PIL – e dunque sull’aver “tenuto i conti in ordine” in passato – e lo “spazio fiscale”, cioè la possibilità o meno di fare deficit; altrimenti non si capirebbe come faccia il Giappone, con un rapporto debito/PIL del 250 per cento, il doppio di quello italiano, a mantenere da più di vent’anni un disavanzo primario – cioè uno stimolo fiscale – permanente nell’ordine del 4-5 per cento del PIL. Altro discorso per i paesi dell’eurozona, che sono sottoposti al ricatto permanente dei mercati e alle decisioni arbitrarie della BCE, ma questo a prescindere dall’entità del loro debito pubblico.
Ciò detto, è vero che la Germania in passato ha avuto un comportamento fiscale più virtuoso del nostro, “risparmiando” più dell’Italia in tempi di ciclo favorevole?
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Vincoli di bilancio UE
La Germania è in crisi, l’Italia ne approfitti
Marco Biscella intervista Sergio Cesaratto
Le economie dei Paesi Ocse sono in frenata e per FT a Bruxelles si studia un nuovo Patto di stabilità più soft. E’ il momento giusto per dare una svolta keynesiana
Nel giorno in cui l’Ocse segnala il rallentamento del Pil dell’area nel secondo trimestre (+0,5% rispetto al +0,6% dei primi tre mesi del 2019) con una frenata che tocca tutti i principali Paesi, soprattutto quelli europei, Germania compresa (-0,1%, contro un +0,4%) e l’Italia ancora fanalino di coda con la sua crescita zero, il Financial Times ha ieri rilanciato l’indiscrezione (in parte poi smentita dalla portavoce Ue) che la Commissione europea voglia riscrivere il Patto di stabilità e crescita per renderlo più soft. Secondo il quotidiano economico inglese, a Bruxelles starebbe girando un documento, per ora tecnico e informale, che prevede la riscrittura delle regole di bilancio e l’allentamento dei vincoli. È forse venuto il momento di riscrivere il Patto di stabilità e di crescita in chiave più espansiva? “Verrebbe da dire: finalmente e se non ora quando – risponde Sergio Cesaratto, professore di economia politica all’Università di Siena – perché l’Europa ha contribuito a destabilizzare l’economia mondiale. Ma il processo non sarà agevole, i segnali sono ancora timidi, soprattutto in Germania, e l’Italia, alle prese con la crisi di governo, rischia di lasciarsi sfuggire la grande occasione di poter indirizzare la riforma delle regole Ue”.
* * * *
Procediamo con ordine. Innanzitutto, perché l’Europa ha destabilizzato l’economia mondiale?
Perché finora è stata guidata da un modello di crescita basato sulle esportazioni, un modello che la Germania ha adottato, costringendo un po’ gli altri Paesi ad andarle appresso. Deflazione salariale e austerity hanno significato, e significano, che l’unico sbocco di un euro debole sono i mercati esterni alla Ue, oggi alle prese con tensioni commerciali che ne frenano la capacità di assorbimento, a partire da Usa e Cina. Quindi questo sarebbe il momento opportuno per dismettere il modello tedesco, ripensandolo e orientandolo più sulla domanda interna. Il che significa più giustizia sociale, attraverso salari più alti e spesa pubblica.
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Pupari, pupi, fatine dai capelli turchini, gatti e volpi
E i bambini fanno ooohh
di Fulvio Grimaldi
Il non detto della crisi di governo. Con una considerazione di Mario Monforte
Al momento in cui finisco questo pezzo, non si sa ancora che quadro uscirà e con quali personaggi. Ma non importa. Si sa a quale parete il quadro verrà appeso.
Metafore
I bambini fanno oooh nella canzone di Povia, davanti al teatrino dove i cavalieri si menano, le donzelle si rapiscono, gli innamorati si incontrano, i draghi si trafiggono, qualcuno fa le voci e il burattinaio muove tutto e incassa. Ma i bambini, per non dire “noi”, non lo vedono, credono, seguono, parteggiano, si spaventano, si consolano, berciano, ridono, pagano e vanno a casa soddisfatti dello spettacolo. Arte popolare. Poi c’è l’alta letteratura, tipo l’Iliade, l’Odissea, Pinocchio…Le vicende dell’eroe paiono frutto del caso, degli incontri, della fortuna, delle qualità o carenze sue e degli altri. Troia brucia perché piè veloce Achille è più forte di Ettore, Ulisse si scorda di Penelope perché affascinato da Nausicaa glaucopide (dagli occhi azzurri). A Pinocchio succede di tutto, perlopiù di brutto, perché è uno scapestrato con la scuola, un buono col babbo, un boccalone con il Gatto e la Volpe, un coraggioso, uno sfaticato, un fatina-dipendente.
Omero lo ammette: a governare tutto sono gli dei, un po’ si accapigliano, un po’ si accordano. Si divertono un mondo a vedere darsele i burattini. Ed è Atena che, a dispetto di Afrodite, fa prevalere Achille su Ettore. La proprietà sulla donna, di Menelao su Elena, deve prevaricare i di lei amore e libertà. Collodi, che pratica i travisamenti del Giallo, ce lo fa intendere tra mille depistaggi. A fatica. Ma poi ce lo spiega chiaro e tondo Carmelo Bene col suo “Pinocchio, ovvero lo spettacolo della Provvidenza”. Il taumaturgo, cinico, autoritario, ipocrita, ricattatore, è la fatina. Potente, ricca, in un palazzo con tanta servitù e, ai suoi ordini, medici (per il controllo del corpo) e direttori di circo (per la gestione dello spirito).
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Il partito dell'Italexit
di Moreno Pasquinelli
Nella crisi sistemica il naufragio del governo giallo-verde apre una nuova fase politica. Che fase è? E soprattutto, che si deve fare affinché la protesta popolare sfociata nelle elezioni del 4 marzo 2018 non si disperda? DentroProgramma 101è in corso una discussione di cui questo contributo di Pasquinelli è frutto. Lo sottoponiamo all'attenzione dei lettori come di tutti i patrioti
Brexit
Una settimana fa il ministro conservatore britannico per la Brexit, Steve Barclay, nel disperato tentativo di riguadagnare terreno, ha firmato la legge che cancella l'European communities Act - Chapter 68, la legge del 1972 che sanciva l'adozione delle leggi europee da parte del Regno Unito. "Un passo storico per il ritorno dei poteri legislativi da Bruxelles al Regno Unito", così recita il comunicato del governo britannico. L'annullamento dell'European communities Act entrerà in vigore il 31 ottobre, data in cui la Gran Bretagna lascerà l'Unione europea, con o senza accordo.
Un atto politico di un Paese indipendente deciso a riguadagnare la propria sovranità. Sottolineo "atto politico" perché da anni il campo sovranista italiano — a dimostrazione di quanto sia penetrata in ogni dove la concezione economicistica tipica dei capitalisti — discetta, fino al limite del funambolismo tecnicistico, su miracolistiche misure di carattere economico e monetario che potrebbero essere adottate a Trattati europei vigenti, cioè senza uscire dalla Unione europea e dall'eurozona.
Quando non si tratta di velleitari escamotage, queste misure sono presentate come "Piano A" di un governo sovranista e popolare che decide di adottarle e, ove Bruxelles lo vieti, allora, e solo allora, si dovrebbe procedere per l'uscita ("Piano B").
A mali estremi, estremi rimedi
Il problema del "Piano A - Piano B" è che con ciò ci si immagina che tra il governo sovranista e l'Unione possa darsi un negoziato all'acqua di rose, ecumenico, rispettoso della correttezza che distingue gli amici. Come la vicenda della Brexit insegna si tratta di un'idea campata per aria. Tutto depone per il contrario: i nemici della nostra sovranità ricorreranno ad ogni mezzo per impedire al Paese di sfuggire alla gabbia in cui siamo reclusi.
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Una gabbia distorta che produce mostri
di Claudio Conti
Una gabbia, costruita pure male. L’Unione Europea, scriviamo spesso,ha il curioso “dono” di produrre i problemi e le diseguaglianze che dice di voler superare. Naturalmente, diciamo anche questi risultati contrari alle dichiarazioni programmatiche dei “leader” sono ampiamente volute dai paesi più forti dell’area, che hanno tutto da guadagnare dall’indebolimento ulteriore di quelli già deboli (quelli mediterranei, in primo luogo). Del resto, una volta costruito un mercato comune è “normale” che il deficit di qualche area sia il surplus di qualche altra.
Averne la conferma dai migliori analisti dei giornali economici dovrebbe riempirci di soddisfazione, invece ci fa rabbia. Perché se i fatti sono così chiari è davvero sorprendente che si faccia tanto lavoro per nasconderli, in primo luogo da parte di chi dice di essere “democratico” o addirittura “di sinistra”.
Questo editoriale di Guido Salerno Aletta precisa ancora una volta, nei dettagli “tecnici” (ma non incomprensibili) quel circuito i per cui più risparmi sulla spesa pubblica, più ti indebiti, più chiudono attività economiche, più si riducono i consumi e si blocca la mitica “crescita”. Che sarebbe a parole l’obbiettivo per cui vengono promosse le politiche di austerità
Qual’è il problema? Che se si impongono le stesse politiche economiche e monetarie a paesi con struttura economico-finanziaria diversi (e i 27 della UE sono tutti diversi tra loro) il risultato sarà – è, dopo quasi 30 anni dagli accordi di Maastricht – una asimmetria maggiore, non minore.
Aver posto il livello del debito come primo e quasi unico parametro guida per le “raccomandazioni” della Commissione Europea ha generato il “paradosso italiano”. Un paese che da quasi 30 anni diminuisce la spesa pubblica, tanto da avere ogni anno un avanzo primario (lo Stato spende meno di quello che incassa con le entrate fiscali), ma che vede il proprio debito aumentare altrettanto costantemente.
Perché accade? Perché oltre alla spesa per le amministrazioni, beni, servizi, investimenti, ecc, lo Stato deve pagare gli interessi annualmente maturati sul debito agli investitori che comprano i “nostri” titoli di Stato. E siccome questi interessi sono più alti della media europea (c’è uno spread, detto altrimenti), ecco che uno Stato virtuosissimo, il più “risparmioso” d’Europa, ne esce ogni anno più malconcio.
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La crisi economica italiana ai tempi del sovranismo
E come provare a invertire la rotta
di Guglielmo Forges Davanzati*
Questa nota è una sintesi del mio intervento al dibattito su “Sovranismo e populismo” tenutosi a Racale (LE) il 30 luglio 2019, nell’ambito del Festival “Filofollia”. Si articola in tre punti, che riguardano: (i) il c.d. declino economico italiano; (ii) l’accentuarsi degli squilibri regionali fra Nord e Sud del Paese, con particolare riferimento all’’autonomia differenziata’; (iii) l’individuazione di misure di contrasto alla recessione1.
1. L’Italia non cresce perché continua a ridursi la produttività del lavoro, in una spirale che dura da oltre venti anni e che segnala valori della produttività quasi costantemente inferiori alla media europea nel periodo considerato. La bassa crescita della produttività del lavoro è imputabile a due fattori: il calo degli investimenti pubblici e privati e la continua riduzione della quota dei salari sul Pil. Proviamo a capire perché ciò è accaduto, a partire da alcune considerazioni sulla storia recente della nostra economia.
Terminato il ‘miracolo economico’ degli anni cinquanta-sessanta e dunque la stagione di una crescita trainata dalle esportazioni, negli anni settanta si registra un imponente ciclo di lotte operaie. Aumentano gli scioperi, diminuiscono le ore lavorate, aumentano i salari monetari, con conseguente inflazione conflittuale e peggioramento del saldo delle partite correnti. Le imprese del ‘triangolo industriale’, nel tentativo di contenere la conflittualità operaia e recuperare competitività di prezzo, avviano processi di decentramento produttivo, spostando la produzione in unità di piccole dimensioni inizialmente nel Nord Est.
Si indebolisce, per conseguenza, il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e l’inflazione – che negli anni precedenti era estremamente alta anche per il doppio shock petrolifero del 1973 e del 1979 – comincia a essere ridotta. Dopo il picco raggiunto nel 1982 (14.7%), per tutti gli anni ottanta il tasso di inflazione continua a scendere, arrivando al 4.7% del 1987. Ciò è imputabile, da un lato, alla fine della stagione del conflitto dentro e fuori la fabbrica, e dunque all’avvio di una fase di moderazione salariale, dall’altro, all’aumento dei tassi di interesse finalizzato ad attirare capitali speculativi per riequilibrare la bilancia dei pagamenti.
L’aumento dei tassi di interesse ha però effetti di segno negativo sulla dinamica degli investimenti privati, non compensati da significativi aumenti degli investimenti pubblici. Negli anni ottanta, l’aumento della spesa pubblica è prevalentemente dovuta a un aumento della spesa corrente (che passa dal 35% del 1980 al 45% in rapporto al Pil del 1990), finalizzata a neutralizzare – definitivamente – i residui di conflittualità ereditati dal decennio precedente.
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Sineddoche Bibbiano
di Il Pedante
Una patologia sociale?
Confesso che quando alcuni amici mi hanno chiesto un commento strutturato sull'inchiesta di Bibbiano, ho dubitato di potercela fare. Perché se fosse confermata anche solo una frazione di ciò che i magistrati contestano agli operatori sociali, alle famiglie affidatarie e agli amministratori della Val d’Enza, ci troveremmo di fronte alla più pura epifania del male. Da quei fatti emergerebbe una volontà sadica e più che bestiale di traumatizzare a vita i più innocenti e di gettare le loro famiglie in uno strazio senza fine e senza scampo – perché imposto dalla legge – spezzando in un sol colpo i vincoli sociali e della carne. Per un genitore è insopportabile il pensiero di quei piccoli che si addormentano tra le lacrime, lontani da casa, indotti a odiare chi li ama, in certi casi maltrattati, affidati a squilibrati o molestati sessualmente (!), mentre padri e madri inviano lettere e regali che non saranno mai recapitati e pregano di uscire da un incubo che non osano denunciare per non perdere l’ultima speranza di riabbracciare i loro figli. Con buona pace del codice penale, i reati qui ipotizzati superano per gravità l’omicidio: perché fanno morire l’anima, non il corpo. Svuotano le persone e le lasciano vivere nel dolore.
I presunti abusi della Val d’Enza sono, appunto, presunti fino a sentenza. Ma il loro modus operandi e il ricorrere di alcuni protagonisti hanno fatto riemergere il ricordo di altri allontanamenti famigliari poi rivelatisi, anche in giudizio, gravemente ingiustificati, e dell'irreparabile scia di dolore che hanno inciso nelle comunità colpite. Il clamore delle cronache ha inoltre ridato forza alla denuncia di poche voci finora isolate, di un sistema che anche quando resta nel perimetro di una legalità formale conferisce agli operatori sociali un potere senza effettivi contrappesi in grado di strappare i figli alle famiglie per anni con le più arbitrarie delle motivazioni: dalla «inadeguatezza educativa» all'indigenza, dalla conflittualità tra i coniugi al disordine domestico, dalla «ipostimolazione» dei figli alla «immaturità» dei genitori. Queste fattispecie non sarebbero residuali ma prevalenti, come si apprende da un'indagine parlamentare conclusasi nel 2018:
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Karl Marx fra storia, interpretazione e attualità (1818-2018)
Introduzione
di Luca Mocarelli, Sebastiano Nerozzi
Nel 2018 l’opera e la figura di Karl Marx sono tornate, ancora una volta, al centro dell’attenzione. Il bicentenario della sua nascita ha suscitato un intrecciarsi di riflessioni intorno alla rilevanza, al significato e alla attualità del suo pensiero. Numerose conferenze internazionali sono state organizzate già nel 2017 (per i 150 anni del primo libro del Capitale e i 100 anni della rivoluzione d’ottobre) e molte altre sono seguite nel 2018. Marx è stato celebrato anche sulle pagine del «Financial Times»1 e dell’«Economist»2 , con articoli dai toni a volte paradossali, ma tutt’altro che critici, in ogni caso concordi nel riconoscere la perdurante importanza del suo pensiero nel mondo di oggi. A Marx sono state dedicate opere cinematografiche di un certo pregio.
In questa temperie si sono rianimati alcuni dei filoni di ricerca che avevano composto il dibattito intellettuale nel marxismo del secondo dopoguerra: economisti, storici, filosofi sono tornati ad interrogarsi intorno al pensiero di Marx e ai suoi possibili sviluppi, offrendo nuove prospettive o consolidando e sviluppando quelle esistenti. La stessa riedizione, ancora in corso, delle opere di Marx ed Engels, frutto di un meticoloso lavoro di sistemazione editoriale e di ricostruzione filologica, ha stimolato nuove letture del suo complesso pensiero e della sua tortuosa evoluzione. Il cantiere del pensiero marxiano è tornato, insomma, a brulicare di nuova vita.
Un recente convegno, organizzato da alcune fra le maggiori università lombarde (Università Cattolica del Sacro Cuore, Università di Milano-Bicocca; Università di Bergamo; Università di Pavia), ha contribuito a questo rinnovato dibattito ospitando un ricco confronto fra studiosi di diverse discipline e di diversi orientamenti teorici intorno alla complessa eredità del pensatore di Treviri3 . Questo volume mira, appunto, a raccogliere alcune delle relazioni esposte in quella occasione e a presentare nuovi spunti di ricerca e tentativi di sintesi che aiutino a fare un bilancio, inevitabilmente parziale e provvisorio, del pensiero di Marx e del suo impatto sulla storia degli ultimi due secoli. Ma, prima di addentrarci nelle tematiche affrontate dagli autori, ci sembra necessario chiederci: perché questo ritorno di interesse per Marx? Perché continuare ancora, dopo due secoli, a parlare di lui?
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Invenzione, centralità e fine del lavoro
di Michel Freyssenet*
Sebbene ci sembri inerente alla condizione umana, il lavoro appare essere non solo come una parola ed un concetto storicamente datato, ma anche come una realtà inventata, costruita nel 18° secolo europeo. Esso corrisponderebbe all'emergere sia del rapporto salariale che del lavoratore libero che vende la sua capacità di lavorare. La diffusione e l'egemonia progressiva di questo rapporto sociale, che si traduce nel fatto che è diventato la base ed il riferimento per percepire, pensare ed organizzare ogni altra attività, avrebbe avuto come conseguenza un'estensione del termine lavoro anche alle attività che non riguardano il rapporto salariale, come il «lavoro domestico», il «lavoro autonomo»... Ne sarebbe risultata una naturalizzazione del lavoro, da allora in poi percepito come una realtà universale esistente da sempre. Così come è avvenuto per l'economia, avremmo proiettato sul passato e sulle altre società questa realtà contemporanea, e che in origine era anche geograficamente circoscritta, che è il lavoro, anziché riconoscere quali sono state le condizioni storiche, e non necessarie, che lo hanno fatto emergere tre secoli fa. Non sarebbe stato nemmeno socialmente necessario fin dall'inizio, come è poi divenuto al giorno d'oggi in quanto condizione di accesso alle risorse necessarie alla vita nelle nostre società. Se la sua storicità implica un giorno in cui logicamente avverrà la sua scomparsa, ragionevolmente questo non può essere pronosticato in un avvenire immediato, in quanto ciò presuppone la marginalizzazione del rapporto sociale che lo ha fatto nascere.
Se da qualche tempo, nelle scienze sociali, viene usata volentieri l'espressione «invenzione di...», per indicare il carattere storico e localizzato del concetto di cui si parla, come per esempio il mercato o la disoccupazione, potrebbe apparire più azzardato utilizzarlo per il lavoro, poiché questo appare essere come consustanziale alla condizione umana. Eppure, tuttavia, la questione va esaminata.
Il lavoro ed il dominio economico a cui esso è collegato verrebbero definiti e delimitati , dopo l'eliminazione delle particolarità che essi rappresenterebbero in ciascuna delle società conosciute, per mezzo delle attività che contribuiscono alla riproduzione materiale della vita umana e sociale.
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Il sedicente sovranismo della Lega e la subalternità della sinistra
di Renato Caputo
O si contrastano le politiche di austerità con posizioni più credibili rispetto a quelle inscenate dall’ultimo governo sedicente sovranista, o non sarà possibile impedire un nuovo governo di destra radicale
Uno dei motivi del successo della Lega all’interno di gruppi sociali subalterni è la posizioni populista pseudo sovranista che si spaccia come antitetica all’Unione europea. L’attuale sottomissione italiana ai trattati capestro dell’Ue, sarebbe dovuta, secondo la narrazione leghista, principalmente a Prodi, ossia al politicante divenuto simbolo del centro-sinistra di governo. Al contrario la Lega tende a presentarsi – con la complicità dei mezzi di comunicazione, degli ex alleati di governo e persino dalle ex opposizioni tanto di centro-destra, quanto sedicenti di centro-sinistra o di sinistra di governo – come una forza politica sovranista e antieuropeista. Anzi, proprio quest’ultima è una delle principali accuse che gli rivolgeva la sedicente ex opposizione di centro-sinistra, oltre a quella di mettere in discussione le tradizionali alleanze italiane con gli Usa e l’Ue, a causa dei buoni rapporti della Lega con i politicanti che governano la Russia.
Si è trattato, in effetti, dell’ennesimo assist da parte delle ex opposizioni (sedicenti) di centro-destra e centro-sinistra al governo Conte e, in modo particolare, alla Lega – che pur essendo stata sino a ora sostanzialmente succube ai poteri forti europeisti e particolarmente subalterna agli Stati uniti guidati da Trump e ai loro più stretti alleati della destra sionista al governo sulla Palestina occupata – possono continuare a spacciarsi dinanzi ai subalterni come una forza sinceramente sovranista e antieuropeista. In tal modo la Lega riesce nel difficilissimo compito di apparire al contempo come una credibile forza di governo, che assicurerebbe la continuità in politica estera, e al contempo come forza di opposizione ai poteri forti, in primo luogo europeisti che mettono in discussione la sovranità italiana.
È quindi evidente che, nonostante l’operazione gattopardesca di Zingaretti, nel Pd è rimasta fino alla crisi di governo prevalente la linea assunta da Renzi subito dopo le elezioni, ovvero godersi, mangiando pop-corn, lo spettacolo disastroso rappresentato dal governo giallo-verde. Continuando su questa nefasta strada, rischiamo con le prossime elezioni di tenerci a lungo la Lega come principale forza di governo e il Pd come principale forza di opposizione, con la prospettiva di continuare a passare dalla padella nella brace.
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