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Sei luoghi comuni sull’Africa
di Vincenzo Comito
L’Africa, un continente senza storia, eternamente stagnante, indifferenziato al suo interno e i cui abitanti hanno come unico scopo la fuga verso l’Europa. Luoghi comuni che alimentano il pregiudizio eurocentrico e ostacolano ogni cooperazione
Il caso dell’Africa appare abbastanza rappresentativo dello scarso livello di conoscenza del mondo nell’opinione pubblica dei nostri paesi, ignoranza che i media e il mondo politico non fanno quasi nulla per ridurre, anzi alimentano ad arte. Spesso la conoscenza della realtà si limita così ad alcuni luoghi comuni senza molto fondamento.
Abbiamo individuato a questo proposito sei questioni che riguardano il continente africano e sulle quali le idee che circolano appaiono perlomeno confuse. E non dovrebbero essere peraltro le sole, anche se sono forse le più vistose.
Un continente senza storia?
Per la gran parte delle persone istruite la storia dell’Africa ha inizio al massimo con l’arrivo degli europei nel continente, prima con la tratta dei neri verso le Americhe, poi con la colonizzazione vera e propria. In realtà il continente ha una storia molto antica e molto ricca. È sostanzialmente dagli anni cinquanta del Novecento che gli storici africani e stranieri hanno cominciato a far conoscerla meglio (Piot, 2023, a).
Un’analoga errata convinzione si focalizza sulla pretesa assenza di una tradizione scritta nel continente. La scoperta recente da parte della stampa occidentale dell’esistenza di una grande raccolta di testi manoscritti a Timbuctu basterebbe da sola a testimoniare il contrario. Si pensa infine da più parti che l’Africa sia stata colonizzata da molto tempo. In realtà è solo a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo che i vari paesi del continente sono caduti dentro la dominazione europea. Quindi il controllo pieno da parte degli stranieri è durato meno di un secolo.
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Palestina e Israele: la pace è impossibile
di ALFATAU
Quanto sta avvenendo in Palestina non è certo una novità. La Striscia di Gaza è una delle aree che residuano dal lungo conflitto tra Palestinesi e Stato di Israele, a partire dalla costituzione di quest’ultimo (1948): qui è infatti concentrata una parte numericamente assai consistente dei discendenti dei Palestinesi che la creazione dello Stato ebraico ha espulso dalla Palestina storica.
È una delle aree più densamente popolate al mondo, 10 km di larghezza per 41 di lunghezza, dove vivono 2,3 milioni di Palestinesi, in 365 km quadrati: una superficie equivalente a quella della provincia di Prato, una delle più piccole dell’Italia, che conta però meno di 260mila abitanti (707 abitanti per kmq) contro gli oltre 4.000 per kmq a Gaza.
Israele in Palestina
Nel 2008-2009 le forze armate israeliane furono impiegate per 23 giorni in un attacco contro la Striscia di Gaza. Nel 2012 vi fu un’altra operazione israeliana, della durata di 8 giorni. Lo stesso avvenne nel 2014, per 50 giorni. Nel 2021, per altri 11 giorni.
Complessivamente, il costo umano dei ripetuti interventi delle forze armate israeliane, sia nella Striscia che nelle altre aree della Palestina (Cisgiordania, Gerusalemme Est), è stato di 6.407 caduti Palestinesi, tra civili e combattenti, a fronte di 308 Israeliani; i feriti sono stati rispettivamente 152.560 Palestinesi e 6.307 Israeliani. Sottolineiamo per chiarezza che questo bilancio è relativo ai soli anni dopo il 2008, vale a dire dopo che il movimento islamista Hamas ha acquisito nel 2007 il controllo politico e militare della Striscia di Gaza.
Aggiungiamo che dal settembre 2000, data della cosiddetta seconda Intifada (“rivolta”, in arabo), provocata dalla celebre “passeggiata” dell’allora capo del partito Likud israeliano, illustre comandante militare e più volte primo ministro, Ariel Sharon, nella spianata della Moschee, luogo sacro dell’Islam, poi estesasi a tutta la Palestina – Israele ha fatto passare nei suoi vari luoghi di detenzione oltre 135mila Palestinesi.
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Marx, l’ecologia e il comunismo per Kohei Saito
Il ritorno dell’alternativa socialismo o barbarie
di Matteo Pirazzoli
Kohei Saito è uno studioso marxista giapponese che con i suoi scritti su Marx e l’ecologia ha venduto centinaia di migliaia di copie nel suo paese. Il libro pubblicato in Giappone non è al momento disponibile in lingue europee, ma molti dei saggi principali dell’autore sono presenti nel testo Marx in the Anthropocene: Toward the Idea of Degrowth Communism (Cambridge: Cambridge University Press, 2023). Pubblichiamo in anteprima la recensione al libro, parte del numero 6 di Egemonia che uscirà nelle prossime due settimane. Questo lavoro non parla direttamente dell’importanza strategica della classe lavoratrice per il movimento ecologistica, ma rappresenta un’indagine delle condizioni di possibilità teoriche e metodologiche di tale alleanza. Esse non sono per nulla scontate, soprattutto se si considera la storia del movimento comunista del secolo scorso e i suoi difficili rapporti con concetti quali «crescita» e «ambientalismo».
* * * *
Soggetto e oggetto nella prassi trasformativa della natura
A partire dallo studio degli appunti di Marx posteriori all’edizione del primo libro del Capitale Saito indaga come il Moro abbia approfondito studi scientifici e naturalistici, conferendo alla questione ecologica un’importanza rilevante nell’analisi del capitalismo, in un panorama di parziale revisione del suo metodo che lo ha portato a studi più attenti delle società pre-capitalistiche da un lato e, dall’altro, a un approfondimento sulle implicazioni ideologiche e non puramente tecniche dello sviluppo delle forze produttive sotto il dominio del capitale.
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Ologramma 4.0
di Martina Bastianello
1. Premessa sentimental-metodologica
Ricordate gli ologrammi in 2D inflazionati negli anni Ottanta? Ci troviamo davanti una figura che se osserviamo da una posizione frontale presenta determinate caratteristiche, ma se la osserviamo assumendo un punto di vista laterale, cambia. Ricordo alcuni santini cangianti (spuntavano dalle borsette delle nonne) con il santo di turno che si presentava a mani giunte se osservato frontalmente, benedicente se osservato lateralmente. Con il Piano Scuola 4.0 succede qualcosa di simile: guardato frontalmente può apparire come un’occasione imperdibile, facendo slittare la prospettiva la visione cambia. E la seconda immagine, quella che si produce grazie allo slittamento laterale, diffonde un bagliore inquietante. L’inquietudine si amplifica quando considero che in questi mesi – da quando cioè il testo del Piano Scuola 4.0 ha cominciato a circolare nelle scuole – non si è delineata alcuna reazione degna di nota tra i docenti.
Stupita dal silenzio e dalla mancata reazione del corpo docente, ho cercato comunque di confrontarmi con i colleghi poiché non riuscivo e non riesco a capacitarmi di questo atteggiamento: il Piano Scuola 4.0 è il testo che accompagna e contestualizza la gestione dei fondi PNRR destinati alle scuole, fondi che, è bene ricordarlo, non sono una vincita alla lotteria, ma un ulteriore aggravio del nostro debito. Chi ha letto il documento con un minimo di attenzione sa bene che quel testo esplicita non solo il modo in cui devono essere spesi quei fondi, ma veicola chiaramente una determinata visione della Scuola, visione che si può condividere o criticare, ma che nel corso di questi mesi non è mai stata discussa, visione rispetto alla quale non si è aperto alcun confronto.
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Perché i nostri movimenti di massa popolari falliscono
di Chris Hedges – Scheerpost
Dal 2010 fino alla pandemia globale del 2020 ci sono stati dieci anni di rivolte popolari. Queste rivolte hanno scosso le fondamenta dell’ordine globale. Hanno denunciato la dominazione delle corporation, i tagli delle politiche di austerità e chiesto giustizia economica e diritti civili. Ci sono state proteste a livello nazionale negli Stati Uniti incentrate sugli accampamenti Occupy durate 59 giorni. Ci sono state sollevazioni popolari in Grecia, Spagna, Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen, Siria, Libia, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Cile, la Rivoluzione delle candele della Corea del Sud. Politici screditati furono cacciati dalle loro cariche in Grecia, Spagna, Ucraina, Corea del Sud, Egitto, Cile e Tunisia. Le riforme, o almeno la loro promessa, ha dominato il discorso pubblico. Sembrava annunciare una nuova era.
Poi la reazione negativa. Le aspirazioni dei movimenti popolari furono schiacciate. Il controllo statale e la disuguaglianza sociale si espansero. Non c'è stato alcun cambiamento significativo. Nella maggior parte dei casi le cose sono peggiorate. L’estrema destra è emersa trionfante.
Quello che è successo? In che modo un decennio di proteste di massa che sembravano annunciare l’apertura democratica, la fine della repressione statale, l’indebolimento del dominio delle multinazionali e delle istituzioni finanziarie e un’era di libertà si sono trasformati in un ignominioso fallimento? Che cosa è andato storto? Come hanno fatto gli odiati banchieri e politici a mantenere o riprendere il controllo? Quali sono gli strumenti efficaci per liberarci dal dominio aziendale?
Vincent Bevins nel suo nuovo libro “If We Burn: The Mass Protest Decade and the Missing Revolution” racconta come abbiamo fallito su diversi fronti.
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Nadef senza impatto sull’economia
di Andrea Fumagalli, Paolo Maranzano, Roberto Romano
Dall’analisi della Nadef la prossima legge di bilancio “muoverà” 30 miliardi ma avrà un impatto di appena 0,2% del Pil. Perché? In osservanza ai precetti neoliberisti e in barba alla Costituzione il governo ha l’obiettivo solo di tagliare le tasse, mentre dovrebbe aiutare la transizione e aumentare la coesione sociale
Preambolo
Lo smarrimento, o la inedita consapevolezza, del governo circa i vincoli di bilancio sono il tratto distintivo della NADEF 2023 (aggiornamento al 27 settembre 2023). Tuttavia non possiamo nemmeno attribuire a questa compagine governativa tale smarrimento. Piuttosto è frutto di una storia economica, sociale e politica che ha rimosso i precetti costituzionali e il piano “normativo” ad essi sotteso. La finanza pubblica con il passare degli anni è passata da strumento di governo dei fenomeni economici a un esercizio ragionieristico che assicura l’indipendenza del mercato, così come i suoi meccanismi allocativi. Inoltre la discussione politica è (amaramente) piegata solo sulle tasse e le imposte, sempre “troppo alte”, che appesantiscono e che rallentano la cosiddetta “mano invisibile” del mercato.
Sostanzialmente è elusa la seconda parte dell’articolo 3 della Costituzione (“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”), così come l’articolo 53 (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”). Infatti la Costituzione affida alla Repubblica un compito preciso, cioè quello di “rimuovere gli ostacoli”, mentre l’articolo 53 lo declina in spesa pubblica che deve essere finanziata in base alla propria capacità contributiva. La spesa pubblica è lo strumento (normativo) di politica economica che, meglio della riduzione delle tasse, la Costituzione assegna alle istituzioni della Repubblica (il Parlamento e il governo nella fattispecie) per la rimozione dei vincoli economici, sociali e politici che impediscono a tutti i cittadini di diventare protagonisti dei grandi cambiamenti sociali.
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Walter Benjamin tra salvezza e oblio
di Roberto Gilodi
Chi sono i veri maestri e che cosa impariamo da loro? E noi come ci disponiamo dinanzi a colui che eleggiamo a nostro maestro? Il problema sotteso a queste domande può sembrare anacronistico nell’età dell’informazione globale disponibile in ogni momento e in ogni luogo. In realtà è tutt’altro che inattuale, anzi: la relazione maestro allievo è oggi più necessaria che mai perché restituisce al sapere la sua naturale fisiologia, che è fatta di tempi e di luoghi, di durata, di incertezza, di ostacoli, di sconfitte e successi, perfino di tratti fisiognomici, un impasto di situazioni, un’alternanza di stati emotivi, che toccano le esistenze degli allievi restituendo all’acquisizione del sapere quella dimensione umana che l’offerta infinita e gratuita della rete ha cancellato.
La collana ‘Eredi’ di Feltrinelli diretta da Massimo Recalcati promuove ormai da molti anni incontri con i maestri affidati alla memoria degli allievi. Allievi, non sempre per avere frequentato direttamente i maestri, anzi, spesso si tratta di relazioni lontane nel tempo, in cui non sono solo in gioco i contenuti insegnati ma anche, e forse soprattutto, gli stili di pensiero.
Osservando queste relazioni si sono potuti evidenziare i tragitti individuali di apprendimento e con essi la mutazione sostanziale del concetto di magistero nei diversi stadi della Modernità.
A fine Settecento, soprattutto in Germania, non era infrequente incontrare nei romanzi di formazione un Meister, un maestro che insegnava il mestiere ai suoi garzoni di bottega. ’Meister’ non a caso si chiama il protagonista di quello che a torto o a ragione è stato considerato il capostipite dei romanzi di formazione, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe.
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La Yugoslavia ….e la nuova Europa dei fratelli Grimm
di Paolo Di Marco
1- l’intervento all’ONU di Vučić (da l’Antidiplomatico)
Il 20 Settembre, davanti a un’assemblea generale delle Nazioni Unite tutta presa dal conflitto ucraino, il presidente serbo Vučić ha fatto un discorso di grande coraggio e lucidità:
“Sono davanti a voi come rappresentante di un Paese libero e indipendente, la Serbia, che si trova nel percorso di adesione all’Unione europea ma che, al tempo stesso, non è pronto a voltare le spalle alle sue tradizionali amicizie costruite da secoli )”. “Voglio alzare la voce a nome del mio Paese, ma anche a nome di tutti coloro che oggi, a 78 anni dalla fondazione delle Nazioni Unite, credono veramente che i principi della Carta delle Nazioni Unite siano l’unica difesa essenziale della pace nel mondo, del diritto alla libertà e all’indipendenza dei popoli e degli Stati. Ma anche di più: sono la garanzia della sopravvivenza stessa della civiltà umana. L’ondata globale di guerre e violenze che colpisce le fondamenta della sicurezza internazionale è una conseguenza dolorosa dell’abbandono dei principi delineati nella Carta delle Nazioni Unite […] Il tentativo di smembrare il mio Paese, formalmente iniziato nel 2008 con la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo è ancora in corso. Per la precisione, la violazione della Carta delle Nazioni Unite nel caso della Serbia è stato uno dei precursori visibili di numerosi problemi che tutti dobbiamo affrontare oggi, che vanno ben oltre i confini del mio Paese o il quadro della regione da cui provengo. Più in generale, dall’ultima volta che ci siamo incontrati qui, il mondo non è né un posto migliore né più sicuro. Al contrario, la pace e la stabilità globale sono ancora minacciate. […]
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La fragilità di Israele sotto attacco nel vortice della crisi
di Alessio Galluppi
Attaccato da aria e da terra Israele si sveglia fragile e impaurito nelle prime ore del mattino del 7 ottobre 2023 e che vede ancora stamattina l’esercito Israeliano in un disperato tentativo di riconquistare il controllo di almeno ventidue villaggi e cittadine Israeliane prossime al confine con Gaza. Nonostante la reazione criminale di Israele che è e sarà sempre di più di estrema violenza, con un altissimo sacrificio di vite umane tra donne e bambini di Gaza, è chiaro che questa offensiva militare Palestinese era inevitabile, proprio per motivi di sopravvivenza dalla pulizia etnica e uccisione di bambini che l’IDF e le truppe di occupazione Israeliane portano avanti quotidianamente e con crescente violenza da tre anni in tutta la West Bank.
Uno stillicidio quotidiano operato con la collaborazione della direzione della ANP (Autorità Nazionale Palestinese), dei paesi Arabi e dell’Arabia Saudita e legittimata dall’Occidente che non può rinunciare al proprio storico avamposto imperialista in Medio Oriente.
Quello che viene definito come “attacco terroristico di Hamas” è una azione di difesa di massa che parte dalla striscia di Gaza – ovvero una vera e propria prigione, un lager a cielo aperto circondato da alte mura fortificate e armate Israeliane – per far respirare gli sfruttati Palestinesi di West Bank. Non si tratta – come si cerca di far credere – di una azione circoscrivibile a un pugno di miliziani di Hamas, ma si è trattato e si sta trattando di una vera incursione delle masse sfruttate di Gaza, che una volta che il colpo delle milizie ha conquistato militarmente e di sorpresa gli avamposti dell’esercito Israeliano lungo diversi punti del confine militarizzato di Gaza, ha sfondato le recinzioni in più punti e ha dato vita a una invasione verso i centri abitati Israeliani in una sorta di euforia liberatoria di un popolo sfruttato, oppresso e segregato da troppo tempo.
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L’11 settembre di Israele
di Il Pungolo Rosso
Chi pensava che le esercitazioni militari organizzate qualche settimana fa a Gaza dal comando unificato delle diverse fazioni palestinesi (attenzione: non dalla sola Hamas, come piace dire, mentendo, alla disinformazione di regime) fossero l’ennesima manifestazione di intenti, retorica quanto materialmente impotente, e pertanto incapace di imprimere una svolta nella lotta di liberazione, ha ricevuto una secca smentita.
Da ieri sappiamo che lo Stato israeliano, da sempre raccontatoci (e raccontatosi) come un Moloch invincibile, in virtù dei suoi insuperabili servizi segreti, dei suoi armamenti di ultima generazione e soprattutto delle sue forze speciali, tra le più letali al mondo, non è così invulnerabile come si credeva. Le tante spie presenti a Gaza, gli scudi missilistici e il pattugliamento permanente di terra, cielo e mare da parte di droni, veicoli a controllo remoto e fregate militari non sono bastati per impedire alle forze palestinesi di evadere dalla prigione di Gaza per prorompere militarmente nelle colonie israeliane e restituire un po’ di terrore all’occupante sionista.
Nei tanti video amatoriali che circolavano in rete fin dalle prime ore della mattina si sono visti carri armati Merkava, spacciati come indistruttibili, messi fuori gioco da armamenti non certo sofisticati. Schemi di difesa missilistica completamente nel pallone (la richiesta di ordinativi e commesse militari non ne beneficerà granché!), generali che fino a ieri comandavano battaglioni d’assalto, portati via in mutande come ostaggi.
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La critica del lavoro nel “duplice” Marx
Dialettica “categoriale” e “Wertkritik”
di Afshin Kaveh
Premesse (o “cronache marxiane”)
Quando Roman Rosdolsky scrisse «ist klar, dass eine fruchtbare Anwendung der Marxschen Theorie nur möglich ist, wenn man die esoterischen und die exoterischen Elemente derselben auseinanderhält»[è chiaro che un'applicazione fruttuosa della teoria di Marx è possibile solo se si tengono separati gli elementi esoterici e quelli essoterici]1, quello che lui anticipava come «chiaro» in verità non poteva di certo esserlo all’epoca, in un angusto panorama pullulato da dubbie ortodossie e animato da fedele estimazione per il “socialismo da caserma” (Kurz). Eppure, in riferimento al contesto nostrano, anche oggi, col fioco lamentìo di quegli spettri, la «fruttuosa applicazione della teoria marxiana» possibile solamente «se si distinguono gli elementi esoterici ed essoterici» della stessa, non trova alcuno sbocco per permettersi di prendere respiro, soffocata per mano di decenni di riletture limitate e fortemente problematiche dell’opera dell’agitatore di Treviri.
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Nessuna “fine della storia” in Ucraina
di Scott Ritter* – ConsortiumNews
La visione trionfalista della democrazia liberale post-Guerra Fredda di Francis Fukuyama – pubblicata nel 1989 – aveva un grosso punto cieco. Ha omesso la storia.
“Quello a cui stiamo assistendo non è solo la fine della Guerra Fredda, o il superamento di un particolare periodo della storia del dopoguerra, ma la fine della storia in quanto tale: cioè, il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione dell’Occidente, la democrazia liberale come forma finale di governo umano”.
Queste parole, sono state scritte dal politologo americano Francis Fukuyama, che nel 1989 pubblicò “The End of History”, un articolo che sconvolse il mondo accademico.
“La democrazia liberale”, scrive Fukuyama, “sostituisce il desiderio irrazionale di essere riconosciuto come maggiore degli altri con il desiderio razionale di essere riconosciuto come uguale”.
“Un mondo composto da democrazie liberali, quindi, dovrebbe avere molti meno incentivi per la guerra, dal momento che tutte le nazioni riconoscerebbero reciprocamente la legittimità delle altre. E in effetti, negli ultimi duecento anni esistono prove empiriche sostanziali del fatto che le democrazie liberali non si comportano in modo imperialistico le une verso le altre, anche se sono perfettamente in grado di entrare in guerra con stati che non sono democrazie e non ne condividono i valori fondamentali.“
Ma c'era un problema. Fukuyama ha continuato notando quanto segue:
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Frontiere e diritti
Tra etica, diritto internazionale e politica del potere
di Luca Benedini
Alla luce del recente riesplodere di situazioni cruente e altamente drammatiche nel Nagorno-Karabakh, così come dell’indefinita e tragica prosecuzione della guerra russo-ucraina, appare opportuno ripresentare qui gran parte di due articoli scritti lo scorso anno (rispettivamente nell’aprile e nel maggio) sul tema politico estremamente controverso rappresentato dal rapporto tra popoli e frontiere
I
Un delicato nodo profondamente dialettico
Impegnarsi specificamente nella ricerca della pace nel momento presente, in una tremenda situazione come quella ucraina, non significa dimenticare le contraddizioni storiche che in quella parte del mondo possono aver stimolato delle tensioni culturali, etniche, ecc. dalle quali sono poi emerse le minacce per la pace sfociate infine nella guerra attuale.
Basti ricordare per esempio che nei trattati internazionali è ampiamente riconosciuto un generico (ma non per questo privo di significato) diritto dei popoli all’autodeterminazione: è addirittura l’argomento dell’art. 1 sia del Patto internazionale sui diritti civili e politici che del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, entrati in vigore entrambi nel 1976 e ratificati ormai da quasi tutte le nazioni del mondo (che in tal modo hanno fatto entrare nella loro legislazione quanto stabilito in tali Patti), dopo essere stati approvati nel 1966 dall’Assemblea Generale dell’Onu. Questo diritto consente di guardare, con uno sguardo particolarmente consapevole, a una serie di questioni inerenti proprio alle frontiere tra gli Stati.
Ci sono confini di Stato che sono stati tracciati d’autorità da qualcuno senza avere alcun riguardo per la situazione etnica e culturale dei popoli coinvolti. Il caso più drammatico è forse quello del territorio curdo, diviso tra quattro nazioni diverse (Turchia, Iraq, Iran e Siria) dopo la caduta dell’impero ottomano: una divisione – decisa in pratica dai governi britannico, francese e turco nel 1923 – che continua da un secolo a provocare tensioni e conflitti, senza che nessuna autorità politica o giurisprudenziale abbia mai riconosciuto ai curdi un qualsiasi diritto all’autodeterminazione.
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Sulla condizione dei comunisti in Italia. Un contributo collettivo alla lettera aperta di Fausto Sorini
a cura di: Demostenes Floros, CER-Centro Europa Ricerche, Orestis Floros, medico psichiatra e ricercatore in Neuroscienze, Stoccolma, Luigi-Alberto Sanchi, CNRS Parigi (Centro Nazionale di Ricerca Scientifica), Andrea Zirotti, docente
Ringraziamo il compagno Fausto Sorini per la proposta di un forum di discussione tra comunisti e speriamo che essa inneschi una risposta adeguata.
Il periodo critico dei “comunismi” in Italia, comunque lo si voglia individuare, dura ormai da molto tempo e l’assenza dal Parlamento, non certo ricercata e iniziata ben quindici anni fa, è riflesso di una condizione di enorme debolezza, quando non di sostanziale irrilevanza.
Ci pare che le recenti accelerazioni della storia abbiano reso ancor più urgente l’esigenza di una discussione e di un chiarimento di cui crediamo siano non pochi a sentire la mancanza, specialmente di fronte alla risposta che nell’insieme abbiamo dato in questi anni. A sospingere questo processo possono essere compagne e compagni, cui è rivolta la proposta, che come anche noi “ritengono del tutto insoddisfacente la situazione attuale” (Sorini); pensiamo però che una tale esigenza possa oggi essere avvertita, e magari trovare sbocco in percorsi diversi ma comunicanti, da tutti i comunisti in Italia: almeno i molti in cui non prevale la “boria di partito” o di gruppo (incluso quello dei non-partito, cui a malincuore apparteniamo, che può anche essere vissuto con boria). Non sarebbe, questo, un modo appropriato per interloquire con le nuove generazioni, piuttosto diverse dalle precedenti?
I profondi e vasti cambiamenti intercorsi in questi ultimi decenni, con un salto di qualità negli ultimi tempi, pensiamo impongano, a coloro che vorrebbero far vivere in Italia un marxismo non rituale, una riflessione di fondo; allo stesso tempo, pongono già su un nuovo terreno la discussione in cui le passate e presenti inadeguatezze, divisioni, separazioni dovrebbero essere passate al vaglio.
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L’invasione russa è stata un atto razionale
È nell’interesse dell’Occidente prendere Putin sul serio
di John Mearsheimer e Sebastian Rosato
È opinione diffusa in Occidente che la decisione del presidente russo Vladimir Putin di invadere l’Ucraina non sia stata un atto razionale. Alla vigilia dell’invasione, l’allora primo ministro britannico Boris Johnson suggerì che forse gli Stati Uniti e i loro alleati non avevano fatto “abbastanza per scoraggiare un attore irrazionale e dobbiamo accettare al momento che Vladimir Putin forse sta pensando in modo illogico e non vede il disastro che lo attende”. Il senatore statunitense Mitt Romney ha fatto un ragionamento simile dopo l’inizio della guerra, osservando che “invadendo l’Ucraina, Putin ha già dimostrato di essere capace di decisioni illogiche e autolesioniste”. L’assunto alla base di entrambe le affermazioni è che i leader razionali iniziano le guerre solo se hanno la probabilità di vincere. Iniziando una guerra che era destinato a perdere, Putin ha dimostrato la sua non razionalità.
Altri critici sostengono che Putin non era razionale perché ha violato una norma internazionale fondamentale. Secondo questa visione, l’unica ragione moralmente accettabile per entrare in guerra è l’autodifesa, mentre l’invasione dell’Ucraina è stata una guerra di conquista. L’esperta di Russia Nina Khrushcheva ha affermato che “con il suo assalto non provocato, Putin si unisce a una lunga serie di tiranni irrazionali” e sembra “aver ceduto alla sua ossessione guidata dall’ego di ripristinare lo status della Russia come grande potenza con una propria sfera di influenza chiaramente definita”. Bess Levin di Vanity Fair ha descritto il presidente russo come “un megalomane assetato di potere”; l’ex ambasciatore britannico a Mosca Tony Brenton ha suggerito che la sua invasione è la prova che egli è un “autocrate squilibrato” piuttosto che l'”attore razionale” che era un tempo.
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Inflazione da imperialismo
di Renato Caputo
Non potendo gli Stati Uniti e le altre potenze imperialiste competere con la Cina su un piano paritario, di libero mercato, hanno proprio loro tradito le politiche liberali e liberiste, imposte fino a quando gli facevano comodo con ogni mezzo necessario, per ripiegare su posizioni protezioniste tipiche della tradizione fascista
Come è noto l’aristocrazia operaia ha avuto due nefasti effetti di fondamentale importanza: sbarrare durevolmente la strada alla rivoluzione in occidente e consentire un consenso di massa, nei paesi a capitalismo avanzato, alle politiche imperialiste. Tali politiche hanno garantito al proletariato e alla piccola borghesia dei paesi imperialisti delle condizioni di vita indubbiamente superiori a quelle dei loro omologhi nei paesi sotto attacco imperialista e ha tolto alla classe che non aveva altro da perdere che le sue catene la sua potenzialità rivoluzionaria. In tal modo, le forze della sinistra rivoluzionaria hanno avuto e ancora oggi hanno scarsa capacità di incidere, come del resto le forze antimperialiste nei paesi a capitalismo avanzato. Perciò è essenziale per le forze antimperialiste e rivoluzionarie far emergere le strette connessioni fra la politica estera imperialista e il peggioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne e, persino, della piccola borghesia e del ceto medio. Come è noto un po’ ovunque, ma in modo particolare nei paesi a capitalismo avanzato e, in primis, in Italia da diversi mesi l’inflazione sta facendo perdere potere d’acquisto a chi vive di un reddito fisso, proletari, ceti medi e pensionati, colpendo i risparmi di una vita della piccola borghesia.
I diretti colpevoli di tale espropriazione delle classi subalterne da parte dei ceti sociali dominanti sono naturalmente gli speculatori e il capitale finanziario. D’altra parte, entrambi questi fattori erano presenti anche prima che iniziasse l’inflazione e nonostante ciò per diversi anni, almeno i paesi a capitalismo avanzato, avevano avuto un’inflazione molto bassa.
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Le spiacevoli implicazioni della crescita trainata dal turismo
di Salvatore D'Acunto
Immaginate di vivere in un Paese dotato di una robusta struttura industriale. Senza esagerare con l’immaginazione, niente di fantascientifico. Non stiamo parlando di giganti della moderna tecnologia come NASA, Apple o Google, né di aziende in grado di realizzare fatturati multimiliardari. Parliamo di un tessuto di unità produttive di dimensioni piccole e medie, animate da imprenditori competenti e ingegnosi. Imprese a volte molto innovative, ma anche fragili. Non di rado sottocapitalizzate. Magari bisognose di protezione per crescere e consolidarsi, ma in ogni caso un tessuto industriale in grado di garantire un contributo rilevante all’occupazione e di permettere alla gran parte della popolazione di vivere dignitosamente.
Un giorno arrivano in visita alcuni pezzi grossi delle principali istituzioni di governance continentale, con al seguito economisti e banchieri di fama mondiale. Si fanno un giro di perlustrazione, raccolgono dati, fanno un po’ di calcoli e alla fine sputano un’infausta diagnosi. Vi dicono che impiegate male le vostre risorse. «State sbagliando strada, non è così che vi arricchirete». A voi, che per la verità nei trenta anni precedenti vi siete arricchiti molto senza alcun bisogno dei loro consigli, ma che per motivi misteriosi coltivate da tempo un profondo complesso di inferiorità, non sembra vero di avere l’occasione per farvi spiegare dal Gotha della politica e della finanza internazionale che cosa è meglio per voi.
I vostri blasonati ospiti vi spiegano che l’industria non è la vostra vocazione produttiva, che dovete lasciarla fare a chi la sa e può fare meglio.
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Presentata all’ONU la Mappa geopolitica delle “sanzioni”
di Geraldina Colotti
Ottimamente rappresentata da una delegazione di alto livello, diretta dall’ambasciatore all’ONU, Samuel Moncada, dal ministro degli Esteri, Yvan Gil e dal viceministro per le Politiche anti-bloqueo, William Castillo, la Repubblica bolivariana del Venezuela ha illustrato all’Assemblea generale dell’Onu la Mappa geopolitica delle sanzioni. Un lavoro di ricerca formalizzato nell’ambito della Legge antibloqueo e che si va ampliando. Ora, il Venezuela ha deciso di mettere la Piattaforma a disposizione dell’ONU (che considera illegali le misure coercitive unilaterali), affinché ogni organismo, ogni paese, ogni giornalista, ogni politico o ogni ricercatore possa cogliere natura e portata di queste armi di nuovo tipo, utilizzate dall’imperialismo per imporre il proprio predominio alle nazioni considerate più deboli, abusando del controllo esercitato dagli Usa sul sistema economico-finanziario mondiale.
Il dibattito si è svolto come parte dell’agenda di eventi paralleli della 78ma Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che si è conclusa a New York il 26 di settembre, e che ha discusso intorno al tema: “Ricostruire la fiducia e riattivare la solidarietà mondiale: Accelerare le azioni nel quadro dell’Agenda 2030 e dei suoi Obiettivi di Sviluppo Sostenibili fino al conseguimento della pace, della prosperità, del progresso e della sostenibilità per tutti”. In questo scenario, il Gruppo di Amici in Difesa della Carta dell’ONU, ha organizzato l’importante dibattito sulle “sanzioni”.
Il Gruppo si è formato a partire da un’iniziativa del Venezuela presso l’ONU, messa in moto nel 2020 insieme alle delegazioni di Bolivia, Cina, Cuba, Iran, Siria e Russia, alla quale si sono successivamente aggiunti altri Stati di diverse regioni del mondo.
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Il primo e l’ultimo
di Enrico Tomaselli
Se Russia e NATO si possono considerare player dello stesso livello (e quindi il conflitto in atto può essere definito come simmetrico), le concezioni strategiche di fondo sono antitetiche, e affondano le proprie radici nelle differenze storico-culturali che contraddistinguono le parti. Sotto questo profilo, quindi, si può senz’altro affermare che il conflitto è assolutamente asimmetrico. E questo rende tutto più complicato.
Si sta facendo sempre più strada, tra gli osservatori politici e militari occidentali, la convinzione che la guerra ucraina sia a un punto di inflessione strategico [1], insomma a un punto di svolta, oltre il quale le cose cambiano. “In questo punto di svolta, i leader più abili e creativi riconoscono e accettano questa sfida, facendo progredire le loro organizzazioni per affrontarla. I leader rigidi, esitanti o avversi al rischio non accettano la sfida, portando all’irrilevanza e, in ultima analisi, al fallimento della loro organizzazione” [2].
La questione veramente importante è che, ovviamente, superato il punto di svolta le cose possono andare appunto sia bene che male, tutto dipende dalle scelte assunte dalla leadership. Ed in questo momento, le leadership occidentali non sono univocamente coese e concordi sulla rotta da seguire. Per quanto l’esigenza di sganciarsi in qualche modo dalla precipitosa corsa verso il disastro sia sempre più forte, l’idea che si possa in qualche modo ribaltare lo stato delle cose è dura a morire; e quindi, la propensione a mantenere l’investimento sull’Ucraina resta al momento predominante.
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Marcuse nell’Antropocene. Alcune note su guerra, ecologia e rivoluzione
di Luca Mandara
se non ci lavorate fin da ora, non avrà luogo fra 75 anni, non avrà luogo tra 100 anni, non avrà luogo affatto
(Marcuse, Lezioni parigine del 1974)
1. Padre dell’Eco-Marxismo
Sfatato da qualche anno il “mito” di un capitalismo green capace di conciliare la crescita del PIL con la sostenibilità ambientale, il movimento ecologico sembra orientarsi sui temi della “giustizia climatica”, legando questione ambientale e questione sociale e scontrandosi con quei governi che fino a pochi anni fa non disdegnavano di cooptarne i leader alle famigerate Conferences of Parties sul clima (COP)[i].
Mi sembra lecito ipotizzare che buona parte dell’incredibile successo riscosso dall’eco-marxista Kohei Saito sia dovuto anche allo sviluppo di una maggiore coscienza socialista nel mainstream ecologista, così come, a sua volta, la maggiore coscienza ecologica sta contribuendo a sdoganare la proposta di un Degrowth Communism, impensabile fino a qualche anno fa.
Si è creata un’atmosfera positiva, insomma, anche per ritornare su autori del passato che, precorrendo i tempi, nel bel mezzo del consenso bipartisan verso il «modernismo tecnologico» osavano criticarlo. È il caso di Herbert Marcuse, a cui viene attribuita una delle prime «critiche ecologiche del capitalismo» per le sue radicali prese di posizione contro il produttivismo di entrambi i blocchi e per il concetto di natura come una «non-identità»[ii], limite ultimo ai fini di appropriazione.
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Le origini della guerra russo-ucraina
Introduzione
di Salvatore Minolfi
Salvatore Minolfi: Le origini della guerra russo-ucraina. La crisi della globalizzazione e il ritorno della competizione strategica, Istituto Italiano per gli studi filosofici, 2023
La matrioska della guerra
L’epoca del dopo guerra fredda – quella iniziata con le speranze dell’89 – è stata costellata di conflitti. Alle sue origini doveva essere, nella narrativa dominante, un’epoca pacifica, poiché la fine della competizione strategica tra le due superpotenze e il collasso dell’URSS avrebbero rimosso l’ultimo ostacolo all’avvento di un ordine nuovo, garantito dalla supremazia incontrastata degli Stati Uniti che, rimodulando la sovranità nell’universo degli Stati – e ponendo alla sua cuspide un egemone benevolo – li avrebbe privati di quei caratteri hobbesiani che condannavano il mondo a essere il teatro di una guerra di tutti contro tutti1.
Dacché quella dottrina fu lanciata molta acqua è passata sotto i ponti e la realtà si è mostrata sensibilmente differente. La nuova epoca si apriva con una guerra, quella combattuta nel Golfo Persico, e avrebbe continuato a dipanarsi in un serie inesauribile di conflitti – dai Balcani al Medio Oriente alle province più remote dello spazio post-sovietico – in un contesto aggravato da “un processo di rilegittimazione surrettizia dell’uso della forza”, tale da condurre “alla dissoluzione di ogni chiara distinzione tra pace e guerra”2. Una ricerca del “Watson Institute for International and Public Affairs” (Brown University) stima che la sola costellazione di conflitti legati al disordine mediorientale abbia mietuto oltre novecentomila vittime.
Non è questo il luogo per dar conto dell’ampia e articolata geografia della guerra degli ultimi trent’anni. Ciò che preme qui sottolineare è che, malgrado quei terribili precedenti, la guerra russo-ucraina ci trasporta in un’altra dimensione.
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La temperie moderna sullo sfondo de L’uomo senza qualità
di Alvise Marin
La parabola del moderno, il cui delinearsi lasciava intravedere esiti trionfalistici, tende invece a chiudersi con un momento terminale di crisi. Quest’ultima si manifesta nel cambiamento della percezione che l’individuo ha di sé, ma altresì nel modificarsi del tessuto connettivo della società. L’uomo tende a non cogliere più il proprio Ego come il centro delle proprie azioni e queste ultime, orfane di un autore, gli accadono suo malgrado e lo sorprendono quasi non gli appartenessero. Eccentrico rispetto a un centro che non c’è, egli cerca la sua vera identità nel rifrangersi di quest’ultima negli innumerevoli ruoli che la società gli confeziona addosso. Società, che del resto, è diventata un palcoscenico, sul quale si avvicendano ruoli, idee e visioni del mondo diversi, nessuno dei quali possiede però la forza di impadronirsi della scena; di qui il continuo stato di sommovimento in cui essa si trova e la sua tendenza a destrutturarsi.
Se questa è la temperie in cui langue la modernità dei primi decenni del Novecento, questo è anche il panorama della Vienna descritta da Robert Musil nel suo capolavoro incompiuto, L’uomo senza qualità. Ulrich, il personaggio principale del romanzo, è proprio un uomo come quello descritto sopra e la società in cui vive è proprio sul punto di disgregarsi.
Per spiegare questa trasformazione sociale e mentale, è necessario partire, in ambito filosofico, dal soggetto cartesiano, il quale nasce radicando la sua certezza nel Cogito e pensandosi nella sua unità sostanziale. In Cartesio il soggetto è l’autore dei propri pensieri e delle proprie azioni ed è dotato di un centro inamovibile.
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La pèsca: la famiglia etero pescata nella rete
di Giacomo Rotoli
Premetto che non sono d’accordo che i bambini vengano usati nelle pubblicità, si tratta di sfruttamento capitalistico gratuito dato che non sono in grado di capire cosa muove e quali sono gli interessi che sono dietro il sistema neoliberista. La pubblicità è uno dei molti generatori di plusvalore del sistema, essa non solo induce all’acquisto dei beni ma produce redditi in una enorme catena di filiere, detta anche gli schemi comportamentali che vengono veicolati attraverso i media, soprattutto definisce quasi esattamente cosa sia il mainstream e dove il sistema cerca di trovare il punto di equilibrio tra concezioni del mondo differenti per riproporsi come l’unica cosa naturale e giusta.
Vengo ora al motivo di questo articolo: lo spot è quello della pèsca di Esselunga [1], ma il mio vuole essere un commento non tanto allo spot in se, che può piacere o non piacere da un mero punto di vista estetico o etico, ma al bailamme che è nato sulla rete persino provocando una serie di prese di posizione addirittura ai vertici della politica. I commenti sono interessanti in se per il motivo che essi delineano molto bene alcune delle tendenze in atto nella concezione attuale della famiglia mononucleare di natura borghese, che è a tutt’oggi il modello dominante, ma come ho già scritto, è in crisi da almeno un cinquantennio. Questo articolo vuole quindi essere una naturale continuazione di “Gens Murgia” che scrissi riguardo alla presunta queerness della così detta famiglia non di sangue auspicata dalla nota scrittrice femminista.
Lo spot Esselunga penso che l’abbiano visto moltissimi, da questo punto di vista è un successo per i suoi creatori e per la nota catena di supermercati. Ma cosa ha di tanto speciale? Nulla di particolare, viene messa in scena una famiglia di separati, padre, madre e figlia, piuttosto che la solita unione stile “Mulino Bianco” alla quale nessuno fa più caso.
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Il Kosovo e la Serbia scivolano verso la guerra?
di Enrico Vigna
Cinque morti, quattro serbi e un albanese, numerosi feriti, nuovi arresti e retate nella aree serbe, non accadeva dal 2004
Nella notte tra sabato 23 e domenica 24 settembre, membri della polizia del Kosovo, hanno tentato di rimuovere le barricate erette da un gruppo di serbi armati, all'ingresso del villaggio di Banjska. Sono seguiti violenti scontri a fuoco per tutta la giornata con 500 uomini delle KPS, Forze Speciali Kosovo. Poi sul terreno sono rimasti uccisi quattro serbi (tre assassinati da cecchini) e un poliziotto albanese. Ecco dove hanno portato nella regione, le politiche terroristiche e vessatorie contro la popolazione serba kosovara del fanatico sciovinista Albin Kurti, reggente le autorità illegittime di Pristina e le strategie de stabilizzatrici della NATO e degli USA. La guerra è sempre più all’ordine del giorno e potrebbe essere devastante per tutti i Balcani e non solo.
Il quarto serbo assassinato è stato ritrovato a 1,5 km dal luogo degli scontri.
Premettendo che la dinamica complessiva della vicenda, degli obiettivi e delle finalità ha molte lacune e punti incerti e che forse, solo nei prossimi giorni o mesi si avranno risposte più certe, qui cerco solo di informare e documentare i fatti conclamati e provati, con grande cautela e attenzione, senza entrare negli aspetti tuttora dubbi o interpretabili sotto diverse o contrastanti letture. Questo, per non incorrere in letture o interpretazioni personali o virtuali, che, come nel caso della crisi ucraina, poi si rivelano nei fatti scombinate. Saranno i prossimi eventi e passaggi fattuali ad avvicinarci agli aspetti più profondi e congrui, per ora non accertabili.
Pertanto qui espongo alcuni punti fermi e fatti che sono a oggi fissati e riscontrati, utilizzando i contatti e le relazioni sul campo, queste sono sintesi e letture, di analisti, politici e militari serbi, tutte aperte a varie ipotesi in divenire, soprattutto politiche, come loro stessi confidano.
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Comunismo di guerra: ne vuoi un altro po'?
di Sandrine Aumercier
Negli ultimi anni - per aggirare i crescenti rischi planetari, primo fra tutti la catastrofe ecologica - una parte della sinistra si è convertita alla difesa di uno stato di eccezione permanente. Nel corso delle loro cene, in nome dell'emergenza climatica, i grandi "democratici" non hanno più alcuno scrupolo nel sostenere la dittatura ecologica, e sono arrivati persino a prendere la Cina come esempio. Infatti, la Cina è il primo produttore mondiale di energie rinnovabili (e per inciso, anche il più grande produttore mondiale di carbone, ma in questo caso ciò non conta). Ora, questa tendenza sembra essere del tutto compatibile con quello che è il posizionamento dei nuovi rivoluzionari climatici. Nel 2017, Andreas Malm, riprendendo la formula da Alysa Battistioni, ha detto: «D'ora in poi, ogni problema è un problema climatico» [*1]. In effetti, questa sintesi lapidaria dei problemi del presente, sembra che stia imponendo una ben precisa direzione alla lotta. e vediamo quale. Dire che «ogni problema è un problema climatico», consente di individuare un nemico chiaramente identificabile nella sfera delle infrastrutture "fossili" e nella persona di coloro che queste industrie le posseggono. Per Malm - così come egli lo sviluppa nel suo libro "Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming" (Verso Books) - il capitale è intrinsecamente fossile. Pertanto, Malm definisce il capitale a partire da quello che è il tipo di energia che è stata privilegiata ai fini della sua espansione storica, e non a partire da quelle che, per il capitale, sono le sue categorie operative. Non è forse semplice, quasi fosse una passeggiata? Prendendo di mira le infrastrutture fossili e i loro detentori, stiamo perciò prendendo di mira il capitale stesso.
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