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Siria, Iraq, Iran, Kurdistan, Libia
Il Mondo prigioniero della guerra imperialistica permanente
di Giorgio Paolucci
«Il capitalismo è il racket legittimo, organizzato dalla classe dominante»
La definizione qui sopra non è, come si potrebbe pensare, di K. Marx, ma di uno che di racket se ne intendeva: Al Capone[1]. E l’imperialismo -aggiungiamo noi – è la sua espressione più compiuta. La prova più evidente che sia effettivamente così è data dall’infuriare della guerra ormai in ogni un angolo del pianeta, tanto più se ricco di qualche materia prima o perché situato in una posizione di importanza geostrategica come è il caso del Medioriente.
Esso ha la sfortuna di essere terra di mezzo fra Oriente e Occidente e di conservare nel suo sottosuolo grandi giacimenti di petrolio. Le due condizioni dovrebbero assicurare alle popolazioni che lo abitano un elevato grado di benessere socioeconomico come a poche altre al mondo; invece vi regna una barbarie che non conosce limiti. Fatta eccezione per le ristrette fasce delle borghesie locali e dei loro lacchè, a dare un senso alla vita della maggioranza dei suoi abitanti è solo qualche avanzo di speranza di poter assistere al sorgere e al tramonto del sole anche il giorno dopo. O di fuggire in un altrove, ovunque esso sia, purché lontano da quella quotidianità in cui a farla da padrona assoluta è la fame, la violenza più cinica e feroce e la morte sempre appostata dietro ogni angolo.
È che il petrolio non è solo una fonte energetica di primaria importanza, ma anche un efficace strumento di appropriazione parassitaria di plusvalore.[2]
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L’economia cinese tra minacce Usa e questioni interne
di Vincenzo Comito
L’accordo raggiunto il 15 gennaio tra Usa e Cina a ben vedere non sembra così vantaggioso per Washington, soprattutto rispetto alle mire iniziali di Trump. Pechino disinveste però negli Stati Uniti e ciò profila una tendenza decoupling tra le due economie e a una nuova stagione di guerra fredda economica
Sono almeno tre i fattiimportanti delle ultime settimane relativi all’economia cinese: le cifre del prodotto interno lordi per il 2019, l’accordo del 15 gennaio con gli Stati Uniti e gli sviluppi dei processi di decoupling tra Usa e Cina.
La crescita del pil nel 2019
Dunque il Pil della Cina è cresciuto del 6,1% nell’ultimo anno. Mentre i media occidentali hanno sottolineato come si tratti della cifra più bassa degli ultimi decenni e come essa appare influenzata dal conflitto Cina-Usa,i mercati hanno invece festeggiato la notizia.
Come stanno veramente le cose?
Nonostante la riduzione rispetto all’anno precedente, la crescita del Pil cinese continua ad essere la più elevata tra quella dei più grandi paesi del mondo (i mercati erano più pessimisti ex ante sulle cifre) e anzi essa risulta al primo posto nel 2019 anche se si prendono in considerazione tutti i 43 paesi economicamente più importanti del mondo (The Economist, 2020, a).
Qualche anno fa la crescita del Pil dell’India, dopo una revisione dei metodi di calcolo, era apparentemente diventata più elevata di quella cinese. Ma molti erano i dubbi suscitati già a suo tempo dalla notizia; ormai tutti sono oggi d’accordo che quelle cifre erano largamente gonfiate. La stima ufficiale per il 2019 dell’India è ora di una crescita del 4,9%, mamolti pensano che essa si collochi al disotto del 4%.
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Ichino, Boeri e il paese della cuccagna
di coniarerivolta
Da ormai un decennio viviamo i postumi di una massacrante crisi economica e finanziaria che ha lasciato strascichi incommensurabili. Il nostro paese, come l’intera periferia europea (e ormai anche le aree più ricche del continente), è investito da una crisi di portata storica: disoccupazione a due cifre, salari da fame, precarietà del lavoro, carenza di servizi pubblici e di adeguati ammortizzatori sociali. In questo scenario drammatico, tuttavia, emergono delle disparità territoriali che mostrano tutte le contraddizioni del sistema economico in cui viviamo. Nel caso dell’Italia, ad esempio, la disoccupazione al Sud si attesta al 18%, coinvolgendo circa 1 milione e mezzo di persone. Niente di comparabile a ciò che accade al Centro e al Nord dove, sebbene sostenuta, la disoccupazione si ‘ferma’ rispettivamente al 9 e al 7 percento. Stesso discorso qualora facessimo riferimento al reddito pro-capite: è infatti rilevante la forbice che esiste tra i circa 18mila euro medi della Calabria (la regione più povera) e i 38mila della Lombardia. Questo lo spaccato di un paese in cui la crisi e le successive politiche di austerità in ossequio ai vincoli europei hanno ampliato i differenziali tra individui residenti in diverse regioni, e, da Siracusa a Bolzano, fatto impennare disuguaglianza e disoccupazione.
Un paese diviso in due, quindi, che a qualcuno ha ricordato la storica divisione tra Germania Est e Ovest. Stiamo parlando di Pietro Ichino e Tito Boeri, due personaggi che hanno spesso fatto capolino tra le pagine del nostro blog, mai per prendersi complimenti.
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Intervista a Wolfgang Streeck
di Bollettino Culturale
Wolfgang Streeck, nato a Lengerich il 27 ottobre del 1946, studia sociologia all’Università Goethe di Francoforte, proseguendo i suoi studi alla Columbia University tra il 1972 e il 1974. A Francoforte studia nel contesto dell’omonima scuola marxista, fondamentale per lo sviluppo del marxismo occidentale. Dopo aver insegnato in alcune università tedesche, nel 1995 diventa direttore dell’Istituto Max Planck per lo studio delle società mentre insegna sociologia all’Università di Colonia.
Dal 2014 è direttore emerito dell’Istituto Max Planck.
Nei suoi lavori è centrale l’analisi dell’economia politica del capitalismo, usando un approccio dialettico applicato all’analisi istituzionale. Feroce critico del neoliberismo e della struttura imperialista chiamata Unione Europea, negli ultimi anni ha anche cercato di definire le modalità con cui potrebbe collassare il capitalismo.
In italiano è stato tradotto nel 2013 Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico. Segnaliamo inoltre: How Will Capitalism End?: Essays on a Failing System; Re-Forming Capitalism: Institutional Change in the German Political Economy; e Politics in the Age of Austerity.
* * * *
1. Professor Streeck, come Samir Amin e Giovanni Arrighi lei parla di una crisi del capitalismo che dura dagli anni ’70. In Gekaufte Zeit. Die vertagte Krise des demokratischen Kapitalismus conduce un’analisi interessante del capitalismo dagli anni ’70 ai giorni nostri. Vorrei chiederle se la sua lettura accetta l’analisi di Arrighi, che interpreta il predominio nel capitalismo del capitale fittizio come parte finale del ciclo di accumulazione aperto dagli Stati Uniti.
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L’ascesa della destra e le responsabilità degli economisti progressisti
di Guido Ortona
Premessa
Mi pare che la situazione politica del nostro paese possa essere riassunta come segue. Il popolo è molto arrabbiato con la classe politica e in particolare con il governo: e con ragione, perché il governo non è capace di risolvere i problemi che assillano la vita quotidiana di tante persone normali. Uno dei più importanti, anche perché da esso ne derivano molti altri, è la mancata creazione di posti di lavoro. Se fossimo più vicini alla piena occupazione, infatti, ci sarebbero meno paura della possibilità di perdere il lavoro e una maggiore fiducia nella possibilità di avere a suo tempo una pensione adeguata; e i giovani smetterebbero di essere disoccupati e di emigrare in massa. E’ evidente che i motivi addotti dal governo per non implementare politiche adeguate (“fra qualche anno le cose andranno meglio”; “ce lo impone l’Europa”; “facciamo del nostro meglio, ma i soldi non ci sono”) non possono soddisfare l’opinione pubblica. Non lo potrebbero nemmeno se fossero veri, e giustamente, perché la democrazia si basa sul diritto/dovere del popolo di ritenere il governo responsabile di ciò che accade nel paese. Ma quei motivi veri non sono. Secondo un rapporto Unioncamere (l’ente che riunisce le Camere di Commercio) la disoccupazione al 2023 (quando si voterà, sempre che non si abbiano elezioni anticipate) sarà ancora superiore al 9% (oggi è intorno al 10), quindi le cose non andranno meglio (a conferma, la legge di bilancio recentemente approvata punta ad un tasso del 9.1% nel 2022, a fronte di un livello pre-crisi del 5.7%).
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Marx a cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre
Un seminario del 2017 di Domenico Losurdo
di Gabriele Borghese
Il presente testo costituisce una sintesi degli argomenti affrontati nel corso delle tre giornate di seminari tenuti da Domenico Losurdo dal 4 al 6 dicembre 2017 a Napoli, presso l’Istituto italiano per gli Studi Filosofici. Durante il seminario Losurdo concentrò l’attenzione, oltre che sul bilancio storico della Rivoluzione d’Ottobre, anche su punti più prettamente teorici della filosofia marxista, tra i quali il dibattito che si è sviluppato nel Novecento riguardo alla concezione dello sviluppo delle forze produttive e alla relazione che questo sviluppo ha con la natura; e la definizione operata da Marx ed Engels del socialismo scientifico rispetto alle altre correnti utopiche del socialismo.
Le considerazioni di merito presentate nel testo seguente intendono tutte riferire il ragionamento di Losurdo, non sono giudizi o conclusioni dell’autore di questo testo.
Nella prima giornata di seminari intitolata Decrescita o sviluppo delle forze produttive, Losurdo ha trattato da un punto di vista critico la posizione di Serge Latouche, che ha sostenuto l’idea della decrescita felice (S. Latouche – 2006, Le pari de la décroissance) in contrapposizione alla teoria di Marx, che invece poneva l’enfasi proprio sullo sviluppo delle forze produttive considerandolo decisivo per la propria teoria della rivoluzione. Secondo Latouche non sarebbe sostenibile, anche dal punto di vista ecologico, una nuova crescita impetuosa del PIL. In quest’ottica non è opportuno seguire Marx che criticava il modo di produzione capitalistico perché esso blocca lo sviluppo delle forze produttive e distrugge la ricchezza sociale.
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Gramsci in translation: egemonia e rivoluzione passiva nell’Europa di oggi
di Fabio Frosini*
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
1. La fine dell’egemonia
Se analizzato con categorie gramsciane, il secondo dopoguerra europeo può essere descritto come una trentennale guerra di posizione, il cui il risultato è stata l’integrazione delle organizzazioni di massa delle classi lavoratrici dentro la trama del potere pubblico da un lato, dall’altro il forte condizionamento del mercato da parte di istanze depositate nelle costituzioni, nel complesso normativo e nella serie di pratiche di patteggiamento sviluppate tra Stato, capitale e lavoro mediante una serie molto ampia di corpi intermedi, come la giustizia sociale e l’ eguaglianza, che esprimevano le rivendicazioni di quelle stesse classi lavoratrici come rappresentanti dell’intera nazione1. Questa guerra di posizione può essere vista pertanto come un compromesso, una rivoluzione passiva in termini gramsciani2, che è entrato in crisi dagli anni Settanta e che è stato abbandonato unilateralmente dalle classi dominanti negli anni Ottanta.
Le ragioni di questo abbandono sono complesse da enumerare e argomentare. Dal nostro punto di vista importa solamente notare che i presupposti della crescita economica del dopoguerra furono messi in discussione non dalla dinamica puramente interna dello sviluppo, ma dal fatto che non si riuscì a separare questa dinamica – a livello delle forze sociali organizzate e, di riflesso, a livello dei vari Stati europei – dalla prospettiva dell’accumulazione capitalistica. La crisi esplose per volontà degli Usa, che dinnanzi all’assottigliarsi dei profitti inaugurarono una politica economica di carattere neo-protezionistico, iniziando a usare il dollaro non più come fattore di stabilizzazione ma come strumento flessibile per drenare risorse e per ottenere un vantaggio competitivo3.
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Reading Capital Politically
di Harry Cleaver
[Uscito sul finire degli anni Settanta, Reading Capital Politically (1979) di Harry Cleaver propone una lettura politica dell’opera marxiana al servizio della lotta di classe. Tradotto in svariate lingue, il testo è stato diffuso in italiano nel corso degli anni Novanta dalla rivista vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe. Nonostante alcuni riferimenti al contesto politico-economico internazionale siano inevitabilmente dettati dal periodo in cui il testo è stato steso, l’analisi proposta dall’autore mantiene inalterata la sua efficacia politica ed è per tale motivo che si riproduce di seguito l’apertura del libro.
Harry Cleaver ha insegnato economia alla statunitense University of Texas di Austin, ha pubblicato numerosi articoli su riviste scientifiche e politiche sui temi dello sviluppo economico, sulle politiche economiche, sulle teorie della crisi, su Marx e sul marxismo, è stato redattore della rivista statunitense Zerowork ed ispiratore e curatore, insieme ad altri, del Texas Archive of Autonomist Marxism- ght].
* * * *
Introduzione
In questo libro vengono riesaminate le analisi sul valore condotte da Marx mediante uno studio dettagliato del Primo Capitolo del Volume I de Il Capitale. L’oggetto di questo studio si propone di trovare un’utilità politica all’analisi del valore situando i concetti astratti del Primo Capitolo all’interno dell’analisi globale fatta da Marx della lotta di classe nella società capitalista. Ci si propone di tornare a quello che si consida il proposito originario di Marx: Il Capitale è stato scritto come arma data nelle mani dei lavoratori. In quest’opera egli ha presentato una dettagliata analisi delle dinamiche fondamentali della lotta tra la classe capitalista e quella operaia1. Dalla lettura de Il Capitale come documento politico, i lavoratori potranno approfondire tanto le diverse forme con cui sono dominati dalla classe capitalista quanto le modalità con cui essi lottano contro tale dominio.
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Comportamento egoista e società socialista
di Bollettino Culturale
Un fantasma viaggia attraverso i paesi socialisti: il fantasma della modernizzazione. Dopo gli anni ottimisti dell’"uomo nuovo" dei guevaristi e il primitivismo ideologico di una rivoluzione culturale cinese che voleva sterminare incentivi, disuguaglianze e gerarchie, i leader dei diversi partiti comunisti sembrano aver imparato una sola tonadilla: il più grande problema delle economie socialiste è assenteismo, disinteresse, mancanza di dinamismo, che trovano la loro traduzione economica in bassa produttività. Non solo, oltre alla diagnosi, concordano sulla terapia: aprire le porte alla competizione.
In questo lavoro cerchiamo di rivelare la grammatica sociale di questo processo, ricordare le diverse soluzioni che la tradizione socialista ha offerto ai problemi che sono alla base ed esporre una critica delle versioni più ingenue della "rivitalizzazione" da parte del mercato, una versione assunta dalle varie "nomenclature", secondo la quale il mercato è il miglior garante del progresso tecnico e dell'allocazione efficiente in quanto fornisce informazioni precise e rapide sui bisogni delle società e stimola la ricerca di risposte.
La lunga gestazione dell'«Homo economicus»
La storia del capitalismo è lungi dall'essere un percorso di rose e fiori per coloro che vi hanno preso parte. Le condizioni ingrate della vita, lo sradicamento, l'esecuzione di compiti insignificanti per i suoi esecutori o la pavimentazione delle tradizioni culturali, sono alcune delle caratteristiche che macchiano il rovescio del cammino intatto del progresso e della libertà con cui viene spesso identificato.
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Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione
di Andrea Zhok
1) Lo scenario contemporaneo
Due grandi tendenze caratterizzano la politica dell’ultimo quarto di secolo nel mondo occidentale. La prima, e più importante, è rappresentata dal trionfo del modello liberale con i connessi processi di globalizzazione; e in maniera concomitante, dalla crescita di reazioni di rigetto di tali processi (dai ‘no-global’ degli anni ’90, al ‘populismo’ e ‘sovranismo’ odierni).
La seconda tendenza, derivativa, è una crisi profonda delle categorie politiche di ‘destra’ e ‘sinistra’; tale crisi si è manifestata sia come ‘crisi d’identità’ che in cortocircuiti e ribaltamenti concettuali, dove posizioni tradizionalmente ascrivibili alla ‘sinistra’ sono state assimilate dalla ‘destra’ e viceversa.
Questi due processi vanno intesi insieme e sono parte di una medesima configurazione. La prima tendenza è quella strutturalmente portante e definisce il carattere della nostra epoca, come epoca del trionfo della ‘ragione liberale’ (e della sconfitta del suo principale competitore storico, dopo la caduta del muro di Berlino). In mancanza di avversari la ragione liberale ha accelerato le tendenze di sviluppo interne, e segnatamente i processi di movimentazione globale di merci, forza-lavoro e capitale. Quest’accelerazione ha riportato alla luce i limiti del progetto politico liberale e capitalistico, che dopo la crisi finanziaria del 2008 appaiono manifesti a chiunque non sia ideologicamente accecato.
Il rimescolamento odierno delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’ è un effetto diretto dell’apogeo, e della concomitante crisi, della ragione liberale. Una chiara manifestazione ne è stato lo scivolamento negli anni ’80 e ‘90 della ‘sinistra’ occidentale (comunisti e socialisti) su posizioni liberali, facendo proprie le istanze di ciò che fino a poc’anzi era il ‘nemico’.
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Immigrazione: il sonno dell’antimperialismo genera mostri
di Militant
Il tema dell’immigrazione ha rappresentato (e rappresenterà) una delle questioni fondamentali intorno a cui si giocherà la partita della nostra internità tra i salariati e la nostra capacità di esercitare (non solo tra di essi) una qualche forma di egemonia, non fosse altro che per la funzione divisiva che tale questione ha svolto nella classe negli ultimi anni e la centralità che ha assunto nel dibattito pubblico. E il fatto di non avere uno straccio di strategia politica in merito, né una analisi condivisa delle radici del fenomeno nella sua concreta attualità certamente non ci aiuta.
Per essere più chiari, sappiamo bene che la storia dell’umanità è contrassegnata dalle continue migrazioni di esseri umani e che, anzi, queste ne sono parte costituente e imprescindibile, ma fermandoci a questa lettura, che potremmo definire quasi “etologica” dell’immigrazione, corriamo il rischio di “naturalizzare” un fenomeno che invece è sociale, e quindi “storico”, e che dunque va analizzato e compreso nello specifico contesto in cui si determina. Stiamo parlando di milioni di esseri umani, delle loro vite e delle loro storie e non di uccelli o di balene che “migrano” da nord a sud in funzione delle stagioni o dei cicli vitali. Questo dev’essere chiaro perché altrimenti si finisce per rimuovere, pur senza volerlo, il semplice fatto (si fa per dire) che nel mondo contemporaneo i principali “push factor” dei movimenti migratori (come gli “esperti” chiamano i fattori che spingono milioni di persone a spostarsi dai luoghi in cui sono nate) sono comunque riconducibili al modo di produzione capitalistico nella sua fase imperialista e alla maniera (ineguale) con cui esso disegna i rapporti sociali tra classi, popoli e stati. Una considerazione come questa dovrebbe risultare persino banale per chi annovera il barbone di Treviri tra i suoi padri putativi, ma mai come in questo caso il condizionale è d’obbligo.
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Società signorile di massa o società signorile e basta?
di Fabrizio Venafro, Salvatore Bianco
In un suo recente libro Luca Ricolfi descrive l’Italia come una “società signorile di massa” consumista, parassitaria, imbelle. Ma dietro questa interpretazione si cela il tentativo di salvare il sistema e soggettivizzare le colpe, trovando un capro espiatorio nelle vittime
Se si volesse rintracciare una forma esemplare, nei suoi tratti anche estremi, del tipo di racconto emergente intorno alla società italiana, occorrerebbe riferirsi senza esitazioni a Luca Ricolfi, sociologo, professore di Analisi dei dati all’Università di Torino, che in un recente saggio, La società signorile di massa (La nave di Teseo, 2019), corroborato da una serie di interviste, delinea un regime sociale, per l’appunto signorile e di massa, che si sarebbe instaurato da tempo in Italia: «La tesi che vorrei difendere – dichiara l’autore – è che l’Italia è un tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale. La chiamerò società signorile di massa, perché è l’innesto, sul suo corpo principale, che rimane capitalistico, di elementi tipici della società signorile del passato feudale e precapitalistico. Per società signorile di massa intendo una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavoro sono più numerosi dei cittadini che lavorano».
L’enunciato è preceduto dall’espediente retorico del marziano esploratore, che consente al sociologo di imporre il suo quadro di realtà, riducendo le altre fosche narrazioni circolanti a mere fantasie o a luoghi comuni; osservando la penisola, questo viaggiatore dello spazio troverebbe tantissima «gente che non lavora, oppure lavora poco e trascorre degli splendidi fine settimana in luoghi di vacanza», famiglie con due o più case di proprietà, barche ormeggiate, ristoranti pieni, eccetera.
Che la formula adottata non sia per nulla provocatoria, ma vada presa alla lettera, è dimostrato dalla mole impressionante di dati forniti per descrivere un Paese che prospera, a suo dire, come una nuova Bengodi, dedito a consumi opulenti e sfrenati che coinvolgerebbero perlomeno tre quarti della popolazione (nel conto sono inclusi pensionati e giovani in età scolare), a fronte di una minoranza di produttori di appena il 39,9% e con un sistema scolastico compiacente che forma una generazione di giovani che «può permettersi il lusso di consumare senza lavorare».
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La questione dell’aristocrazia operaia in Lenin e nella congiuntura attuale
di Eros Barone
«1. Economicamente la differenza è che una parte della classe operaia dei paesi oppressori fruisce delle briciole di sovrapprofitti che i borghesi di queste nazioni ricavano sfruttando sempre fino all’osso gli operai delle nazioni oppresse. I dati economici attestano inoltre che tra gli operai dei paesi oppressori la percentuale di quelli “molto qualificati” è maggiore che nelle nazioni oppresse; è inoltre maggiore la percentuale di quelli che entrano a far parte della aristocrazia della classe operaia. È un fatto. Gli operai del paese oppressore cooperano, entro certi limiti, con la propria borghesia a depredare gli operai (e le masse della popolazione) della nazione oppressa. 2. Politicamente la differenza è che gli operai dei paesi oppressori assumono una posizione privilegiata, rispetto agli operai della nazione oppressa, in vari campi della vita politica. 3. Idealmente o spiritualmente la differenza è che gli operai dei paesi oppressori sono sempre educati, dalla scuola e dalla vita, al disprezzo o al disdegno delle nazioni oppresse».
V. I. Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’ «economismo imperialistico» (1916). 1
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Genesi storica di una categoria teorica
Il tema dell’aristocrazia operaia diventa una questione centrale ed una chiave interpretativa importante della complessa e difficile attività politica e ideologica di Lenin nel periodo in cui il grande rivoluzionario russo si trova a dover motivare con un’analisi approfondita e differenziata della realtà i suoi orientamenti di lotta contro la guerra imperialistica e, insieme con essi e alla loro luce, la sua critica ai partiti della Seconda Internazionale. I primi accenni specifici alla questione si situano infatti tra il 1912 e il 1913, ossia in anni fondamentali per la maturazione dell’internazionalismo di Lenin su scala mondiale e per la genesi della sua concezione dell’età dell’imperialismo.
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La via dell'Italexit
di Leonardo Mazzei
Alcuni lettori, per niente convinti dell'ITALEXIT, ovvero dell'uscita dall'euro, hanno mosso delle obiezioni alle tesi di MPL-P101 pubblicate giorni addietro. "L'Italia è troppo piccola per reggere l'urto della reazione dei mercati", "col debito che abbiamo ci strangolerebbero", "i capitali fuggirebbero a gambe levate", "avremmo inflazione e... svalutazione". Volentieri entriamo nel dettaglio con questo articolo
Quelli che... ormai è troppo tardi
Che l'euro sia un grave problema per l'economia italiana viene ormai riconosciuto con sempre maggior frequenza. Ma mentre la platea degli ultras della moneta unica si va pian piano svuotando, viene invece a riempiersi quella di chi, pur ammettendo i danni prodotti, sa solo concludere che ormai è troppo tardi per uscirne.
Insomma, se fino a qualche tempo fa si doveva assolutamente restare nell'eurozona per i presunti benefici di questa collocazione - moneta "forte", aggancio a sistemi produttivi considerati più avanzati, tutela del risparmio, eccetera - oggi si tende ad evidenziare i problemi connessi all'uscita. Segno dei tempi, senza dubbio, ma anche della manifesta impossibilità di continuare a sostenere la bontà di una scelta che ha fatto sprofondare l'Italia nella crisi più grave degli ultimi ottant'anni.
Certo, la recessione scoppiata nel 2008 ha avuto una dimensione non solo europea, ma il fatto che si sia rivelata più profonda e prolungata proprio nell'Unione, ed ancor più nell'eurozona, qualcosa dovrà pur dirci. Tanto più che tra i benefici dell'euro doveva esserci pure quello di attenuare i cosiddetti shock esterni. E' avvenuto invece il contrario, come dimostrato da tutti gli indicatori economici: da un lato l'Unione Europea è l'area dove la crisi ha picchiato più duro, dall'altro l'euro ha aumentato le asimmetrie tra le varie economie nazionali che la compongono.
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Plusvalore e autocrazia di fabbrica
di Marco Beccari e Domenico Laise
È trascorso circa un secolo e mezzo dal Capitale di Marx, ma la natura della fabbrica capitalistica è rimasta, nella sostanza, la stessa: un'organizzazione gerarchica dispotica. L’articolo trae spunto dal seminario “L’organizzazione del lavoro nella fabbrica capitalistica” tenuto da Domenico Laise per l’Università Popolare A. Gramsci nell’anno accademico 2018-2019 [1]
Nel celebre capitolo tredicesimo del Primo Libro del Capitale− dal titolo Macchine e Grande Industria − Marx descrive quelle che sono le principali caratteristiche organizzative del lavoro di fabbrica. Tra le tante, Marx sottolinea e si sofferma sulla natura "autocratica" (dispotica) della gerarchia organizzativa di fabbrica. Egli osserva che nella "fabbrica il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia" [2]. Il potere autocratico del capitalista è fatto osservare dai sorveglianti, che, per conto dei capitalisti, somministrano le multe e le ritenute sul salario, quando gli operai non osservano il "codice della fabbrica".
Oggi, come ai tempi di Marx, i sorveglianti si chiamano "foreman (caporeparto)" o "controller (controllore)". La sostanza delle cose non è cambiata: la fabbrica non è il luogo dove si afferma e si respira la "democrazia industriale". Il nucleo operativo della fabbrica (operai) è escluso, infatti, dall'ambito delle decisioni strategiche, che competono solo ai top-manager, nominati ed eletti dagli azionisti, che sono i proprietari della fabbrica e dei mezzi di produzione. In sintesi, in fabbrica vige, tuttora, la "dittatura degli shareholder" (azionisti-proprietari) [3]. Dall'epoca in cui scriveva Marx ad oggi non ci sono state modifiche di rilievo. La fabbrica è, ancora, un "Panottico", in cui aleggia quello che, un competente come Taiichi Ohno, ha definito "lo Spirito della Toyota". Come osserva Marx, "La direzione capitalistica ... allo stesso modo di un esercito ha bisogno di ufficiali superiori (manager) e sottufficiali (foremen) i quali comandano in nome del capitale" [4].
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Davos di fronte all’abisso
di Claudio Conti
Con un intervento di Guido Salerno Aletta da Milano Finanza
Seguire il vertice di Davos a grande distanza, senza neanche potercisi avvicinare, è complicato. I media mainstream ne danno un quadro sicuramente fasullo, ma qualche informazione utile trapela lo stesso. Guarda caso, come sempre, da quelle testate specializzate, lette da imprenditori e operatori finanziari, che non possono permettersi di fornire informazioni sbagliate come base per le decisioni di investimento.
Al di là della cronaca, l’analisi di Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, stavolta centra il punto di crisi vera cui è giunto il modo di produzione capitalistico nel suo complesso – l’eccesso di capacità produttiva installata, che marxianamente inquadriamo come un aspetto della crisi di sovrapproduzione – e le due diverse ipotesi di “soluzione” che dividono il campo capitalista.
L’America di Trump ha scelto sicuramente una strada retrograda, che facilita una gestione ideologica reazionaria sul piano politico e culturale. Il resto del “mondo che conta” invece punta sul green deal per uscire dalla stessa impasse.
Entrambe le soluzioni, conviene dirlo subito chiaramente, presuppongono che non ci sia alternativa al capitalismo più brutale, al neoliberismo più sfrenato. Entrambe le soluzioni,insomma, prevedono morte e distruzione, profitti inimmaginabili e povertà sempre più diffusa. E una crisi ambientale inarrestabile.
La differenza sta fondamentalmente nel fregarsene della crisi ambientale oppure usarla come occasione di ulteriore business. Il che comporta un corollario politicamente importante: difendere soprattutto gli interessi e la struttura produttiva degli Stati Uniti (America first) oppure provare a disegnare una “globalizzazione di riserva”, con tanta vernice verde a nascondere sangue e povertà.
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Di Maio se ne va. Il MoVimento ritorna?
Decisione opportuna, ma tardiva e nel momento sbagliato
di Fulvio Grimaldi
Era ora, sospira una gran moltitudine dei 5Stelle, dopo aver dovuto assistere, nell’impotenza della mancanza di proposte alternative dichiarate, al precipitare nella quasi irrilevanza della più grande forza politica e sociale del paese, anche l’unica morale nel quadro depravato delle realtà partitiche dei tempi. Nel titolo esprimo impazienza per l’abbandono di uno che valeva tutti, cui non ho risparmiato critiche dure fino allo sberleffo. Sberleffo commisurato alla sua supponenza, alla spropositata ambizione, fonte di irrimediabili cantonate, poi sofferte da tutto il Movimento.
Ritiro “tattico”, secondo il garante
Va però visto anche il pericolo, per il futuro del movimento sopravvissuto alla cura Di Maio e sodali, che l’uscita di scena, per quanto probabilmente strumentale e parziale (in vista, magari, di un richiamo “per acclamazione” agli Stati Generali, o al Congresso), sia in questo momento, nell’immediata imminenza delle elezioni in Emilia-Romagna e Calabria, l’ennesima botta micidiale che l’improvvido capo politico infligge alla sua gente. Che, già disorientata prima, ora, in pieno marasma elettorale, si trova addirittura priva del riferimento a quel paparino-padroncino. La sua, da questo punto di vista, è una fuga. Altro che dare la colpa a “chi critica in modo distruttivo anziché costruttivo”. Distinzione falsa e tendenziosa di chi le critiche non le vuole in alcun modo. Come s’è visto con Paragone, esempio di fedeltà all’impegno. Dunque “costruttivo”.
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Considerazioni intorno alla nuova legge francese di bioetica1
di Silvia Guerini
È aperta la strada alla riproduzione artificiale dell’umano. Contro l’eugenetica e l’antropocidio riaffermiamo con forza l’indisponibilità dei corpi e del vivente
«Il “diritto di avere un bambino” delle persone con una sterilità organica o dovuta all’avvelenamento chimico e industriale dell’ambiente, delle donne sole e delle coppie dello stesso sesso serve oggi come pretesto alla generalizzazione della riproduzione artificiale, asservita ai piani e processi degli scienziati eugenisti e transumanisti e diventata la nuova norma».2
Il 21 gennaio 2020 in Francia è stato approvato definitivamente al senato l’Art. 1 del progetto di legge sulla bioetica3 che riguarda le nuove norme per l’accesso alle tecniche di riproduzione artificiale. Tutto il mondo della sinistra, a parte rare eccezioni4 criticate e tacciate di essere omotransfobiche, lesbofobiche, fasciste e reazionarie, ha accolto questa legge con entusiasmo sotto il segno della libertà, ma la “PMA per tutti e tutte” non è un grido di libertà e autodeterminazione, è un futuro a cui potremmo essere tutti e tutte condannate. Siamo di fronte a dei passaggi epocali che vanno compresi nel loro pieno significato e per le loro conseguenze sull’intera umanità.
La retorica dell’uguaglianza per aver esteso le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) alle coppie di lesbiche e alle donne sole maschera il reale significato di questa legge: la nuova legge apre il diritto alle tecniche di PMA, tra cui la fecondazione in vitro (FIV) con iniezione introcitoplasmatica (ICSI) dello spermatozoo, a tutte le donne aprendo definitivamente alla riproduzione artificiale dell’umano attraverso un processo che inizia con il tubo di plastica dell’inseminazione per terminare con la selezione genetica degli embrioni. “Tutte le donne” significa che qualsiasi coppia eterosessuale, comprese le coppie fertili, può avere libero accesso alle tecniche di riproduzione artificiale.
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Quelo, Greta e la dottrina neoliberale della verità multipla
di Pier Paolo Dal Monte
«C’è grossa crisi», direbbe Quelo, quella sorta di parodistica crasi di santone e telepredicatore che fu interpretato da Corrado Guzzanti.
La crisi, è l’«ospite inquietante» dei nostri tempi, accompagna sempre qualunque presente, con un montante subentrare di tante crisi: Leconomia, Lecologia, Lademografia, Lemigrazioni, Lapovertà, Lepidemie, Linflazione, Ladeflazione... un incalzare di crisi che riduce i poveri esseri umani come tanti pugili suonati che, incapaci di reagire, ricevono tutti i colpi che i mezzi di informazione riversano sulle loro povere menti.
Ovviamente, ora non possiamo parlare di tutte le crisi portate alla ribalta dall'inesauribile cornucopia dei mezzi di comunicazione; ci concentreremo, pertanto, su una sola di esse che, periodicamente (e ora, anche, prepotentemente), viene portata all'attenzione dell’opinione pubblica, ovvero quella che viene definita «crisi climatica» o «riscaldamento globale» che dir si voglia.
Questa volta, per creare sgomento nelle vittime della mitologia mediatica su questo «fantasma che si aggira per il mondo», non è stato utilizzato uno scienziato dal linguaggio algido e un po’ astruso, non un politicante imbolsito alla Al Gore, o un attore Hollywoodiano al guinzaglio (che, non si sa mai, avrebbe potuto essere fotografato alla guida di una Lamborghini o a bordo di un jet privato). No, niente di tutto questo.
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Regionali: trionfo delle sardine, prima sconfitta per Salvini
di nique la police
Cominciamo dalle elezioni calabresi: alla fine un partito in declino irreversibile come Forza Italia ha piazzato un presidente di regione e può accreditare la sconfitta in Emilia ai due partiti alleati e alle loro strategie. Il voto emiliano invece emette verdetti piuttosto chiari: si tratta di una vittoria delle sardine, intese come main sponsor del centrosinistra, e della prima vera sconfitta della Lega di Salvini. Basta ripercorrere la situazione di inizio autunno per rendersene conto: Salvini aveva radunato per le regionali una coalizione che partiva, dati delle europee alla mano, con almeno cinque punti di vantaggio sul centrosinistra e che si stava attrezzando per una campagna elettorale aggressiva sui social e sul campo. Con l’esplosione del movimento delle sardine – in piazza, sui social e sui media alleati – l’elettorato di centrosinistra si è prima compattato al proprio interno e poi ha recuperato punti, consenso, posizioni.
E’ evidente che questo movimentismo a fianco del centrosinistra – basato su una strategia di comunicazione adeguata, banale quanto semplice, low cost e diretta -era quello che mancava agli antagonisti di Salvini fino ad oggi politicamente ingessati e incomprensibili dal punto di vista comunicativo.
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Torna il “bipolarismo obbligato” fondato sulla paura
di Dante Barontini
La mattina dopo, a schede quasi tutte scrutinate, tirare le somme è un dovere. L’Emilia Romagna è rimasta al Pd e Stefano Bonaccini, rovesciando le previsioni della vigilia, ossia dei sondaggi che davano Salvini e la deriva fascioleghista trionfante.
La “marea nera” – o più banalmente la solita destra conservatrice italica, immutabile da sempre sotto il frenetico susseguirsi di liste dai nomi più diversi (c’era persino un “Popolo delle libertà” ad affiancare “Forza Italia”, come nemmeno negli sketch migliori dei fratelli Guzzanti…), ha invece prevalso in Calabria, sostituendo un’amministrazione targata Pd travolta dalle inchieste sulla ‘ndrangheta (che deve aver perciò velocissimamente cambiato cavallo…).
Il “voto nazionale” era però concentrato in Emilia Romagna, ed è su questo risultato che si deve concentrare l’attenzione per ricavarne indicazioni generali.
Intanto i numeri.
Stefano Bonaccini ha preso il 51,4%, Lucia Borgonzoni il 43,68. Il candidato grillino, Simone Benini, il 3,46.
Dietro, tutti molto sotto l’1%.
Torna il “bipolarismo obbligato”
La prima considerazione è matematica: finisce qui la breve stagione del “tripolarismo”, segnata dalla presenza dei Cinque Stelle. Si torna allo schema bipolare, fondato sulla paura. In questo la separazione ridicola dei due schieramenti in una destra e una “sinistra” è totalmente funzionale all’imprigionamento del voto popolare. Esattamente come il “poliziotto cattivo” e quello “buono” in questura: entrambi “lavorano” per mandarti in galera, ma si dividono le parti perché tu ti dimentichi che prendono lo stipendio dallo stesso ufficio.
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Il "voto utile" di utili idioti al sistema
di Gianpasquale Santomassimo
Non avevo dubbi sul risultato del ballottaggio emiliano tra le due destre separatiste. Per la straordinaria mobilitazione dell'establishment, per l'invenzione e il sostegno assicurato in forme invadenti a un movimento di giovani moderati e decerebrati, per i toni da crociata contro infedeli, renitenti e scettici, additati come potenziali traditori della civiltà. Ma il fatto stesso che si fosse arrivati a una sorta di ballottaggio non può essere rassicurante per i vincitori, che si ritroveranno tra qualche mese ad asserragliarsi nel ridotto emiliano e toscano nel quadro di un'Italia compattamente di destra.
Ma dal mio punto di vista il dato più importante è che questo risultato segna la fine della sinistra in Italia, la pietra tombale su ogni velleità di ricostruire una prospettiva che nel resto d'Europa è usuale e scontata.
Da ora in poi è evidente che il destino della sinistra è unicamente quello di portare acqua (con le orecchie, il più delle volte) alle battaglie dell'establishment, alle scelte della minoranza di benpensanti e benestanti che da tempo si è intestata la rappresentanza di ciò che chiama "centrosinistra".
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Alcuni spunti di riflessione sul voto
di Riccardo Achilli
Per i cultori della materia, ci sarà più tempo per una analisi su matrici territoriali e sociali. Alcune cose sono però evidenti:
- Salvini ha perso e anche male. In Emilia-Romagna Bonaccini ha succhiato circa due punti percentuali al centro destra con il voto disgiunto, tutto voto di destra moderata e forzista che si trovava a disagio con gli estremismi verbali del capitano, ed apprezzava la buona gestione amministrativa di questi anni; un altro punto di voto disgiunto è arrivato dal M5s (differenza voto di lista - voto al candidato) ma Bonaccini avrebbe vinto anche senza il voto disgiunto. Di fatto, la Borgonzoni è avanti solo in provincia di Piacenza, che però è proiettata sulla Lombardia, in alcune zone della Romagna, dove è più forte il radicamento leghista ed in montagna, ponendo un tema di riequilibrio territoriale. Ma il cuore emiliano, la rete di città medie e piccole di pianura, ha retto;
- non è mai corretto fare paragoni fra elezioni diverse, ma la Lega perde voti rispetto alle europee, non è più il primo partito in Emilia-Romagna, la sua candidata arranca a sette punti e passa dal vincitore e persino nella trionfale cavalcata calabrese deve cedere lo scettro di partito leader a Forza Italia.
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Passare tra Scilla e Cariddi, il nostro compito
di Alessandro Visalli
“Navigavamo gemendo attraverso lo stretto: da una parte era Scilla, dall’altra la chiara Cariddi cominciò orridamente a succhiare l’acqua salsa del mare. Quando la vomitava, gorgogliava tutta fremente, come su un gran fuoco un lebete: dall’alto la schiuma cadeva sulla cima di entrambi gli scogli. Ma quando succhiava l’acqua salsa del mare, tutta fremente appariva sul fondo, la roccia intorno mugghiava orridamente, di sotto appariva la terra nera di sabbia. Li prese una pallida angoscia. Noi volgemmo ad essa lo sguardo, temendo la fine, ed ecco Scilla mi prese dalla nave ben cava i sei compagni migliori per le braccia e la forza”.
Odissea, canto XII
Per passare indenni tra Scilla e Cariddi servono alcune cose: una nave, quindi un collettivo che abbia in sé il senso del viaggio, e una rotta. Ma bisogna anche capire bene cosa sia Scilla, il mostro con dodici zampe e sei teste che ci può prendere uno per uno, e nello stesso modo cosa sia Cariddi, il gorgo nel quale possiamo esser inghiottiti tutti. Dobbiamo sapere da dove veniamo, come siamo giunti qui, cosa abbiamo perso e cosa guadagnato.
La crisi
Tutto è partito con la crisi del modello fordista e, in modo indissolubile, della prima fase del dominio geopolitico statunitense. Una fase che si chiude con la sconfitta in Vietnam e con la crisi del dollaro-oro[1]. È in queste circostanze che tramonta il keynesismo, per quanto ‘bastardo’, e sorge l’egemonia neoliberale. Si tratta di processi lunghi e largamente interconnessi, e che si sviluppano sul piano geopolitico, economico e socio-culturale con sovrapposizioni e slittamenti[2]. La crisi egemonica si compie come intreccio di più ragioni:
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Fine di “un’era” molto breve, Cinque Stelle al big bang
di Dante Barontini
Luigi Di Maio annuncia le sue formali dimissioni da capo politico dei 5 stelle e, dice lui stesso, “è la fine di un’epoca”.
Al di là dell’auto-sopravvalutazione individuale, sempre presente in questi casi, la sua rinuncia alla guida solitaria di ciò che resta del movimento Cinque Stelle certifica una crisi che si trascinava dal momento stesso in cui il “capo politico” – definizione resa obbligatoria dalla legge elettorale in vigore, parto delle “menti sottili” di Renzi e Rosato – aveva deciso di fare un governo insieme alla Lega, nel giugno 2018. Data da allora, infatti, la corsa verso il baratro nei sondaggi e soprattutto nei risultati elettorali.
Visto che non ci interessano più di tanto i gossip politici (“si dimette, ma per tornare”, “ora si va alla leadership collettiva”, “Di Battista si scalda in panchina” e via dicendo), preferiamo concentrare l’attenzione sulla fine di una stagione e di una cultura politica che ha avuto un forte successo pur essendo palesemente inconsistente.
E’ questo il piano su cui, ci sembra, si può provare a capire quali strade seguire in futuro per costruire effettivamente un’alternativa politica al tempo stesso radicale ed efficace.
Malessere sociale e rappresentanza politica
Da quasi 30 anni – da quando si è introdotta una “logica del maggioritario” nelle leggi elettorali, in curiosa coincidenza con l’entrata in vigore dei trattati di Maastricht e dei “vincoli” lì indicati – il malessere sociale è andato crescendo.
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