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Francia, cattivo esempio
Rossana Rossanda
Non è serio ridurre la questione della legge elettorale alla solita rissa fra notabili. Quali che siano i limiti della democrazia rappresentativa, considerare il problema come inesistente è una frivolezza che non ci possiamo permettere.
Il sistema elettorale «alla francese», al quale inclina Walter Veltroni, è il peggiore nei dintorni. Un presidenzialismo secco, vera e propria monarchia, senza neanche un'adeguata informazione degli elettori: Nicolas Sarkozy, scelto dal suo partito nel giro di due sedute a 2007 già avanzato, era presidente della Repubblica quattro mesi dopo. Peggio che negli Usa.
Nel sistema statunitense come in quello francese l'obiettivo è ridurre più che si può la complessità delle espressioni politiche in una società complessa. Cosa che negli Usa è, molto parzialmente, corretta da una divisione dei poteri, in Francia assai meno. E non penso a quella elementare divisione che dovrebbe darsi fra presidenza, governo e parlamento; già era poca cosa dopo la costituzione di De Gaulle del 1958, adesso sarà ancora meno, dato che secondo la commissione nominata da Sarkozy se finora toccava al presidente e al governo decidere la linea della Repubblica, d'ora in poi questo toccherà soltanto al presidente.
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Imprese, politici e camorra: ecco i colpevoli della peste
di Roberto Saviano
Gli ultimi dati dell'Oms parlano di un aumento vertiginoso, oltre la media nazionale, dei casi di tumore a pancreas e polmoni.
È un territorio che non esce dalla notte. E che non troverà soluzione. Quello che sta accadendo è grave, perché divengono straordinari i diritti più semplici: avere una strada accessibile, respirare aria non marcia, vivere con speranze di vita nella media di un paese europeo. Vivere senza dovere avere l'ossessione di emigrare o di arruolarsi.
E' una notte cupa quella che cala su queste terre, perché morire divorati dal cancro diviene qualcosa che somiglia ad un destino condiviso e inevitabile come il nascere e il morire, perché chi amministra continua a parlare di cultura e democrazia elettorale, comete più vane delle discussioni bizantine e chi è all'opposizione sembra divorato dal terrore di non partecipare agli affari piuttosto che interessato a modificarne i meccanismi.
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Sei un ponte sconnesso, ma sei il solo ponte...
di Rossana Rossanda
Rossanda si rivolge alla grande “S” cioè alla Sinistra fatta dai 4 partiti
Caro Sansonetti, se la grande S si è impantanata su una legge elettorale darebbe ragione a chi ci ha creduto poco. Non è la prima volta che il tema “elezioni” manda in tilt qualsiasi progetto sui tempi medi. Ne ha fatto esperienza il manifesto nel 1972, poi nel 1976. E’ per questo che Rifondazione ha mandato a picco la Camera di consultazione di Asor Rosa. E su questo adesso l’inciampo viene dal Pdci.
Nel caso di piccoli partiti non è misera voglia di poltrone: è il timore di diventare invisibili, cessare di esistere come i grandi partiti non nascondono di sperare. La stessa base militante esige una lista, dimostrando quanto sia ancora contraddittorio il bisogno, teorizzato al meglio da Tronti, di “andare oltre la democrazia”, che è poi quella “rappresentativa”. E sarà così, penso, finché non sarà chiaro come “andare oltre” senza riprodurre i “socialismi reali”; perché, oggi come oggi, altro non conosciamo.
Intanto nessuno dei quattro partiti in campo si fida che l’altro ne garantisca le ragioni di esistenza. Soltanto Rc è ragionevolmente certa di passare lo sbarramento di una proporzionale; toccherebbe ad essa dunque di garantire le altre, facendo qualcosa di comprensibile dell’attuale slogan “unità plurale”.
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Banca del Sud e BCE. Due modelli a confronto?
Gianluca Bifolchi
Almeno sulla carta la Banca del Sud è nata. Come da protocollo ieri, alla Casa Rosada, i presidenti Néstor Kirchner, Argentina, Evo Morales, Bolivia, Inácio Lula da Silva, Brasile, Rafael Correa, Ecuador, Nicanor Duarte, Paraguay, Hugo Chávez, Venezuela, ed un rappresentante del governo uruguayano (il presidenteTabaré Vázquez si recherà a Buenos Aires soltanto oggi per l'insediamento del nuovo presidente, Cristina Fernández de Kirchner) , hanno apposto le loro firme in calce all'atto fondativo.
Le incognite sull'effettiva riuscita di questo grande progetto di integrazione latinoamericana sono di due ordini. Il primo riguarda la capacità di reperire i fondi necessari agli ambiziosi obiettivi statutari. I sette miliardi di dollari di conferimento iniziale da parte degli stati membri non sono ovviamente sufficienti per una attività creditizia di portata subcontinentale, e il nuovo ente dipenderà dal successo di attività di raccolta del risparmio attraverso depositi ed obbligazioni, come qualunque altra banca.
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Sinistra arcobaleno. Inutile, dannosa o arretrata?
di nique la police
E' terminata ieri la convention della Sinistra arcobaleno, nome imposto dai media e dall'uso comune dopo che le mediazioni tra i gestori dei quattro cartelli elettorali che la compongono avevano partorito una sigla simile ma meno diretta e più bizantina.
Con la massima benevolenza d'analisi, e con la convinzione che a sinistra tutti possono servire, non possiamo però non rilevare che l'inconsistenza politica di questo nuovo cartello elettorale, nato come affluente di quattro più piccoli, segua quella ampiamente mostrata dal partito democratico. E qui l'etimologia del termine "politica" ci aiuta a capire il problema meglio di altri punti di osservazione: la provenienza dal greco del vocabolo "politica" indica questa come l'amministrazione della cosa pubblica suggerendo però anche una profonda incertezza e una continua oscillazione del significato di cosa pubblica.
Visto che la retorica fondativa della sinistra arcobaleno non difetta di richiami alle mutazioni storiche in atto la cronica incapacità, mostrata da ogni oratore in campo, a definire quali siano queste mutazioni rivela come questa retorica non riesca ad elevarsi sul piano dell'eloquenza figuriamoci quindi se riesce ad arrivare a quello dei contenuti.
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Il ritorno della politica
Intervista a Toni Negri
di Marianna Canavese e Bruno Fornillo
Il saggista italiano annuncia la fine della postmodernità, almeno nel suo aspetto politico di indifferenza innanzitutto del bene comune. Dice che ricomincia la narrazione di un processo di liberazione. In questa chiacchierata analizza la situazione attuale del capitalismo e le sue derivazioni nel lavoro. Le sue posizioni hanno conosciuto le obiezioni di Laclau, Dri e Boròn, tra gli altri, che lo accusano di un eccesso di utopismo e di non tener conto delle dimensioni nazionali della lotta politica.
Suole dire che l'Italia della fine degli anni '60 e gran parte degli anni '70 era immersa in un grado di mobilitazione collettiva che operò come una sorta di laboratorio della politica di emancipazione. In Argentina, dopo aver visitato la Bolivia e il Venezuela, il filosofo Toni Negri - uno degli animatori di quel ciclo della rinnovazione di quel discorso - annuncia il tempo di una nuova narrazione delle pratiche politiche. Soggetto a multiple letture, interpreta che la ricezione locale della suo opera è stata "negativa e limitata" rispetto alle discussioni che determinò in altre regioni del continente.
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La guerra statunitense nel Darfur
di Keith Harmon
Black Agenda Report
La regione del Darfur nel Sudan possiede giacimenti di rame e uranio, terzi e quarti rispettivamente in ordine di grandezza nel mondo, oltre ad una localizzazione strategica e a significative riserve di petrolio. Il movimento statunitense "Save Darfur" sta raccontando balle sulla natura fondamentale del conflitto in Sudan? Sono il "Save Darfur" e la prevenzione di un genocidio i convenienti pretesti per il prossimo turno di guerre per il petrolio e le risorse nel continente africano?
La regione del Darfur nel Sudan occidentale è stata un covo di attività clandestine, di contrabbando d’armi e di indiscriminata violenza per decenni.
"La tragedia umanitaria nel Darfur verte sulle risorse naturali…. Date le attuali realtà, nessun intervento potrebbe continuare e se fosse effettuato fallirebbe."
Così pensavano nel settembre 2006 gli autori OPED "Keeping Peacekeepers out of Darfur" [Tenere le forze di pace fuori dal Darfur] (DHG, 15/9/06). Adesso (più di un anno dopo) la situazione in Sudan è truce più che mai, il conflitto nel Darfur rimane indefinito, e molte delle previsioni di quell’Oped si sono rivelate vere.
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Il gran burattinaio del mercato
Christian Marazzi
«L'era della turbolenza» di Alan Greenspan. La guerra compiuta dalla Federal Reserve per far prosperare il capitalismo neoliberista ovunque nel mondo
Le memorie di Alan Greenspan, il mitico e odiato ex-presidente della Federal Reserve, L'era della turbolenza (Sperling & Kupfer), sono presentate al pubblico in settembre, il giorno prima della riunione della banca centrale americana nella quale il suo successore, Ben Bernanke deve decidere cosa fare per gestire la crisi dei prestiti ipotecari subprime, iniziata il 9 agosto. Sembra quasi che Greenspan voglia esortare la Fed a tagliare i tassi di interesse rapidamente e in modo aggressivo, come lui ha sempre fatto nei momenti di crisi finanziaria negli anni della sua presidenza, tra il 1987 e il 2006.
Ma la situazione è cambiata, dice Greenspan in un'intervista al Financial Times del 17 settembre: «Siamo in un periodo molto più difficile di quando ero io presidente. In quegli anni non eravamo preoccupati di una rinascita inflazionistica, ma ora bisogna esserlo. Occorre essere molto più prudenti nell'abbassare i tassi in risposta alle crisi».
E infatti il titolo del suo libro avrebbe potuto essere L'era della disinflazione, perché il tema centrale di questo lavoro riguarda il modo in cui il capitalismo liberista dell'ultimo quarto di secolo è riuscito, tra euforia e paura, tra crescita e bolle speculative sempre più ricorrenti, a sconfiggere l'inflazione, a ridurre i tassi di interesse e a prosperare nel mondo.
Una guerra per il libero mercato
Greenspan non attribuisce a se, né al suo predecessore Paul Volker o ad altri banchieri centrali, il merito della vittoria sull'inflazione degli anni del fordismo e delle lotte operaie sul salario, ma alle forze intrinseche e impersonali del capitalismo, dall'integrazione economica globale, alla deregolamentazione dei mercati, alla rivoluzione tecnologica.
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La passione del fare politico
Rossana Rossanda
Rigore e semplicità. Le qualità de «Principia Iuris». Un'opera che interroga il secolo breve senza ritrarsi di fronte ai nodi che ha lasciato in eredità
Coloro che hanno seguito sia pur da lontano Luigi Ferrajoli nella stesura dei Principia Iuris sanno quanta fatica gli sia costato non l'impianto dell'opera, così radicato nella sua formazione intellettuale, quanto la determinazione a renderla come un pane da spezzare per qualsiasi cittadino che si interroghi sulle relazioni interindividuali e fra individui e società. Come darsi un sistema di regole al fine di garantire la reciproca libertà e sicurezza dei diritti? Antico problema, ma rivisto alla fine di un secolo che ha messo in causa sia le forme della democrazia, sia quello che si voleva un suo superamento in senso comunista. Ne è venuto un lavoro imponente e semplice, rigoroso e comunicante senza nulla togliere allo spessore dell'argomentazione, ai riscontri del e nel sistema, e alla genesi storica e teorica dei concetti.
Sembra impossibile che un titolo così severo e la mole delle pagine costituiscano un'opera che chiunque può prendere in mano senza sentirsi allontanato. Si deve certo all'eleganza della scrittura, ma soprattutto, credo, alla convinzione morale e politica di Ferrajoli che urge ricostruire un sistema di rapporti umani ormai a rischio di imbarbarimento. Bisogna e si può. È poi il fondamento del politico, una posta alta, il contrario d'un esercizio accademico. In questo Luigi Ferrajoli è proprio un illuminista, ne possiede (è posseduto da) quella passione di capire, dirimere e spiegare che si fonda sulla convinzione che la specie umana ha la capacità di darsi un senso e delle regole che ne consentano una terrena sopravvivenza.
Si potranno fare altre accuse all'illuminismo, non quello di non averci restituito la possibilità di quella salvezza, nei limiti della vita, che le religioni negano, rimettendo il nostro destino nelle nostre mani. Filo d'Arianna l'uso della ragione, strumento da usare e verificare nella sua struttura logica e fin matematica. Questa non è una fede, è una scelta. Controcorrente, a stare agli ormai trentennali assalti alla ragione tacciata di imperialismo occidentalista, astrazione, pretesa universalistica, misconoscenza delle differenze. E' proprio la sigla di Ferrajoli - si ricorderà Diritto e ragione - e non perché ignori quanto l'irrazionalità sia costituente dell'umano, ma per la persuasione che non è possibile fondare sull'irrazionale una rete di rapporti che garantisca la libertà. Libertà «di» e libertà «da».
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Disturbatori di attenzione
A cura del Telefono viola di Bologna
[Lo scorso sabato 24 novembre Bologna ha ospitato un convegno sul cosiddetto “disturbo di attenzione e iperattività", una nuova “malattia” che colpirebbe i bambini troppo vivaci. Alcuni membri del Telefono viola di Bologna hanno distribuito volantini informativi su questa pseudo-sindrome e sugli psicofarmaci di riferimento, tra cui spicca il Ritalin. Sul luogo si erano raccolti altri contestatori e mentre la tensione saliva sono volati un po' di spintoni. I “disturbatori” sono stati condotti fuori mentre sul luogo arrivava la polizia, che procedeva alla denuncia per concorso in violenza privata di due volontari del telefono Viola di Bologna e di una terza persona. Vista l'importanza della critica dei trattamenti farmacologici dell'alienazione e del disagio, riproduciamo il volantino sul Ritalin redatto dal Telefono viola.]A.P.
Il ministero della salute nel 2002 ha autorizzato la sperimentazione del RITALIN, un farmaco "dedicato" ai bambini che si appresta entro sei mesi a invadere il mercato italiano.
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La città e la metropoli
di Giorgio Agamben
Permettetemi di cominciare con qualche ovvia considerazione sul termine “metropoli”. Esso significa in greco “città-madre” e si riferisce al rapporto fra la polis e le sue colonie. I cittadini di una polis che partivano per fondare una colonia erano, come si diceva, in apoikia – letteralmente in “allontanamento dalla casa”- rispetto alla città, che, nella sua relazione alla colonia, veniva allora chiamata metropolis , città-madre. Questo significato del termine è rimasto fino ai nostri giorni per esprimere il rapporto fra il territorio della patria, definito appunto metropolitano, e quello delle colonie.
Il termine metropoli implica quindi la massima dis-locazione territoriale e, in ogni caso, un’essenziale disomogeneità spaziale e politica, qual è appunto quella che definisce il rapporto città-colonie. Ciò fa nascere ben più di un dubbio sull’idea corrente di metropoli come tessuto urbano continuo e relativamente omogeneo. L’isonomia spaziale e politica che definisce la polis è, almeno in via di principio, estranea all’idea di metropoli.
In questa comunicazione mi servirò, pertanto, del termine “metropoli” per designare qualcosa di sostanzialmente eterogeneo rispetto a ciò che siamo abituati a chiamare chiamiamo città. Vi propongo, cioè, di riservare il termine metropoli al nuovo tessuto urbano che si viene formando parallelamente ai processi di trasformazione che Michel Foucault ha definito come passaggio dal potere territoriale dell’ Ancien régime al biopotere moderno, che è, nella sua essenza, un potere governamentale.
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Sudan: gli sviluppi interni
Alberto Grossetti
Dopo la firma nel 2005 del Comprehensive Peace Agreement (CPA) che ha messo fine ad una guerra civile durata 22 anni, il paese sta difficilmente affrontando le sfide della ricostruzione e della pacificazione nazionale. L’implementazione dell’accordo è caratterizzata da rallentamenti ed incomprensioni che potrebbero causare un ulteriore irrigidimento dei già precari rapporti tra Khartoum e Juba creando tensioni destabilizzanti. Il governo di El Bashir è inoltre sotto stretta sorveglianza dalla comunità internazionale per la sua condotta in Darfur: durante le negoziazioni di ottobre in Libia il presidente dovrà assumersi impegni e responsabilità precise per riacquistare credibilità internazionale, anche per rafforzare la sua leadership interna, in vista delle elezioni del 2009.
Il perdurare delle tensioni
A 2 anni dalla firma del CPA, il controverso rapporto tra nord e sud del paese è ancora continuo motivo di preoccupazione.Era preventivabile che la firma di un accordo di pace non sarebbe stata sufficiente a curare le profonde ferite derivanti da 22 di guerra civile, e che le sfide maggiori avrebbero riguardato il periodo post-bellico. Le relazioni tra Khartoum e Juba sono gelide, con il Sudan People's Liberation Movement (SPLM) che accusa il presidente El Bashir e il National Congress Party (NCP) di ostacolare volontariamente la realizzazione delle disposizioni del CPA e di prendere decisioni politiche chiave di interesse nazionale unilateralmente, mettendo in discussione il principio “comprensivo” di condivisione del potere stabilito dall’accordo.
Tra i motivi di frattura a cui il CPA doveva mettere rimedio vi è la gestione del petrolio e l’utilizzo dei suoi proventi. Il settore estrattivo ha avuto uno sviluppo molto rapido negli ultimi anni, passando dai 1.500 barili di produzione giornaliera nel 1999 ai 500.000 odierni, che potrebbero aumentare sensibilmente in futuro e si prevede che le entrate petrolifere quest’anno raggiungeranno i 4 miliardi di dollari, portando ad una crescita del PIL superiore al 10%.
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Stato e mercato
Sole 24 Ore, il «momento Minsky» e il liberismo impossibile
Riccardo Bellofiore
Valentino Parlato ha invitato il Sole 24 Ore all'apertura di un dibattito. L'invito è stato raccolto da Fabrizio Galimberti. L'occasione è il salvataggio della Northern Rock da parte dello stato, ma la discussione investe spazio e ruolo del liberismo. Vorrei proporre un punto di vista inusuale, forse intrigante anche per i giornalisti del Sole, che sono di buone letture.
La crisi dei subprime, in incubazione da tempo, si è fatta seria a marzo, ed è esplosa a luglio. Proprio a marzo e a luglio George Magnus, senior economic advisor dell'Ubs di Londra, in due rapporti ha avvertito che si avvicinava un «momento Minsky». L'espressione è circolata nei blog finanziari, ed è diventata una valanga. Non ha risparmiato il Financial Times o il Wall Street Journal, il Guardian e Le Monde Diplomatique, da noi persino Repubblica. Di che si tratta?
Hyman P. Minsky è un economista eterodosso americano, morto nel 1996. Una Cassandra che ricordava sempre che la «stabilità è destabilizzante». La crescita capitalistica degenera ineluttabilmente in instabilità finanziaria. Quando le bolle scoppiano, la deflazione da debiti è dietro l'angolo. I suoi libri sono tradotti, in italiano da editori prestigiosi. Ma nessuno se ne ricordava più. Come mai tanta notorietà, ora?
La risposta è facile: Minsky ha avuto fastidiosamente ragione. La sua visione è semplice e potente.
Nel capitalismo, produzione e investimento devono essere finanziati, e al centro del sistema dei pagamenti ci sono le banche. Dopo una grave crisi, il ciclo riparte con una crescita «tranquilla». Gli operatori sono in posizione coperta»: le entrate di cassa coprono le uscite. Le cose vanno bene, l'ottimismo si diffonde, debitori e creditori riducono la stima del rischio.
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La feconda eredità di un pensiero materialista proiettato sul presente
Il Meridiano delle «Opere» di Baruch Spinoza. Una raccolta e una bella traduzione di tutti gli scritti unita a una efficace nota che scandisce la vita del filosofo olandese. L'interpretazione di Spinoza è stata in perenne rinnovamento, anche se non mancano ancora studiosi che cercano di neutralizzare un pensiero la cui eredità permette di uscire dalla crisi della cultura della sinistra italiana
Toni Negri
In una recente intervista Pierre-François Moreau (oggi punto di riferimento degli studi francesi su Spinoza) ha notato che l'Italia è forse il paese nel quale si pubblica di più sull'opera di Spinoza. Paradossalmente, nel nostro paese non c'era tuttavia un'edizione di riferimento che, in buon italiano, comprendesse l'intera opera del grande autore seicentesco. Oggi, questa Opera finalmente c'è: pubblicata da Mondadori nei Meridiani, a cura e con un saggio introduttivo di Filippo Mignini (che ha anche lavorato alle traduzioni ed alle note con Omero Proietti). Quest'edizione è importantissima perché raccoglie, come s'è detto, tutta l'opera di Spinoza, perché la traduce bene, perché contiene un'utile introduzione teorica, un accurato accenno storico alla fortuna di Spinoza e soprattutto perché offre un'accurata cronologia ragionata sulla vita di Spinoza e sull'ambiente olandese nel quale la sua filosofia si è formata.
(A proposito chi ne ha il tempo può ancora visitare a Parigi, nel Musée d'Art et d'Histoire du Judaisme, una ricchissima ed appassionante esposizione sull'Amsterdam ebraica di Rembrant e Spinoza). Era ora che questo strumento essenziale fosse messo a disposizione degli studiosi italiani.
Un autore azzerato
Come ben si segnala nell'introduzione, l'interpretazione di Spinoza e la sua fortuna sono state in perenne rinnovamento. Anche a chi scrive è richiesto di prendere posizione su questo terreno e di misurare in che prospettiva mettersi nello spendere o forse, meglio, nell'investire le fortune lasciateci da Spinoza.
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La nouvelle vague della decrescita
Alcune riflessioni critiche sull'ultimo libro di Serge Latouche edito da Feltrinelli presentato come «un vero e proprio manifesto per la Società della decrescita» da realizzare attraverso un programma che punti alla diminuzione delle merci prodotte Il crollo prossimo venturo La proposta dello studioso francese di trasformare la società attraverso comportamenti virtuosi è espressione di una «pedagogia delle catastrofi» in cui la denunci
Luigi Cavallaro
Da quando il tracollo dell'esperimento sovietico è sembrato riportare le lancette della storia all'epoca del «trionfo della borghesia», per dirla col titolo del celeberrimo libro di Eric J. Hobsbawm, una nuova idea ha cominciato a farsi strada tra gli orfani irreconciliati dell'idea «crollista». L'idea, molto in sintesi, è che il capitalismo, assai più gravemente che da un antagonismo di classe nel frattempo annacquatosi, sarebbe minato da un rapporto contraddittorio addirittura con la «natura»: la sua propensione alla «crescita illimitata», infatti, prima o poi dovrebbe indurlo a sbattere il muso contro la finitezza del pianeta Terra e delle sue risorse.
È stata la legge dell'entropia a offrire il pilastro teorico su cui edificare una narrazione ancor più fosca del declino irreversibile del modo di produzione (nuovamente) dominante. La presa di coscienza del fatto che tutti i tipi di energia sono destinati prima o poi a trasformarsi in calore non più utilizzabile e che il sistema solare tutto tende verso una «morte termodinamica» ha indotto, infatti, i «neocrollisti» a formulare critiche «radicali» all'idea che il processo economico potesse essere descritto in termini circolari e a esigerne con forza una rappresentazione in termini unidirezionali, rispettosa della «freccia del tempo».
La catastrofe annunciata
La termodinamica, in tal modo, è diventata la «fisica del valore economico» e la legge dell'entropia «la radice della scarsità economica», come scrisse l'economista e statistico di origine rumena Nicholas Georgescu-Roegen.
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I quattro cavalieri della globalizzazione
Gli eredi del neoliberismo della prima ora perseguono strade diverse per salvare il libero mercato. Ma tendono però a chiudere gli occhi sul fallimento del progetto «globalista», respingendo i progetti di deglobalizzazione portati avanti dai movimenti sociali
Walden Bello
Quando lo scorso anno due studi hanno descritto come il centro di ricerca della Banca Mondiale avesse sistematicamente manipolato i dati per dimostrare che le riforme neoliberiste sul mercato stessero promuovendo la crescita e riducendo la povertà nei paesi in via di sviluppo non ci fu nessuna reazione di sorpresa da parte dei «circoli» intellettuali, economici e politici che si occupano di politiche dello sviluppo. Gli sconvolgenti risultati dell'analisi svolta dal Robin Broad dell'American University e il rapporto di Angus Deaton della Princeton University e dell'ex direttore del Fondo Monetario Internazionale Ken Rogoff erano l'ultimo atto del collasso di ciò che è stato chiamato Washington Consensus.
Imposto ai paesi in via di sviluppo attraverso la formula dei programmi di «aggiustamento strutturale» finanziati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, il Washington Consensus ha regnato fino ai tardi anni '90 quando fu evidente che l'obiettivi perseguito - crescita sostenuta, riduzione della povertà e dell'ineguaglianza - era lungi dall'essere raggiunto. Ed è proprio alla metà di questo decennio che il «consenso» viene meno. Il neoliberismo rimane sempre lo «standard», ma molti economisti e tecnocrati hanno ormai perso fiducia in esso.
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Il potere costituente della contingenza
di Augusto Illuminati
«Oltre il molteplice» di Alain Badiou per Ombre Corte. Sette scritti sul mancato incontro con Gilles Deleuze. Un dialogo che l'autore di «Mille Piani» ha sempre rifiutato e che ha come sfondo diverse concezioni della filosofia. E dunque diverse teorie dell'agire politico
Strana, sgradevole quanto istruttiva la storia del non-rapporto fra Gilles Deleuze e Alain Badiou, che il secondo ha costruito retroattivamente (a parte la splendida recensione di Le Pli nel 1989) nel Clamore dell'Essere e in un gruppo di articoli e precisazioni ora raccolti per Ombre Corte con il titolo Oltre l'uno e il molteplice. Pensare (con) Gilles Deleuze (pp. 118, euro 10, a cura di Tommaso Arienna e Luca Cremonesi).
Una volta sgombrato il campo dalle astiose polemiche scatenate dagli allievi di Deleuze soprattutto nel numero della rivista «Futur Antérieur» dell'aprile 1998 (i due attacchi di Arnaud Villani e José Gil e la più sobria introduzione di Eric Alliez) e dopo aver tenuto nel giusto conto le responsabilità dello stile polemico-espositivo di Badiou, resta il grande interesse dei temi posti in discussione. Certo, l'impostazione della controversia (univocità dell'Essere, presunto platonismo, mistica immanente della vita, ecc.) sono scelti arbitrariamente da Badiou, ciò nonostante si toccano nodi essenziali della filosofia afferrando il capo del filo secondo le preferenze del critico - tradizione che risale per lo meno ad Aristotele e Hegel.
Non a caso infatti il confronto fra Deleuze e Badiou è stato riproposto come replica moderna di quello fra Aristotele (Deleuze) e Platone (Badiou), anche se le critiche di Badiou a Deleuze ci sembrano piuttosto riprendere le obiezioni hegeliane di acosmismo a Spinoza.
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La passione per il mondo di un ospite ingrato
Donatello Santarone
Il poeta asseverativo ma anche a tratti pedagogico; il dialogo a distanza con Pier Paolo Pasolini; il confronto serrato con la tradizione letteraria italiana; il rapporto disincantato con l'ebraismo e con la religione all'insegna però del rifiuto di qualsiasi misticismo. La figura intellettuale di Franco Fortini in tre saggi da poco pubblicati
Sono trascorsi ormai tredici anni dalla morte del poeta e saggista Franco Fortini, ma l'eredità del suo magistero di intellettuale complessivo, esponente di punta del marxismo critico europeo del secondo dopoguerra, continua a interrogare quanti rifiutano quel sistema di rapporti fra uomini mediato da cose che definiamo capitalismo.
Testimonianza di un interesse vivo nei confronti dell'opera fortiniana sono tre volumi di recente pubblicazione a lui dedicati. Il primo è di Romano Luperini (Il futuro di Fortini. Saggi, Manni, pp. 110, euro 12) e raccoglie dieci saggi scritti negli ultimi venticinque anni a documentare la lunga «fedeltà» del critico italiano nei confronti dell'opera di Fortini.
Con la sua prosa asciutta e antiretorica, Luperini mette a fuoco alcuni nodi centrali dell'opera del poeta, del saggista, dell'intellettuale critico. Da una parte, c'è in Fortini, secondo il critico fiorentino, il rifiuto netto di qualsivoglia «religione della poesia», l'odio per le sette letterarie quasi sempre complici di «chi sta in alto» (per dirla con l'amato Brecht), il suo classicismo «strabico o ironico», la polemica costante fatta di ammirazione e fastidio con Pier Paolo Pasolini («l'uno è poeta di inibizione, l'altro di esibizione»). Ma anche una concezione della poesia come «valore» e «disvalore» a un tempo, «segno di una possibile alterità, di una figuralità non consumabile nell'immmediato, e sigillo di un potere tramandato da una casta di mandarini».
Il collezionista di Benjamin
Vi sono inoltre nei saggi che compongono il volume temi come la rivendicazione della maturità come «arte della mediazione e della dialettica, coscienza che respinge l'immediatezza e la visceralità» e quindi il confronto aspro con la tradizione; una concezione della critica letteraria che provochi sempre, a partire da una disamina puntuale di un testo, un corto circuito tra opera e mondo, tra testo e storia, tra letterario ed extraletterario, sottintendendo - scrive Luperini - «un'idea assai alta della critica letteraria come attività eminentemente etico-politica, chiamata a mediare fra il senso dell'opera e quello del mondo che la circonda».
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La Russia del futuro, dal KGB alla "Tributaria"
di Carlo Benedetti
MOSCA. Si annuncia al Cremlino una lotta dura contro gli evasori fiscali, contro le varie tangentopoli, contro le lobby e la corruzione. E’ questa la prima sensazione che si coglie nella capitale dopo che il nuovo premier Zubkov (classe 1941) ha scoperto le carte parlando alla Duma, mostrandosi alla tv insieme al predecessore Fradkov (classe 1950), mentre gli addetti ai servizi logistici cambiavano la targa dell’ufficio. Ma dietro le quinte di questo teatro politico russo si è visto subito il volto di quel grande regista - manovratore e suggeritore, truccatore e sceneggiatore - che è Putin (classe 1952). Tutto quello che è avvenuto e che sta avvenendo in queste ore è frutto della sua intuizione e della sua capacità di saper manovrare rappresentando concezioni ed ideali che nessuno aveva messo nel conto. E con una mossa a sorpresa ha mischiato il mazzo di carte che si trovava sul tavolo verde del suo ufficio. Ha fatto ricorso al vecchio amico che aveva operato nella dirigenza del Pcus di Leningrado e con il quale aveva condiviso l’attività del commercio con l’estero. Ma Zubkov era anche qualcosa d’altro, perchè a Putin lo accomunava lo stesso impegno nel campo dell’intelligence. Uno si era dedicato ad attività oltre i confini e l’altro era impegnato nei servizi interni della polizia tributaria. Una stessa professione attuata su campi diversi che fa però sbattere nella prima pagina di un quotidiano di Mosca questo titolo a sensazione e sicuramente provocatorio: “Ed ora anche un uomo dei servizi nella poltrona di primo ministro”...
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La potenza redentrice di un pensiero
di Alberto Burgio
«Giordano Bruno» di Michele Ciliberto per Mondadori. L'avventura esistenziale di un pensatore «maledetto» dove vita e filosofia coincidevano
La vita come filosofia, la filosofia come autobiografia e come esperienza teatrale. I pensieri come fatti vissuti, i fatti come figure concettuali da rappresentare sulla scena del mondo. Tutto questo è Giordano Bruno. Qui sorgono, nello stesso tempo, il suo programma teorico e la sua idea di sé e dell'esistenza. A cominciare dalla propria, per destino straordinaria.
Non è una novità. Chi legga Bruno sa di dover fare i conti, sempre, con una connessione indissolubile di vita, filosofia e autobiografia. Con una vita che si fa, consapevolmente, sostanza teorica e che come tale si comprende e si narra. Pensiamo, per fare solo un esempio, alla dialettica dei contrari. Dove il contrasto tra le diverse dimensioni della propria personalità diviene principio di comprensione del mondo e delle sue trasformazioni. E dove il conflitto, la contraddizione, si rovescia, da motivo di disgregazione, in ragione di forza. Da fonte di scomposizione, in fattore di unità e di coerenza dinamica.
Corpo a corpo col Cristo
Non è una novità, è un fatto acquisito. Ma è un fatto che si può subire o, invece, assumere e far proprio, magari traendone linfa per nuove e più penetranti forme dell'impresa ermeneutica. La poderosa ricostruzione della vita di Bruno che ora Michele Ciliberto ci consegna (Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, pp. 555, euro 30) lo dimostra in maniera esemplare. È una biografia a modo suo unica precisamente per come raccoglie la sfida di ripercorrere e narrare una vita in se stessa filosofica: trasfigurata - resa pensiero, concetto e testo - nel momento stesso in cui fu vissuta e, appunto, rappresentata. Messa in scena.
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A Giavazzi e a Ichino dico: i vostri dati non convincono
di Emiliano Brancaccio
Il dibattito su flessibilità e occupazione tra liberisti e sinistra
In questi giorni i lettori di Liberazione hanno avuto più di un motivo per rallegrarsi. Il giornale è stato infatti teatro di un confronto inedito sui reali effetti delle politiche di precarizzazione del lavoro. Pietro Ichino e Francesco Giavazzi hanno cavallerescamente accettato la sfida da noi lanciata il 1° settembre scorso, e sono quindi intervenuti su queste colonne in difesa della cosiddetta "flessibilità". Ma la vera notizia è che, con l'avanzare del dibattito, è emerso lampante il dato di fondo: i "liberisti del lavoro" non dispongono di evidenze attendibili in grado di supportare le loro tesi. In quel che segue, rispondendo a Giavazzi, forniremo gli ultimi elementi a sostegno di questa sorprendente conclusione.
Dopo l'intervento di Pietro Ichino pubblicato martedì scorso, giovedì è poi toccato a Francesco Giavazzi calcare le scene del giornale comunista. L'economista della Bocconi si è innanzitutto premurato di sostenere che in realtà non vi sarebbe alcun dissenso tra lui e Ichino in merito agli effetti della precarietà sulla disoccupazione. Giavazzi ritiene cioè che il giuslavorista condivida la sua idea secondo cui una minore protezione dei lavoratori garantirebbe una riduzione del tasso di disoccupazione. Personalmente non frequento le sinapsi di Ichino e quindi non me la sento di giudicare questa ardita esegesi. Mi limito solo a constatare che nel suo intervento Ichino ha insistito sul fatto che, a differenza di Giavazzi, egli non è si è mai sognato di scrivere che la precarietà riduce la disoccupazione, e addirittura ha esplicitamente "sfidato" chiunque a dimostrare il contrario.
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Uff... Populismo e V-Day
di Uriel
E' incredibile il numero di analfabeti funzionali che girano per Internet, ovvero il numero di persone che commentano un articolo senza leggerlo, o che lo leggono ma ignorano quel che c'e' scritto, ritenendo nella propria mente solo due o tre parole. E poi scrivono per email, invece di commentare. Tra un po' tolgo il link "email" btw.
Comunque, adesso vado pesante.
Vedere Grillo e pensare "populista" e' come vedere la luna e pensare "notte". E' un'ovvieta', non e' sintomo o simbolo di alcuna intelligenza analitica, e specialmente NON SIGNIFICA UN CAZZO DI NIENTE.
Il populismo e' semplicemente il successo elettorale di chi non ci piace: non esiste altra definizione del termine che non cada in contraddizione logica.
Ma c'e' di peggio: se vedi Grillo e pensi solo "populismo", allora hai un QI sotto il 15. Perche' il populismo e' il tratto piu' evidente di Grillo, come e' il tratto piu' evidente del 100% dei partiti politici. QUalsiasi idiota puo' guardare Grillo e pensare "populista".
Ma Grillo ha fatto un qualcosa che (e se tutti la smettessero di spararsi delle pose usando il termine "populista" solo perche' l'hanno sentito dire lo noterebbero) non si era mai visto prima.
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Quando la sinistra si innamora della destra
di Fabrizio Casari
Le diverse generazioni che dagli anni sessanta ad oggi si sono susseguite nel calpestare le non sempre rette vie del nostro Paese, hanno ritenuto, con maggiore o con minore convinzione, che la criminalità italiana avesse due sostanziali caratteristiche: una di essere “sistema”, l’altra di produrre ingovernabilità sociale e politica proporzionale alle ricchezze che generava. C’era semmai un dubbio, relativo alla commistione tra associazioni criminali e alcuni partiti politici; il dubbio era se fossero le prime ad aver infiltrato i secondi o viceversa. Alla fine, il dubbio si dimostrava ozioso, risultando chiaro che in quel tipo di società alcuni partiti e le cosche divenivano azionisti di maggioranza o di minoranza in corrispondenza di fasi diverse, ma sostanzialmente erano (sono?) elementi distinti di un progetto comune. Adesso però, finalmente, ci rendiamo conto di quanto quelle ipotesi delle diverse generazioni fossero sbagliate, perché sbagliati erano i presupposti (ideologici, certamente) che le determinavano. Sappiamo oggi, infatti, grazie ad un’opera di chiarificazione storica e sociale di alto profilo, che l’illegalità italiana non è fatta di Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona, Mafia del Brenta o bande di tante magliane; di logge massoniche, colletti bianchi e di narcomafie, di racket delle estorsioni o di trafficanti di droghe e armi. Oggi ci è tutto più chiaro: la criminalità italiana è fatta di lavavetri, writers e disperati clandestini.
Pare che l’elemento della pericolosità sociale sia stato dunque sostituito dal disturbo sociale, che i tentacoli della piovra abbiano lasciato il posto ai bastoni tergivetro e che le menti della criminalità siano da ricercare ai semafori invece che nell’Aspromonte o in Barbagia. Illuminate, sottili menti, folgorate sulla via della reazione, ci spiegano che i sottoufficiali della disperazione, ancorati ai semafori della dannazione, siano carne da macello per il racket.
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Venti ottobre
Rossana Rossanda
La manifestazione e il corteo che assieme a Liberazione questo giornale ha lanciato per il 20 ottobre sono stati bersaglio di una certa campagna stampa, avallata anche da alcuni politici che rischia di farci apparire il paese più instupidito d'Europa. Un corteo pacifico e, ci auguriamo, di massa che esprime bisogni e sensibilità molto reali sarebbe il cavallo di Troia per far cadere il governo Prodi? Sostenere questo governo, farlo inciampare o cadere è potere esclusivo delle forze politiche in Parlamento, del patto che le ha messe assieme e, o almeno così dovrebbe essere, del rispetto che farebbero bene a nutrire l'una per l'altra. Non è nella nostra possibilità né nei nostri intenti farlo, non siamo né vogliamo diventare un'istituzione né un gruppo di istituzioni.
Ma il governo dovrebbe ringraziarci per offrirgli l'occasione di saggiare consensi e inquietudini di una parte consistente della società civile che lo ha votato. E che è altra cosa dei gruppi parlamentari e dei partiti, tutti peraltro fattisi tanto leggeri da pardere ogni radicamento sociale diffuso, che fungeva da sensorio e raccoglitore di idee e competenze non meno che da cinghia di trasmissione «di un'ideologia». L'asfissia dei partiti e il bipolarismo nel quale si vorrebbe costringere una società sempre più complessa stanno facendo dell'Italia l'ultima e mesta spiaggia di una democrazia rappresentativa riacquistata con il sangue, e aprono il varco per assai dubbie avventure populiste.
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Il paradosso mercantilista: lo Stato finanzia Wall Street
di Tito Pulsinelli
Negli Stati Uniti, dall’inizio dell’anno il settore finanziario ha licenziato 88.000 funzionari ed impiegati, mentre nel 2006 persero il lavoro 50.237 persone. I licenziamenti dall’inizio di agosto sfiorano i 21.000 (1).
C’è stata una forte impennata nell’esecuzione dei pignoramenti ed espropriazioni di appartamenti ed edifici: 179.600 nel solo mese di luglio. Il senatore C. Dodd retiene che “da uno a tre milioni di persone potrebbero perdere la loro casa”.
Queste poche cifre indicano con chiarezza la gravità della crisi del settore inmobiliario degli Stati Uniti, che covava sotto la cenere mediatica da molto tempo, ma veniva sistematicamente ignorata o minimizzata. Ora che l’esplosione è avvenuta, emergono le caratteristiche distruttrici di un collasso che sta facendo tremare il cosiddetto sistema finanziario internazionale.
I “furbetti della bolla immobiliare”, vale a dire gli usurai globali che avevano gonfiato all’infinito il valore dei titoli dell’industria del mattone, oggi alzano bandiera bianca. La “bolla” gli è scoppiata in faccia perché non c’è più una relazione credibile tra il valore di un edificio reale e quello dei “titoli” che li rappresentano.
Una cosa è un edificio, altro sono i titoli immobiliari o gli hedge funds che li “assicurano”; una cosa è l’economia reale altro è l’economia cartacea del capitalismo globalista. Tra le due c’è un abisso, su cui regna sovranamente la plutocrazia finanziaria.
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