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Un focus sulla guerra
Paolo Arigotti intervista Elena Basile
Elena Basile, diplomatico di carriera dal 1985, ha ricoperto diversi incarichi presso le ambasciate di Madagascar, Canada, Ungheria, Portogallo. Dal 2013 al 2017 è stata ambasciatrice d’Italia a Stoccolma, per poi assumere lo stesso incarico presso la sede diplomatica di Bruxelles. Attualmente lavora come analista di politica internazionale ed ha avviato una collaborazione come free lance per Il Fatto quotidiano. Fra i suoi libri ricordiamo: Donne nient’altro che donne (1995), Una vita altrove (2014), Miraggi (2018), pubblicato anche in lingua francese, In famiglia (2022) e Un insolito trio (2023), che sarà presentato il prossimo lunedì 18 settembre (ore 17,30), al chiostro del Teatro Piccolo di Milano, alla presenza di Moni Ovadia il quale converserà con l’autrice sui temi del libro.
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Ambasciatrice Basile, grazie per averci concesso questa intervista. La prima domanda si riallaccia inevitabilmente all’attualità: a che punto è la guerra in Ucraina, pure alla luce del sostanziale fallimento della controffensiva di Kiev?
Non credo, malgrado lo stallo delle operazioni militari, che sia facile pervenire a un cessate il fuoco e a un armistizio.
E’ vero che gli americani portano già a casa un importante bottino di guerra (Profitti energetici e del complesso militare industriale, separazione dell’Europa dalla Russia, vassallaggio dell’UE e fine dei sogni di autonomia strategica e difesa europea), è vero che la ‘war fatigue’ potrebbe pesare sulla campagna presidenziale di Biden già minacciata dalla salute mentale dello stesso il cui stato è ormai di dominio pubblico, ma non si investono 101 miliardi in una guerra per portare a casa un armistizio che lascia Kiev in condizioni peggiori di quanto era all’inizio del conflitto.
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Un appello all’azione: Lezioni dall’Ucraina per le forze armate del futuro
di Katie Crombe & John A. Nagl
Traduciamo questo recentissimo articolo di due studiosi dell’U.S. Army War College, apparso nel numero di autunno del trimestrale dell’istituzione accademica dell’Esercito statunitense, “Parameters”.
Un anno fa, nell’autunno del 2022, lo United States Army Training and Doctrine Command ha incaricato un piccolo gruppo di studiosi di seguire il conflitto russo-ucraino, dividendosi le principali aree di studio. Gli articoli specifici ad esse dedicati usciranno in futuro.
Questo che presentiamo è un articolo che riassume ed evidenzia i più rilevanti risultati di quegli studi. È difficile sottovalutarne l’importanza, perché in estrema sintesi, gli studi raccomandano un’urgente e radicale riforma strutturale dell’Esercito degli Stati Uniti, comprensiva di un passaggio da una forza esclusivamente volontaria – come sono oggi tutte le forze armate NATO – al ritorno un reclutamento fondato sulla leva obbligatoria parziale.
Quest’ultima raccomandazione consegue alla valutazione dell’elevatissimo livello di perdite che subirebbero le forze NATO in un conflitto analogo a quello in corso in Ucraina, che il capitolo a ciò dedicato prevede in 3.600 perdite al giorno, ossia più di 100.000 perdite al mese.
Nella IIGM, le FFAA statunitensi subirono un totale di 405,399 morti, di cui 291,557 in battaglia, e 670,846 feriti, v. https://dcas.dmdc.osd.mil/dcas/app/summaryData/casualties/principalWars
Buona lettura. Roberto Buffagni
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Per una sanità pubblica e universale
di Chiara Giorgi
Agli ultimi posti Ocse per finanziamenti, il nostro modello di welfare socio-sanitario va rifondato sul benessere delle persone, in termini di salute, di assistenza, di istruzione, di previdenza. Al seminario del Laboratorio su salute e sanità si è iniziato a tracciare un quadro d’azione per rispondere a questa esigenza
La sanità pubblica italiana attraversa tempi molto difficili: è in corso un’accelerazione di quei processi che da tempo stanno minando alcuni principi costitutivi del nostro Servizio sanitario nazionale (SSN), mettendone a repentaglio attività e tenuta. È bene ricordare che quest’ultimo, nato dai conflitti degli anni Sessanta e Settanta, ha segnato il momento di maggiore qualificazione democratica del welfare italiano ed è stato improntato da universalità di copertura, equità di accesso e uguaglianza di trattamento, globalità dell’intervento sanitario, uniformità territoriale, controllabilità e partecipazione democratica, finanziato tramite la fiscalità generale progressiva. I cambiamenti subentrati a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso in Italia e nel contesto internazionale, con la riorganizzazione del capitalismo in chiave neoliberale, hanno segnato una inversione di rotta, le cui conseguenze più gravi sono state portate alla luce dalla pandemia da Covid-19. Quest’ultima ha reso infatti evidenti le inadeguatezze delle condizioni precedenti: i limiti che si sono mostrati nel servizio sanitario pubblico a fronte dell’impatto dell’emergenza sono derivati soprattutto dal suo depotenziamento, dallo spazio lasciato alla sanità privata, dall’indebolimento della medicina territoriale, che aveva informato la fisionomia originaria del SSN.
La pandemia sembrava aver riportato al centro dell’attenzione pubblica il diritto alla salute, fisica e psichica, individuale e collettiva. In questa chiave essa poteva essere l’occasione per tornare a potenziare l’assetto sanitario nazionale sotto più profili, compreso quello essenziale delle attività di prevenzione e delle cure primarie.
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Il distruttore di mondi: Oppenheimer secondo Nolan
di Roberto Paura
L’uomo, lo scienziato, l’intellettuale, il pacifista che rese possibile la guerra atomica in un biopic
Proviamo a fare un esperimento mentale, di quelli che gli storici chiamano “storia controfattuale” e gli appassionati di fantascienza “ucronia”. Immaginiamo che la scoperta della fissione nucleare, avvenuta nel 1938 in Germania, non si fosse verificata alla vigilia della Seconda guerra mondiale ma, poniamo, dieci anni prima. Siamo stati abituati a immaginare un mondo in cui Hitler ottiene l’atomica prima degli americani, come quello tratteggiato in L’uomo nell’alto castello di Philip K. Dick (1962) e nella serie televisiva che ne è stata tratta, perché era l’incubo che ossessionava gli uomini di Los Alamos e che anche dopo Hiroshima e Nagasaki li convinse ad aver agito bene: se non lo avessero fatto, se Albert Einstein e Leo Szilard non si fossero impegnati a convincere il presidente Roosevelt a investire nella fabbricazione della bomba, vivremmo – si diceva – in un mondo dominato dal nazismo. Eppure, per quanto a lungo si sia favoleggiato di possibili sabotaggi da parte degli scienziati atomici tedeschi del programma nazista per la bomba atomica, la verità più prosaica era che persino Werner Heisenberg, che ne guidò gli sforzi, si convinse che difficilmente una reazione a catena potesse sostenere altro che un reattore per la produzione di energia, come mostrano anche le registrazioni dei dialoghi dei fisici tedeschi prigionieri a Farm Hall dopo la caduta del Terzo Reich, che mostrano l’incredulità alla notizia dei bombardamenti atomici americani. No, i nazisti non stavano costruendo una bomba e l’idea fu liquidata da Hitler e dal suo ministro degli armamenti Albert Speer come una fantasia da scienziati pazzi.
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György Lukàcs: Storia e coscienza di classe ha 100 anni. Ma non li dimostra
di Laura Pennacchi
Laura Pennacchi, sullo sfondo di un suo viaggio memorabile a Budapest a fine anni ‘60 per conoscere Lukàcs, ci mostra la perdurante attualità di Storia e coscienza di classe, a 100 anni dalla pubblicazione, restituendoci la figura di un grande maestro e intellettuale. Da tenere a mente ancora oggi: la dimensione spirituale del potere; il ruolo della conoscenza e della soggettività; la progressiva reificazione del sociale e del naturale nel capitalismo, favorita dal convincimento della calcolabilità di tutto, dal dominio dell’economico e dall’alienazione degli individui da sé
Sono passati cent’anni dalla pubblicazione, nel 1923, di Storia e coscienza di classe di György Lukàcs e a me sembrano un nulla, così come mi sembra un nulla il tempo trascorso da quando scopersi, alla fine degli anni ’60, quella che si era rivelata una delle più controverse, ma anche più influenti, opere del marxismo del Novecento. La sua straordinarietà derivava dal fatto che in quel testo il giovane Lukàcs aveva condensato elementi della comune riflessione con Rosa Luxenburg – la dialettica di movimento e scopi, la coscienza luogo privilegiato di maturazione, la prassi strumento in primo luogo educativo – in una teoria della storia e della società come totalità costruita attorno alla generalizzazione della “forma merce” (dalla cui concettualizzazione rimase influenzato anche l’Heidegger di “Essere e tempo”) e ai processi di “feticizzazione”, “reificazione”, “alienazione” che ne erano scaturiti, dando un rilievo cruciale agli elementi sovrastrutturali rispetto a quelli strutturali e facendo saltare la stessa distinzione tra struttura e sovrastruttura. L’enigma della merce sta nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone viene reificata, riceve cioè il carattere della cosalità e quindi “un‘oggettualità spettrale’ che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini”. Dall’ambito produttivo la struttura di merce si estende all’intera vita della società, diventa una categoria universale dell’essere sociale e le leggi che regolano il mondo delle cose e i rapporti tra le cose “pur potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione”.
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Il disadattamento delle élite occidentali
Intervista a Roberto Iannuzzi
Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri. Oggi risponde Roberto Iannuzzi, che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Roberto Iannuzzi è stato ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). Il suo ultimo libro, Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo, è uscito nell’aprile 2017. Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati [Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni].
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1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?
Per comprendere quali sono state le ragioni degli errori occidentali (e bisogna distinguere quelli americani da quelli europei) nella crisi ucraina, è necessario partire da una premessa: l’Occidente attraversa una profonda crisi politica, economica, sociale e culturale, il cui spartiacque è rappresentato dal tracollo finanziario del 2008. Se l’11 settembre aveva segnato la crisi “culturale” (se mi si passa il termine) della globalizzazione nell’era unipolare americana, allorché l’omogeneizzazione senza precedenti imposta dal modello globalizzato occidentale aveva ceduto il passo alla logica dello “scontro di civiltà”, il tracollo finanziario del 2008 ha fatto emergere le gravi crepe presenti nelle fondamenta economiche di tale modello. Gli americani escono da quella crisi non solo con una credibilità a pezzi – agli occhi soprattutto del mondo non occidentale – riguardo al loro sistema finanziario ed al modello di globalizzazione da essi propagandato, ma anche con due guerre enormemente dispendiose e fallimentari alle spalle, in Iraq e Afghanistan.
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In terra ostile: il destino della modernità occidentale e i suoi critici
di Carlo Magnani
Il pubblico de “La fionda” è costituito per lo più da persone che – come lo scrivente – “vengono” da sinistra, si sono cioè formate sui testi e sui temi classici della sinistra novecentesca, votandone i partiti storici o le frattaglie derivanti da scissioni e rifondazioni varie. Tutte queste persone sono però altamente insoddisfatte della sinistra, in tutte le sue varianti, nella sua configurazione attuale: europeismo a prescindere, oblio dei diritti sociali e precarizzazione del lavoro, atlantismo “senza se e senza ma”, sono alcuni dei punti di forte critica verso la narrazione progressista. Questo pubblico può risultare, al massimo dell’eresia, ben propenso verso il “momento populista”, vedendo nell’attenzione a temi socialmente sentiti da larghe masse della popolazione collocate fuori dalla fatidica “Ztl” una opportunità per ri-creare finalmente una “vera” sinistra. Questa breve premessa solo per illustrare che il compito che mi sono dato – segnalare ai lettori de “La fionda” il libro di Boni Castellane “In terra ostile” – è una impresa ardua, che va però compiuta. Come sostenere di fronte a tale comunità la bontà di una riflessione che si colloca del tutto al di fuori dei margini del perimetro della sinistra, anzi, che sta proprio dalla parte opposta?
Boni Castellane è un nome di fantasia, impiegato da un opinionista che scrive sul quotidiano “LaVerità”: il successo della rubrica ha dato l’abbrivio per una iniziativa editoriale sfociata nella pubblicazione del libretto titolato appunto “In terra ostile”. A sentire l’anonimo Autore, molto attivo su X (ex Twitter), le vendite hanno ad oggi raggiunto, dopo una seconda edizione, quota 15.000, che non solo per la saggistica ma anche per la narrativa costituisce per il mercato nazionale una quota quasi eccezionale: nessun giornale o media ne ha chiaramente parlato.
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Le difficoltà della Germania e quelle dell’Ue
di Vincenzo Comito
Districarsi nella crisi tedesca non è facile. Al centro va messa la questione dell’auto, industria strettamente legata alla componentistica italiana. Di sicuro la crisi è europea, riguarda la guerra in Ucraina, ma anche l’incapacità dimostrata finora dall’Europa di capire quale strada intraprendere, stretta tra Cina e Usa
Negli ultimi mesi i giornali si sono dedicati con particolare attenzione agli sviluppi economici recenti del paese teutonico. Forse i titoli più significativi in proposito sono quelli di un numero recente dell’Economist: “L’economia tedesca usava ispirare invidia, presto ispirerà solo preoccupazione” o di quello pubblicato da Die Zeit, “Il Made in Germany è finito”.
Ieri ed oggi
A partire grosso modo dal l’inizio del nuovo secolo e fino quasi alla fine della seconda decade dello stesso la crescita del Pil tedesco è stata superiore a quella di tutti gli altri grandi paesi europei.
Come sottolineato da più parti, il successo del modello economico del paese si basava su almeno quattro ingredienti. Intanto sulla leadership tecnologica nell’industria, in particolare in alcuni suoi settori, i veicoli, la chimica, la meccanica tra gli altri; poi sulla competitività di costo dei suoi prodotti, risultato dovuto, tra l’altro, da una parte al fatto che al momento del varo dell’euro il cambio con il marco fu fissato ad un livello molto favorevole alla Germania, dall’altra alla larga disponibilità di fonti di energia russa a buon mercato; ancora, tale successo era dovuto alla stabilità geopolitica e al costante sviluppo dell’economia mondiale guidato dall’Asia e in particolare alla crescita del commercio internazionale; infine, alla forte coesione sociale e politica interna.
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La pedagogia del potere: come le classi dominanti operano per impedirti di comprendere chi comanda
di Chris Hedges*
Mi trovo in un'aula di un carcere di massima sicurezza. È la prima lezione del semestre. Ho di fronte 20 studenti. Hanno trascorso anni, a volte decenni, in prigione. Provengono da alcune delle città e comunità più povere del paese. La maggior parte di loro sono persone di colore.
Nei prossimi quattro mesi studieranno filosofi politici come Platone, Aristotele, Thomas Hobbes, Niccolò Machiavelli, Friedrich Nietzsche, Karl Marx e John Locke, quelli spesso liquidati come anacronistici dalla sinistra culturale.
Non è che le critiche rivolte a questi filosofi siano errate. Erano accecati dai loro pregiudizi, come noi siamo accecati dai nostri. Avevano l'abitudine di elevare la propria cultura al di sopra delle altre. Spesso difendevano il patriarcato, potevano essere razzisti e, nel caso di Platone e Aristotele, appoggiavano una società schiavistica.
Cosa possono dire questi filosofi sui problemi che affrontiamo: il dominio aziendale globale, la crisi climatica, la guerra nucleare e un universo digitale in cui le informazioni, spesso manipolate e talvolta false, viaggiano istantaneamente in tutto il mondo? Questi pensatori sono reliquie antiquate? Nessuno nella facoltà di medicina legge testi medici del 19 ° secolo. La psicoanalisi è andata oltre Sigmund Freud. I fisici sono passati dalla legge del movimento di Isaac Newton alla relatività generale e alla meccanica quantistica. Gli economisti non sono più radicati a John Stuart Mill.
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Come combatterà la NATO
di Enrico Tomaselli
La direzione in cui sta evolvendo la dottrina militare statunitense – e quindi della NATO – in vista dei nuovi confronti militari per i quali si sta attrezzando, serve a dare un'idea non solo delle strategie geopolitiche perseguite, ma anche di come queste impatteranno sulle società occidentali. Oltre a mostrare tutti i limiti del pensiero strategico nel declinante impero
Già qualche anno addietro, il Pentagono ed il Dipartimento della Difesa si erano posti il problema di aggiornare la dottrina operativa militare statunitense, poiché quella in uso (l’AirLand Battle) risaliva agli anni ‘80; ed era “ormai ben oltre la sua data di scadenza” [1]. L’esperienza della guerra in Ucraina, a cui i comandi USA partecipano pienamente a livello strategico, e dalla quale traggono informazioni dirette a livello tattico, ha reso ancora più evidente questa necessità. Capire come questa trasformazione si stia orientando, quali lezioni abbia tratto del conflitto in corso, può in qualche misura aiutare a comprendere molto altro, rispetto a quelle che saranno le guerre future che impegneranno le forze armate NATO, e quindi le strategie geopolitiche di Washington.
Fondamentalmente, l’idea su cui si sta fondando il nuovo Joint Warfight Concept (Concetto di Combattimento Combinato) rappresenta una prima, radicale rivoluzione concettuale. Se, infatti, a partire dalla fine della guerra fredda la dottrina strategica americana è sempre stata basata sulla prospettiva di guerre asimmetriche (contro avversari tecnologicamente ed industrialmente assai più deboli), concretizzando così l’impostazione ideologica degli USA come polizia mondiale, adesso il JWC viene esplicitamente concepito in funzione di guerre simmetriche, contro un avversario di pari potenza e capacità [2]. Per converso, sembra permanere un vizio ideologico-culturale, ovvero la presunzione di una propria indiscutibile superiorità, che si manifesta sia esplicitamente, sotto forma di dichiarazioni ufficiali (“superiamo gli avversari grazie a un pensiero, a una strategia e a una manovra superiori”, “l’unico vantaggio che non potranno mai smussare, rubare o copiare, per quanto ci provino, perché è insito nel nostro popolo, è l’ingegno americano” [3]), sia implicitamente, nell’insistere su un modello di warfare tecnologico – mostrando in questo di non aver appreso appieno la lezione ucraina.
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Quello che anche un bambino dovrebbe sapere sulla teoria del valore di Marx
di Michael A. Lebowitz
La legge del valore funziona in modi misteriosi. Per alcuni marxisti, essa è alla base di tutto ciò che dobbiamo sapere sul capitalismo.[1] Ma, così come Karl Marx affermava di non essere marxista, allo stesso modo avrebbe potuto dire: «Questa non è la mia legge del valore».
È tutta una questione di allocazione* del lavoro
«Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa. E ogni bambino sa pure che le quantità di prodotti, corrispondenti ai diversi bisogni, richiedono quantità diverse, e quantitativamente definite, del lavoro sociale complessivo». Karl Marx [2]
Ogni bambino ai tempi di Marx potrebbe aver sentito parlare di Robinson Crusoe. Quel bambino potrebbe aver sentito dire che sulla sua isola Robinson doveva lavorare per non morire, che aveva «bisogni [di vario genere] da soddisfare». A tal fine, Robinson doveva «compiere lavori utili di vario genere»: costruiva mezzi di produzione (utensili), cacciava e pescava per il consumo immediato. Si trattava di funzioni diverse, ma tutte erano soltanto «modi differenti di lavoro umano», il suo lavoro. Dall'esperienza, sviluppò la Regola di Robinson: «Proprio la necessità lo costringe a dividere esattamente il proprio tempo fra le sue differenti funzioni». In questo modo, imparò che la quantità di tempo dedicata a ciascuna attività dipendeva dalla sua difficoltà, cioè dalla quantità di lavoro necessaria per ottenere l'effetto desiderato. Date le sue esigenze, imparò come allocare il suo lavoro per sopravvivere.[3]
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“Sistema di credito sociale” cinese: tutte le menzogne e le ipocrisie dell'occidente
di Leonardo Sinigaglia
Sin dall’inizio del suo primo mandato a Segretario Generale del Partito Comunista Cinese, Xi Jinping diede grande attenzione al tema della legalità, sostenendo l’unità dialettica tra il processo globale di riforma e il rafforzamento dello Stato di diritto, una visione i cui riflessi si possono notare nella lotta alla corruzione, nel rafforzamento della disciplina e nell’impegno per regolamentare il mondo digitale. Pochi mesi dopo essere stato eletto Segretario Generale, parlando ad una sessione di studio dell’Ufficio Politico, affermò come “la costruzione di una società moderatamente prospera in ogni suo aspetto [avesse] reso più forte l’esigenza di un governo secondo la legge”, rendendo necessario ottenere “una legislazione più scientifica, un’applicazione più severa della legge, un potere giudiziario più giusto e una maggiore osservanza della legge da parte di tutti i cittadini” e promuovere “un controllo, un governo e un’amministrazione dello Stato basati sulla legge, [...] uno Stato, un governo e una società fondati sul diritto, al fine di creare una nuova situazione di Stato di diritto”[1]. La difesa dei cittadini da arbitrio e abusi dei funzionari, dal potere delle tangenti e dall’incertezza di un diritto non codificato si qualificavano come parti integranti di quella prosperità comune che il Partito Comunista Cinese si prefiggeva di costruire, ma allo stesso tempo lo sviluppo del principio di legalità avrebbe anche sostenuto “il solido sviluppo economico e sociale del nostro paese e [aperto] più ampi spazi di sviluppo per il socialismo con caratteristiche cinesi"[2].
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Draghi e l’Unione Europea, affondati dalla guerra
di Claudio Conti - Guido Salerno Aletta
O Mario Draghi ha perso i suoi superpoteri oppure non li aveva mai avuti, ma l’avevano disegnato così…
A leggere la tremenda tranvata riservatagli da Milano Finanza non c’è atto, svolta, “successo”, “invenzione” di SuperMario che non abbia prodotto disastri. E da un punto di vista esclusivamente capitalistico, sia ben chiaro.
A scrivere è ancora una volta Guido Salerno Aletta, che citiamo spesso perché non è un “analista da centro studi”, ma l’ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi e tante altre cose; ossia persona che ha visto (e cogestito) incontri e scontri internazionali, trattative, misurando interessi nazionali e/o aziendali differenti o addirittura contrapposti. Un “uomo del fare”, insomma, sul versante istituzionale.
La critica esplicita a Mario Draghi, dopo la sua recente sortita sull’Economist di cui abbiamo già parlato, è insomma la traduzione quasi “divulgativa” di una insofferenza ormai generale verso un certo tipo di governance che ha prodotto la situazione attuale.
È anche, in modo indiretto, un ripudio della stagione neoliberista, della svalutazione del ruolo dello Stato a totale vantaggio delle imprese (e delle multinazionali, in specie finanziarie), del “mercantilismo” che ha dominato per quasi 40 anni in Europa e che ha sagomato – squilibrandoli oltre ogni limite – i rapporti di forza tra i vari paesi.
Di fatto, dunque, una demolizione del mito “positivo” della stessa Unione Europea, che di quella stagione è stata l’infrastruttura semi-statuale.
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11 settembre 1973, Cile: la solitudine del cittadino
di Tomàs Moulian
L’11 settembre il governo presieduto da Salvador Allende viene rovesciato dall’esercito sotto la guida di Augusto Pinochet. Ma cosa è successo alla società cilena? Come andare avanti, se non dimenticando? Oggi su Scenari un estratto di “Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo” di Tomás Moulian
La riverniciatura del Cile
1. Oblio
Un elemento decisivo del Cile Attuale è la compulsione all’oblio. Il blocco della memoria è una situazione che si ripete in società che hanno vissuto esperienze limite. Lì questa negazione del passato genera la perdita del discorso, la difficoltà della favella. Mancano le parole comuni per nominare il vissuto. Trauma per gli uni, vittoria per gli altri. Un’impossibilità di parlare di qualcosa che viene denominato in maniera antagonistica: golpe, pronunciamento, governo militare, dittatura, bene del Cile, catastrofe del Cile.
Per alcuni, a volte le stesse vittime, il dimenticare viene vissuto come il riposo, la pace dopo lunghi anni di tensione, la sicurezza dopo tanta incertezza. Il calore sicuro di un focolare dopo una lunga camminata sotto le intemperie. Che senso avrebbe rivivere il dolore? riproporre ad ogni istante l’incubo? Perché riprendere un tema che divide e produce astio, a volte paura, in persone impregnate di lutto e di lacrime?
Per altri, per molti dei convertiti che oggi si fanno strada su alcune delle piste del sistema, l’oblio rappresenta il sintomo oscuro del rimorso di una vita negata, che appanna il senso della vita nuova. Questo oblio è un mezzo di protezione contro ricordi laceranti, percepiti per qualche istante come incubi, reminiscenze fantomatiche del vissuto. È un oblio che si incrocia con la colpa del dimenticare.
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IA. Frammenti del dialogo tra Sam Altman e Lex Fridman
di Eugenio Donnici
Prologo (1)
Lex Fridman apre il dialogo con Sam Altman sull’IA e afferma che ci troviamo nel punto più alto di una profonda trasformazione sociale, di cui nessuno, incluso lui stesso, conosce gli esiti a priori. In molti percepiscono che il cambiamento si propaghi all’interno delle nostre vite.
Il passaggio cruciale avviene, quando nel novembre 2022, un’azienda californiana chiamata OpenAI, il cui CEO è Altman, ha lanciato ChatGPT, una chat capace di conversare con i suoi utenti con la stessa naturalezza di un essere umano.
La macchina simula il ragionamento umano e genera un testo scritto, connesso con le nostre richieste.
Che cos’è ChatGPT? Che cosa la rende appetibile?
Tale chatbot fa parte dei modelli GPT (Generative Pre-trained Transformer), tecnicamente chiamati LLM (Large Language Model) e basati sul machine learning. I LLM sono algoritmi di deep learning addestrati generalmente su milioni di testi provenienti da varie fonti: libri, articoli di giornale e siti web. La tecnica del deep learning consiste nell’utilizzare una rete neurale artificiale, cioè un modello matematico che si ispira al funzionamento delle reti neuronali biologiche, per comprendere il significato di un testo e generare un output, in base al modo in cui formuliamo le domande.
In che modo s’addestra la macchina ad apprendere?
Il processo prende corpo dal RL-HF, ossia Renforcement Learning whith Human Feedback, cioè le macchine imparano attraverso i riscontri umani che funzionano come rinforzi.
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Il capitale nella crisi: una riflessione su “Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato” di Jason W. Moore
di Alice Dal Gobbo
Esce quest’anno per Ombre Corte la riedizione di quello che è ormai diventato un classico dell’ecologia politica: Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato di Jason W. Moore (a cura di Gennaro Avallone). Va innanzitutto sottolineato che questo libro, così importante per evidenziare il taglio politico e geopolitico dell’ecologia-mondo di Moore, non esisterebbe senza la dedizione e l’impegno di Gennaro Avallone, che ha selezionato e tradotto dei saggi altrimenti “sparsi”, legandoli assieme attraverso un lavoro di riflessione, tessitura e sintesi. Uscito per la prima volta nel 2015, questo libro ha accompagnato pratiche e dibattiti attorno alla crisi ecologica in relazione al capitalismo, proprio nel momento in cui i movimenti per la giustizia climatica cominciavano a strutturarsi e guadagnare spazi di protagonismo. Quando la crisi ecologica è stata definitivamente individuata dal dibattito e dai movimenti come fallimento del capitalismo: non soltanto come effetto collaterale ma come implicazione profonda delle sue logiche di dominio, sfruttamento e appropriazione.
Questo volume ha anche attraversato due crisi profondissime che si innestano sulla più ampia destabilizzazione climatica, e che le sono intrecciate in modo complesso: la pandemia Covid-19 e la guerra cosiddetta Russo-Ucraina (forse la Terza Guerra Mondiale). Da un lato, questi avvenimenti hanno segnato una parziale battuta d’arresto nella potenza che i movimenti per la giustizia climatica erano riusciti a esprimere nel 2019, e ancor di più nell’interesse verso questo tema da parte delle istituzioni.
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“Io capitano”, il film di Garrone, è un falso storico
di Michelangelo Severgnini
“L'Oscar si vince con la bandiera a stelle e strisce, cambiando la realtà”.
Parafrasando la celebre frase di Mario Monicelli, potremmo dire: “Il Leone d’oro si vince con la bandiera blu stellata, cambiando la realtà”.
E che valga a questo punto di buon auspicio per la vittoria del Leone d’Oro per il film “Io Capitano” diretto da Matteo Garrone, se non altro.
In estrema sintesi questo lavoro è un falso storico, perché, ispirandosi alla realtà, la stravolge e soprattutto ne occulta i significati e i nessi reali che le danno forma e la riformula all’interno di una narrazione fiabesca, per altro ampiamente in voga già da un paio di decenni, che non è nemmeno edulcorazione: è puro depistaggio delle coscienze. A che pro? Al fine di lasciare tutto così com’è, per il compiacimento e la soddisfazione di Mamma Europa.
Non sono nemmeno in grado di dare un giudizio estetico al film, perché non c’è corrispondenza tra scelte artistiche e significati espressi. Pertanto lo sfoggio estetico tutt’al più è un esercizio pirotecnico. L’arte è un’altra cosa.
Non sono nemmeno in grado di immaginare la reazione che provoca nello spettatore medio. I pochi spettatori presenti in sala del resto non mi hanno aiutato in questo: muti dall’inizio alla fine non mi sembra abbiano lasciato la sala delusi, ma nemmeno entusiasti.
Durante tutto il film appaiono qua e là spaccati realistici (segno che almeno qualcuno tra gli sceneggiatori ha fatto lo sforzo per informarsi), alternati a momenti verosimili per quanto improbabili e a lacune clamorose, personaggi della storia vera che nella storia finta non ci sono, spariti, come per effetto di un gioco di prestigio.
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Malanova. La violenza sulle donne ha origine da un archetipo primordiale
di Alba Vastano
Malanova in dialetto calabrese vuol significare cattiva notizia, sventura. Per la gente di San Martino di Taurianova (frazione di Taurianova-Reggio Calabria) Anna Maria Scarfò era ‘la malanova’. Era la puttana che se l’è cercata. Anna Maria non voleva essere omertosa e aveva denunciata il branco composto da tre aguzzini che per tre anni avevano abusato sessualmente di lei. Aveva tredici anni all’epoca e nessuno che le mostrasse attenzione quando, terrorizzata, raccontava l’accaduto. Le era stata sottratta, da un branco di uomini infami, l’adolescenza, la dignità e il sorriso. Infine, con la forza della disperazione, ha uno scatto di ribellione e denuncia i suoi aguzzini. Avviene quando intuisce che anche la sorellina minore, l’affetto più caro che ha, sta per finire nelle grinfie di quelle belve.
E così denuncia alle forze dell’ordine gli abusi subiti. Interviene un’avvocatessa, di quelle tenaci quando si tratta di difendere le donne abusate e riesce a mandare al gabbio gli infami, dopo un lungo processo che si conclude con la condanna degli aguzzini. Anna Maria, però, continuerà a pagarla cara. Tutto il paese le si rivolta contro ed emette una sentenza assurda: ‘Anna Maria ha screditato l’onore dei suoi paesani’. La giovane inizia a ricevere minacce continue, anche di morte ed è costretta, a causa di stalking a lasciare il paese. Dal 2010 vive sotto scorta per proteggersi da nuove minacce, dopo essere stata abusata per più volte sia fisicamente dai suoi stupratori che moralmente dalla gente omertosa del paesello natìo.
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L’AI non è un Paese per pochi
di Carola Frediani*
Pubblichiamo qui l’introduzione di Carola Frediani al primo e-book di Guerre di rete, dedicato all’intelligenza artificiale, dal titolo Generazione AI. Per ricevere l’e-book basta seguire le indicazioni sul sito (che aveva avviato un crowfunding anche a questo scopo).
Per anni, agli occhi del grande pubblico e dei media, il termine intelligenza artificiale (IA o all’inglese AI, Artificial Intelligence) ha avuto lo stesso fascino e la medesima concretezza dell’espressione Big Data. Un guscio utile per convegni e paper, con pochi effetti visibili sul quotidiano o la società.
Poi nell’autunno 2022 sono arrivati ChatGPT, la corsa al lancio di prodotti basati su AI generativa, la possibilità di giocare o sperimentare con una miriade di strumenti – spuntati come funghi giorno dopo giorno – e la competizione fra le grandi aziende tech per rilanciare i propri servizi all’insegna di questa tecnologia.
È così iniziato un ciclo industriale e mediatico, fatto di annunci, investimenti, hype e dichiarazioni di ricercatori, che ha alzato una cortina fumogena su quel che è nuovo e quel che esiste da tempo; su quel che è rivoluzionario e quello che invece è reazionario; sui rischi effettivi e quelli presunti; su chi fa progredire il settore e chi è pronto a speculare; su chi trarrà vantaggio e chi verrà sfruttato.
Siccome le cortine fumogene non fanno mai bene all’informazione occorre ripartire dunque da alcuni elementi fondamentali. Quali sono le aziende in gioco e quale il ruolo di multinazionali consolidate come Microsoft, Google, Facebook? Quali elementi sono di novità e quali rischiano di essere gonfiati dalla grancassa che si è sviluppata attorno al settore? Che ruolo hanno la società civile, la politica, gli Stati di fronte a un panorama fatto di aziende private, concentrazione geografica, nonché di ricercatori in netto contrasto fra di loro sulla capacità, l’impatto e i rischi conseguenti a questa rivoluzione, sempre che si possa definire in tal modo?
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I veri architetti e realizzatori del regime di supremazia ebraica di Israele
di Hagai El-Ad
La smisurata ipocrisia degli oppositori democratici di Netanyahu e Gvir, che convivono benissimo con l’apartheid contro i palestinesi “Haaretz”
Riprendiamo dal sito di Assopace Palestina questo efficace, graffiante ritratto (comparso su Haaretz) degli oppositori democratici dell’ultra-sionista Ben Gvir e del suo capo di governo Netanyahu, accusati a buon diritto di difendere integralmente quel regime [militarista, razzista, coloniale] di apartheid, di “supremazia ebraica” sui palestinesi, di cui i due suddetti sanguinari personaggi sono soltanto l’estremizzazione.
Chi segue questo blog che interviene sistematicamente sulla “questione palestinese”, conosce la nostra risposta alla constatazione-domanda finale posta da Hagai El-Ad: “Il fatto è che, anche dopo 100 anni di sionismo, metà delle persone tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo sono palestinesi. Se siamo veramente intenzionati a vivere, dobbiamo trovare una risposta alla domanda logica: che tipo di vita costruiremo qui tutti insieme?“ (Red.).
* * * *
La grande maggioranza di coloro che sono così sprezzanti nei confronti di Ben-Gvir convive benissimo con l’apartheid israeliano, solo che non lo grida dai tetti.
Nei mesi trascorsi da quando il deputato Itamar Ben-Gvir (Otzma Yehudit/Sionismo Religioso) è stato nominato ministro della sicurezza nazionale israeliana, non c’è stata quasi settimana in cui un maggiore generale dell’esercito o della polizia in pensione non abbia espresso il proprio disprezzo nei confronti del “ministro della distruzione”, di una nullità che non capisce nulla e ha ancora meno esperienza, della “persona di rilievo” dello Shin Bet che è diventata il “ministro delle piadine” [si allude al divieto imposto ai prigionieri palestinesi di cuocersi le piadine, NdT] e così via.
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Sull'ascensione in alte montagne
di Pietro Terzan
In un articolo incompiuto e pubblicato postumo su Pravda il 16 aprile 1924, Lenin spiega la situazione concreta della prima rivoluzione proletaria della storia paragonando la rivoluzione comunista a «un’ascensione di una montagna altissima, dirupata e ancora inesplorata». Nel primo paragrafo di Note di un pubblicista, che merita di essere letto integralmente, Lenin scrive:
«Immaginiamo un uomo che effettui l’ascensione di una montagna altissima, dirupata e ancora inesplorata. Supponiamo che dopo aver trionfato di difficoltà e di pericoli inauditi, egli sia riuscito a salire molto più in alto dei suoi predecessori, senza tuttavia aver raggiunto la sommità. Egli si trova in una situazione in cui non è soltanto difficile e pericoloso, ma addirittura impossibile avanzare oltre nella direzione e nel cammino che egli ha scelto. Egli è costretto a tornare indietro, a ridiscendere, a cercare altri cammini, sia pure più lunghi, i quali gli permettano di salire fino alla cima. La discesa, da questa altezza mai ancora raggiunta su cui si trova il nostro viaggiatore immaginario, offre delle difficoltà e dei pericoli ancora maggiori, forse, dell’ascensione: è più facile inciampare; si vede male dove si mettono i piedi; manca quello stato d’animo particolare di entusiasmo che dava impulso al cammino verso l’alto, dritto allo scopo, ecc. Bisogna legarsi con una corda, perdere delle ore intere per tagliare la roccia con la piccozza allo scopo di creare dei punti di appoggio per legarvi saldamente la corda; egli è costretto a muoversi con la lentezza di una tartaruga, e per giunta a muoversi indietro, verso il basso, allontanandosi dalla cima; e non vede ancora se questa discesa terribilmente pericolosa e faticosa terminerà, se si troverà un’altra via alquanto sicura, che permetta nuovamente di muovere avanti con maggior coraggio, con maggior rapidità e seguendo una linea più retta, verso l’alto, verso la cima.
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Il gran bazar della guerra
di Carlo Tombola
Il governo ucraino, guidato da Volodymyr Zelensky, ha utilizzato i fondi dei contribuenti americani per pagare a caro prezzo il carburante diesel, di vitale importanza nella guerra con la Russia. Non si sa quanto il governo Zelensky paghi per ogni gallone di carburante, ma il Pentagono pagava fino a 400 dollari al gallone per trasportare benzina da un porto del Pakistan, tramite camion o paracadute, all’Afghanistan durante la decennale guerra americana.
(Seymour Hersh, Trading with the enemy, 12.4.2023)
Così come non sono stati i malumori dei contribuenti americani a chiudere una guerra di vent’anni in Afghanistan, così probabilmente non saranno le decine di miliardi già bruciati in diciotto mesi di guerra a riportare la pace in Ucraina. Al contrario, il fiume di denaro immesso nel complesso militare-industriale, su tutt’e due le sponde dell’Atlantico, ha portato una concordia generale tra politici, giornalisti, imprenditori e anche – con rare eccezioni – lavoratori.
Forse gli entusiasmi guerreschi sarebbero un po’ attenuati se Stati Uniti e alleati rischiassero e perdessero sul campo i propri soldati. Il Vietnam costò agli americani 60.000 morti, l’Afghanistan 2.400, l’Iraq 4.500, ma in Ucraina sembra che gli “alleati” possano fare una guerra azzerando i costi umani, per interposti combattenti. Almeno per ora, perché il destino dell’enclave russa di Kaliningrad sta agitando i falchi di Polonia, Finlandia e paesi baltici, in cerca di storiche rivincite, con il rischio di dare fiato alle rivendicazioni dell’estrema destra tedesca sulla Prussia orientale.
A compensazione del sacrificio ucraino in corso, la “comunità internazionale” – cioè gli Stati Uniti e i loro alleati – si sta accollando un illimitato sostegno economico.
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Il disadattamento delle élite occidentali
intervista a Jacques Sapir
Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri. Oggi risponde Jacques Sapir[2], che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Anche per il testo di Sapir pubblicheremo le versioni in inglese e francese. Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati [Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni].
* * * *
1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?
Questi errori sono di vario tipo. Innanzitutto, ci sono errori di natura “tecnica”, legati a un’incomprensione dei dati o della loro natura. Ad esempio, l’affermazione spesso ripetuta che il PIL della Russia fosse più o meno uguale a quello dell’Italia o della Spagna derivava da una mancanza di comprensione – comune a politici e giornalisti – delle statistiche e del loro utilizzo. Quando si confrontano due economie, è importante utilizzare il PIL calcolato in termini di parità di potere d’acquisto (PPA), perché altri metodi sono altamente distorcenti. Questo ha portato a una sottostima del PIL russo (che in realtà oggi è più alto di quello tedesco) e quindi a un grave errore di valutazione sulla capacità della Russia di far fronte sia alla guerra che alle sanzioni occidentali. Allo stesso modo, sono stati commessi errori “tecnici” sulla capacità dell’industria russa di produrre un gran numero di armi e munizioni.
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Il nuovo disordine mondiale / 21: un’invenzione coloniale (in via di disgregazione)
di Sandro Moiso
Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro
Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] È ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era esso stesso una esportazione colonialista.[…] Sì, il nuovo anticolonialismo è molto più primitivo […] Gli bastano le immagini: da un lato i grandi alberghi e le banche con le facciate alla Potentik, dall’altro il vuoto della savana, i villaggi e le periferie dove sono in agguato le malattie, la miseria. (Domenico Quirico, “La Stampa”, 5 agosto 2023)
Jean-Loup Amselle (Marsiglia, 1942) è un antropologo francese che ha realizzato ricerche sul campo in Mali, in Costa d’Avorio e in Guinea, concentrando la sua attenzione sui temi dell’etnicità, dell’identità, del multiculturalismo, del postcolonialismo e della subalternità. Inoltre è Directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e caporedattore della rivista internazionale “Cahiers d’études africaines”.
Un curricolo di studi e ricerche importante per l’autore di un testo (edito per la prima volta in Francia nel 2022) che esce in un momento di grave crisi politico-militare della struttura geopolitica e culturale imposta per lungo tempo dal colonialismo francese (ed europeo) all’Africa subsahariana. Come sottolinea Marco Aime nella sua prefazione al testo:
la nozione di Sahel appare per la prima volta nel 1900, nella penna del botanico Auguste Chevalier, come categorizzazione botanicogeografica o bioclimatica, legata alla latitudine e alle curve delle precipitazioni.
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Privatocrazia sanitaria
di Nicoletta Dentico
Fino al Duemila l’Organizzazione Mondiale della Sanità collocava al secondo posto nel mondo, in quanto a qualità, il sistema sanitario italiano. Oggi almeno il 60% dei fondi pubblici finisce in mano ai privati; più della metà delle strutture che si occupano di malattie croniche sono private. I tagli della prossima legge di bilancio assecondano questa metastasi
Parecchi anni fa, in taxi per le strade di Nairobi, ricordo lo sbalordimento quando il taxista dichiarò en passant, ma con sarcastico sollievo, che nell’eventualità di un incidente con la macchina, la mia presenza a bordo avrebbe garantito la disponibilità di una carta di credito per accedere al pronto soccorso anche per lui.
Già la privatizzazione della salute in Kenya rivelava le sue aberranti manifestazioni, incluso il fatto che – come raccontava il taxista con angoscia – anche partorire in ospedale comportava un costo che la maggior parte della popolazione non poteva permettersi. I parti difficili finivano male, perlopiù, era accaduto anche a sua figlia.
Oggi, nel paese che nel 2000 si collocava al secondo posto al mondo (dopo la Francia) per la qualità del servizio sanitario nazionale secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ci stiamo dirigendo – un passo alla volta, neppure tanto lentamente – nella stessa paradossale direzione. La brutale esperienza italiana della pandemia è stata rimossa in un soffio, un fastidioso ricordo del passato, malgrado le molteplici perduranti e visibili conseguenze.
Ritorna in voga invece la stagione dei tagli alla sanità pubblica, come se non bastasse lo schiaffo in faccia delle insufficienti risorse del PNRR assegnate ai servizi sanitari devastati da Covid-19.
I tagli al comparto della salute fanno capolino già dalle prime bozze della legge di bilancio, in stupenda sintonia con le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che prevede 143 paesi sotto la morsa di nuove riforme di austerity entro la fine del 2023 (Ortiz e Cummins, 2022): l’85% della popolazione mondiale!
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