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Il libro insostenibile. Breve difesa di La distruzione della ragione
di Mimmo Cangiano
tende a questo fine: dedurre dalla gnoseologia l’«eternità» della società capitalistica
György Lukács
Esiste un motivo centrale e ricorrente, un topos spesso ignorato, che attraversa la letteratura, il cinema, e più in generale un gran numero delle più svariate macchine narrative tardo-ottocentesche e novecentesche. Si manifesta quando, durante la lettura o la visione, all’improvviso l’autore ci svela che le azioni di un personaggio, fatte per ragioni dichiarate come ideologiche, etiche o connesse a una sfera comunque idealistica, collegate soprattutto a motivazioni storiche, collettive, sono in realtà eseguite per puri scopi e motivi personali (siano questi abietti o nobili ora non è importante). È un momento fondante nella ricezione di un plot. È il momento in cui il personaggio si abbassa al livello del fruitore, e il fruitore può riconoscere nel personaggio se stesso. Qui il lettore liberale sorride tranquillizzato, rassicurato nella sua coscienza che niente di collettivo sia realmente possibile, che dietro le grandi narrazioni, dietro i punti di vista totalizzanti, e finanche dietro la Storia, non vi sia altro che l’individuo, coi suoi obiettivi, bisogni e desideri: inevitabilmente separato dai suoi simili. Quel sorriso, per dirla con Gramsci, è il ghigno di Gwynplaine, perché è il momento in cui l’alienazione del lettore dai suoi simili trova conforto, tristissimo conforto, nell’alienazione del personaggio, elevato a simbolo di una condizione che al nostro immaginato lettore liberale neanche appare più storica, ma quasi naturale: questi siamo, “questo schifo qui”, dice se è in fase pessimista o se ha digerito male, il resto è ideologia.
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Crisi, Mes e conflittualità interimperialistica
di Francesco Schettino
Il MES è lo strumento del capitale europeo per difendersi dalla concorrenza e scaricare i costi delle ristrutturazioni sui lavoratori. Ecco perché
La questione del Mes in pillole
Cavalcando il puledro del nazionalismo ormai palesemente vincente in larga parte d’Europa, l’estrema destra italiana ha colto l’occasione della cosiddetta riforma del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per gridare all’ennesimo schiaffo da parte della Germania verso l’Italia e i “poveri” paesi del sud del continente – tentando così di racimolare qualche voto in più in vista delle varie tornate elettorali locali che la vedranno principale attrice.
Prima di tentare di capire come si colloca nella fase attuale e perché una lettura “locale” è giustamente coerente con un quadro proprio delle “teorie” nazionaliste, mentre è incompatibile con una visione di classe dei fenomeni economici, sembra corretto, senza alcuna velleità di essere esaustivi, data la brevità del saggio, almeno descrivere sinteticamente di cosa si tratta.
Per dirla in parole molto semplificate, il Meccanismo europeo di stabilità, come lo stesso acronimo suggerisce, nasce nello stesso ambito politico economico del processo di integrazione politica ed economica iniziato sostanzialmente negli anni ‘90 con il famoso patto di Maastricht, passando per l’adozione della valuta unica tra la fine dello stesso decennio e l’inizio del nuovo millennio, attraversando l’esplosione della crisi post 2008, l’imposizione della disciplina del pareggio di bilancio e il fallimento ellenico “gestito” dalla troika intorno all’anno 2012.
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L’ultima geopolitica: tra Leviatano e Behemoth
di Giorgio Gattei
1. Racconterò una favola, quella del Leviatano che lotta contro Behemoth. Al giorno d’oggi non va di moda il termine favola, che appare disdicevole, e si preferisce parlare piuttosto di “narrazioni” che risulterebbero necessarie per imbrigliare il disordine del mondo in una maniera comprensibile che possa essere di guida al comportamento politico più acconcio. E siccome adesso ci si è convinti che anche l’economia è un tipo di narrazione, e quindi è anch’essa una “favola”, partirò dalla favola economica che più grande non ce n’è, quella che racconta dello sfruttamento del lavoro salariato da parte dei capitalisti percettori di profitti, rendite ed interessi, quale è consegnata nelle pagine straordinarie del Capitale di Karl Marx.
Questa “favola” ha riscosso così tanto successo in passato (ma oggi non più di tanto) che da essa sono derivate altre narrazioni altrettanto favolose, come quella del Partito che, baciando la classe operaia addormentata, la risveglierebbe a volontà rivoluzionaria, oppure quella della caduta del saggio del profitto che, nel racconto del Capitale, dovrebbe svolgere la medesima funzione conclusiva del Crepuscolo degli dei nell’Anello del nibelungo di Richard Wagner. Ma dal Capitale è uscita fuori anche la favola dell’imperialismo per opera di quel grande narratore russo che si faceva chiamare Lenin (che però non è il suo vero nome): siccome i soggetti capitalistici sono plurimi, essi competono nell’arena del mondo sotto forma di Stati-nazione che cercano di accaparrarsi commercialmente, e anche militarmente qualora non basti, le maggiori aree di sfruttamento. E proprio così non era successo all’inizio del Novecento quando la competizione imperialistica, fino ad allora mantenutasi aggressiva ma pacifica, era sfociata nel grande macello della guerra mondiale del 1914-1918.
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Il business 5G, problema ancora troppo sottovalutato
Aspetti normativi e pericoli per la salute
di Rosanna Suozzi* e Arturo Raffaele Covella**
Lo scrittore statunitense Jonathan Franzen, nella sua recente raccolta di saggi, asserisce che “La tecnologia digitale è un capitalismo in iperguida, che inietta la sua logica del consumo e della promozione, della monetizzazione e dell’efficienza in ogni minuto della nostra vita” ……“Forse l’erosione dei valori umani è un prezzo che la maggioranza delle persone è disposta a pagare per la comodità gratuita di Google, il conforto di Facebook e la fidata compagnia di un iPhone” (pagina 72) La fine della fine della terra”, di Jonathan Franzen, Einaudi, 2019.
Che sia un precipuo interesse, puramente economico, è evidente anche da quanto emerso nel corso della prima riunione del Consiglio dei ministri del governo Conte bis. In quella occasione, infatti, il nuovo esecutivo ha attribuito, ipso facto, piena facoltà, sulle operazioni di ben quattro società, relativamente agli accordi con Huawei e altri operatori extra-Ue, con l’obiettivo di tutelare la sicurezza nazionale.
In pratica, siamo di fronte all’attivazione del cosiddetto “golden power” (letteralmente potere d’oro, in realtà particolari poteri, fruibili dal governo italiano, per rafforzare e proteggere una società che ha rilevanza strategica nazionale) che configura “l’esercizio dei poteri speciali esteso ai settori cosiddetti ad alta intensità tecnologica” (DL16 ottobre 2017, n.148 (convertito con modificazioni dalla legge 4 dicembre 2017, n.172). Si delineano, pertanto, precisi intrecci tra presunta sicurezza nazionale e business allo stato puro, allettando così operatori e partner extra-europei ad entrare nella rete 5g italiana.
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L'automazione digitale: come liberarsi da un'impostura
di Roberto Ciccarelli*
Qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata basta per generare una rappresentazione del futuro simile alla magia. Ogni like su Facebook, ogni acquisto su Amazon, ogni ricerca su Google sembrano vendere un sogno per cui droni, servizi online e automi possono soddisfare i desideri dei consumatori e diventare più umani degli umani. Quanto agli uomini saranno liberati dai loro errori, contraddizioni e conflitti, ovvero da loro stessi. A questi esseri si assegna il ruolo di trasformare la società in un mercato ideale senza forza lavoro. L’esempio che, più di altri, viene fatto per rappresentare la fine della forza lavoro come produttrice di ricchezza è la macchina Google che si guida da sola. Le sue imprese sono raccontate periodicamente al pari del miglioramento della ricerca sui droni. Il congegno è la promessa simbolica per i guidatori della classe media di essere sollevati dalla fatica di viaggi di ore verso l’ufficio all’altro capo della città, ottenendo in cambio l’accesso allo stile di vita dei ricchi e dei famosi che possono contare su uno chauffeur personale. Solo che questi “ricchi” sono meno dell’1% della popolazione mondiale e saranno sempre di meno, mentre la classe media che dovrebbe usufruire delle prestazioni di questo veicolo è spinta sempre più in basso. Si prefigura così un futuro dove le macchine si guideranno da sole, mentre la maggioranza degli umani andranno a piedi perché non saranno in grado di acquistarle. Questo dettaglio sfugge molto spesso alla futurologia della Silicon Valley. Più forte è la suggestione di un’automazione depurata dai limiti umani.
Lo chauffeur di Google è un esempio delle automazioni che sostituiranno la forza lavoro: perché far lavorare una persona in carne e ossa se un robot svolge le stesse mansioni senza obiezioni?
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Colonialismo, Berlino 1885- Berlino 2020: è il turno della Libia
di Fulvio Grimaldi
Bombe inesplose tra Tehran e Tripoli
Le notizie-bomba che vi nascondono sono: 1) Un cyberattacco USA che con ogni probabilità, secondo il NYT, nella notte dell’8 gennaio ha abbattuto il Boeing 737-800 ucraino sopra Tehran, con i suoi 176 passeggeri ed equipaggio e che forse darà il via alla battaglia finale tra patrioti e vendipatria iraniani; 2) Il generale Soleimani, che aveva lo status diplomatico, era in missione di pace con piena consapevolezza USA. Era stato invitato a Baghdad dal premier iracheno Abdul Mahdi per mediare nella contesa tra Iraq e Arabia Saudita. Gli americani ne erano al corrente e ne hanno approfittato per allestire la trappola e ucciderlo. 3) il regime fantoccio dei Fratelli musulmani a Tripoli, difeso dagli stessi tagliagole Isis e Al Qaida che, per conto Usa-Nato-Turchia, hanno imperversato in Siria, Iraq, Nigeria e a cui corrono in soccorso gli sponsor neocolonialisti che pretendevano di combatterli. Allora servivano a frantumare Siria e Iraq, oggi li si impiega per spartirsi la Libia, come si progetta dai convenuti a Berlino.
Si abbattono torri, si abbattono aerei....
La prova degli occultamenti relativi all’abbattimento dell’aereo sopra Tehran nella notte della risposta iraniana all’assassinio del generale Qassem Soleimani, viene pubblicata nientemeno che dal New York Times, standard aureo del giornalismo imperiale e guerrafondaio. Pur di vantarsi di un crimine riuscito, a volte i suoi apologeti si scordano della riservatezza. Di Libia e degli irresponsabili e fieri sguatteri Nato, Conte, Di Maio e Guerini, che cianciano di interventi più o meno armati, più o meno nazionali o internazionali, parliamo dopo.
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E il desiderio disse: niente!
di Ennio Abate
In margine ad un convegno su Elvio Fachinelli del 1998
Ripubblico questo mio resoconto ragionato di un convegno su Elvio Fachinelli tenutosi a Milano nel 1998 dopo aver letto su LE PAROLE E LE COSE un ricordo di lui nel trentennale della sua morte scritto da Sergio Benvenuto (qui). Ho letto varie opere di Fachinelli e ho spesso citato il suo scritto “Gruppo chiuso e gruppo aperto” (ad es. nel 2011 qui) . Non l’ho mai conosciuto di persona (l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988, in mezzo al pubblico alla Casa della Cultura di Milano) ma ho sentito parlare spesso di lui da Giancarlo Majorino. E mi hanno sempre particolarmente colpito il suo scontro con Franco Fortini e l’autocritica postuma di quest’ultimo nei suoi confronti. (Il «diverbio» con Fachinelli Fortini lo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali», pag. 229 di Non solo oggi). L’attenzione e lo scrupolo da cronista, con cui allora segui quel convegno privilegiando ancora in un’ottica da insegnante (sarei andato in pensione in quell’anno), dimostra il mio interesse per i problemi sollevati da Fachinelli ma anche la mia diffidenza per la piega impolitica/apolitica con la quale i suoi amici e colleghi psicanalisti lo ricordarono in quel convegno, esaltando – proprio come oggi fa in maniera definitiva Sergio Benvenuto – il lato amicale e liberal-libertario del suo pensiero fin quasi a far scomparire la sua permeabilità e sensibilità alle inquietudini sociali e politiche di quegli anni. Non condividevo né condivido il ripiegamento di tanti intellettuali nei “culti amicali, cultural-editoriali e professional-corporativi ” e neppure il nuovo dogma della leggerezza antideologica oggi di moda. E trovo fiacca, puerile e sospetta l’apologia del Fachinelli “dionisiaco” di Benvenuto e il suo viscerale antimarxismo. Tanto più che lui stesso è costretto a chiedersi:
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Haftar non firma il cessate il fuoco, la Ue prepara i militari
di Dante Barontini
Follow the money, quando vuoi capire come c’è in ballo al di sotto di mosse altrimenti incomprensibili. Ma segui anche il percorso delle armi, quando il minuetto della diplomazia palesemente non determina più le relazioni tra Paesi o frammenti di questi.
La Libia è esplosa quando quell’imbecille ambizioso di Nicolas Salkozy ha deciso di buttar giù militarmente Muammar Gheddafi per prendere possesso in via privilegiata dei terminali di petrolio e gas fin lì gestiti prevalentemente dall’Eni. Il “geniale” e ricattatissimo Silvio Berlusconi gli andò dietro (contro “gli interessi dell’Italia”), in un’operazione folle che non prevedeva nessun regime change credibile. Destabilizzare un equilibrio – gestito con indubbia “durezza” – in un mosaico di tribù è dar via a una guerra civile infinita, non certo a una “più avanzata democrazia”.
Da allora è successo di tutto. E siamo arrivati al vertice di Mosca, ieri, in cui il padrone della situazione sul piano militare – il generale Haftar – si è rifiutato di sottoscrivere un cessate il fuoco contrattato tra Vladimir Putin e Reyyip Erdogan, neo sponsor principale del “sindaco di Tripoli”, Al Serraj.
Sui media mainstream si sprecano le interpretazioni interessate, univocamente orientate a dimostrare che “gli altri” (Russia, Turchia, Egitto, Emirati, ecc) agiscono solo sulla base degli “interessi”, mentre l’Italia e l’Unione Europea avrebbero come faro la “legalità internazionale” e naturalmente “la pace”.
Menzogne.
Da anni la Libia è vista da tutti come un forziere, un tesoro pressoché indifeso ma pericoloso. Sembra una contraddizione, ma non lo è. La libia è indifesa perché lì è stato distrutto lo Stato, con l’abbattimento violento di Gheddafi. E’ stata con lui annientata l’infrastruttura amministrativa, l’esercito, la polizia, l’autonomia decisionale – ripetiamo – in una società fatta di tribù, dove l’appartenenza si misura su una base simil-familiare estesa.
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Come applicare una teoria al capitalismo contemporaneo, in molteplici crisi
di Makoto Itō
Prezioso e gentile contributo dell’economista giapponese Makoto Itō
Caratteristiche della teoria di Uno
La teoria di Uno fu elaborata dall'economista politico marxiano giapponese Kozo Uno (1897–1977). Aveva tre caratteristiche principali, come ho riassunto nel mio libro Value and Crisis. La prima è una chiara distinzione tra l'ideologia socialista e il ruolo dell'economia marxiana come scienza sociale oggettiva. La seconda è la differenziazione sistematica di tre livelli di ricerca - vale a dire i principi dell'economia politica come nel Capitale di Marx, mette in scena la teoria dello sviluppo capitalista (come in Uno 1971; per seguire Lenin 1917), e l’analisi concreta del capitalismo mondiale contemporaneo dopo la Prima guerra mondiale. La terza comprende i tentativi teorici di completare il Capitale, come principi dell'economia politica. Attraverso queste tre caratteristiche, la teoria di Uno intende leggere l'essenza del Capitale di Marx come una solida base della ricerca scientifica nell'economia politica, che può essere applicata in modo flessibile al capitalismo contemporaneo, nelle crisi attraverso la teoria degli stadi intermedi dello sviluppo capitalista.
Secondo la mia comprensione, l'essenza teorica del Capitale di Marx è composta principalmente dalla teoria del valore e della crisi.
Sulla teoria del valore, Uno ha sistematicamente sottolineato la scoperta originale di Marx della forme-valore nelle relazioni tra merci, denaro e capitale, che è stata trascurata dalla teoria del valore-lavoro della scuola classica rappresentata da Smith (1776) e Ricardo (1817). Uno ha sottolineato il riconoscimento teorico di Marx secondo cui "lo scambio di merci inizia laddove le comunità hanno i loro confini, a contatto con altre comunità o con i membri di queste ultime".
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Dall’economia di guerra ad un’economia di pace
di Francesco Cappello
Al tradizionale conflitto tra lavoratori e proprietari dell’azienda si è aggiunto oggi quello più generale tra debitori e creditori. Alla categoria dei debitori appartengono non solo famiglie e imprese ma interi popoli e le loro organizzazioni statali. Sullo sfondo il conflitto tra micro e macro: microimprese e multinazionali, piccole banche e grandi banche d’affari, stati nazionali e poteri sovranazionali.
L’architettura del sistema finanziario e il sistema dei pagamenti internazionale generano enormi bolle di debiti e crediti, pubblici e privati, che non si incontrano e che la finanza gestisce in forma di cartolarizzazioni, derivati (1) e altro. I debiti accumulati dalla finanza speculativa ammontano secondo stime, utilizzanti dati della BRI, a una somma pari a 54 volte il Pil mondiale! Si tratta di denaro fittizio, ricchezza fittizia, tradotta in titoli, inventati dal sistema finanziario, il cui valore non è determinabile con certezza e che risultano continuativamente soggetti ad improvvisi quanto imprevedibili rischi di svalutazione. Tuttavia, la casta aristocratico-finanziaria (che si avvale dello strumento dei grandi fondi di investimento che controllano le grandi banche d’affari, le multinazionali, le agenzie di rating, le grandi agenzie informative, la stessa politica) che detiene e gestisce questa ricchezza di carta usa allo scopo le più diverse manovre speculative. La pretesa di fondo consiste nel pensare possibile far soldi con i soldi, nei vari passaggi di mano da un investitore all’altro, saltando a piè pari l’economia reale, tenuta ai margini, se non del tutto disgiunta, da quella finanziaria. Piuttosto che concedere prestiti a famiglie e aziende si trova più redditizio commercializzare titoli.
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Il ritorno della Russia nello scacchiere mediorientale
di Carlo Paternollo
L’intervento russo nel conflitto siriano a supporto del presidente Assad ha inciso sulle sorti della guerra ed ha rivoluzionato lo scacchiere geopolitico del Medio Oriente rovesciandone gli equilibri, facendo leva sul disimpegno degli Stati Uniti dalla regione. In questo articolo esamineremo le principali condizioni che hanno permesso il ritorno della Russia come attore protagonista nel Medio Oriente e le motivazioni che hanno spinto Putin ad intraprendere una campagna militare in Siria, supportando uno schieramento ostile a quello appoggiato da Stati Uniti ed Europa. L’articolo cercherà di delineare la Grand Strategy russa nel Medio Oriente, identificandone i punti principali e la loro declinazione a livello tattico e militare nel conflitto siriano. In un successivo articolo osserveremo come la diplomazia e gli investimenti economici russi nella regione siano ulteriori strumenti per comprendere la Grand Strategy di Mosca in Medio Oriente.
Per meglio cogliere le radici dell’intervento della Russia nel teatro siriano è utile fare un passo indietro, risalendo alle origini del conflitto nel 2011, con la violenta repressione esercitata dal regime di Assad sui movimenti di protesta. Nel corso dei mesi la violenza aumentò significativamente fino a sfociare in una guerra civile che in breve tempo assunse una dimensione internazionale. Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Turchia – anche se quest’ultima ha tenuto un atteggiamento ambivalente nel corso del conflitto – supportavano la fazione dei ribelli mentre Russia, Iran e la milizia Hezbollah si schierarono con il regime di Assad.
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I comunisti e la questione ecologica
L’elaborazione della RdC
di Italo Nobile*
Nell’introdurre il seminario di Andrea Genovese sull’economia circolare è necessario fare un piccolo accenno a come la Rete dei comunisti (o le strutture e le esperienze che poi nella RdC sono confluite) nel corso di questi anni abbia affrontato la questione ecologica. Ovviamente tale ricostruzione è per forza di cose lacunosa perché in più di vent’anni di riflessione e di iniziativa politica molto del materiale è disperso in molti articoli distribuiti in diversi periodici. Tuttavia è possibile ricostruire un atteggiamento complessivo.
La prima cosa da dire è che la nostra organizzazione ha riconosciuto sempre l’emergenza ambientale ma ha anche evidenziato come la comunicazione deviante che caratterizza quest’ultima fase del capitalismo abbia utilizzato questo allarme per gli interessi materiali che essa serve, per distogliere l’attenzione da altre questioni più scottanti a breve e per alimentare nuove speculazioni in previsione di un aumento del business in questo comparto[1].
Perciò la battaglia delle idee su tale questione è stata qualificata da un lato dal riportare la contraddizione capitale-natura all’interno del conflitto capitale-lavoro[2] e, d’altro canto, nella critica continua e feroce a tutti i tentativi di far rientrare la politica ecologica all’interno del modo di produzione capitalistico ed in particolare nella critica alla Green-Economy[3] .
I due momenti sono compementari e tale stretto legame è significativo di un approccio globale e al tempo stesso storico alle questioni, senza nessuna concessione alla nostalgia di una natura che è invece sempre stata mediata socialmente e senza nessuna concessione ad un naturalismo dietro il quale spesso si nasconde una perpetuazione di rapporti di produzione che vanno tolti nel corso del tempo[4].
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Karl Marx sul populismo contemporaneo
di Anselm Jappe
150 anni fa, Marx ha pubblicato il suo Capitale. Agli occhi dei pensatori borghesi e di quello che era il mainstream accademico e mediatico, oggi Marx è del tutto superato. Dove sono i proletari straccioni? Oggi viviamo in un mondo di democrazia e di libero mercato. La sinistra tradizionale a sua volta potrebbe obiettare che il capitalismo è tornato, che esiste di nuovo un enorme divario tra ricchi e poveri, e che esistono anche un altro tipo di persone che sono subalterne e oppresse. Io ritengo che invece ci sia un altro modo per valutare oggi la teoria di Marx: In 150 anni la superficie del capitalismo è cambiata un bel po', ma il suo nucleo rimane ancora lo stesso. Il nucleo è quello che Marx ha analizzato soprattutto nel primo capitolo del Capitale: merce e valore, denaro e lavoro astratto. Al fine di evitare equivoci e confusione tra lavoro astratto e lavoro immateriale, è maglio partire dal lato astratto del lavoro, della sua duplice natura. Marx stesso considerava la sua analisi relativa alla «duplice natura del lavoro» - astratto e concreto - come una delle sue più importanti scoperte. [*1] Ogni singolo esempio di lavoro, in condizioni capitalistiche (ma solo nel capitalismo, dal momento che non c'è niente di naturale in tutto questo), è allo stesso tempo sia astratto che concreto. In quanto lavoro concreto, ogni singola attività produce beni o servizi, ma la medesima attività è anche allo stesso tempo semplice dispendio di energia umana che, misurata in unità di tempo, è una pura quantità di tempo, indipendentemente da ciò che durante quel tempo è stato fatto. Il lato concreto del lavoro corrisponde al valore d'uso ed il lato astratto corrisponde al valore (rappresentato dal denaro) di quella stessa merce. Nel capitalismo, il lato astratto del lavoro, e di quello che è il suo prodotto, prevale sul lato concreto, ed è questa la radice più profonda di quella che è l'assurdità del modo capitalistico di produzione.
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Karl Marx e la religione come «oppio dei popoli»
di Franco Livorsi
Religiosità, redenzione e rivoluzione costituiscono un nodo importante del marxismo sin dalle origini. Emerge già da una decisiva pagina di Marx in cui compare la famosa apostrofe sulla religione come oppio dei popoli, compresa nel suo saggio del 1844 Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844)1. Intendere quel che si dice lì può ancora darci una chiave interpretativa non priva d’importanza.
Al proposito ritengo importante dire due parole preliminari sul contesto storico e filosofico, in funzione della comprensione del testo in oggetto.
Prima c’era stato l’Illuminismo, e più in generale il XVIII secolo: con la sua costante tensione a illuminare il reale con la ragione e soprattutto a razionalizzarlo; col suo rifiuto dei dogmi, e con la messa in discussione radicale di ogni rivelazione e dello stesso cristianesimo, in nessun periodo anteriore mai avvenuta in tale forma radicale e su così vasta scala; con la valorizzazione della scienza unita alla tecnica sin dalla famosa Enciclopedia delle scienze, delle arti e della tecnica curata da D’Alembert e soprattutto da Diderot (1751-1765, in 17 volumi); con la prima rivoluzione industriale inglese e poi europea e, last but not least, con la Rivoluzione francese del 1789 e degli anni successivi. Poi era arrivato Napoleone, che aveva portato, sulla punta delle baionette della sua Armata nazionale, l’idea dell’uguaglianza giuridica tra i cittadini, propria della Gran Rivoluzione, e il proprio Codice civile moderno, privatistico e borghese, dappertutto, sino a Mosca, sia pure con tratto autoritario e con intento imperialistico.
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Il nuovo uomo €uropeo
di Quarantotto
1. Con una certa titubanza, ed un elevato scetticismo sulla possibilità che le più varie formazioni politiche italiane possano (voler) accedere a un dibattito approfondito sui motivi della necessità di efficaci politiche anticicliche, torniamo a trattare il problema del deficit pubblico.
Su questo punto, in realtà, ove si assecondino e si intenda rendere incontestabili i postulati economici che soprassiedono alle regole dell'eurozona, avremmo delle certezze che non possono non essere definite come "diritto positivo".
Anzitutto, avremmo l'indicazione costituzionale fornita dal "nuovo" (ormai non più tanto) art.81 della Costituzione, che, come dovrebbe essere notorio, dispone, nelle parti più direttamente rilevanti sul tema del "livello" del deficit (denominato "indebitamento", sottintendendosi, con tale termine, l'annualità e la pertinenza al settore pubblico dello stesso, nell'ambito dei c.d. saldi settoriali della contabilità nazionale):
"Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali...
....Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale."
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Lenin e la Rivoluzione
di Gianni Fresu (Universidade Federal de Uberlândia)
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
Il centenario della Rivoluzione d’ottobre è trascorso in un clima culturale e politico non certo favorevole al libero confronto intellettuale e ben poco disponibile a valutare ragioni ed eredità di un evento che, qualunque possa essere il nostro giudizio, ha rappresentato un radicale cambio di passo nella storia dell’umanità dal quale non si può prescindere. In un quadro nel quale comunismo e nazismo sono presentati come fratelli gemelli figli della stessa degenerazione (il trauma della Prima guerra mondiale), il principale protagonista della Rivoluzione russa è generalmente considerato come l’origine di ogni moderno fanatismo ideologico. Se il Novecento è stato archiviato come il secolo degli orrori, delle dittature e dei totalitarismi, all’interno di questo quadro apocalittico Lenin è l’arcidiavolo cui vanno imputate tutte le calamità di un secolo insanguinato, fascismo incluso1.
Non solo nel mondo liberale, ma anche a sinistra, la principale accusa mossa alla Rivoluzione d’ottobre sarebbe anzitutto da ricercare nella mancata estinzione dello Stato. Al contrario, l’ipertrofia delle sue funzioni e attività necessarie a dirigere questo inedito processo storico, che avrebbe svuotato il concetto di libertà individuale fino a impedirne l’esistenza, spiegherebbe la natura liberticida del socialismo storico. È l’idea di un rapporto inversamente proporzionale tra sfera delle libertà e estensione delle attività dello Stato, un’idea che accomuna la concezione del “governo limitato” di Locke alle teorie sul totalitarismo di Hannah Arendt.
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L’uccisione di Soleimani in un interludio torbido
di Michele Castaldo
L’uccisione di Soleimani, il generale iraniano comandante delle forze al-Quds (il corpo d’èlite della Guardia Rivoluzionaria Islamica) da parte degli Usa è il segno di un’accelerazione della crisi generale che investe il modo di produzione capitalistico in una fase cruciale.
La storia dell’uomo è caratterizzata dal principio di Hobbes: homo homini lupus, cioè l’uomo è un lupo nei confronti di un altro uomo, non riesce, perciò, in alcun modo a vedere in un altro uomo un proprio simile, nel suo simile, dunque non cerca di stabilire con lui un rapporto di armonia, ma di aggressione e di concorrenza, cioè cerca di prevalere. Seguendo questo principio l’uomo è arrivato
a sviluppare un moto-modo di produzione che dopo una straordinaria ascesa si avvia al suo declino, perché non riesce più a sviluppare lo stesso valore di un tempo e nella folle corsa per tenersi in vita semina morte e distruzione.
I fatti di questi giorni sono la conseguenza meccanica degli ultimi 40 anni, ovvero dalla rivoluzione antimperialista in Iran del 1979, che rischiò di incendiare tutto il Medio Oriente, coinvolgendo centinaia di milioni di esseri umani. Ma proprio l’homo lupus – in quel caso yankee – spinse Saddam Hussein a uno scontro armato contro l’Iran per evitare che si estendesse la rivoluzione islamica e che si rafforzasse una nazione e uno stato di un paese ricco di petrolio e di altre importanti materie prime. Dopo 8 lunghi anni di guerra e un milione di morti, Saddam Hussein pensò bene di passare all’incasso per aver agito anche pro domo sua, pretendendo di gestire il prezzo del petrolio e al rifiuto della Casa Bianca e di tutti gli altri paesi occidentali, invase il paese fantoccio del Kuwait, per cui tutto il mondo occidentale intese dare una dura lezione al “pazzo” che aveva osato sfidare il mondo “civile”.
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Guerra alla guerra! I conflitti militari nella fase di stallo tra gli imperialismi
di Noi Restiamo
Il nuovo anno si è aperto con momenti di alta tensione a livello internazionale dovuti all’azione militare mirata con la quale gli USA hanno eliminato Qassem Soleimani, generale alla guida delle forze Quds, unità d’élite dei Guardiani della Rivoluzione, e numero due della politica iraniana dopo l’Ayatollah Khamenei.
Questo atto non è un’iniziativa estemporanea dettata da scelte effettuate senza ponderazione, ma è una delle forme con cui in questa fase di stallo si sviluppa la competizione globale tra vari attori, in uno scenario che si avvicina a quello che poco più di un secolo fa fece precipitare il mondo nella prima carneficina mondiale.
È necessario dunque affrontare gli eventi che negli ultimi giorni si sono susseguiti in Medio-Oriente come passaggi di questioni che vanno ben oltre la già complessa relazione tra USA e Iran, e che devono invece essere compresi in quanto momenti di una dinamica che è insieme di lungo periodo, con tutto il portato storico ad essa collegato, ed è anche espressione dell’attuale scontro interimperialistico.
Innanzitutto l’azione statunitense si mostra in continuità con l’operato delle dominazioni coloniali prima e della penetrazione neo-coloniale poi, che per secoli hanno portato miseria e instabilità in tante aree del pianeta, intervenendo militarmente oppure finanziando e poi abbattendo regimi in funzione di quelli che di volta in volta erano i propri interessi in quella specifica contingenza storica.
Il caos in Medio-Oriente è responsabilità delle potenze occidentali, e i venti di guerra sollevati dall’assassinio di Soleimani sono il risultato dell’aggressione imperialista statunitense.
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Orientamenti politici e materialismo storico
di Roberto Fineschi
Il nesso fra il livello strutturale e quello sovrastrutturale non è immediato. È un errore accettarne l’identità immediata e pensare che lottando contro uno dei due lati, immediatamente si lotti anche contro l’altro. Chiarito ciò è possibile comprendere il carattere non rivoluzionario o addirittura reazionario di alcuni movimenti politici attuali
Il seguente articoletto mira a esporre in termini inevitabilmente schematici ma spero chiari e orientativi alcuni posizionamenti politici a livello sia strutturale che sovrastrutturale [1]. Ciò permette di descrivere almeno a grandi linee fenomeni in atto. Gli schieramenti politici indicati riflettono orientamenti individuali che non immediatamente corrispondono a partecipazione attiva a un partito, ma a un modo di vedere. Tutte le mediazioni vanno ovviamente svolte per fornire un’analisi più adeguata. Qui, schematicamente, si pongono delle basi per procedere in questo senso.
Nella tabella che segue, nelle colonne si considerano cinque questioni di fondo, 3 a livello strutturale, 2 a livello sovrastrutturale. Per il livello strutturale: A1) essere favorevoli o meno al (per adesso non meglio specificato) capitalismo, A2) essere favorevoli o meno a una sua regolamentazione che includa l’intervento diretto dello Stato (o altra istituzione per lui) nella gestione della riproduzione sociale, ma senza uscire dal contesto capitalistico. Come accessoria, si aggiunge una terza posizione A3), vale a dire essere o meno favorevoli alla presenza dello stato sociale (o in subordine di soli ammortizzatori sociali). A livello sovrastrutturale tutto è ridotto a due nozioni base: B1) essere favorevoli o meno all’universalità del concetto di persona, B2) essere favorevoli o meno alle istituzioni rappresentative parlamentari e alla divisione dei poteri classica borghese. Nelle righe invece si hanno 10 posizionamenti politico-ideologici possibili (numerati progressivamente da 1 a 10). Negli incroci tra righe e colonne, la “V” sta per “sì”, la “X” sta per “no”.
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Il furore di sfruttare e di accumulare
di Gianni Giovannelli e Turi Palidda
Il diavolo è un ottimista
se crede di poter peggiorare
gli uomini
Karl Kraus
Solo chi è prigioniero dell’ideologia dominante può accettare con felice soddisfazione l’odierna struttura dell’economia e dei rapporti sociali. Il sistema di comunicazione costruito dal liberismo contemporaneo ha trasformato la rappresentazione in realtà e il mondo sembra, nonostante tutto (come sussurrano prudentemente i più critici), un porto felice, o, quanto meno, l’unica vita possibile nel terzo millennio. La servitù volontaria, nata per contrastare il timore dell’esclusione e della miseria, rende ciechi, impedisce di vedere gli effetti di una quotidiana violenta prevaricazione che caratterizza il meccanismo di estrazione del valore. L’esame, nudo e crudo, dell’esistenza di gran parte delle persone che ci circondano dovrebbe invece rendere palese la verità: quella di un oggettivo accanimento, di uno sfruttamento crudele e senza freni inibitori, a volte perfino inspiegabile nella sua sostanziale irragionevolezza. Non a caso viene evocato il concetto di neoschiavitù per descrivere le insostenibili condizioni in cui si trovano i soggetti soggiogati dai funzionari del capitalismo ultraliberista.
Era prevedibile questo scenario, a ben pensarci. La concezione liberista della società tende ad esasperare ogni cosa, perfino le modalità dello sviluppo e l’idea del cosidetto progresso. L’esasperazione travolge davvero tutto: il libero arbitrio dell’imprenditore, del padrone e del sottopadrone, del caporale, e ancora omologa i comportamenti dei gendarmi, dei lobbisti, dei politici e delle banche.
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La “leva di Wallerstein”
di Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli
Il presente scritto è un estratto in anteprima del seguente libro in prossima pubblicazione online: Politica-struttura espressione concentrata dell’economia
Un’altra verifica e un ulteriore stress-test riguardo alla teoria della politica-struttura e del fatto che una sezione della sfera politica si rivela costantemente “espressione concentrata dell’economia” consiste nell’esperienza concreta e plurisecolare del capitalismo, la quale dimostra instancabilmente come proprio a fini economici e materiali di classe “il controllo del potere statale (o la sua conquista, quando era necessario) sia stato l’obiettivo strategico fondamentale di tutti i principali attori nella scena politica, lungo l’intero arco del capitalismo” (Wallerstein).
Perché dunque risulta così importante, anche nelle formazioni economico-sociali capitalistiche contemporanee, “occupare” e controllare i gangli fondamentali del potere politico e degli apparati statali?
Perché impossessandosi totalmente/parzialmente dei diversi organi dell’apparato statale, in modo più o meno completo i nuclei politici vittoriosi escludono gli antagonisti dall’accesso al potere direzionale, di controllo e repressivo delle loro formazioni statali, potendo pertanto decidere sugli affari comuni della società in un senso sfavorevole agli interessi politico-materiali dei propri avversari/antagonisti e dei loro mandanti sociali, garantendosi allo stesso tempo una favorevole riproduzione materiale della loro esistenza come soggetto politico e – soprattutto – producendo scelte di priorità almeno particolarmente a vantaggio dei loro più diretti referenti sociali.
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Nancy Fraser, “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere”
di Alessandro Visalli
Il libricino raccoglie interventi rivolti a inquadrare la crisi in corso scritta tra il 2017 e 2019 della studiosa americana Nancy Fraser, molto nota per le sue posizioni critiche sul femminismo liberale[1] e il “neoliberismo progressista”[2]. Sembrerebbe, con particolare riferimento all’elezione a sorpresa di Donald Trump nel 2016, di essere alle prese con una crisi politica ma è piuttosto, a parere della Fraser, una crisi ‘globale’. Caratterizzata in ogni luogo dell’occidente dal “drammatico indebolimento, se non un vero e proprio crollo, dell’autorità delle classi politiche costituite e dei partiti”. Ma questa è solo la componente politica di una crisi che ha dimensioni economiche, ecologiche e sociali; tutti processi convergenti che finiscono per “disintegrare” l’ordine sociale neoliberale. Ovvero quell’ordine che si è costituito a partire dall’alleanza, reale e potente, tra due strani partner: le correnti liberali conservatrici tradizionali, espresse in America a partire dagli anni cinquanta nel lavoro continuo di alcuni influenti e ben finanziati centri culturali[3], e il contributo decisivo per la legittimazione sociale e politica della confluenza dei nuovi movimenti sociali (femministi, antirazzisti, del multiculturalismo, ambientalismo e diritti Lgbtq+). Questo “blocco egemonico” è quel che la Fraser chiama “neoliberismo progressista”. I due improbabili partner uniscono lo spirito libertario e individualista dei movimenti anti-autoritari, e quindi anche antistatalisti, degli anni sessanta, con tutto il loro variopinto colore, ai “settori più dinamici, lussuosamente simbolici e finanziari, dell’economia degli Stati Uniti (Wall Street, la Silicon Valley e Hollywood)”[4].
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L'uomo artificiale
di Il Pedante
Non passa giorno senza che ci si imbatta nell'annuncio di nuove e vieppiù audaci applicazioni dell'intelligenza artificiale: quella all'indicativo futuro che guiderà le automobili, diagnosticherà le malattie, gestirà i risparmi, scriverà libri, dirimerà contenziosi, dimostrerà teoremi irrisolti. Che farà di tutto e lo farà meglio, sicché chi ne scrive immagina tempi prossimi in cui l'uomo diventerà «obsoleto» e sarà progressivamente sostituito dalle macchine, fino a proclamare con dissimulato orgasmo l'avvento di un apocalittico «governo dei robot». Questo parlare di cose nuove non è però nuovo. La proiezione fantatecnica incanta il pubblico da circa due secoli, da quando cioè «la religione della tecnicità» ha fatto sì che «ogni progresso tecnico [apparisse alle masse dell'Occidente industrializzato] come un perfezionamento dell'essere umano stesso» (Carl Schmitt, Die Einheit der Welt) e, nell'ancorare questo perfezionamento a ciò che umano non è, gli ha conferito l'illusione di un moto inarrestabile e glorioso. Come tutte le religioni, anche quella della «tecnicità» produce a corollario dei «testi sacri» degli officianti-tecnici un controcanto apocrifo di leggende popolari in cui si trasfigurano le speranze e le paure dell'assemblea dei devoti. Delle leggende non serve indagare la plausibilità, ma il significato.
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Come leggere il pensiero, secondo le neuroscienze
di Federica Sgorbissa*
Lo stato dell’arte delle ricerche su decodifica del pensiero e telepatia
Nel 1995, in Strange days, Kathryn Bigelow immaginava un futuro in cui memorie e pensieri possono essere registrati, venduti e comprati come fossero dei video. Nel film uno stralunato Ralph Fiennes interpreta Lenny Nero, una sorta di “spacciatore di ricordi” che sviluppa una dipendenza dal suo stesso “prodotto”. Un racconto simile l’aveva girato qualche anno prima Wim Wenders in Fino alla fine del mondo, dove Henry, interpretato da Max Von Sydow, è uno scienziato che resta intrappolato nelle sue ricerche, vittima, al pari di Lenny, del consumo compulsivo dei sogni altrui. Curiosamente, entrambi i film sono ambientati alla fine del 1999, con una differenza sostanziale: Strange days si spinge un po’ più avanti nell’immaginazione tecnologica e così, mentre Henry si limita a vedere i sogni su uno schermo, come fossero film, Lenny non solo può archiviare le esperienze in una sorta di minidisc, ma rivive queste registrazioni direttamente nel proprio cervello grazie allo SQUID, una specie di Playstation per ricordi.
Nonostante la visionarietà di Bigelow e Wenders, il capodanno del 2000 è passato senza la nascita di nessuna tecnologia simile. A distanza di vent’anni, tuttavia, si stanno effettivamente ottenendo grandi avanzamenti nel campo della decodifica di sogni e pensieri e, almeno parzialmente, della trasmissione brain-to-brain. Fra gli scienziati più attivi e ottimisti c’è Moran Cerf, professore della Kellogg School of Management della Northwestern University, imprenditore high-tech e consulente scientifico di Hollywood (oltre che ex-hacker). “Con l’elettroencefalografia oggi si possono avere decodifiche anche molto precise, usando dispositivi indossabili e non invasivi”, dice Cerf a il Tascabile.
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Inasprire il vincolo esterno. Il Meccanismo europeo di stabilità e il mercato delle riforme
di Alessandro Somma
Un Superstato di polizia economica
Nel corso degli anni l’Europa unita è divenuta un catalizzatore di riforme che elevano il principio di concorrenza a paradigma dello stare insieme come società, e impediscono a principi alternativi di persistere o eventualmente di riemergere. I Paesi membri sono chiamati a tradurre le leggi del mercato in leggi dello Stato, riducendo così l’inclusione sociale a inclusione in un ordine incentrato sul libero incontro di domanda e offerta. Il tutto presidiato da uno “Stato forte e indipendente” cui attribuire compiti di “severa polizia del mercato”: come sintetizzato anni or sono da un padre del neoliberalismo[1].
Spicca tra questi compiti il contrasto delle concentrazioni di potere economico, ovvero l’isolamento dell’individuo di fronte al mercato, al fine di condannarlo a tenere i soli comportamenti che costituiscono reazioni automatiche agli stimoli della libera concorrenza. E lo stesso deve valere per gli Stati, che si devono rendere incapaci di operare in senso difforme rispetto a quanto corrisponde alle aspettative dei mercati. Anche per questo i Trattati europei codificano il “principio del non salvataggio finanziario”, per cui “l’Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro” (art. 125 Trattato sul funzionamento Ue).
Il divieto di bail out non costituisce un presidio contro l’indebitamento pubblico, o almeno questa non costituisce la sua principale ragion d’essere. Prevale infatti una diversa finalità: costringere gli Stati a reperire risorse presso i mercati, a cui si conferisce così la funzione di disciplinare i comportamenti degli Stati.
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