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La guerra è arrivata in Europa
di Giulietto Chiesa
Era pronosticato. Ora si vede che significa. La vita politica europea sarà sconvolta. Il fanatismo: una facciata che non spiega la sua 'intelligence'
L'avevamo pronosticato. Adesso si vede meglio cosa significa. Tutta la vita politica europea sarà sconvolta per sempre. Non ci sarà possibilità di difesa per le classi sfruttate, subalterne. Ogni momento della vita collettiva sarà rubricato come problema di ordine pubblico. Controlli generalizzati in nome della difesa contro il terrorismo. La nostra vita diverrà un eterno passaggio attraverso un metal detector.
Politici e giornalisti, che ripetono le favole che si sono raccontate e ci hanno raccontato, sono nella più grande confusione.
Adesso si vede l'importanza di avere, o di non avere, una televisione che organizzi la difesa delle grandi masse.
Ed è solo l'inizio. La Russia, con il suo intervento in Siria, ha cambiato il quadro politico mondiale. Il piano di ridisegnare la mappa medio-orientale è fallito. Daesh è, di fatto, sconfitta là dov'è nata. Dunque i suoi manovratori spostano l'offensiva in Europa.
Obiettivo chiarissimo: terrorizzare l'Europa e costringerla sotto l'ombrello americano. A mettere a posto la Russia penserà Washington. Del resto l'Airbus abbattuto nel Sinai, in termini di sangue russo innocente, è equivalso al massacro parigino. E non ce ne eravamo accorti.
Germania e Francia (il match di calcio) sono nuovamente avvertite. E, con loro, Merkel e Hollande. I due leader europei che stavano cambiando rotta per uscire dal cappio americano sono avvertiti.
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Francia: schizzi di sangue dalla Guerra mediorientale
La redazione
Ci sarà tempo per analisi più approfondite su quanto accaduto ieri sera a Parigi. Per il momento è importante fissare un concetto: l'attacco portato alla capitale francese va inserito nel contesto della Grande Guerra Mediorientale in corso da anni. Una guerra di cui l'occidente ha creato le premesse, prima con la spartizione colonialista seguita alla fine dell'impero ottomano, poi con il pieno sostegno all'occupazione sionista della Palestina, infine con le guerre scatenate all'inizio di questo secolo, in primo luogo con l'aggressione e l'occupazione militare dell'Iraq.
Adesso l'epicentro dell'immane conflitto che sconvolge il Medio Oriente è in Siria. E non è difficile ricondurre a quanto avviene in questo paese alcuni sanguinosi attentati dell'ultimo mese: quello del 10 ottobre ad Ankara (cento vittime), quello che ha colpito l'aereo russo sul Sinai il 31 ottobre (224 morti), quello dell'altro ieri a Beirut (41 vittime).
Quello di Parigi completa dunque un quadro ben preciso. Ovviamente le sigle degli autori di ognuna di queste azioni può anche essere diversa, e le rivendicazioni in questi casi vanno prese con una certa prudenza, ma il contesto a cui guardare è sempre lo stesso.
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Ancora una strage, ancora Parigi, ancora strategia della tensione
Federico Dezzani
“Peggio che a gennaio”, “peggio di Charlie Hebdo” sono i commenti a caldo dell’ennesima strage a Parigi, ancora di matrice islamista secondo le prime ricostruzioni.
Si tratta di un attacco in grande stile, peggiore di quelli verificatosi finora in Francia (Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015, Saint-Quentin-Favallier il 26 giugno e l’attacco al treno ad alta velocità Amsterdam-Parigi il 21 agosto): è un attacco multiplo, coordinato e simultaneo: si tratta quindi di una rete terroristica con decine di affiliati che avrebbero operato nella capitale, per la seconda volta, senza essere intercettati dai radar dei servizi francesi. A distanza di neanche tre mesi dall’ultimo attentato, l’evento non è realisticamente credibile, a meno che non si accetti la totale incompetenza e fallibilità delle forze di sicurezza francesi.
Gli attentati sono multipli e concomitanti: al Teatro Bataclan una lunga sparatoria ed esecuzioni sommarie, poi l’irruzione delle teste di cuoio per liberare un centinaio di ostaggi; due esplosioni attorno allo Stade de France dove si teneva l’amichevole Francia-Germania cui assisteva anche il presidente François Hollande; una sparatoria davanti al ristorante “Petit Cambodge” nel 10ecimo arrondissement; un’altra conflitto a fuoco nel quartiere Halles, primo arrondissement. La Repubblica parla inizialmente di 40 morti, i siti d’informazione francesi di “plusieurs dizaines de morts”, il sito israeliano Debkafile stima 60 vittime. Sono 100 vittime secondo Le Figaro verso l’una e trenta.
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Parigi come Kobane, la guerra è la loro, i morti sono nostri
di Checchino Antonini
Dopo la strage di Parigi. Perché l’unità nazionale, invocata da Hollande e Le Pen (e quelli come loro) è l’altra faccia del terrore. Contro ogni fascismo barbuto o in felpa
Se i parigini, se tutti noi, pensassimo che stiamo vivendo lo stesso panico, la medesima angoscia e il lutto incolmabile di chi abita a Bagdad, Gaza, nel Rojava, a Tripoli, Kabul, Belgrado, vive e muore da anni come target di una guerra santa al contrario. Se fosse chiaro a tutti che la mattanza di Parigi è il rinculo drammatico della guerra globale, dei raid aerei, dell’azione dei contractor e delle truppe regolari della santa alleanza occidentale. Se fosse chiaro a tutti che ad armare i gesti folli di chi si lascia esplodere in uno stadio è anche la pressione delle multinazionali, degli apparati militari-industriali, sulle oligarchie politiche, da questa e da quella riva del Mediterraneo. La barbarie imperialista e islamista si alimentano a vicenda trascinandoci in uno stato di emergenza dove l’unità nazionale, proclamata da chi conduce quella barbarie, è la formula magica per legare le vittime ai carnefici, per limitare l’agibilità degli spazi pubblici, per soffiare ancora sul fuoco della guerra globale.
L’unica risposta alle guerre e il terrorismo è l’unità dei lavoratori e dei popoli, al di là delle loro origini, del colore della pelle, della religione. Per disarmare il terrorismo dobbiamo porre fine alle guerre imperialiste volte a perpetuare il saccheggio della ricchezza delle nazioni dominate dalle multinazionali, costringendo al ritiro le truppe occidentali da tutti i paesi in cui sono presenti, in particolare in Siria, Iraq , l’Africa. Fino ad allora la guerra è la loro, i morti saranno nostri.
Essere parigini e siriani, nello stesso tempo, kurdi e palestinesi, ribellarsi all’imperialismo e all’oscurantismo, ai fascimi barbuti e a quelli in doppio petto o in felpa.
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Stanno facendo a pezzi il mondo
George Monbiot
Cosa hanno imparato i governi dalla crisi finanziaria? Potrei scriverci un’intera rubrica specificandolo nel dettaglio, oppure potrei spiegarlo con una sola parola, niente. In realtà dire così è anche troppo generoso. Le lezioni imparate sono contro-lezioni, anticonoscenza, nuove politiche, che difficilmente potrebbero essere meglio progettate per garantire il ripresentarsi della crisi, questa volta con maggiore impulso e un minor numero di rimedi.
E la crisi finanziaria è solo una delle molteplici crisi – la riscossione delle imposte, la spesa pubblica, la salute pubblica, soprattutto tutta l’ecologia – che le stesse contro-lezioni stanno accelerando.
Un passo indietro e si può vedere che tutte queste crisi nascono da una stessa causa. Gli speculatori con enorme potere e portata globale vengono dispensati dalla moderazione democratica. Questo a causa di una corruzione di base nel cuore della politica. In quasi tutte le nazioni, gli interessi delle élite economiche tendono ad avere più peso sui governi rispetto a quelli dell’elettorato. Le banche, le aziende e i proprietari terrieri esercitano un potere inspiegabile, che funziona con un cenno del capo e un occhiolino, all’interno della classe politica. Il governo d’impresa sta cominciando a sembrare un Gruppo Bilderberg senza fine.
Come un articolo del professore di diritto Joel Bakan, nel Cornell International Law Journal, sostiene, si stanno verificando contemporaneamente due disastrosi cambiamenti. Da un lato, i governi stanno rimuovendo le leggi che limitano le banche e le imprese, sostenendo che la globalizzazione rende gli stati deboli e una efficace legislazione impossibile. Invece, dicono, dovremmo permettere a coloro che detengono il potere economico di autoregolarsi.
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Cosa si muove nel mainstream economico
keynesblog
Joseph Stiglitz, Larry Summers, Olivier Blanchard, Brad DeLong, Paul Krugman stanno contribuendo negli ultimi anni ad un significativo riposizionamento del mainstream economico. Questi economisti, tuttavia, non si muovono sulla stessa linea. Stiglitz, come vedremo, pare ormai aver abbandonato il mainstream. Blanchard, invece, sta tentando di salvarlo aumentando la dose di keynesismo nei modelli “New Keynesian”. Summers si colloca a metà tra i due: pur non avendo sposato un nuovo paradigma, sente tutte le limitazioni del vecchio. Krugman è impegnato invece in un ritorno al “vecchio” keynesismo della cosiddetta sintesi neoclassica (il modello IS-LM) prima della rivoluzione delle aspettative razionali.
Larry Summers e l’isteresi
L’isteresi, in fisica, è la tendenza di una certa grandezza a conservare “memoria” dei suoi stati precedenti. Se ad esempio si sottopone un pezzo di ferro ad un campo magnetico, esso rimarrà parzialmente magnetizzato anche dopo averlo allontanato dal campo. Nell’economia mainstream, l’isteresi fu introdotta dallo stesso Summers e da Blanchard in un articolo seminale[1] del 1986 nel quale si cercava di spiegare la permanenza della disoccupazione in Europa.
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Posture
Giorgio Agamben
Negli ultimi anni della guerra, mentre era internato in un campo di prigionia, Emmanuel Lévinas comincia a scrivere quello che diverrà il suo primo libro, Dall’esistenza all’esistente, pubblicato nel 1947. Non è facile misurare la novità e il singolare, quasi feroce svolgimento che qui riceve l’ontologia del suo maestro di Friburgo, Martin Heidegger. L’essere non è più un concetto, è un’esperienza sordida e crepuscolare, che si coglie tra il sonno e la veglia, negli stati di fatica e di insonnia, nel bisogno e nella nausea – e, innanzitutto, nelle posture e nelle imposture del corpo. Nella stanchezza, in cui la coscienza sembra allentare la presa e quasi disdire il suo abbonamento all’esistenza, è in realtà ancora l’essere che appare, in un evasivo ritardo rispetto a se stesso e come in un’intima lussazione. Si è dinoccolato e spostato e quindi mi sfugge e non riesco a afferrarlo: ma “c’è”. Per questo la fatica cerca riposo nel sonno senza trovarlo e scivola così suo malgrado nell’insonnia, quando si veglia senza che vi sia altro da vegliare se non il fatto brutale di esserci.
“La veglia è anonima. Nell’insonnia non sono io che veglio la notte, è la notte stessa che veglia”. L’essere non è qui dono, luce, annuncio, apertura: è una presenza rivoltante a cui sono, però, irrimediabilmente inchiodato, qualcosa che non posso assumere altrimenti che abbandonandomi a una postura che è anche già sempre impostura. Questo starmene rannicchiato sul letto, questo mio (non-mio) coincidere integralmente e senza riserve con la mia giacitura, questo mio (non-mio) non essere altro che insonne postura: sdraiato, bocconi, supino, su un lato con le gambe fetalmente ripiegate – questo e nient’altro è l’essere. Poiché è inassumibile, posso solo addossarmelo; poiché è impossibile o troppo brutalmente possibile, non posso dirlo, ma solo giacerlo (“coricare” deriva etimologicamente da “collocare”).
Nell’Esausto, Gilles Deleuze, pur senza farne il nome, cerca di andare al di là della fenomenologia puntigliosamente descritta da Lévinas. E lo fa, secondo la precisa intuizione di Ginevra Bompiani, non tanto cercando “di dar corpo al pensiero, quanto di dare pensiero al corpo, di esporre un corpo che porti impresso nella sua stessa postura il pensiero”.
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"Sull'Unione Europea la sinistra ha smesso di pensare"
Francesco Piccioni intervista Dino Greco
Dino Greco, un passato di militanza politica e sindacale in trincea, come dirigente Cgil e poi segretario della Camera del lavoro di Brescia, quindi come ultimo direttore di Liberazione, ha posto da qualche tempo dentro Rifondazione Comunista il problema della presa d'atto che l'Unione Europea è cosa ben diversa dall'”Europa”, con ovvie drastiche conseguenze sia sull'analisi complessiva del partito che sulla sua strategia politica.
Nel corso dell'ultimo Comitato Politico Nazionale, svoltosi sabato e domenica, c'è stata una discussione piuttosto articolata sul tema, anche alla luce della decisione di aderire al processo della cosiddetta “Sinistra Italiana”.
Ogni dibattito interno a un partito soffre di convenzionalismi e modi di esprimersi “per gli addetti ai lavori”, che rende spesso poco comprensibile il merito politico del contendere. Lo abbiamo intervistato per chiarire i termini di una discussione altrimenti da decrittare.
***
Buongiorno, Dino. Rifondazione è riuscita o no a prendere le misure della nuova situazione italiana ed europea, dopo la “svolta di Tsipras”?
È in atto un confronto molto serio, che parte naturalmente dalla viceda greca, al netto delle solite polemiche tra chi accusa Tsipras di “tradimento” e la sgangherata tifoseria che non vuol vedere i problemi.
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Gallino. Per chi verrà
Lelio Demichelis
Luciano Gallino ci ha lasciato, ma questo non è un necrologio (non lo avrebbe voluto). E la voglia di riordinare anni di riflessioni in comune lasciano il posto non al ricordo (anche, ci mancherebbe), ma a ciò che ci ha lasciato come suo messaggio, appunto il libro uscito poche settimane fa e ultimo di una trilogia (pubblicata da Einaudi) dedicata a questa crisi che è finanziaria ed ecologica insieme: Il denaro, il debito e la doppia crisi. Serie iniziata con Finanzcapitalismo (2011) e proseguita poi con Il colpo di Stato di banche e governi (2013), passando per l’intervista a Paola Borgna su La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, 2012).
D come denaro e come debito. E denaro e debito come cause di una crisi appunto finanziaria ed ecologica insieme che compromette, secondo Gallino (e noi con lui), le basi stesse della società e del pianeta. Il tutto, spiegato ai suoi nipoti, come recita il sottotitolo del libro. Un testamento etico e politico che Gallino cercava di lasciare a noi e per noi perché lo leggessimo e meditassimo, provando a usare il pensiero critico (recuperandolo dalle cantine in cui lo abbiamo riposto come cosa inutile e dimenticata) per uscire dalla prigione ideologica neoliberista che ci sta strangolando da troppi anni. Anche se, scrive appunto Gallino ai suoi nipoti “quel che vorrei provare a raccontarvi è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale e morale. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza, e quella di pensiero critico”. Due idee oggi scomparse anche o soprattutto a sinistra (in particolare in Italia), a causa di una perfetta ma diabolica sommatoria di ordoliberalismo tedesco e di neoliberismo statunitense fatta propria della stessa sinistra, sinistra dove anche e purtroppo è scomparso il pensiero critico o forse il pensiero e basta, perché pensare è sempre esercitare riflessione e critica, perché il pensiero è critica o non è pensiero.
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Il Piano C, o “Splendori e miserie della sinistra europea”
di Alberto Bagnai
Nel post francese su Goofynomics il prof. Bagnai condivide con i suoi lettori alcuni eventi del suo viaggio tra Rouen e Parigi: in primo luogo la chiara considerazione espressa al convegno di giuristi tenutosi a Rouen sull’idea di stato federale europeo, e poi l’interessante discussione con un collega sulla lunga serie di errori della “sinistra”, serie che va a culminare col prossimo sinistro errore, il Piano B. Ecco la traduzione per i diversamente europei
Al convegno: “Nessuno crede in un’Europa federale!”
Mi trovo a Rouen, città dove sono successe tante cose europee (come in qualsiasi città dell’ Europa, d’altronde), a partire da un certo processo, per arrivare a un certo convegno, che è l’occasione della mia visita.
Due avvenimenti relativamente lontani, ma che hanno in comune una forte presenza di giuristi, e un dibattito molto interessante.
Mi avevano chiamato per descrivere il processo di regionalizzazione in Italia, cosa che ho fatto come ho potuto, con l’aiuto di colleghi membri dell’associazione a/simmetrie, che attualmente presiedo (qui qualcosa di quanto stiamo facendo). Lo scopo del convegno era sostanzialmente quello di confrontare le diverse esperienze di decentramento e di regionalizzazione, vale a dire, in un certo senso, di “federazione” degli enti locali (siano essi Stati, come negli Stati Uniti, regioni, come in Italia, o cantoni, come in Svizzera). Si affrontavano questioni come la posizione degli Stati federati (o delle regioni) in rapporto allo stato federale (o allo stato centrale), la posizione degli Stati federati (o delle regioni) in rapporto alle comunità sub-statali (stati, provincie, unioni di comuni, città metropolitane, capitali, comuni …), ecc. Le asimmetrie economiche svolgono in questo un ruolo importante, sia a livello informativo, che sul piano dei rapporti di forza, o delle regole di funzionamento, e in effetti quasi tutti i relatori nelle loro presentazioni facevano riferimento al concetto di asimmetria.
Dopo due giorni di lavori, una cosa mi sembra ovvia, e, facendo mostra di una certa ingenuità (estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae), non rinuncio a farla notare ai miei colleghi:
“Cari colleghi, abbiamo parlato di tutela delle minoranze etniche, quindi spero che vogliate accogliere con indulgenza questa domanda posta dal solo economista qui presente. Abbiamo visto i problemi della regionalizzazione, e possiamo dire che sono in gran parte comuni a tutte le esperienze che abbiamo analizzato: dalla difficoltà di risolvere democraticamente i conflitti tra i diversi livelli di governo, alla difficoltà di adattarsi al fatto (storico ed economico) che le frontiere cambiano, etc. Abbiamo visto, allo stesso tempo, che a questi problemi sempre uguali nel tempo e nello spazio le diverse comunità hanno sempre fornito soluzioni diverse, soprattutto qui e ora, in Europa.
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Il capitalismo delle diseguaglianze e del debito
di Guglielmo Forges Davanzati
Due “fatti stilizzati” sono propri del capitalismo contemporaneo: le crescenti diseguaglianze distributive e l’esplosione del debito pubblico su scala globale[1]. Si tratta di fenomeni correlati, nel senso che, come si proverà a mostrare, è proprio la diseguaglianza a generare crescente indebitamento pubblico e, in più, è il crescente indebitamento pubblico a generare, attraverso misure di redistribuzione del carico fiscale, crescenti diseguaglianze distributive.
Sul piano empirico, l’OCSE rileva un significativo aumento dell’indice di Gini in tutti i Paesi industrializzati nel corso degli ultimi anni, in particolare a partire dal 2007 (http://www.oecd.org/social/income-distribution-database.htm). Al tempo stesso, come mostrato in Fig.1, si registra un continuo aumento del debito pubblico su scala globale.
L’aumento delle diseguaglianze distributive riduce il tasso di crescita fondamentalmente attraverso due canali, che operano rispettivamente sulla domanda aggregata e dal lato dell’offerta.
a) Dal lato della domanda. La riduzione della quota dei salari sul Pil determina una caduta dei consumi e, a parità di investimenti pubblici e privati, della domanda aggregata e del tasso di crescita.
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L'innocenza della scienza
La macchina del mito 4
di Sandro Vero
La ragione è sempre uno spazio ritagliato dall'irrazionale, mai definitivamente al riparo dall'irrazionale, ma attraversato da esso, e definito soltanto da determinati rapporti tra fattori irrazionali. Gilles Deleuze
1. La neutralità.
L'idea che la scienza sia neutra - eticamente, ideologicamente e politicamente - è un'idea che affonda le sue radici nell'illuminismo e, più avanti, nel positivismo. Ed è nient'altro che l'idea di una modalità della conoscenza umana che si pone ad un livello più alto, più certo, più razionale rispetto ad altre modalità, quali ad esempio la religione, l'arte o la filosofia. L'equivoco fondamentale consiste nella premessa da cui si parte: tutto ciò che è razionale è migliore, più alto, assoluto, di ciò che invece non lo è. Un equivoco che rivela la natura ideologica di questa premessa: che cioè il razionale e il non razionale siano esclusivi, non sovrapposti, dove c'è l'uno non può esserci l'altro e viceversa.
2. La razionalità scientifica.
La razionalità della scienza, ovvero il carattere oggettivo della sua conoscenza, sembra indubitabile. Ma l'unica certezza che abbiamo è che questa forma di razionalità appartiene all'ambito del metodo scientifico, e di una particolare declinazione della scienza che è quella della cultura occidentale.
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Le nuove logiche del capitalismo predatorio
Giuliano Battiston intervista Saskia Sassen
L'obiettivo è ambizioso. Il metodo innovativo. Per esaminare la lenta, opaca decadenza dell'economia politica del ventesimo secolo e l'emergere, sulle sue macerie, di un nuova paradigma, Saskia Sassen – docente di Sociologia alla Columbia University di New York – ha deciso di archiviare le categorie tradizionali «che articolano la nostra conoscenza dell'economia, della società e dell'interazione con la biosfera». Espulsioni. Brutalità e complessità nell'economia globale, appena tradotto dalla casa editrice il Mulino (pp. 296, euro 25), è il risultato di questo sforzo: un'immersione nella transizione storica che stiamo vivendo. Il tentativo di leggere, dietro alla specificità di processi diversi – l’impoverimento della classe media nei paesi ricchi, lo sfratto di milioni di piccoli agricoltori nei paesi poveri, le pratiche industriali distruttive per la biosfera – la stessa tendenza sotterranea. La fine della logica inclusiva che ha governato l'economia capitalistica a partire dal secondo dopoguerra e l'affermazione di una nuova, pericolosa dinamica. Quella delle espulsioni.
***
Professoressa Sassen, le patologie del capitalismo sono sotto gli occhi di tutti, ma le diagnosi divergono. Gli economisti che contestano il neoliberismo puntano il dito sulla crescente disuguaglianza (per esempio Stiglitz in The Price of Inequality), mentre lei preferisce affidarsi alla categoria delle “espulsioni”. Perché?
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Pasolini e Calvino
di Girolamo De Michele
Questo mio intervento ha per titolo “Pasolini e Calvino”: sono quindi in dovere di spiegare il titolo, per cominciare. Il titolo allude a una lettura comune dei due autori nominati: dunque si pone dal punto di vista dell’eventuale lettore di Pasolini e Calvino, e ha per obiettivo l’effetto che questa lettura congiunta, o parallela, o a mollichelle, ha sul lettore.
Intendiamoci, non sto cercando di minimizzare le cose che dirò con un maldestro tentativo di abbassare il livello della mia lettura: se ci pensate, la Retorica di Aristotele è un testo centrato sull’effetto che la tragedia ha sullo spettatore, più che un manuale di scrittura tragica o un saggio di critica del genere teatrale. Sto semplicemente chiarendo che intervengo dal punto di vista del lettore, non da quello dell’autore (che in altri momenti potrei essere) o del critico (che non sono): dopo tutto un punto di vista devo pur assumerlo, per evitare sovrapposizioni di piani e ambiguità di vario genere.
E poi, scusate se tiro anch’io la giacchetta a un critico tedesco molto citato negli ultimi tempi (forse perché ha scritto su Pasolini), Hans Magnus Enzensberger. Sto parlando del suo celebre paragone tra la letteratura e l’Alka-Seltzer1: da quando la letteratura è stata coinvolta nel processo di socializzazione, l’istituzione letteraria si è dissolta come il cialdino nel bicchiere della società. Essa non è finita, è dappertutto; ma ha perso peso, e con essa «le subistituzioni che ne dipendono» si sentono scalzate da nuove istanze sociali, e la loro inquietudine trapela da domande che si fanno insistenti e un po’ lamentose al tempo stesso: il computer non danneggerà la lettura della pagina cartacea?
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Luciano Gallino, costruire le fabbriche del dissenso
Roberto Ciccarelli
Addio al grande sociologo Luciano Gallino, scomparso a 88 anni. Ritratto di un intellettuale politico costruito in anni di interviste al telefono. Perché al telefono il pensiero viene messo al lavoro. A una domanda, può corrispondere una risposta imprevedibile al ritmo del presente
Luciano Gallino è morto a 88 anni. L’ultima volta che l’ho sentito al telefono, per un’intervista, era ai primi di luglio 2015. Ci eravamo lasciati con un appuntamento in autunno, quando sarebbe uscito il suo nuovo libro Il denaro, il debito e la doppia crisi, una lunga lettera ai suoi nipoti, più che un testamento uno strumento di battaglia contro l’austerità. Pensavamo a un’altra intervista, per discutere del libro. Mi disse: “Sa sono stato male, ma ho continuato a lavorare al libro. Adesso sto correggendo le bozze”.Era pieno di energia, mi disse. Lo richiamato più volte, nelle ultime settimane. Non è stato possibile parlarci.
Il ticchettìo dell’Olivetti
Era diventata un’abitudine, questa lunga frequentazione telefonica iniziata, credo, nel 2009.
Il nostro metodo di lavoro era improvvisato, ma era sempre preciso, infallibile. Lo chiamavo al mattino, prospettavo l’argomento dell’intervista: una dichiarazione del governo di turno, un avvenimento politico europeo di primo piano, un movimento degli studenti, una legge finanziaria, l’ultimo libro pubblicato. Mi rispondeva cortese, sembrava prendere appunti a mente, mi chiedeva sempre di richiamarlo al pomeriggio. Prendeva molto sul serio l’argomento, sembrava volerlo studiare a fondo. Lo richiamavo e, alla prima domanda, iniziava a parlare con un filo di voce, con calma, a raffica. Faticavo a stargli dietro.
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La forza di Renzi
Marino Badiale
Dopo Italicum e Jobs act, Renzi ha ottenuto anche la cosiddetta riforma del Senato. Senza grosse difficoltà, in questo caso come nei precedenti. A Renzi sta riuscendo, con una certa facilità, ciò che Berlusconi ha tentato inutilmente (o quasi) di fare per vent'anni. Penso sia il caso si chiedersi le ragioni di questa forza. Per rispondere, bisognerebbe prima chiedersi le ragioni della “debolezza” di Berlusconi. Mettiamo“debolezza” tra virgolette, perché ovviamente la parola è da prendere cum grano salis. Berlusconi ha sempre avuto, ed ha tuttora, un grande potere, i cui vari aspetti diamo qui per noti. Osserviamo solo che la sua vita politica copre gli ultimi vent'anni: in questi vent'anni egli è stato al potere per circa dieci, ed è stato comunque influente anche negli altri dieci. Ma sono proprio i dati oggettivi che mostrano la reale forza di Berlusconi a porre con evidenza il problema. Come mai in vent'anni di attività politica ai massimi livelli egli non è riuscito a devastare la Costituzione, conculcare la democrazia e abbattere i diritti dei lavoratori in maniera così completa come è riuscito in pochissimo tempo a Renzi? La prima risposta che viene in mente è che Berlusconi era sì forte, ma ha anche suscitato contro di sé forti opposizioni. Il ceto politico si è sempre profondamente diviso, di fronte ai suoi tentativi di cambiamenti regressivi delle istituzioni. Ma perché? Non certo per motivi morali o ideali. L'attuale ceto politico non conosce né etica né idee. Poiché l'unica cosa che esiste, per l'attuale ceto politico, sono gretti interessi materiali, è evidente che il problema di Berlusconi stava nel fatto che egli non era in grado di soddisfare tutti questi interessi, o almeno una loro parte tanto consistente da dargli maggioranze capaci di fare ciò che ha fatto Renzi. In sintesi, non c'era trippa a sufficienza per tutti i gatti, o almeno per una loro parte consistente.
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Una finanziaria depressiva
Riccardo Achilli
Finalmente, dopo oltre due settimane dalla sua presentazione,
il Governo Renzi mette a disposizione tabelle e numeri del disegno di legge di stabilità, dopo averne discusso in segrete stanze con burocrati europei, il cui parere vale, evidentemente, molto di più di quello del Parlamento e dei cittadini. Emerge in
modo ancora più chiaro, tanto che la Corte dei Conti ne dà una sostanziale bocciatura, l’impressione iniziale che avevamo avuto, ovvero quella, per parafrasare Churchill, di un nulla avvolto dal niente, costruito per mirabolanti slide piene di slogan
elettoralistici. Ma sostanzialmente dannoso.
Le forze sociali confindustriali che, a questo punto devo dire in modo del tutto suicida, continuano a sostenere la narrazione rignanese, sostengono, in piena linea con la comunicazione renziana, che si tratta della prima manovra finanziaria “espansiva” degli ultimi anni. Lo fanno davanti ad una opinione pubblica narcotizzata, privata di chi sia in grado di proporre uno straccio di analisi critica.
Eppure basterebbero poche operazioni algebriche, condotte sui documenti ufficiali di fonte governativa, per capire la direzione di questa manovra. Si parte da un indebitamento netto pari, nel 2015, a 42,5 miliardi. Su tale base di partenza, il Governo stima due scenari previsionali per il 2016: uno detto “tendenziale”, ovvero uno scenario che stima i parametri macroeconomici e finanziari nell’ipotesi che non si intervenga con nuove politiche sull’assetto esistente, ed uno “programmatico”, le cui stime scontano gli effetti previsti da nuove politiche di intervento, come in particolare quelle contenute nel ddl di stabilità. Il primo scenario, quindi, evidenzia, per gli anni a venire, soltanto gli effetti di trascinamento delle politiche fatte nel passato, e, per il 2016, stima un rapporto disavanzo/PIL pari all’1,4%, ovvero a una diminuzione di 19,7 miliardi rispetto al disavanzo del 2015.
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Un filosofo classico. Gilles Deleuze a vent'anni dalla morte
Rocco Ronchi
ll 4 novembre 1995 moriva a Parigi il filosofo francese Gilles Deleuze. Doppiozero lo ricorda, a vent'anni dalla morte, con una serie di scritti suoi e su di lui
È possibile “situare” con precisione la posizione di Gilles Deleuze nella storia della filosofia. Non aggiungo l'aggettivo “moderna” o “contemporanea” perché la storia della filosofia è una sola dal momento che a definirla non è la successione dei sistemi di pensiero ma la riproposizione costante e monotona di una sola questione, quella che concerne la possibilità per la filosofia di cominciare. Può darsi, cioè, un pensiero puro, un pensiero senza immagine, un pensiero che sia libero dalle presupposizioni della doxa, dalle equivoche “evidenze” del senso comune come dalle direttive morali di un malinteso buon senso? Oppure la filosofia è l'impossibile, è il sogno cattivo di una umanità tracotante che s'illude di potersi spogliare della sua finitezza, della sua mancanza e addirittura del suo limite strutturale, la morte, per coincidere in un punto – la filosofia, appunto! – con il piano stesso dell'infinito? Ecco la questione, posta nella sua brutale semplicità, che attraversa da cima a fondo l'intera filosofia deleuziana e che ne spiega l'inattualità, la sorda ostilità che l'ha sempre accompagnata, gli equivoci di cui è stata vittima, ma anche il fascino che essa ha saputo esercitare su chi si avvicinava alla filosofia perché continuava ingenuamente a credere nella possibilità di una “sapienza” che non avesse più l'uomo come sua unità di misura.
Come tanti studenti di filosofia della mia generazione, io mi sono formato in un tempo – la fine degli anni '70 e gli '80 – in cui la dismissione della filosofia era moneta comune. C'erano dei maestri del pensiero, è vero.
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EXPO 2015. Vettore di spoliazione e laboratorio di nuovo sfruttamento
di Emanuele Leonardi e Ugo Piazza

Alberto Abruzzese1
Si è finalmente concluso il grande circo mediatico dell’EXPO milanese, dedicata al tema Nutrire il pianeta, energia per la vita. Non siamo affatto certi che il trionfalismo governativo sarà confermato da un’attenta lettura dei dati, né che la patata bollente del post-esposizione sarà gestita in maniera adeguata e trasparente. Si tratta di problemi seri e urgenti, cui i movimenti No EXPO non potranno sottrarsi. In questo breve intervento2 vorremmo tuttavia focalizzare l’attenzione su tre elementi più generali, in grado forse di fornire all’ondata informativa che si appresta a travolgerci un contesto storico di riferimento, uno sfondo capace di dare senso politico al mega-evento dell’anno.
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Della guerra in Siria: caos diffuso, nuovi equilibri o cosa?
Spigolature geopolitiche 2.2
di rk
Nella deriva apparentemente inarrestabile del Medio Oriente verso il caos - perseguito o meno, e da chi, essendo la questione che aleggia sullo sfondo - ecco dunque inserirsi l’intervento militare diretto della Russia a sostegno del governo di Damasco. Comunque lo si valuti, e con la cautela indispensabile per una situazione complessa e in continuo movimento, una cosa sembra certa: esso si pone frontalmente contro la strategia del regime change statunitense in Siria e, se dovesse riuscire sul piano militare e non solo, ne segnerebbe il fallimento quanto meno sul medio termine con ripercussioni locali e globali tutte da vedere.
In realtà, la strategia Usa in Siria aveva già mostrato numerose falle. Due le ragioni principali: l’assenza di truppe fidate sul terreno in grado non solo di disarticolare lo stato siriano - per questo sono bastate le milizie islamiste armate e addestrate direttamente o tramite Turchia e Arabia Saudita - ma di sostituirlo; e la resistenza di Damasco, supportata da Hezbollah e aiuti russi ma evidentemente anche da un persistente seppur passivo consenso popolare, che è stata ben altra cosa rispetto a quella di un Gheddafi in Libia. Senza contare che nel caso siriano a frenare la corsa di Obama al regime change si sono mossi, dietro le quinte ma fermamente, anche attori internazionali quali la Cina (precedentemente scottata proprio dal caso libico) e il Vaticano.
Ciò non toglie che quel minimo accenno di Primavera araba che si è dato in Siria (ammesso pure che si sia dato) è stato subito cannibalizzato dalle guerriglie jihadiste e dagli appetiti delle fottutissime petrolmonarchie, con la Turchia a fare da base logistica (ma finora con un ben misero ritorno) e Israele a godersela (della tacita alleanza dello stato ebraico con i “custodi dei luoghi santi” dell’Islam si parla oramai senza peli sulla lingua: http://www.jpost.com/Opinion/Syria-and-the-US-431750).
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Lo sguardo lungo di Pasolini
Franco Berardi "Bifo"
In un film recente e bellissimo che si chiama Non essere cattivo, Claudio Caligari ha riproposto i luoghi e le atmosfere della Ostia di Pasolini (quella dei suoi romanzi, quella della sua morte). La storia si svolge nel 1995, cioè a metà strada tra l’anno in cui Pasolini fu ucciso, e l'oggi, il nostro tempo in cui la demenza e la barbarie sono uscite dai margini per invadere il centro della scena.
Se pensiamo ai quarant’anni che ci separano dalla morte di Pasolini ci rendiamo conto del fatto che il suo presentimento più oscuro e più marcio si è progressivamente fatta realtà nella storia di questo paese, mentre l’immaginazione distopica si impadronisce della storia del mondo. Nel suo Salò Pasolini aveva colto la sostanza eterna del fascismo, collocandone il tempo nel passato, ma presentendo il suo riemergere nella mutazione culturale che allora si delineava ambiguamente all’orizzonte.
Quel futuro che oggi è presente Pasolini non seppe descriverlo se non in termini nostalgici, passatisti, in ultima analisi reazionari. Non essere cattivo racconta una storia che si colloca nel punto in cui lo sprofondamento della mente collettiva inizia dai margini della vita sottoproletaria, della periferia urbana e della droga.
In questi ultimi anni il cinema italiano ha ritrovato forza espressiva perché ha avuto il coraggio di guardare negli occhi l’orrore psichico e morale dell’epoca presente attraverso le lenti specificamente italiane della demenza barocca, dell’euforia aggressiva e dell’autodisprezzo depressivo. Matteo Garrone (Gomorra e Reality), Nanni Moretti (Habemus Papam) e Sorrentino (Il Divo, La Grande bellezza) hanno ripreso il filo della diagnosi pasoliniana: la sguaiatezza del fascismo eterno che Pasolini mette in scena nel Salò, si è fatta pervasiva, quasi ubiqua, e va in onda quotidianamente sui giornali, in tivu e nella vita.
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Dopo Ignazio Marino un sindaco per Roma né di destra né di sinistra?
di Giorgio Salerno
Con l’uscita di scena dell’alieno, del marziano, del diverso, cioè dell’ ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, si chiude una fase turbolenta della consiliatura eletta nelle comunali del maggio 2013. Molto è stato detto sulla vicenda e sul personaggio per cui non ci torneremo sopra ma cercheremo di capire cosa accadrà ora, quali scenari si presentano per la città e quale storia si chiude con questa crisi.
L’indagine giudiziaria accerterà se vi siano reati nella condotta dell’ex sindaco e sull’altro versante, quello di Mafia Capitale, si spera che tutta la verità venga a galla compresi i nomi secretati dei 101 funzionari capitolini collusi o corrotti.
Più che Marino ne esce molto male il PD romano che “era ed è uno dei peggiori d’Italia” (Scalfari dixit). Giudizio autorevolmente confermato e certificato dall’indagine commissionata dalla Direzione del PD a Fabrizio Barca e dalla quale si evince che ben 24 sezioni del Partito, più di un terzo della Federazione romana, sono infrequentabili. Ed il gruppo consiliare, i famosi 19, non sono un granchè in quanto a competenze e capacità amministrative. Il problema della poca autorevolezza o della mancanza di una classe dirigente del PD sui territori, a Roma è particolarmente grave.
Ancora più grave il metodo seguito per far dimettere Marino. Il PD ha rivelato, sostituendo al dibattito pubblico dell’Aula consiliare la manovra di corridoio e la ‘scomunica’ extra-istituzionale del Sindaco, una natura “compiutamente post-democratica” come ha scritto Marco Revelli.
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Dopo l’euforia dell’Expo
Mario Vitiello
A qualche giorno dalla fine dell’Expo, è possibile iniziare a fare alcuni bilanci dell’evento che ha occupato la scena politica e sociale milanese (e a tratti anche nazionale) negli ultimi cinque anni. Expo è un evento complesso, che riguarda la città di Milano e probabilmente l’intera nazione, che interessa molti settori, e ancora oggi sono tante le domande aperte, molti i rischi incombenti – non tutti noti – e innumerevoli le ferite che si devono ancora rimarginare. Per questo è necessario premettere qualche informazione riguardo gli assetti delle società che governano Expo, per comprendere quali siano le criticità e le contraddizioni presenti sullo scenario milanese (ma non solo) per i prossimi anni.
La proprietà delle aree è di Arexpo Spa, la società che ha comperato il milione di metri quadri su cui si sta svolgendo l’evento. Li ha acquistati da Cabassi, da Fondazione Fiera e da Poste Italiane, pagandoli uno sproposito (grazie ad una speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti), indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro). La gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata deserta, e in molti stanno pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano interessare a tutti ma che nessuno vuole.
A meno che non intervenga un soggetto “forte”, sia sotto il profilo politico sia sotto quello finanziario, che garantisca la realizzazione di nuove opere, nuove infrastrutture Expo Spa è la società che ha costruito l’Expo e che sta gestendo lo show.
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Critica del pasolinismo
L'ideologia italiana. “Pasolini” a quarant'anni dalla morte
Rocco Ronchi
Non di Pier Paolo Pasolini vorrei parlare ma del pasolinismo, vale a dire di un'ideologia diffusasi a macchia d'olio nell'Italia dei quarant'anni successiva alla sua morte. Questa ideologia si è nutrita, ripetendola come un ritornello, della concettualità prodotta dal Pasolini “corsaro” in articoli e interventi pubblici che non hanno certo bisogno di essere qui ricordati. Se il poeta Pasolini, il cineasta Pasolini, lo scrittore Pasolini possano poi essere effettivamente ridotti al pasolinismo è questione aperta sulla quale è perlomeno prudente non pronunciarsi. Noto soltanto che in tempi non sospetti, siamo nel 1965, quando Pasolini era ancora bel lungi dal diventare la santa icona dell'intellettualità italiana, Alberto Asor Rosa, tenendo conto della produzione poetica, dei romanzi e delle primissime esperienza cinematografiche, aveva scritto pagine mirabili nelle quali aveva colto il tratto specifico della poetica pasoliniana in un certo populismo estetizzante e decadente, così coerente con l'italica tradizione. Ma non è questo il punto. Ciò che mi interessa – anche per ragioni autobiografiche, essendo io cresciuto nell'Italia post-Pasolini – sono le ragioni del consenso generalizzato, entusiasta, talvolta addirittura fideistico, che, come un'onda irresistibile, la proposta teorica e critica del Pasolini corsaro ha suscitato.
È un consenso che, caso quasi unico nella storia culturale italiana, trascende le appartenenze politiche come quelle religiose. Destra e sinistra (estrema destra ed estrema sinistra comprese), tradizionalisti cattolici e laici irriducibili, critici conservatori della cultura e aspiranti modernizzatori del paese, possono discutere e contrapporsi su tutto, ma su “Pasolini” – le virgolette sono d'obbligo – si riconoscono. Su quel “Pasolini”, teorico della “mutazione antropologica”, della “omologazione” e del “genocidio culturale” operata dal tardo-neo-post ecc. capitalismo, tutti giurano concordi. Tutti ne verificano la “straordinaria attualità”, tutti ne lodano le capacità “profetiche”, tutti ne lamentano la “mancanza” con accenti toccanti.
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I problemi della sinistra oggi
“Il movimento socialista è nato dall'incontro fra teoria scientifica e lotta di classe: da qui dobbiamo partire!”
#politicanuova intervista Domenico Losurdo
Domenico Losurdo, Professore emerito di Storia della Filosofia all'Università di Urbino, tra i maggiori intellettuali contemporanei, che recentemente ha pubblicato “La sinistra assente” (Carocci, 2014), un'analisi a proposito dell'assenza, in Occidente, di una forza d'opposizione in grado di incidere nella realtà e d'offrire la prospettiva della trasformazione sociale (A cura di Aris Della Fontana)
1. Lei afferma che «la sinistra dilegua proprio nel momento in cui è chiamata a reagire ai processi in atto». Come si spiega questa contraddizione?
Quando parlo del dileguare della sinistra, mi riferisco all'Occidente. La sinistra dilegua, per esempio, dinanzi all'aggravarsi della situazione internazionale. Oggi stiamo assistendo a una serie di guerre neo-coloniali, particolarmente nel Medio Oriente: è un dato di fatto che viene riconosciuto persino da commentatori borghesi, ma che la sinistra occidentale, invece, tace. E oggi i pericoli di guerra si stanno aggravando: ne “La sinistra assente” cito un illustre analista quale Sergio Romano, secondo cui gli Stati Uniti hanno come obiettivo l'acquisizione di una sorta di monopolio sostanziale dell'arma nucleare; e ciò, all'occorrenza, anche al fine di poter scatenare un primo colpo nucleare impunito. Ci troviamo, dunque, dinanzi a una prospettiva decisamente allarmante. Ma la sinistra occidentale latita. Nel libro spiego le ragioni storiche di questa latitanza, ma fermarsi a ciò non basta. Di fronte all'aggravarsi dei conflitti sul piano internazionale, delle tendenze neo-colonialiste e della minaccia imperialista, s'impone la necessità d'una chiara risposta da parte della sinistra – anche sul piano ideologico - e con ciò una sua riorganizzazione. Ma purtroppo siamo ancora disgraziatamente lontani da tale momento.
2. Di fronte alla «crisi economica e politica» e ad un «deteriorarsi della situazione internazionale» che desta importante preoccupazione in particolare per i venti di guerra che spirano sempre più forti, si pone, per la sinistra, la questione delle tempistiche, e cioè della necessità di agire in rapporto a margini non eternamente posponibili? Se la sinistra non si attiva ora, in seguito sarà troppo tardi?
Per quanto concerne lo stato della situazione internazionale, ribadisco quanto sostenuto poco sopra.
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