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Tesi sul cybercapitalismo
di Liberiamo l’Italia
Questo importante documento analizza le profonde trasformazioni del sistema capitalistico e indica quale potrebbe essere il suo eventuale punto di approdo. Esso venne approvato nel novembre 2021 dalla II. Conferenza nazionale per delegati di Liberiamo l’Italia.
Il tornante storico
- 1. Con il crollo dell’Unione Sovietica l’élite americana (sia neocon che clintoniana) scatenò un’offensiva a tutto campo per trasformare l’indiscussa preminenza degli U.S.A. nei diversi campi — economico, finanziario, militare, scientifico, culturale — in supremazia geopolitica assoluta. L’offensiva si risolse in un fiasco. Invece del nuovo ordine monopolare sorse un disordinato e instabile multilateralismo.
- 2. La grande recessione economica che colpì l’Occidente, innescata dal disastro finanziario americano del 2006-2008, fu un punto di svolta dalle molteplici conseguenze. Indichiamo le principali: (1) il “capitalismo casinò” — contraddistinto dalla centralità della finanzia predatoria: accumulazione di denaro attraverso denaro saltando la fase della produzione di merci e di valore — dimostrava di essere una mina vagante per il sistema capitalistico mondiale; (2) il modello economico neoliberista, quello che aveva consentito la metastasi della iper-finanziarizzazione, esauriva la sua spinta propulsiva; (3) la globalizzazione liberoscambista a guida americana giungeva al capolinea sostituita da una “regionalizzazione” delle relazioni economiche mondiali e dalla rinascita di politiche protezionistiche; (4) la Cina, uscita dallo sconquasso come principale motore del ciclo economico mondiale, occupava il ruolo di nuovo alfiere della globalizzazione; (5) una profonda scissione maturava in senso alle élite occidentali: la crisi di egemonia delle frazioni mondialiste alimentava il fenomeno del populismo. Così ci spieghiamo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, l’avanzata dirompente di nuove forze politiche “sovraniste” in diversi paesi europei (Italia in primis), la Brexit.
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Siamo noi i cattivi?
Il sostegno occidentale al genocidio a Gaza significa che la risposta è sì
di Jonathan Cook
La disperata campagna diffamatoria volta a difendere dei crimini di Israele mette in luce la miscela tossica di menzogne su cui si regge da decenni l’ordine democratico liberale
In un popolare sketch comico britannico ambientato durante la Seconda guerra mondiale, un ufficiale nazista vicino alle prime linee si rivolge a un collega e, in un momento di improvviso – e comico – dubbio su se stesso, chiede: “Siamo noi i cattivi?“.
A molti di noi è sembrato di vivere lo stesso momento, prolungato per quasi tre mesi, anche se non c’è stato nulla da ridere.
I leader occidentali non solo hanno appoggiato retoricamente una guerra genocida da parte di Israele contro Gaza, ma hanno fornito copertura diplomatica, armi e altra assistenza militare.
L’Occidente è pienamente complice della pulizia etnica di circa due milioni di palestinesi dalle loro case, nonché dell’uccisione di oltre 20.000 persone e del ferimento di molte altre decine di migliaia, la maggior parte delle quali donne e bambini.
I politici occidentali hanno insistito sul “diritto di difendersi” di Israele, che ha raso al suolo le infrastrutture critiche di Gaza, compresi gli edifici governativi, e ha fatto crollare il settore sanitario. La fame e le malattie stanno iniziando a colpire il resto della popolazione.
I palestinesi di Gaza non hanno dove fuggire, dove nascondersi dalle bombe di Israele fornite dagli Stati Uniti. Se alla fine gli sarà permesso di fuggire, sarà nel vicino Egitto. Dopo decenni di sfollamento, saranno finalmente esiliati in modo permanente dalla loro patria.
E mentre le capitali occidentali cercano di giustificare queste oscenità incolpando Hamas, i leader israeliani permettono ai loro soldati e alle milizie di coloni, sostenuti dallo Stato, di scatenarsi in Cisgiordania, dove non c’è Hamas, attaccando e uccidendo i palestinesi.
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Alain Badiou e la rivoluzione
di Antiper
Questo intervento è una lettura di un testo di Alain Badiou sulla rivoluzione russa dell’ottobre 1917, tratto da Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesis, 2023
Di recente è uscita [1] una piccola raccolta di interventi del filosofo francese Alain Badiou dedicati alle due principali rivoluzioni del ‘900: la rivoluzione russa (d’ottobre) e la rivoluzione cinese.
In questi interventi Badiou rivendica integralmente il carattere progressivo per l’umanità di questi “eventi” (per usare un termine del suo arsenale teorico) e anche solo il fatto che un importante filosofo prenda posizione in modo così netto a favore delle rivoluzioni comuniste è una cosa che, di per sé stessa, riveste una grande importanza, in questi tempi di pensiero debole, anzi insulso. In questo intervento vogliamo entrare in dialettica con il breve saggio sulla Rivoluzione d’Ottobre analizzando alcuni passaggi che ci sono sembrati meritevoli di approfondimento.
L’esordio di Badiou è suggestivo e istituisce una linea di continuità rivoluzionaria tra la rivolta degli schiavi guidati da Spartaco e le rivoluzioni del ‘900
“Spartaco, Thomas Müntzer, Robespierre, Saint-Just, Toussaint Louverture, Varlin Lissagaray e gli operai in armi della Comune: tanti “dittatori” calunniati e dimenticati, che Lenin, Trockij o Mao Zedong hanno trasformato in quello che sono stati: eroi dell’emancipazione popolare, punti fermi dell’immensa storia che orienta l’umanità verso il governo collettivo di se stessa.”
Colpisce l’affiancamento di Trockij a Lenin (neppure Trockij, a cui certo non mancava l’autostima, avrebbe osato tanto dopo il 1917); i ruoli di Lenin e di Trockij, infatti, stanno su piani davvero molto diversi. Per intendersi (e sicuramente schematizzando), senza Lenin non ci sarebbe stata alcuna Rivoluzione d’Ottobre e se fosse stato per Trockij non ci sarebbe stato neppure alcun partito bolscevico. Encomiabile, certo, che dopo 15 anni di lotta senza quartiere Trockij, a 1917 inoltrato, si sia avvicinato ai bolscevichi e si sia allontanato dai classici alleati menscevichi, ma da qui ad accoppiare Lenin e Trockij ce ne passa.
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Antonio Negri, un uomo che voleva assaltare il cielo alzandosi sulle punte dei piedi
di Carlo Formenti
Nel momento in cui l'intero patrimonio di idee, teorie, tradizioni e pratiche politiche del marxismo sembra evaporare nei Paesi Occidentali, mentre rinasce in forme inedite in Asia e America Latina, due eventi distanziati di pochi mesi l'uno dall'altro accentuano la sensazione di vivere la fine di un ciclo storico: mi riferisco alle morti dei due "grandi vecchi" dell'operaismo italiano, il novantaduenne Mario Tronti, deceduto lo scorso agosto, e il novantenne Toni Negri, spentosi poche settimane fa. Commentando la prima su queste pagine (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/08/che-cosa-ho-imparato-da-mario-tronti.html) titolavo "Che cosa ho imparato da Mario Tronti", per commentare la seconda ho scelto, per ragioni che chiarirò più avanti, di titolare "Un uomo che voleva assaltare il cielo alzandosi sulla punta dei piedi". Qui non troverete parola in merito al disgustoso luogo comune su Negri "cattivo maestro", che i media di regime hanno prevedibilmente rilanciato, perché le critiche che potrei fare alle sue scelte degli anni Settanta sono marginali rispetto a quelle che intendo rivolgergli qui, riferite piuttosto al suo ruolo - per citare un azzeccato titolo del "Manifesto" - di "attivo maestro". Non troverete nemmeno i ricordi di un rapporto di amicizia ormai lontano nel tempo (negli ultimi decenni ci siamo incontrati in rarissime occasioni). Non troverete nemmeno valutazioni relative alla sua opera strettamente filosofica, compito che delego agli accademici. Qui discuterò solo del Negri teorico del conflitto sociopolitico e dell'influenza che ha esercitato sulle sinistre radicali post comuniste.
Parto con una affermazione provocatoria: contrariamente a quanto da lui rivendicato (1), penso che Toni Negri non sia stato un comunista (nel senso storicamente riconosciuto del termine).
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Il genocidio di Israele tradisce l’Olocausto
di Chris Hedges - chrishedges.substack.com
Oscurando e falsificando la lezione dell'Olocausto perpetuiamo il male che lo aveva caratterizzato
Il piano generale del lebensraum di Israele per Gaza, copiato dallo spopolamento dei ghetti ebraici da parte dei nazisti, è chiaro. Distruggere le infrastrutture, le strutture mediche e i servizi igienici, compreso l’accesso all’acqua potabile. Bloccare l’invio di cibo e carburante. Scatenare una violenza indiscriminata per uccidere e ferire centinaia di persone al giorno. Lasciare che la fame – le Nazioni Unite stimano che più di mezzo milione di persone stia già morendo di fame – e le epidemie di malattie infettive, insieme ai massacri quotidiani e allo sfollamento dei palestinesi dalle loro case, trasformino Gaza in un obitorio. I palestinesi saranno costretti a scegliere tra la morte sotto le bombe, le malattie, lo stare all’addiaccio, la fame e l’allontanamento dalla loro terra.
Presto si arriverà a un punto in cui la morte sarà così onnipresente che la deportazione – per coloro che vogliono vivere – sarà l’unica opzione.
Danny Danon, ex ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite e stretto alleato del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha dichiarato alla radio israeliana Kan Bet di essere stato contattato da “Paesi dell’America Latina e dell’Africa che sarebbero disposti a farsi carico dei rifugiati dalla Striscia di Gaza“. “Dobbiamo rendere più facile per i gazesi partire per altri Paesi“, ha detto. “Sto parlando di migrazione volontaria da parte dei palestinesi che vogliono andarsene“.
Il problema per ora “sono i Paesi disposti a farsene carico, e stiamo lavorando su questo“, ha detto Netanyahu ai membri della Knesset del Likud.
Nel ghetto di Varsavia, i tedeschi distribuivano tre chilogrammi di pane e un chilogrammo di marmellata a chiunque si registrasse “volontariamente” per la deportazione.
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Nuove informazioni riguardo alle menzogne israeliane sul 7 ottobre
di Ali Abunimah - David Sheen*
Un generale israeliano ha ucciso altri israeliani e poi ha mentito. Prosegue la controinchiesta di Electronic Intifada sulle vittime dell’attacco palestinese ai kibbutz israeliani del 7 ottobre.
Video e testimonianze recentemente pubblicati dai media israeliani rivelano nuovi dettagli su come le forze israeliane hanno ucciso i propri civili nel Kibbutz Be’eri il 7 ottobre.
La settimana scorsa, il Canale 12 di Israele ha pubblicato un filmato inedito di un carro armato israeliano che sparava contro una casa civile nell’insediamento, a pochi chilometri a est di Gaza.
Le nuove prove dimostrano che il comandante israeliano sul posto, il generale di brigata Barak Hiram, ha mentito a un importante giornalista israeliano su ciò che è accaduto nel kibbutz quel giorno, dopo che i combattenti della resistenza palestinese hanno lanciato un assalto su larga scala alle basi militari israeliane e agli insediamenti oltre il confine di Gaza.
Si tratta di un tentativo di insabbiamento da parte di un alto ufficiale militare, con la complicità dei media.
Ma, lungi dall’essere ritenuto in qualche modo responsabile, Hiram si appresta ad assumere il suo nuovo ruolo di comandante della Divisione Gaza, la Brigata dell’esercito israeliano che è stata sbaragliata dalle forze palestinesi il 7 ottobre.
Hiram risiede nell’insediamento di Tekoa, costruito in violazione del diritto internazionale vicino alla città di Betlemme, nella Cisgiordania occupata.
In un’intervista rilasciata il 26 ottobre a Ilana Dayan, conduttrice del prestigioso programma investigativo Uvda del Canale 12 israeliano, Hiram ha fornito un resoconto falso degli sforzi per salvare i civili a Be’eri.
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Jacques Delors ha reso l’Europa unita un dispositivo neoliberale irriformabile
di Alessandro Somma
Piena occupazione vs stabilità dei prezzi
Secondo la ricostruzione che va per la maggiore, l’Europa unita è nata per assicurare al Vecchio continente un futuro di pace. Ha però visto la luce in un’epoca segnata dalla Guerra fredda, ed è stata pertanto concepita per rinsaldare il fronte dei Paesi capitalisti in lotta contro il blocco socialista. Ciò nonostante, non ha impedito agli Stati di promuovere una precondizione per il mantenimento della pace: una redistribuzione della ricchezza realizzata dai pubblici poteri fuori dal mercato tramite il welfare, e nel mercato con la tutela del lavoro e la piena occupazione.
L’Europa unita, nei suoi primi anni di vita, non era insomma del tutto ostile al compromesso keynesiano. Proprio la piena occupazione veniva del resto menzionata dal Trattato istitutivo della Comunità economica europea tra gli obiettivi che il coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio nazionali doveva perseguire. Questi comprendevano però anche la stabilità dei prezzi e dunque la lotta all’inflazione, ovvero un obiettivo incentrato con la piena occupazione: per perseguirla, occorre sostenere la domanda attraverso l’incremento dei salari ed evitare quindi politiche monetarie destinate a contenere la disponibilità di denaro, richieste invece al fine di promuovere la stabilità dei prezzi.
In tutto questo si pensava che i Paesi partecipanti alla costruzione europea non dovevano limitati a coordinare le loro politiche fiscali e di bilancio, ovvero che le avrebbero prima o poi cedute a Bruxelles. Si pensava poi che questo passaggio avrebbe dovuto accompagnare, se non precedere, la creazione di una politica monetaria comune.
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Insidie, miraggi e trappole dell’ambientalismo
di Elisa Lello
Le lotte ambientali e sociali non possono essere separate le une dalle altre. Altrimenti si produrranno risposte deboli, prive di consenso e prima ancora battaglie sbagliate in principio, dove la buona fede si lascia incanalare dalla retorica e dagli interessi del capitalismo green
L’ambiente è sotto attacco, e questa guerra, mossa dalle élite economiche, politiche e finanziarie del pianeta, è una guerra anche contro di noi, intesi non solo come specie umana indissolubilmente legata alle sorti (e anzi parte) della natura, ma anche – come suggerito dalla prospettiva del Capitalocene – come larga maggioranza di dominati, seppure con differenze fondamentali nel grado di intensità della violenza, spesso legate a latitudine e sfumature della pelle. Difenderci, reagire, non può che significare riconoscere, come cerca di fare l’ecologia politica, che battaglie ambientali e sociali non possono essere separate le une dalle altre. Perché se è vero che nessuno può davvero sottrarsi all’impatto della crisi ambientale, tuttavia le risorse (economiche, culturali, relazionali…) di cui possiamo disporre costituiscono pur sempre – anzi, forse sempre più – un discrimine significativo per la nostra capacità di arginare la violenza con cui le sue conseguenze si abbattono sui nostri corpi, sulla nostra salute e sulle nostre prospettive di vita; e perché inseguendo obiettivi di contrasto alla crisi eco-climatica senza porsi il problema di quali componenti sociali ne pagheranno il prezzo, si rischia di produrre risposte deboli, prive di consenso, e prima ancora di mettere in piedi battaglie sbagliate nel principio, dove la buona fede si lascia incanalare dalla retorica e dagli interessi del capitalismo green.
Prenderò spunto dalle riflessioni emerse a partire da due iniziative organizzate nell’autunno appena trascorso per gli studenti dei miei corsi – le presentazioni di Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica di Paola Imperatore (Meltemi 2022) e Perché non si vedono più le stelle. Inquinamento luminoso e messa a reddito della notte di Wolf Bukowski (Eris 2022) – per proporre una riflessione attenta ai concreti rapporti di forza con cui si misura l’attivismo ambientale, mirata in particolare a localizzare alcune delle secche più insidiose dove questo rischia di incagliarsi.
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Israele: un “Protocollo Annibale” di massa prolungato nel tempo?
di Giacomo Gabellini
Conformemente al suo ruolo di spina nel fianco del governo guidato da Benjamin Netanyahu, il quotidiano israeliano «Haaretz» è tornato nuovamente sul tema dell’inadeguatezza “sospetta” manifestata dalle forze militari e di intelligence israeliane nel corso del 7 ottobre, sollevando il delicatissimo tema relativo al cosiddetto “Protocollo Annibale”. Vale a dire una procedura operativa introdotta per impedire la riproposizione di episodi analoghi a quello verificatosi nell’estate 1986, quando Hezbollah rapì e assassinò tre soldati israeliani inquadrati nella Brigata Givati, i cui cadaveri sarebbero stati consegnati a Israele nel 1996 in cambio della restituzione dei corpi di 123 guerriglieri del Partito di Dio.
Pochi giorni dopo il rapimento, il generale Yossi Peled, il colonnello Gabi Ashkenazi – che avrebbe successivamente ricoperto gli incarichi di Capo di Stato Maggiore e ministro degli Esteri – e il colonnello Yaakov Amidror si riunirono presso il quartier generale del Comando Nord per stilare quello che si configura come uno degli ordini operativi più controversi nella storia delle forze di difesa israeliane, che definiva la condotta da tenere in caso di rapimento di uno o più soldati dell’Israeli Defense Force. «Durante un rapimento – recita la direttiva – la missione principale consiste nel salvare i nostri soldati, anche a costo di ferirli. Le armi da fuoco devono essere impiegate per eliminare i rapitori o comunque fermarli. Se un veicolo con a bordo i rapitori non si arresta, occorre bersagliarlo deliberatamente con un singolo colpo di arma da fuoco mirato contro i sequestratori, anche se ciò dovesse significare colpire i nostri soldati. In ogni caso, verrà fatto di tutto per fermare il veicolo e non lasciarlo scappare».
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Introduzione a Il salario sociale
di Gianfranco Pala
Tratto da Gianfranco Pala, Il salario sociale. La definizione di classe del valore della forza-lavoro, Laboratorio Politico, Napoli, 1995
La capacità di lavoro, se non è venduta, non è niente.
(Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi)
Ciò che l’operaio scambia con il capitale è il suo stesso lavoro;
nello scambio è la capacità di disposizione su di esso: egli la aliena.
Ciò che riceve come prezzo è il valore di questa alienazione
[Karl Heinrich Marx]
Il salario, per il suo stesso carattere storico, è sociale. Dunque, l’apposizione di quest’ultimo aggettivo sembrerebbe tautologica, suona come un pleonasmo. L’essere “sociale” del salario, la sua dimensione di classe, deriva direttamente dal suo essere la categoria centrale delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico. L’analisi di Marx sul tema è talmente inequivocabile che occorre solo riesporla, con le sue stesse parole, aggiungendo solo quel tanto di attualizzazione, che potrebbe essere perfino ridondante, se non fosse per la dimenticanza e il travisamento in cui è caduta. Numerosi sono i luoghi da cui sono state tratte le parole di Marx; in particolare, tuttavia, si rimanda al Capitale [I-4.8.15.17/19; II-16.20; III-48], ai Lineamenti fondamentali [Q.II-26/28; Q.III-5/16; Q.VI-11.12]; e al Salario [Laboratorio politico, Napoli 1995]. Con una riscrittura della lezione marxiana troppo spesso ignorata, dimenticata o fraintesa, quindi, si può offrire quella proposizione di concetti, categorie e determinazioni economiche delle quali è inutile tentare rielaborazioni artificiose. Giacché non potrebbero essere scritte meglio, neppure per l’attualità.
Il salario racchiude in sé la forma necessaria del rapporto di capitale. É una forma di relazione, pertanto, che non riguarda il singolo lavoratore e il singolo capitalista. Il lavoratore salariato, la cui sola risorsa è la vendita della sua capacità di lavoro, non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza.
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Vincenzo Costa, “L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl”
di Alessandro Visalli
Il libro di Costa è del 2023, decisamente un anno di crisi.
Legge questa crisi attraverso la rilettura, tagliente e militante, di un altro libro della Crisi. La “Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”[1] di Husserl, determinando a sua volta un testo difficile, costantemente in bilico, che cerca la traccia di una lettura, la quale al contempo tradisce/rispetta il testo. Nel quale testo è, in altre parole, cercato un filo interno in grado di leggerlo alla luce del più alto presente al prezzo di qualche tradimento. Mi pare che la chiave sia la tensione a muoversi su un confine esile, un’aporia chiaramente espressa. È, insomma, un libro politico dall’inizio alla fine.
Si tratta degli unici libri che vale la pena di leggere.
Tutto il testo è compreso nell’impossibile obiettivo iniziale: “interrogarsi sull’Europa significa, da un punto di vista filosofico, chiedersi quale sia la sua identità, che cosa la distingua da altre culture”[2]. Domanda pienamente legittima, chiaramente, ma dalla risposta quanto mai difficile. Ora, l’interpretazione di Husserl a questa domanda (alla quale si potrebbe rispondere, semplicemente, che a distinguerla è la sua storia, ovvero che non si distingue) riecheggia temi del tempo: “l’Europa non è una storia, ma è la domanda stessa sulla storia”.
Incontrare un testo (nella fattispecie “La Crisi” di Husserl) significa avvertirne il distacco e l’alterità, la distanza, e proporre al lettore quali domande ci siano nel frattempo diventate estranee, ma, al contempo, lasciarsi attraversare dal testo. In modo che, riguardando l’oggi a partire dalla traccia degli anni presenti nelle pagine ri-lette, sia possibile esserne dislocati.
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Wolfgang Schäuble: il teorico dell’Europa asservita alla Germania
di Alessandro Somma
La morte di Wolfgang Schäuble, il fautore più ottuso dell’estremismo austeritario tedesco, ci consente di mettere in luce le ragioni intime di questo approccio alla costruzione europea: asservire l’Unione alla Germania. Tra i molti riscontri di questa strategia scegliamo di ricordarne uno forse meno analizzato, ma non per questo meno inquietante: le riflessioni dedicate all’Europa a più velocità di cui proprio Schäuble fu un tifoso particolarmente infervorato. Non tuttavia per assecondare i bisogni dei Paesi più deboli del punto di vista dei parametri di Maastricht, ma al contrario per costringerli alla disciplina di bilancio imposta da quei parametri e soddisfare così gli interessi tedeschi. È quanto si ricava da un documento predisposto assieme a Karl Lamers nel 1994, a tre anni dal Trattato di Amsterdam e durante il semestre di Presidenza europea della Germania, quando Schäuble era Presidente del Gruppo cristianodemocratico presso il Parlamento di Berlino[1].
Proprio l’identificazione degli interessi tedeschi occupa l’apertura del documento, che si sofferma sulla collocazione geopolitica particolarmente delicata della Germania: nel punto in cui si incontrano, e sovente si scontrano, la parte occidentale e la parte orientale del continente. Per molto tempo, ricordano Schäuble e Lamers, si sono voluti affrontare i problemi legati a questa collocazione rivendicando un’egemonia sull’area europea, ma tutti i tentativi in questo senso sono miseramente falliti: da ultimo quello che ebbe «come conseguenza la catastrofe militare e politica del 1945». Da ciò una convinzione divenuta «un vero e proprio principio della politica europea» condotta dalla Germania: che le sue forze non siano sufficienti ad accreditarsi come potenza egemonica, e che pertanto «la sicurezza possa essere conquistata solo attraverso una modifica sostanziale del sistema degli Stati europei»[2].
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Educazione e violenza: parliamone (con Fanon). Decolonizzare le istituzioni, cedere sovranità
di Andrea Muni
L’aggressione coloniale s’interiorizza in Terrore nei colonizzati. Con ciò non intendo soltanto il timore che essi provano davanti ai nostri inesauribili mezzi di repressione, ma anche quello che ispira loro il loro stesso furore. Son stretti tra le nostre armi che li prendono di mira e quelle spaventevoli pulsioni, quei desideri omicidi che salgono dal fondo dei cuori e che essi non sempre riconoscono: giacché non è, da principio, la “loro” violenza, è la nostra, rivoltata, che cresce e li strazia; e il primo moto di quegli oppressi è di seppellire profondamente quell’inconfessabile ira che la morale loro e nostra condannano e non è però che l’ultimo ridotto della loro umanità. Leggete Fanon: saprete che, nel tempo della loro impotenza, la pazzia omicida è l’inconscio collettivo dei colonizzati
(JP. Sartre, “Prefazione ” a I dannati della terra, di F. Fanon)
Il problema posto dall’odierno rapporto tra educazione e violenza intreccia molte delle questioni più scottanti del nostro mondo alla deriva: dalla terza guerra mondiale a puntate in atto alla necessità di ripensare totalmente il modo di fare e diffondere cultura, dal problema dell’appassimento senile delle nostre istituzioni a quello del disciplinamento perpetrato per mezzo di un discorso dominante che si serve di tattiche e strategie, formali e informali, pubbliche e private, sempre più capillari e impercettibili. Tale “discorso” e le sue logiche profonde sono ritrasmessi indistintamente dallo pseudo-progressismo e dal liberal-conservatorismo dominanti nelle nostre élites politiche, professionali e intellettuali. In questo intervento approfondiremo le cause dell'(auto)aggressività strutturalmente prodotta dalle istituzioni (pubbliche e private) della nostra società, che non smettono di colonizzare, normalizzare e selezionare internamente i soggetti più adatti a conservarne lo status quo.
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In occasione del centenario di “Storia e Coscienza di Classe”: la dialettica di natura e società tra György Lukács e Alfred Schmidt
di Francesco Bugli
Questo testo è dedicato alla memoria di Roberto Sassi (1960-2023)
Parte I
Nell’influente raccolta di saggi Storia e Coscienza di Classe (dalla cui pubblicazione ricorre il centenario), György Lukács si pose un problema metodologico, ovvero se fosse possibile applicare alla natura il metodo dialettico nella formulazione engelsiana. La risposta secondo l’autore è sostanzialmente negativa, ed è già presente nel primo testo della raccolta intitolato Che cos’è il marxismo ortodosso?. Sappiamo che Storia e Coscienza di Classe è spesso considerato il testo fondatore del cosiddetto marxismo occidentale, incarnato da una rosa di autori che interpretano il pensiero di Karl Marx come separato da quello di Friedrich Engels su molte questioni cruciali, a partire proprio da quella metodologica. La separazione di cui parliamo riguarda cioè il metodo con cui si debba indagare natura e società: ciò non era scontato nella vulgata marxista del tempo che sarebbe confluita nel cosiddetto diamat di matrice sovietica. Il testo Il concetto di natura in Marx di Alfred Schimdt è a nostro avviso segnato da una profonda influenza del testo lukácsiano che lo porta a seguire la traiettoria del pensatore ungherese nella valutazione del pensiero di Engels. In questo articolo si traccerà quindi un ponte tra i due autori: un ponte relativo alla loro valutazione del pensiero engelsiano. Inoltre, verrà tenuta al centro la problematica ontologica, mostrando come essa sia declinata dai due autori in modi differenti.
- Storia e coscienza di classe: metodo e problemi nella conoscenza della natura e della società
A partire dal primo testo di Storia e coscienza di classe, Lukács poneva il problema della differenza di metodo da adottare nell’analisi della società e in quella della natura[1].
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La politica estera degli Stati Uniti è una truffa costruita sulla corruzione
di Jeffrey D. Sachs
La politica estera degli Stati Uniti sembra essere del tutto irrazionale. Gli Stati Uniti entrano in una guerra disastrosa dopo l’altra: Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Ucraina e Gaza. Negli ultimi giorni, gli Stati Uniti si sono isolati a livello globale nel sostenere le azioni genocide di Israele contro i Palestinesi, votando contro una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per un cessate il fuoco a Gaza sostenuta da 153 Paesi con l’89% della popolazione mondiale, e contrastata solo dagli Stati Uniti e da 9 piccoli Paesi con meno dell’1% della popolazione mondiale.
Negli ultimi 20 anni, tutti i principali obiettivi di politica estera degli Stati Uniti sono falliti. I Talebani sono tornati al potere dopo 20 anni di occupazione statunitense dell’Afghanistan. L’Iraq post-Saddam è diventato dipendente dall’Iran. Il presidente siriano Bashar al-Assad è rimasto al potere nonostante gli sforzi della CIA per rovesciarlo. La Libia è caduta in una lunga guerra civile dopo che una missione NATO guidata dagli Stati Uniti ha rovesciato Muammar Gheddafi. L’Ucraina è stata randellata sul campo di battaglia dalla Russia nel 2023, dopo che gli Stati Uniti hanno segretamente annullato un accordo di pace tra Russia e Ucraina nel 2022.
Nonostante queste notevoli e costose debacle, una dopo l’altra, lo stesso cast di personaggi è rimasto al timone della politica estera statunitense per decenni, tra cui Joe Biden, Victoria Nuland, Jake Sullivan, Chuck Schumer, Mitch McConnell e Hillary Clinton.
Cosa succede?
L’enigma si risolve riconoscendo che la politica estera americana non riguarda affatto gli interessi del popolo americano. Si tratta invece degli interessi degli addetti ai lavori di Washington, a caccia di contributi per le campagne elettorali e di posti di lavoro redditizi per sé, per il personale e per i familiari. In breve, la politica estera degli Stati Uniti è stata violata dai grandi capitali.
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La strategia israeliana e Gaza
di Alfa Tau
Mentre perdura l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, è utile fare il punto su alcuni dati di fatto che consentono una lettura degli avvenimenti in Terra Santa significativamente diversa rispetto a quanto media italiani e internazionali hanno raccontato e continuano a raccontare. Crediamo infatti che il solo modo per contribuire a una pace giusta in Medio Oriente sia quello di favorire la comprensione della realtà, sfrondandola da propaganda e manipolazioni mediatiche.
* * * *
Un aspetto fondamentale, emerso da varie convergenti testimonianze, fino a essere oramai seriamente documentato, riguarda il presunto fallimento dell’intelligence israeliana nel prevedere il famigerato attacco terroristico dello scorso 7 ottobre. Una prima voce significativa è circolata quando l’americano New York Times, il 30 ottobre scorso, nel ricostruire la “sorpresa” che lo Shin Bet (servizio segreto militare israeliano) avrebbe subìto, evidenzia un fatto piuttosto singolare:
«l’Unità 8200, agenzia israeliana che si occupa di monitorare le comunicazioni radio nemiche, aveva smesso di intercettare quelle di Hamas un anno prima, poiché lo riteneva uno spreco di forze. Secondo tre funzionari della difesa israeliana, fino quasi all’inizio dell’attacco, nessuno ha ritenuto che la situazione fosse abbastanza grave da dover svegliare il primo ministro Benjamin Netanyahu».
La notizia passa ovviamente inosservata presso i media italiani, votati alla tutela ad ogni costo, soprattutto a quello della verità, dell’immagine dello Stato d’Israele presso la nostra opinione pubblica. Ma, ecco che, non molti giorni dopo, si aggiunge un’altra notizia ancora più sorprendente, riferita dal canale televisivo israeliano N12. Il 23 novembre, il Jerusalem Post riassume così il servizio dell’emittente:
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Zwischen den zeiten. Problemi e contraddizioni del capitalismo negli anni del ritorno dell'inflazione
di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri
Recensione al volume L’inflazione: Falsi miti e conflitto distributivo, Edizioni Punto Rosso
Diamo spazio a una densa recensione di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri al volume L’inflazione: Falsi miti e conflitto distributivo.
Ci sembra infatti utile cercare di approfondire questioni economiche che troppo spesso restano appannaggio di una ristretta cerchia di specialisti, ma ancora più sentiamo la necessità di riflettere su proposte di politica economica che vengano però da una prospettiva di classe e in conflitto con le sfide poste dal capitalismo contemporaneo.
Di seguito una sintesi della recensione scritta dagli stessi autori.
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Il saggio che qui si presenta dialoga con le tesi contenute in L’inflazione: Falsi miti e conflitto distributivo, edito quest’anno da Edizioni Punto Rosso e contenente saggi di vari autori. Il volume si pone il compito urgente, e con cui non possiamo che concordare, di comprendere i fattori alla base della recente fiammata inflazionistica. Si intende farlo dal punto di vista del mondo del lavoro, armati di una coscienza teorica critica in grado di demistificare le narrazioni dominanti e di svelare i conflitti sociali dietro l’apparente neutralità dell’economico.
Lo scritto è diviso in sette parti. Nella prima, si ricostruisce il contesto all’interno del quale il ritorno dell’inflazione è venuto a manifestarsi fin dal 2021. Si dà brevemente conto dello scenario macroeconomico seguito alla pandemia e all’invasione russa dell’Ucraina. Gli effetti dei lockdown sono stati dirompenti sulle catene transnazionali del valore: aggravati dalle politiche fiscali e monetarie negli Stati Uniti e in Europa, così come dal tentativo dell’Unione Europea di ridurre drasticamente la propria dipendenza dalle importazioni di gas metano proveniente dalla Russia.
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L’Europa insiste con l’austerità
di Marco Bertorello e Danilo Corradi
Col nuovo Patto di stabilità l'Ue ribadisce che la spesa non può essere fuori controllo e che non c’è alcuna mutualizzazione del debito all’orizzonte
Quando si parla di modifiche al Patto di stabilità e crescita si parla di debito e quando si parla di debito la discussione spesso diventa surreale e schizofrenica. Nelle ultime settimane il ministro all’economia Giancarlo Giorgetti per frenare i desiderata dei cosiddetti paesi frugali (le formiche) si è proposto come capofila dei paesi maggiormente indebitati (le cicale, il riferimento alla fiaba è volutamente ironico), ricordando che in Europa c’è una guerra e che non si potevano assumere parametri che si sarebbero rivelati immediatamente impraticabili.
Sui parametri impraticabili torneremo più avanti, il problema è che Giorgetti confonde la causa con l’effetto. Paradossalmente nel 2022 il rapporto debito/Pil è sceso di qualche punto grazie alla crescente inflazione, cui aveva contribuito anche la guerra. Oggi la cronicizzazione del conflitto tra Russia e Ucraina non sembra la principale causa di quella mancata crescita che ristagna da tempo e che alimenta l’indebitamento. Se veramente si vuole parlare di parametri impraticabili si dovrebbe andare oltre il contingente e volgere lo sguardo verso ciò che sembra essere strutturale da, almeno, un paio di decadi.
Sovranismo immaginario
Partiamo dalle modifiche al Patto di stabilità e crescita approvate all’unanimità dal Consiglio dei ministri delle finanze dell’Unione europea (EcoFin) che ora dovranno esser ratificate dalla Commissione e dal Parlamento del Vecchio continente. Durante la pandemia il Patto era stato sospeso per consentire ai singoli paesi di fronteggiare le conseguenze del blocco economico e produttivo.
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Quanto costa portare la propria testimonianza?
di Chris Hedges
Ci sono decine di scrittori e fotografi palestinesi, molti dei quali sono stati uccisi, che sono determinati a farci vedere l'orrore di questo genocidio. Sconfiggeranno le bugie degli assassini
Ho trovato ieri questo articolo ed ho immediatamente sentito, assieme alla rabbia e all’orrore, il bisogno di condividerlo prima che con voi amici lettori, con i miei “compagni d’arme” della redazione. Il termine non è casuale perché, ognuno a modo suo, stiamo tutti combattendo una guerra selvaggia, principalmente contro l’imbarbarimento delle nostre anime e delle nostre menti. Ho voluto tradurlo per dare ancora un’altra voce ai nostri “contubernali” palestinesi e stranieri, quelli che rischiano tutti i giorni la vita, e molti l’hanno persa, in quel fronte di massacro che è la Striscia di Gaza. Odio la guerra, ma soprattutto odio chi mi porta a combattere contro di lui, perché quest’odio fa di me un essere inumano, perché mi degrada al suo livello. Proprio per questo, per diluire un po’ l’odio dentro di me, ho chiesto a una donna, molto più umana di me, di portare il suo contributo. Grazie a Chris per averci fatto conoscere anche queste voci e un forte abbraccio a tutta la Redazione e a tutti voi. A.deA.
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Questi giorni sono importanti per la nostra cultura cristiana, un periodo che porta la speranza di salvezza grazie alla nascita di Gesù Bambino ma, come l’autore dell’articolo scrive, Gesù ha subito fin dalla Sua venuta in questa parte del mondo gli orrori della perfidia umana: la strage degli innocenti, facendolo diventare il primo rifugiato palestinese. L’orrore di questa ennesima guerra contro i civili, portata aventi con una metodicità allucinante che ci fa rabbrividire, l’ignominia delle informazioni pilotate volte a rassicurarci sulla “bontà” del genocidio, l’accanimento criminale per far tacere le voci dei giornalisti e fotografi che testimoniano con coraggio le stragi perpetuate è ancora più grave
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Sapienti e mercanti. Dagli umanisti al lavoro cognitivo
di Alberto Sgalla*
Con la rivoluzione umanistica all’inizio dell’evo moderno la conoscenza si è subito manifestata come potenza, che la borghesia ha voluto impiegare come dispositivo di potere.
Nella città, politicamente autonoma, si erano concentrate le attività produttive (artigianale, manifatturiera) e d’intermediazione mercantile, aveva preso figura la borghesia, s’era consolidato un nuovo stile di vita, in un processo di generale riconfigurazione delle classi sociali. Nella città s’era concentrata l’accumulazione primitiva di capitale, come fase di transizione dall’economia feudale all’organizzazione capitalistica della produzione.
Su questa base materiale si era sviluppata una nuova cultura: la coscienza moderna della piena dignità dell’uomo, della “libertas” individuale e collettiva unita alla concezione della “civilitas”, che hanno pervaso le lettere e le arti, l’assunzione del lavoro libero come valore fondamentale del vivere civile, l’esaltazione del valore della vita come godimento dei frutti del lavoro, la valorizzazione della razionalità funzionale come strumento d’organizzazione degli affari e forma propulsiva del vivere civile. Gli intellettuali o “sapienti” hanno contribuito a diffondere il mito positivo della libertas cittadina, un ideale di piena e armonica formazione umana e il valore della vita associativa e industriosa, anche con il sorgere di Università e Accademie. In questo contesto si è affermato l’Umanesimo, che accordava nella formazione dell’uomo colto valore preminente alle humanae litterae o studia humanitatis e manifestava una nuova coscienza storica, per cui l’uomo era visto come artefice, forza attiva, legata alla costruzione storica, da attuarsi mediante il progresso civile e l’educazione, attraverso cui l’uomo rinvigorisce ed estende la sua potenza; la necessità di una rinascita, di un rinnovamento dell’uomo nelle sue capacità e nei suoi poteri, rientrando in possesso di quelle possibilità che il mondo classico ha dischiuso, riportando l’uomo all’altezza della sua autentica natura.
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Toni Negri | Toni Negri vincente
di Sergio Fontegher Bologna
Mi riesce difficile scrivere un necrologio. Forse perché ne ho scritto troppi in questo horribilis 2023. Troppi, da quello per Danilo Montaldi su “Primo maggio”, 1975. O forse perché Toni continua a vivere. L’energia che ha sprigionato e si è accumulata ha prodotto una forza inerziale che chissà quando si spegnerà.
Ogni volta che muore un compagno si apre un nuovo capitolo di “politica della memoria”, strumento indispensabile per proteggere la continuità. La prima cosa che mi viene da dire è: liberiamo la figura di Toni Negri dalla divisa di carcerato del 7 aprile! Anche se si continua a evocarla per cancellare la maschera del “cattivo maestro” (lui era orgoglioso di essere chiamato così), o per demolire il teorema Calogero, è pur sempre un modo subalterno di parlare di lui, è il terreno su cui ci fa scendere l’avversario e lì saremo sempre perdenti, sempre in difesa. Lo ha capito Cacciari, che ha parlato, da par suo, degli scritti di Negri, evitando di cadere nel troppo frequentato genere “devozionale”.
Vale la pena invece scoprire il lato vittorioso dell’azione militante di Toni Negri. Dobbiamo ricordare che l’operaismo per un periodo ha visto avverarsi le proprie previsioni, ha assaporato, almeno per qualche anno, la vittoria. Toni Negri ha avuto la fortuna di vedersi incarnare la sua immagine della “moltitudine”: una forza non massificata ma composta di innumerevoli individualità che un giorno convergono in un unico grido, che è di protesta ma anche di programma, convergono in un’unica volontà di vita contro un modo di produzione che ormai è capace solo di morte e distruzione. Toni ha avuto la soddisfazione di vederla passare sotto le sue finestre, la moltitudine, durante le grandi manifestazioni francesi della primavera 2023.
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L’ansiosa metafisica di Cacciari
di Nicola Licciardello
Recensione a Massimo Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi 2023
Se, come dichiara il risvolto di copertina, “quest’opera conclude l’esposizione del suo sistema filosofico, avviata con Dell’inizio (1990), proseguita con Della cosa ultima (2004) e Labirinto filosofico (2014)”, non abbiamo più chances di comprenderlo meglio. Userò lo spazio concessomi solo per evocare certe costanti del filosofo-scrittore Cacciari e le novità relative di questo libro. Queste ultime forse quasi più interessanti, per cui corro il rischio di iniziare da qui.
Il titolo: Agli spartiacque del pensiero. Lineamenti di una metafisica concreta doveva intitolarsi l’opera complessiva di Pavel Florenskij: di cui Cacciari qui cita la prima edizione italiana (1974) de La colonna e il fondamento della verità a cura di Elémire Zolla. Riprende Florenskij nel finale del libro: luminoso esempio di Philosophia perennis “come un sì alla vita”. Di Zolla cita anche Lo Stupore infantile, a proposito del simbolo: “Il mito è l’esegesi del simbolo, la sua dilatazione narrativa, che ha però una funzione speculativa”. Se anche non elaborate queste sono novità, Cacciari aveva sempre evitato di poggiare il suo discorso filosofico su un esoterismo trans-culturale (cioè l’indagine di un archetipo, esempio la Madre, la Guerra, etc. in differenti culture). Ancora più rilevanti sono gli accostamenti al sanscrito delle Upaniśad: di Giorgio Colli cita l’identificazione fra il greco “essere” tò ón e il brahman (p.45), pur distanziandosene – ma in prima persona enuncia poi una serie di radici comuni, come sat e satya, omologia sanscrita di Essere e Verità, o affinità come sukha, “piacere” e il latino succus (p.297-300), oppure āyus “salute” ed eternità (greco aiei, aien, aion, p.323). Ancor più pregnante una citazione diretta da quella che definisce tout court “sophia upaniśadica”: dal finale del quarto adhyāya della Bṛhadāraṇyaka, la più antica (coeva forse dell’Iliade): “In verità questo grande e increato ātman, senza vecchiaia o morte, senza paura, è il brahman. In verità il brahman è felicità e diventa il brahman stesso colui che così conosce” (p.305). Questa “sophia” transculturale (greco-sanscrita) è direi innovativa per il nostro.
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Sulle contraddizioni
Alcune riflessioni sui contributi di Mao Tse-tung allo sviluppo del pensiero marxista
di Vladimiro Merlin
Mao, riprendendo gli studi di Marx ed Engels e di Lenin sul materialismo dialettico, sviluppa e approfondisce l’analisi della contraddizione.
In particolare sviluppa i concetti di contraddizione principale e contraddizioni secondarie e, sul concetto di principale, tra i due opposti di una contraddizione.
Categorie, queste, che non fissano una volta per tutte, in modo permanente e statico le caratteristiche di una contraddizione, ma sono anzi destinate a mutarsi e anche a capovolgersi nel corso del tempo e in base allo svilupparsi della contraddizione.
Una contraddizione che in un dato momento è la principale, in una situazione che è cambiata può diventare secondaria, mentre una che era secondaria può diventare principale in una fase successiva.
Secondo il pensiero di Mao, fare una analisi corretta e adeguata alla situazione del momento delle contraddizioni che sono in campo è fondamentale per arrivare a una comprensione e a una azione adeguata sulla situazione stessa.
Questo metodo è, per Mao, la giusta applicazione del materialismo dialettico a ogni campo della realtà, dalla scienza alla politica, in particolare in quest’ultimo campo è l’unico modo per evitare di cadere nell’opportunismo di destra o nel dogmatismo settario di “sinistra”.
Mao fa molti esempi di come questi concetti si applicano, in particolare in campo politico, ma non solo; ne cito uno: “Per esempio, nella società capitalistica le due forze in contraddizione, il proletariato e la borghesia, formano la contraddizione principale.
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Euroconfusione a palazzo
di Leonardo Mazzei
L’euroausterità bussa prepotentemente alle porte, e manda la politica romana in euroconfusione. Nel giro di 24 ore l’Italia ha pronunciato un irresponsabile sì al nuovo Patto di stabilità imposto dalla Germania, e un giusto per quanto pasticciato no alla riforma del Mes. Roba da batticuore, che ci dice comunque una cosa: l’austerità tornerà alla grande, ma i problemi interni a quella follia chiamata “Unione Europea” sono destinati ad aggravarsi.
Perché questa schizofrenia del governo
La prima cosa da chiedersi è il perché della schizofrenia del governo italiano. Il leghista Claudio Borghi, certamente persona informata dei fatti, così l’ha spiegato a “il Giornale”:
«C’era da decidere se bocciare il Patto o il Mes», perché «entrambe le cose non si poteva» e «abbiamo scelto quella che faceva più danno all’Italia».
In poche parole, il Borghi ci dice tre cose: che bisognava mandare un segnale a Bruxelles, ma anche all’elettorato; che però non si poteva strappare davvero con la cupola eurista; che per l’Italia la riforma del Mes sarebbe stata pure peggio del nuovo Patto di stabilità. Se i primi due punti ci parlano di un equilibrismo politico portato all’estremo, il terzo è sostanzialmente una spudorata menzogna, dato che il nuovo Patto di stabilità farà danni ben maggiori della pur pessima riforma del Mes.
Una volta tanto, le ricostruzioni giornalistiche sono sostanzialmente credibili. Giorgia Meloni, che nei mesi scorsi aveva sempre parlato di “logica di pacchetto”, lasciando intendere che il nuovo Mes sarebbe stato approvato solo dopo che l’Italia avesse ottenuto concessioni sostanziali sul Patto di stabilità, alla fine è stata costretta a ingoiare due rospi in una volta sola.
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C’era una volta in Italia
di Antonio Cantaro
Libertà e dignità del lavoro nella relazione tenuta il 24 novembre presso l’Università di Teramo al Convegno “Sembra quasi un mare l’erba. Diritto, cultura e società negli anni 70”. Due giornate dedicate al decennio simbolo delle libertà, delle lotte politiche, della creatività e dell’innovazione
Per rispondere alla domanda cosa resta degli anni ‘70 è necessario porsi prima un’altra domanda: cosa sono stati gli anni ‘70? La risposta, per chi non è accecato dalle cattive ideologie dei giorni nostri, è semplice. Gli anni ’70 sono stati il tentativo di mettere in forma gli anni ’60. Un tentativo tragicamente chiuso, dal punto di vista storico-politico, il 16 marzo 1978 con il rapimento di Aldo Moro. Un giorno che segna anche la fine della prima Repubblica.
Senza i costituenti anni ’60 e la rabbiosa risposta ad essi dei poteri costituiti non si capisce un bel niente degli anni ’70. Il tema assegnatomi mi aiuta. La libertà e la dignità del lavoro è, infatti, il terreno che in modo esemplare riassume la passione costituente degli anni ’60 e ’70. Costituente persino nel lessico, se un gruppo musicale, come quello che qui celebriamo, porta impresso nel nome un luogo artigianale e operaio. La forneria. Premiata, un auspicio divenuto ben presto, contro ogni previsione dei benpensanti, realtà.
Non la farò lunga. Potete spegnere per qualche minuto i vostri smartphone. Che c’entrano i cellulari? Molto, moltissimo, come dirò conclusivamente.
Prima dell’autunno caldo
Serve fare un passo indietro. Serve un po’ di storia sociale, civile e politica, di storia vissuta e non meramente statistica. Tornare con il cuore alla condizione del lavoro prima dell’autunno caldo.
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