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La riforma fiscale del Governo Draghi: cambiare poco per cambiare male
di coniarerivolta
Da mesi ormai si parla con toni da grande attesa dell’imminente riforma fiscale studiata dal governo Draghi. Nel suo discorso programmatico in Senato del 17 febbraio scorso, Mario Draghi spese parole enfatiche, ma assai vaghe nei contenuti, per annunciare le intenzioni di intervenire in modo energico sul fisco: “in questa prospettiva” affermava Draghi, “va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività”.
Delle intenzioni trasformatrici espresse durante il discorso di insediamento cosa troviamo nell’attuale legge finanziaria in via di approvazione? Sostanzialmente nulla e sicuramente nulla di buono. La proposta, più o meno definita nei contenuti generali, è quella di andare a limare lievissimamente uno o due aliquote Irpef ed andare a ridurre l’Irap per le imprese, per un costo complessivo di circa 8 miliardi di euro. Per capire la direzione degli interventi proposti occorre fare un passo indietro e capire da dove veniamo.
Anni e anni di riforme involutive dagli anni ’80 ad oggi hanno portato ad una diminuzione continua del carico fiscale sui redditi da capitale e in generale sul reddito dei più ricchi. Una tendenza che si è articolata lungo due direzioni: da un lato la riduzione delle tipologie di reddito incluse nella base imponibile Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche), con la previsione di regimi separati e agevolati per una parte cospicua dei redditi da capitale (reddito delle società di capitali, rendite finanziarie, rendite immobiliari); dall’altra una drastica riduzione della progressività in seno all’Irpef. Quest’ultima imposta, che ormai colpisce quasi esclusivamente redditi da lavoro e da pensione e solo in piccola parte i redditi da capitale (profitti della piccola e talvolta media impresa), è passata dai 32 scaglioni del lontano 1974 ai 5 attuali, con un differenziale ridottissimo tra prima e ultima aliquota e tra primo scaglione e ultimo scaglione di reddito ad esse associati.
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György Lukács, Dialettica e irrazionalismo
Recensione di Sabato Danzilli
György Lukács, Dialettica e irrazionalismo. Saggi 1932-1970, a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano pp. 200, € 18, ISBN 9788883512537
Questa raccolta di saggi di György Lukács curata da Antonino Infranca ha il merito di riunire testi poco noti e finora difficilmente reperibili dedicati a uno dei temi fondamentali del pensiero lukacsiano: la contrapposizione tra pensiero dialettico e filosofia irrazionalistica. Com’è noto, Lukács dedica nel 1954 all’argomento un’opera quale La distruzione della ragione. Qui il filosofo ungherese combatte le tendenze della filosofia borghese post-hegeliana che fanno del movimento storico oggettivo una categoria secondaria e subordinata rispetto alla coscienza soggettiva. Si tratta di una descrizione necessariamente generica, che racchiude però il moto di pensiero che sta alla base dell’opera e della stessa categoria di «irrazionalismo» nelle sue declinazioni storiche.
Il testo curato da Infranca è composto da nove saggi, tutti precedenti l’ampio volume del 1954, con l’eccezione dell’ultimo. Il motivo di questa collocazione cronologica non è casuale ed è spiegato bene dalla prefazione del curatore: se nel periodo giovanile di Lukács l’affermazione del carattere progressivo della dialettica, contrapposta, come in Storia e coscienza di classe, alle «antinomie del pensiero borghese», riguarda essenzialmente il problema dell’attualità della rivoluzione, gli scritti degli anni ’30-’40 sono inseriti nel contesto completamente mutato della resistenza all’avanzata nazifascista. Infranca pone l’accento sul carattere politico ed etico di questa lotta, che viene intesa come una vera e propria battaglia per il futuro dell’umanità. La rivendicazione del carattere progressivo della filosofia dialettica assume il significato di una difesa di tutte le conquiste sociali e culturali del movimento che si richiama a questa grande tradizione.
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Pluriverso
di Sergio Messina
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
Una delle sfide più importanti dell’umanità contemporanea è quella di sapersi orientare in un mondo a crescente complessità. Ancor più difficoltoso risulta definire linee di azione e di trasformazione comuni che facciano capo a differenti contesti geografici ed esistenziali, i quali tuttavia condividono o possono condividere orizzonti di ricerca-azione trasversali.
Uno degli strumenti basilari che consente di porre in essere tale impegnativo percorso (che investe tanto il piano individuale, quanto quello collettivo) è l’individuazione di parole-chiave sia per il presente, sia per l’avvenire. Parole-chiave che sono state spesso dispiegate attraverso la costruzione di un dizionario, il quale si differenza dalle enciclopedie perché mentre queste ultime assumono una funzione teorica e conoscitiva per una determinata branca del sapere o dello stesso sapere universalmente inteso, il primo costituisce una cassetta degli attrezzi immediatamente operativa.
Ciò che di primo acchito balza agli occhi è che Pluriverso (Orthotes Editrice) è un dizionario elaborato sulla falsariga di precedenti lavori (ad esempio il Dizionario dello sviluppo, curato da Wolfgang Sachs, Staying Alive: Women, Ecology and Development di Vandana Shiva, sulla decrescita progettato da Giacomo D’Alisa, Federico Demaria e Giorgio Kallis, ecc.) ma con la differenza che esso rappresenta ancor più marcatamente un quadro non solo di concetti in senso lato ma anche di realtà viventi, di azioni e strategie collettive, di risorse valoriali e politiche che si pongono in alternativa allo spazio-tempo liscio e atonale del neoliberismo.
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Tre anni dopo cosa resta dei “gilet gialli”
di Joseph Confavreux e Fabien Escalona
Francia, perché l’impennata dei prezzi non porta a un’esplosione sociale? Non c’è un legame meccanico tra un contesto e una mobilitazione. Inchiesta di Mediapart
La primavera sarà calda, l’autunno sarà turbolento, l’inverno sarà incessante… Così come la retorica militante ha spesso cercato di mobilitare le sue truppe annunciando in anticipo movimenti che non sempre si sono verificati, sembra difficile spiegare l’assenza di mobilitazione quando il contesto sembra prestarsi ad essa.
La coincidenza tra i prezzi della benzina più alti che mai e il terzo anniversario della rivolta dei “gilet gialli” solleva domande sulle ragioni dell’attuale apatia sociale: la prospettiva delle elezioni presidenziali e il confronto elettorale? Specificità della mobilitazione delle rotonde troppo inedite? La portata della repressione è stata realizzata? Assenza strutturale di correlazione tra mobilitazioni sociali e condizioni socio-economiche? Effetti di coda lunga dell’epidemia di coronavirus?
Quando, il 17 novembre 2018, il movimento dei Gilet Gialli è emerso, ha colto di sorpresa gli osservatori e le autorità. Questi ultimi riuscirono a spegnerlo solo dopo molti mesi, ricorrendo contemporaneamente a un’intensa repressione e a varie procedure pseudo-deliberative. All’epoca, l’annuncio di un aumento della tassazione sul carburante ha fornito la scintilla per la mobilitazione, che è stata originale nella sua forma, nella sua sociologia e nei suoi metodi di azione. Più in generale, la questione dei vincoli di spesa è stata al centro della conversazione nazionale.
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Prefazione al volume I delle opere di Costanzo Preve
di Carlo Formenti
Costanzo Preve: Opere di Costanzo Preve. Vol. 1: Il nemico principale, Inschibboleth , 2021
In questa Prefazione mi occuperò del primo dei testi riuniti in questo volume, (Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale. Considerazioni politiche e filosofiche). Nella parte iniziale di tale testo leggiamo la seguente citazione: “Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico”. Il brano è tratto da un articolo del filosofo francese di destra Alain de Benoist. Una scelta che appartiene al repertorio di gesti provocatori che ha caratterizzato l’ultima stagione produttiva di Costanzo Preve.
Non ho mai avuto modo di conoscere Preve di persona, né di parlargli. L’unico rapporto che ho avuto con lui è stato nelle vesti di caporedattore del mensile “Alfabeta”(ruolo che ho svolto negli anni Ottanta), quando Preve ci venne proposto come collaboratore da Francesco Leonetti. Non sono quindi in grado di stabilire se le provocazioni in questione nascessero dall’irritazione e dal disgusto nei confronti di una sinistra in avanzata fase di decomposizione sul piano politico, ideologico e filosofico (per cui Preve gioiva malignamente nell’evidenziare che, per leggere certe verità, si era ormai costretti a rivolgersi altrove), oppure se – almeno nel caso in questione – il fatto di potersi rispecchiare in una serie di affermazioni che riteneva condivisibili prevalesse sull’appartenenza ideologica del loro autore.
Sciogliere questo dubbio mi sembra francamente secondario rispetto a un dato di fatto: i detrattori di Preve si sono concentrati esclusivamente sulla fonte della citazione, ignorandone completamente il contenuto (per tacere del modo in cui Preve lo interpreta e approfondisce).
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Il senso della scienza per il dominio di classe
di Sebastiano Isaia
Joachim Sauer, marito della Cancelliera tedesca Angela Merkel e chimico quantistico di fama internazionale, si dice «dispiaciuto di quella parte di popolazione tedesca che semplicemente ignora la realtà per ragioni illogiche, come chi non crede nei vaccini», e non riesce a capire perché così tante persone «non vogliono dare retta alla razionalità scientifica, non trovano l’ingresso nel mondo razionale» (La Stampa). Ma non è che è proprio la realtà della società capitalistica (mondiale, non solo tedesca o europea) a essere palesemente e grandemente illogica e irrazionale, nonostante il larghissimo uso che essa fa della scienza e della tecnica? Non è che siamo in presenza di una scienza e di una tecnologia al servizio, fondamentalmente, del Capitale e non dell’Umanità? E ancora, chi ci assicura che lo “zoccolo duro” di chi continua a non fidarsi della scienza, nonostante «lo sviluppo dei vaccini rappresenti», sempre secondo il nostro chimico quantistico, «una grande vittoria della scienza», non sia in realtà l’espressione, una delle tante e certamente oggi quella più eclatante e difficile da accettare per la massa dell’opinione pubblica, di una sfiducia assai più diffusa nei confronti della Civiltà capitalistica? Una sfiducia, beninteso, istintiva, “a pelle”, ossia non elaborata concettualmente e non compresa nelle sue reali cause.
Queste domande interrogano, io credo, soprattutto l’anticapitalista, il quale oggi si trova nella tristissima condizione, che peraltro ha radici storiche e sociali tutt’altro che misteriose e incomprensibili (vedi la catastrofe stalinista e le continue rivoluzioni economico-sociali capitalistiche), di non avere alcun tipo di influenza nemmeno sulla parte più disagiata e offesa dell’umanità, quella che da una rivoluzione sociale avrebbe tutto da guadagnare e nulla o pochissimo da perdere.
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Che cos’è il «Rifiuto del Lavoro»? Mario Tronti
di Leo Essen
Nel 1962, sul numero 2 dei Quaderni Rossi, Tronti scrive un saggio destinato a fare epoca: La fabbrica e la società. In esso sono generalizzate alcune indicazioni contenute nei capitoli 13 e seguenti del primo libro del Capitale.
Nel capitolo sulle Macchine, Marx dice che la rivoluzione nel modo di produzione di una sfera dell’industria porta con sé la rivoluzione del modo di produzione nelle altre sfere. Questo vale in primo luogo per quelle branche dell’industria che sono sì isolate a causa della divisione sociale del lavoro, cosicché ognuna di esse produce una merce indipendente, ma tuttavia s’intrecciano l’una con l’altra come fasi d’un processo complessivo. Così la filatura meccanica rese necessaria la tessitura meccanica, e l’una e l’altra insieme resero necessaria la rivoluzione chimico-meccanica della candeggiatura, della tintura e della stampatura dei tessuti. Così d’altra parte la rivoluzione nella filatura del cotone rese necessaria l’invenzione del gin per la separazione delle fibre del cotone dal seme, con il che divenne possibile finalmente la produzione su larga scala com’è ora richiesta. La rivoluzione nel modo di produzione dell’industria e dell’agricoltura rese necessaria, in ispecie, anche una rivoluzione nelle condizione generali del processo sociale di produzione, cioè nei mezzi di comunicazione e di trasporto. Come i mezzi di comunicazione e di trasporto di una società il cui pivot erano la piccola agricoltura con la sua industria domestica ausiliaria e l’artigianato urbano, non potevamo più soddisfare affatto le necessità produttive del periodo manifatturiero con la sua divisione allargata del lavoro sociale, la sua concentrazione di mezzi di lavoro e operai, e i suoi mercati coloniali, e quindi vennero di fatto rovesciati; così i mezzi di comunicazione e di trasporto tramandati dal periodo della manifattura si trasformarono presto in impacci insopportabili per la grande industria, con la sua febbrile velocità di produzione, con la sua produzione su vastissima scala, con il costante lancio di grandi masse di capitale e di operai da una sfera all’altra della produzione e con i nuovi nessi da essa creati sul mercato mondiale.
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Probabilità e dogmatismo aggressivo
di Andrea Zhok
Nell'intento di mantenere forme di confronto civile in una situazione che sta travalicando da tempo civiltà e decenza, propongo di riflettere sull’attuale vicenda della strategia pandemica a partire dal problema generale dell’idea di probabilità.
È possibile, almeno in parte, descrivere le attuali divergenze tra chi accondiscende all’inoculazione, per sé e/o per i propri figli, e chi non lo fa, in termini di diversità nella valutazione di probabilità.
In una valutazione costi-benefici relativi ad una certa azione noi siamo chiamati a giudicare alcuni scenari possibili, attribuendovi un valore, e poi a considerare la probabilità che questo scenario si presenti.
La questione che dobbiamo affrontare innanzitutto è: esiste un modo in cui possiamo fissare queste probabilità in modo definito ed obiettivo?
Per fissare le idee è utile rimandare alle tre principali concezioni esistenti della probabilità (versione un po’ semplificata, non me ne vogliano matematici e statistici).
In primo luogo abbiamo la concezione classica o logicista della probabilità, definita come rapporto tra casi positivi (realizzazioni) e casi possibili. Questa definizione è perfettamente chiara e idealmente predittiva: di principio un dado ideale a sei facce ha una probabilità di 1/6 che ciascuna faccia appaia verso l’alto in ciascuno lancio.
Il problema di questa concezione è che funziona in modo rigoroso solo nei limiti in cui abbiamo a che fare con entità ideali, con enti matematici, ma nel mondo reale non fornisce nessuna garanzia. Nessun dado reale è davvero perfettamente uniforme dal punto di vista dell’omogeneità del peso, dei materiali, degli attriti, e per verificare se davvero un certo dado materiale sia all’altezza del dado ideale l’unica cosa da fare è svolgere un gran numero di lanci, controllando se la distribuzione delle occorrenze delle diverse facce sia equilibrata.
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Una sporca manovra euroccidentale
di Michele Castaldo
Che succede con i migranti al confine tra la Polonia e la Bielorussia, una delle tante tragedie in un mondo sempre più caotico come quello attuale? Riuscire a capire cosa si muove veramente dietro i fatti che ci vengono sbattuti in faccia è sempre più complicato. Insomma quali sono le necessità che sprigionano la forza che produce tante infamie come quelle di migliaia di persone che vengono respinte da due confini e lasciate soffrire e per alcune addirittura morire?
Romano Prodi, che si è battuto per l’Unione europea e la globalizzazione come un vero alfiere, ha il pregio della sintesi oltre che della chiarezza: « I migranti usati per il duello sull’energia. ». Cerchiamo perciò di capire perché c’è un duello per l’energia e in che modo questo viene fatto vivere sulla pelle dei migranti.
Cominciamo col dire, per amore della verità, che i migranti che sostano al confine tra la Bielorussia e le barriere di Polonia e Lituania non sono come quelli che arrivano con i gommoni sulle nostre coste e molti muoiono annegati nel Mediterraneo senza mai riuscire a sbarcare. Si tratta di ceti sociali per lo più piccolo borghesi che dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Sudan, soprattutto dal Kurdistan iracheno, arrivano in Bielorussia con visti turistici per poi transitare in Europa attraverso la porta di confine della Polonia. Di che meravigliarsi? Gli affari sono affari e le strade si trovano sempre. La storia economica degli ultimi cinquecento anni almeno è una storia ricca di contrabbando di ogni tipo, per ogni merce, perché dovrebbe meravigliare che si contrabbandi anche della merce umana da parte di ambasciate e agenzie viaggi? Le leggi sono fatte per essere aggirate.
Ma perché a un certo punto quello che filava liscio come l’olio diviene un fatto eclatante saltando alla ribalta e ponendo una serie di interrogativi ai quali è tanto difficile rispondere?
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L’Europa dopo Angela Merkel
di Alfonso Gianni
Le elezioni tedesche del 26 settembre sono probabilmente destinate a cambiare le cose più in Europa che non in Germania. Un acuto osservatore della situazione internazionale, come Lucio Caracciolo, intervenendo in un webinar il giorno dopo, le ha persino definite come le più importanti elezioni italiane degli ultimi tempi.
Naturalmente questo non significa che nel grande paese tedesco tutto possa rimanere come prima. Sarebbe impossibile in ogni caso. Per quanto Olaf Scholz, il candidato socialdemocratico uscito vincitore dalla tenzone elettorale fosse da tempo “volato sul nido del cuculo”, ossia avesse moderato le proprie posizioni da non renderle così diverse dalla politica incarnata da Angela Merkel, con sempre maggiore evidenza man mano che si avvicinava le urne. Malgrado che sotto i suoi manifesti di propaganda affissi in tutto il paese vi fosse il singolare – ma fortunato – slogan “Sa fare la Cancelliera”. Malgrado che la sua postura, perfino la posizione delle mani durante i dibattiti televisivi fossero stati studiati appositamente per richiamare la figura della Merkel, fino a dar vita al neologismo “merkelare” riferito all’insieme delle sue parole e dei suoi comportamenti. Malgrado tutto ciò, i sedici anni nei quali Angela Merkel ha ricoperto il ruolo di Cancelliera sono per chiunque irripetibili e neppure imitabili se non nel tragitto di una pur lunga campagna elettorale. Che tale è stata se non si considerano i tempi formalmente e strettamente destinati ad essa, ma quelli del lungo addio all’alta carica da parte della Merkel.
Il suo cancellierato ha aperto e probabilmente concluso un’epoca. Nel 2005 la Germania era considerata dai mass media internazionali più autorevoli come il grande malato d’Europa, sia per i costi della riunificazione tedesca che, e soprattutto, per la recessione nel quale il paese entrò nel 2003.
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COP26 e i militari a Glasgow
di Elena Camino
La guerra incrementa l’effetto serra
Molti gruppi di attivisti e associazioni impegnate nella difesa dell’ambiente, della pace e dei diritti umani avevano alimentato le aspettative pubbliche su un tema centrale – ma complesso e sottostimato – della ‘lotta’ al cambiamento climatico: il ruolo e le responsabilità degli apparati militari nelle trasformazioni in atto sul nostro pianeta. I profughi fuggono dai teatri di guerra per non essere feriti o uccisi. Ma non solo. È chiaro che la guerra fa male direttamente anche ai sistemi naturali, che sono la principale fonte di sostentamento per tutti i viventi – compresi gli umani. Bombardare, minare, inquinare terreni agricoli, mari, falde, boschi riduce la produttività agricola, produce carestie e fame; obbliga intere popolazioni ad abbandonare i luoghi in cui vivevano e a migrare in cerca di luoghi in cui continuare a sopravvivere. Dunque, la violenza diretta contro le persone e la distruzione delle fonti di sussistenza sono gli aspetti più evidenti degli effetti negativi della guerra sull’ambiente e sulle comunità. L’uso delle armi contribuisce all’effetto serra sia nel ridurre la produzione di ossigeno di aree coltivate e boschi, sia nell’aumentare le emissioni di CO2 prodotte da incendi, bombardamenti, distruzioni di impianti industriali ecc. Inoltre ogni guerra scatena nuovi conflitti e provoca migrazioni, in una spirale perversa.
Anche preparare la guerra produce CO2
Un secondo aspetto, meno ovvio e – soprattutto – a lungo censurato, è l’insieme dei danni socio-ambientali che il sistema militare in generale causa (indipendentemente dalle azioni di guerra) con tutte le sue strutture e funzioni: dalla produzione di armamenti agli aspetti logistici (costruzione di strade, caserme, mezzi di trasporto), dai centri di formazione e addestramento alle strutture di ricerca, alla costruzione e mantenimento di basi militari e poligoni di esercitazioni. È un mondo nel mondo, con milioni di persone su tutto il pianeta impegnate al servizio della distruzione e della morte.
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Le trame e l’ordito della repubblica
di Sandro Moiso
Elio Catania, Confindustria nella repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 360, 24,00 euro
Come afferma Aldo Giannullli nella sua prefazione al testo di Elio Catania, recentemente edito da Mimesis: «Nella storia della Prima Repubblica, c’è una lacuna piuttosto vistosa che riguarda uno dei soggetti più importanti: la storia della Confindustria». Ma se è vero che anche altre associazioni come Confcommercio, Confagricoltura, Abi o Confapi, solo per citarne alcune, non sono state oggetto di una attenta ricerca e ricostruzione storica, è anche vero che il ruolo politico ed economico giocato dalla prima all’interno della storia italiana del ‘900 è indiscutibilmente assai più rilevante. Soprattutto, a detta dello stesso Giannulli, per la forte influenza costantemente esercitata «sulle scelte politiche di governo e non solo in materia di politica economica e sindacale, ma anche in politica estera e più in generale sull’indirizzo politico complessivo del governo – soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta».
La ricerca di Catania, pur ripercorrendo a grandi linee la storia dell’associazione degli industriali dalle sue origini fino al Fascismo e alla Repubblica, si sofferma, in particolare, proprio sul ruolo svolto dalla stessa nella fase in cui era al massimo del suo potere. Potere di cui si servì innanzitutto per ostacolare in ogni modo l’ascesa economica, politica e sociale della grande massa dei lavoratori.
E per fare ciò, sia come singoli gruppi imprenditoriali sia come associazione, minacciò più volte, oppure rasentò, lo sbocco del colpo di Stato, finanziando o incoraggiando, indirettamente o direttamente, la destra eversiva di stampo dichiaratamente fascista.
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La lunga marcia verso il socialismo
di Carlo Formenti
Una guida per ragionare sullla rivoluzione cinese senza pregiudizi eurocentrici
Nota introduttiva
A dare la misura dell’incomprensione occidentale nei confronti della realtà cinese è un curioso paradosso: mentre gli intellettuali liberali si arrovellano sui motivi per cui la crescita economica non si sia portata dietro – come speravano e ritenevano inevitabile – la caduta dei comunisti e la transizione a un regime liberal democratico, ragion per cui considerano la Cina come la più grave minaccia alla sopravvivenza del capitalismo, gli intellettuali marxisti (o sedicenti tali) danno per scontato che in Cina non esista più – se mai è esistito – un regime socialista, ritengono che quel Paese rappresenti oggi la seconda potenza capitalistica mondiale e pensano che il dissidio ideologico con l’Occidente mascheri un conflitto interimperialistico. Questa cecità simmetrica replica il doppio abbaglio sulla caduta del regime sovietico: Fukuyama e soci vi scorgevano la conferma della superiorità del capitalismo sull’utopia social comunista, le “nuove sinistre” replicavano che in Russia il socialismo non esisteva più da decenni (per alcuni dalla morte di Lenin per altri da quella di Stalin).
Nel campo del marxismo occidentale le voci fuori dal coro, libere da dogmatismi dottrinari e pregiudizi eurocentrici, sono rare. Penso, per citarne alcune, a economisti come Samir Amin, Giovanni Arrighi e Vladimiro Giacché (1), a filosofi come Domenico Losurdo (2), a storici come Rita di Leo (3) o, a un livello più militante e limitandomi al contesto italiano, a formazioni politiche e associazioni culturali come il Partito Comunista di Marco Rizzo e le riviste Marx21 e Cumpanis. In precedenti lavori ho cercato di dare una serie di indicazioni bibliografiche (4) utili per fare piazza pulita della selva di luoghi comuni che ingombrano la discussione sul tema.
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Conversazione/intervista con Paolo Bartolini e Lelio Demichelis, autori di Vita lucida
di Fulvio Fagiani
Paolo Bartolini e Lelio Demichelis, autori del libro ‘La vita lucida’, si confrontano su potere e tecno-capitalismo, rassegnazione e istantaneità, pessimismo dell’intelligenza e vie d’uscita, divario tra consapevolezza e azione e crisi del paradigma occidentale, ’68 e dialogo tra culture.
Nel seguito D) segnala una mia domanda o commento, RB) la risposta di Paolo Bartolini, RD) la risposta di Lelio Demichelis.
* * * *
D) Mi ha molto interessato il secondo capitolo del vostro libro ‘La vita lucida’1 dedicato al potere ‘nella sua forma/norma tecno-capitalista’. Vi chiedo di riassumere il vostro modo di vedere il potere, con attenzione particolare alla ‘sottomissione di sé al potere’ di cui parla Lelio e alla ‘strategia senza strateghi’ secondo Miguel Benasayag (che ha scritto la Postfazione al libro), che mi pare abbia fondamento anche se in contraddizione con un quadro globale segnato da una grande concentrazione di potere sia politico che economico, cha farebbe pensare ad una ‘strategia con strateghi’.
RB) Qualche mese dopo aver scritto le mie parti del dialogo con Lelio, mi sono stupito nel leggere il libro di Carlo Sini ‘Del viver bene’2 per la prima volta, riscontrando una sorprendente prossimità con quanto avevo provato ad esprimere avvalendomi di altri riferimenti. Dalla mia prospettiva di analista biografico a orientamento filosofico, mi interrogo sulla questione del potere in chiave soprattutto antropologica e psicologica, perché mi interessa domandarmi come il potere riesca a conquistare le anime delle persone. Il sortilegio del potere è la capacità non solo di sottometterle, ma di metterle al lavoro per il tornaconto del sistema.
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Il prezzo della crisi: cosa fare contro il carovita?
di coniarerivolta
C’è una domanda che continuiamo a porci, incessantemente, da qualche mese: la crisi è davvero alle spalle? Certo, nel 2021 le cose stanno andando un po’ meglio, poiché l’epidemia, grazie soprattutto alla campagna vaccinale, si attesta su numeri molto più bassi rispetto a quelli dello scorso anno. Di conseguenza, il mancato ricorso a misure draconiane per contenere i contagi, quali i famigerati lockdown, ha fatto sì che l’economia abbia tirato qualche boccata d’ossigeno. Tuttavia, a ben guardare gli ultimi dati sulla disoccupazione, la povertà, la disuguaglianza e lo sfruttamento, dovremmo dare, oltre ogni ragionevole dubbio, una risposta negativa alla domanda di apertura: la crisi è tutt’altro che finita, e le politiche messe in campo da Governi e Unione europea si sono rivelate largamente insufficienti a fronteggiare un anno e mezzo di emergenza sanitaria, economica e sociale.
Nonostante ciò, dalle pagine de La Stampa ha recentemente fatto capolino un contributo di Carlo Cottarelli, personaggio che è spesso apparso sulle pagine di questo blog, purtroppo non per prendersi i nostri applausi. C’è un aspetto dell’attuale situazione economica che preoccupa il nostro: un aumento troppo sostenuto dei prezzi. Il tema non può che essere caro, e altrettanto preoccupante, anche per il nostro universo di riferimento. Sono molte le categorie che hanno ben ragione di preoccuparsi del carovita: lavoratori (precari e non) con salari da fame, pensionati che percepiscono mensilità indecorose, disoccupati che non sanno come sbarcare il lunario perché non hanno un reddito, e più in generale tutti coloro che si trovano in una condizione economica non agiata, sono tutti soggetti che vedono nell’aumento dei prezzi una dolorosa perdita di potere d’acquisto – e quindi di consumo e di benessere.
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Il fallimento dell’ecologia politica
di Gilles Dauvé
IV episodio della serie: Pommes de terre contre gratte-ciel, apparso su ddt21.noblogs.org, gennaio 2021
Sebbene sotto molti aspetti confliggano, ecologisti di governo, ecologisti dei «piccoli passi», ecosocialisti ed ecologisti radicali hanno un punto in comune. Che ambiscano a un incarico ministeriale, fondino una cooperativa di consumo bio, scrivano il programma per una futura «vera sinistra» o tentino di fare dell’ecologia la leva di un sovvertimento della società, tutti mettono la «questione ecologica» al centro del mondo attuale, come se oggi essa costringesse a ridefinire ciò che il capitalismo è, e in cosa consista la sua necessaria e possibile trasformazione. Tutti si vogliono allo stesso modo realisti, e si vantano di agire senza accontentarsi delle sole parole.
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1. Il liberismo in bicicletta
A partire dagli anni ‘60 del secolo scorso, negli Stati Uniti, si è fatto avanti un ecologismo composito, incoraggiato dal bestseller di Rachel Carson, Primavera silenziosa (1962), che denunciava la strage di uccelli provocata dai pesticidi. Nel 1970 fu organizzata la prima «Giornata della Terra», più una celebrazione ufficiale che un’azione militante. Successivamente, in nome della difesa dei consumatori, Ralph Nader1 si candiderà quattro volte alla presidenza degli Stati Uniti.
In Francia, il primo partecipante ambientalista alle elezioni presidenziali del 1974, René Dumont, insisteva soprattutto sull’incapacità del capitalismo di sopprimere la fame, la sovrapproduzione e l'eccessivo consumo di energia. Secondo costui, la linea di frattura sociale non opponeva borghesi e proletari, bensì consumatori dei paesi ricchi e masse diseredate del Terzo Mondo, nelle quali si incarnavano i veri proletari moderni.
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Kant col green pass?
di Paolo Becchi
L’Europa si prepara a fronteggiare la quarta ondata della pandemia. In tale preoccupante contesto il “Diario della crisi” rimane aperto alla discussione, ospitando testi che esprimono una pluralità di posizioni, anche molto problematiche, con il rinnovato invito ad ampliare e allargare le prospettive della riflessione
Da un punto di vista schiettamente giusfilosofico e argomentando in senso kantiano - ci sono certo altri approcci - si potrebbe dire che il singolo individuo non può mai essere ridotto a mero mezzo, neppure per raggiungere uno scopo benefico come la difesa della salute pubblica. L’”imperativo categorico” non lascia dubbi.
Sotto questo profilo, dunque, non è legittimo il diritto di imporre una generalizzata vaccinazione coatta, vale a dire senza un consenso libero e informato degli interessati. Con una eccezione, che anche Kant sarebbe disposto a sottoscrivere. Se il pericolo di contagio fosse infatti talmente grande da mettere in pericolo l’esistenza di una intera comunità, allora, in questo specifico caso, lo “stato di necessità” giustificherebbe l’obbligatorietà della vaccinazione e persino l’uso della forza per imporla. Ma è questa l’attuale situazione?
Insomma, l’obbligo vaccinale di cui si parla oggi è proporzionato al pericolo reale?
Nonostante i decessi che ci sono stati, non ci sembra questo il caso. E quindi dovrebbe valere l’imperativo categorico kantiano.
Si potrebbe avanzare una obiezione con riferimento ad alcune professioni per le quali in linea di principio non andrebbe escluso un obbligo vaccinale. Penso al personale ospedaliero e sanitario in genere. La missione del medico è quella di curare e se possibile di guarire, non di rischiare di diffondere malattie. Anzi semmai è proprio lui che nell’ esercizio della professione dovrebbe essere disposto ad assumersi personalmente dei rischi. Nessuno è obbligato a fare il medico ma se lo fa ha un’etica professionale che deve rispettare.
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Gli strange days di Trieste contro il green pass. Il racconto di una lotta sbalorditiva
Seconda puntata
di Andrea Olivieri*
Dopo la prima puntata del suo reportage ibrido e perturbante – che è stata pubblicata anche in francese su Lundi Matin – con questa seconda (di tre che saranno) Andrea Olivieri si addentra nel vivo delle contraddizioni, raccontando l’incredibile 16 ottobre al varco 4 del porto di Trieste. La giornata dell’iper-spettacolarizzazione, dell’invasione di troupes televisive e ambigui personaggi. Il momento in cui tutto è parso dileguarsi e i caca-sentenze-preventive già esultavano per aver avuto ragione…
E invece no. Citando ancora una volta Alain Badiou: «per impedire questo genere di disastro è necessario che la forza d’esistenza nell’apparire del sito compensi il suo dileguare». È necessario, cioè, che l’evento di una sollevazione popolare inattesa abbia più forza della sua rappresentazione – a colpi di montesani e madonne e leader “carismatici” e ospitate nei tolksciò – in quello che Andrea chiama giustamente «metaverso». Il metaverso esiste già, non è una promessa di Zuckerberg.
Dopo la “ripartenza”, avvenuta soprattutto grazie all’impegno del Coordinamento No Green Pass, Andrea racconta la violenza dello sgombero e l’intera giornata del 18, tra manovre da politicanti nel “salotto buono” della città e scontri e nubi di lacrimogeni nelle vie della Trieste proletaria, tra la gente con cui, inutile girarci intorno, bisogna stare. [WM]
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9. Prologo al caos
La mattina di sabato 16 ottobre mi presento al varco piuttosto presto, per vedere che aria tira dopo la prima notte, poi dovrò andarmene a lavorare. Ai gate Stefano Puzzer, appena arrivato anche lui, si sta lamentando con alcuni dei presenti per qualche cartaccia e mozziconi di sigaretta rimasti là davanti dalla sera prima. – Muli, qua xe pien de scovaze –, dice sconsolato, – no se pol veder. Poi recupera una scopa e inizia a pulire.
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La rivincita di Engels*
di Rogney Piedra Arencibia - Queen’s University at Kingston, CA
«A Friedrich Engels, che ha sbagliato molte volte ma sulle cose importanti ha avuto ragione.»
(R. Levins & R. Lewontin, The Dialectical Biologist, 1985)
L'"affare Engels"
Sono note le posizioni anti-engelsiane sostenute da figure del marxismo occidentale come Avineri1, Schmidt2, Colletti3 e Kohan4 ma presenti anche nel giovane Lukács5, posizioni che si richiamano spesso ad autori del calibro di Kojéve, Sartre6, Hippolyte e Merleau-Ponty7 e che si esprimono per lo più nel tentativo di separare8 e contrapporre i due fondatori del marxismo. È una contrapposizione che, secondo Levine9, avrebbe dato luogo a due scuole di pensiero inconciliabili: l’engelsismo e il marxismo (autentico), la prima delle quali si sarebbe infine convertita nel marxismo ortodosso di stampo sovietico, meccanicista e ingenuo10. Ne consegue – implicitamente ma anche esplicitamente – che in ultima istanza è proprio ad Engels che andrebbero ricondotti i difetti reazionari della II e III Internazionale11, la povertà intellettuale della socialdemocrazia tedesca e la crudeltà del bolscevismo12, fino al “monologo” dottrinario dei partiti comunisti verso le masse13 e addirittura al collasso dell’URSS14!
L’antiengelsismo si contraddistingue però anche per il rifiuto della dialettica della natura, dal momento che, già secondo il giovane Lukács, «solo la conoscenza della società e degli uomini che la vivono è filosoficamente importante»15. «Il marxismo non deve parlare delle leggi della natura», perché «Il marxismo, come scienza, è scienza della società»16. Da qui l’idea semplicistica che la natura e le scienze che la studiano siano esterne al marxismo; e che chiunque si (intro)metta in questioni di dialettica della natura non potrà che approdare ai risultati di Lysenko, il quale «finì a tagliare la coda ai topi per dimostrare che alla lunga sarebbero nati senza»17.
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La società del gioco lavorativo. A proposito del libro di Alquati sulla riproduzione
di Veronica Marchio
Sulla riproduzione della capacità umana vivente. L’industrializzazione della soggettività (DeriveApprodi 2021) non è certo un libro facile da recensire, si tratta più che altro di una mappa di ragionamenti, legati a doppio filo con le riflessioni che l’autore, Romano Alquati, ha prodotto negli anni precedenti alla scrittura di questo testo, rimasto per lungo tempo inedito. Scritto ormai vent’anni fa, ciò che maggiormente va messa in evidenza è la grande capacità anticipatoria delle analisi della tendenza capitalistica e quindi anche delle possibilità di modificare quella tendenza. Veronica Marchio ci offre qui una sua lettura del modello alquatiano e un’indispensabile guida per orientarsi nella complessità del libro.
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Sulla riproduzione della capacità umana vivente. L’industrializzazione della soggettività (DeriveApprodi 2021) non è certo un libro facile da recensire, si tratta più che altro di una mappa di ragionamenti, legati a doppio filo con le riflessioni che l’autore, Romano Alquati, ha prodotto negli anni precedenti alla scrittura di questo testo, rimasto per lungo tempo inedito. È stato scritto ormai vent’anni fa e ciò che maggiormente va messa in evidenza è la grande capacità anticipatoria delle analisi della tendenza capitalistica e quindi anche delle possibilità di modificare quella tendenza oggi.
Non è un libro facile da recensire, dicevamo, perché la difficoltà non sta solo nel capire e seguire i discorsi, intricati e spesso incompleti o solo abbozzati, ma soprattutto nel rielaborarli e nell’ipotizzare delle domande politiche, oltre che teoriche. Il tema è quello della messa a valore capitalistica della riproduzione delle capacità umane, un processo «baricentrico» del capitalismo dei nostri giorni che è necessario interrogare politicamente per abbozzare delle potenzialità di produzione di soggettività antagonista.
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Dubbi sui vaccini ai bimbi
di CoScienze Critiche
Riceviamo e pubblichiamo la lettera inviata dall’associazione CoScienze critiche, con la quale i promotori rispondono al Professor Carlo Federico Perno, intervistato da HuffPost. L'associazione CoScienze Critiche ha lanciato negli scorsi giorni l’appello contro il Green Pass sottoscritto da diversi professori universitari
Come accademici e come genitori non possiamo che esternare la nostra contrarietà e preoccupazione per le parole del Professor Carlo Federico Perno dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
La questione parte dalla recente autorizzazione negli USA da parte della Food and Drug Administration (FDA) all’uso in emergenza del vaccino Pfizer-BioNTech COVID-19 per i bambini di età compresa tra 5 e 11 anni. Il Prof. Perno, intervistato dall’Huffington Post il 3 novembre, sostiene che i bambini di età compresa tra 5 e 11 anni devono essere vaccinati anche in Italia e rassicura i genitori che il vaccino è sicuro e necessario. Il professore si spinge ben oltre, sostenendo la vaccinazione per tutti i bambini, anche per i più piccoli di 0-5 anni.
Il ragionamento alla base delle rassicurazioni del Prof. Perno è articolato su tre piani. Il primo riguarda i motivi che dovrebbero spingere alla vaccinazione. Il pediatra fa riferimento in modo generico a statistiche internazionali e alla sua esperienza di ricoveri all’ospedale Bambino Gesù e afferma che la vaccinazione serve per preservare i bambini dal virus, poiché non sono immuni al Covid. Quando si sostiene una vaccinazione dell’intera popolazione, e soprattutto per i bambini, è necessario essere accurati. Guardiamo quindi i dati da vicino.
Dal report dell’Istituto Superiore di Sanità del 20 ottobre 2021 si rileva che in Italia, nella fascia di età 0-5, il numero complessivo di casi positivi al test RT-PCR per il Sars-Cov-2 è pari 138.167, con una percentuale di decessi dello 0,00008%; per la fascia di età 6-10 anni il numero di positivi è 179.660 con una percentuale di decessi dello 0,00003%. Considerando l’intera popolazione 0-19 anni, essa è pari a circa 10.600.000 bambini/ragazzi (dati ISTAT) e i casi positivi rilevati fino a ottobre 2021 sono circa 770.000, con 35 decessi da inizio pandemia.
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Tesi sul cybercapitalismo
di Liberiamo l’Italia
Preceduta dalle conferenze dei Comitati Popolari Territoriali, si è svolta il 13 e 14 novembre 2021 la II. Conferenza nazionale per delegati di Liberiamo l’Italia. Tra i documenti discussi e approvati le Tesi sul cybercapitalismo, approvate all'unanimità
Il tornante storico
1. Con il crollo dell’Unione Sovietica l’élite americana (sia neocon che clintoniana) scatenò un’offensiva a tutto campo per trasformare l’indiscussa preminenza degli U.S.A. nei diversi campi — economico, finanziario, militare, scientifico, culturale — in supremazia geopolitica assoluta. L’offensiva si risolse in un fiasco. Invece del nuovo ordine monopolare sorse un disordinato e instabile multilateralismo.
2. La grande recessione economica che colpì l’Occidente, innescata dal disastro finanziario americano del 2006-2008, fu un punto di svolta dalle molteplici conseguenze. Indichiamo le principali: (1) il “capitalismo casinò” — contraddistinto dalla centralità della finanzia predatoria: accumulazione di denaro attraverso denaro saltando la fase della produzione di merci e di valore — dimostrava di essere una mina vagante per il sistema capitalistico mondiale; (2) il modello economico neoliberista, quello che aveva consentito la metastasi della iper-finanziarizzazione, esauriva la sua spinta propulsiva ; (3) la globalizzazione liberoscambista a guida americana giungeva al capolinea sostituita da una “regionalizzazione” delle relazioni economiche mondiali e dalla rinascita di politiche protezionistiche; (4) la Cina, uscita dallo sconquasso come principale motore del ciclo economico mondiale, occupava il ruolo di nuovo alfiere della globalizzazione; (5) una profonda scissione maturava in senso alle élite occidentali: la crisi di egemonia delle frazioni mondialiste alimentava il fenomeno del populismo. Così ci spieghiamo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, l’avanzata dirompente di nuove forze politiche “sovraniste” in diversi paesi europei (Italia in primis), la Brexit.
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GKN, controllo dei capitali, nazionalizzazioni
di Domenico Cortese
La lotta alle delocalizzazioni come presa di coscienza delle contraddizioni dello stato borghese
Il fenomeno delle delocalizzazioni di realtà storicamente centrali in diversi distretti industriali del Paese si configura, nella cornice dei mesi della ripresa economica dopo il periodo emergenziale della pandemia, come una cartina di tornasole sia del reale indirizzo che i proprietari di capitali vogliono dare a questa ripresa sia della reale natura politica delle misure che sono nel tempo state prese e che saranno, probabilmente, prese, per affrontare la questione. È urgente, perciò, un’analisi tecnica delle motivazioni alla base del fenomeno e, di conseguenza, del contesto giuridico e politico in cui esso ha luogo. Gli interessi di classe a fondamento di determinate scelte legislative e motivazioni possono essere smascherati soltanto se la classe lavoratrice ricorre a rivendicazioni che mettono in evidenza le contraddizioni dei meccanismi alla base delle delocalizzazioni; parallelamente, un concreto miglioramento delle condizioni dei lavoratori può avvenire soltanto se queste rivendicazioni sono costruite attraverso la cristallizzazione di un fronte unitario di lotta ben strutturato e coordinato.
Le leggi e le proposte di ieri e di oggi. Come le rivendicazioni dei lavoratori Gkn possono essere uno strumento per mettere in luce le contraddizioni nei partiti borghesi
La chiusura di siti produttivi e funzionanti allo scopo di risparmiare sul costo del lavoro o, come nel caso di Campi Bisenzio, di speculare sulle plusvalenze prodotte dal momentaneo snellimento di costi e investimenti, non riguarda ovviamente oggi soltanto la Gkn. La multinazionale Timken sta chiudendo lo stabilimento, portando di recente 106 dipendenti a scioperare. Quest’ultimo caso si aggiunge alle altre procedure aperte solo negli ultimi mesi, come quella della Giannetti Ruote di Ceriano Laghetto (Monza). Senza dimenticare la vertenza Whirlpool a Napoli, i cui 340 lavoratori hanno appena ricevuto le prime lettere di licenziamento dopo che il tribunale di Napoli ha respinto il ricorso per condotta antisindacale dell’azienda.
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“L’essenza, per le fondamenta”
Lotta antimperialista e Internazionale comunista
Alessandro Testa intervista Epiro 1940
Con lo pseudonimo Epiro 1940 ha risposto alle domande di "Cumpanis" un noto docente, saggista ed analista geopolitico ed economico italiano
D. In questa fase storica, stiamo assistendo all’esplodere di innumerevoli contraddizioni in seno al capitalismo, contraddizioni di quelle che Lenin definì magistralmente “l’imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Dal tuo punto di vista, quali sono i punti salienti della situazione odierna per ciò che concerne la situazione politico-economica?
R. In primo luogo, credo sia importante riportare la definizione di Imperialismo che Vladimir Ilic Uljanov, detto Lenin, diede nel 1916: “stadio monopolistico del capitalismo”.
Ad essa, il padre della rivoluzione bolscevica associò cinque tesi:
I. La concentrazione della produzione e del capitale (il secondo è l’aspetto preponderante) con conseguente formazione dei monopoli;
II. La fusione del capitale bancario col capitale industriale (con tendenziale prevalenza del primo sul secondo) e conseguente creazione di una oligarchia finanziaria;
III. Il prevalere dell’esportazione di capitali su quella delle merci;
IV. La nascita di associazioni monopolistiche transnazionali;
V. La ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche (aspetto militare).
A mio avviso, tutti i “cinque i principali contrassegni” suggeriti al tempo da Lenin mantengono tutt’ora la loro validità, anche se andrebbero profondamente aggiornati in base alla realtà attuale.
Desidero suggerire qualche spunto di riflessione in merito alla centralizzazione della produzione e del capitale in questa fase di ripresa del processo di accumulazione dopo le crisi del 2007-09 e 2020, se non altro per le implicazioni politiche che ne conseguono.
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Città e villaggi globali: la globalizzazione come utopia
di Gianfranco Ferraro
Pubblichiamo l’articolo di Gianfranco Ferraro dal titolo “Città e villaggi globali: la globalizzazione come utopia” uscito nel n. 5/2021 della nostra rivista semestrale
Abstract: La storia delle globalizzazioni è da sempre intrecciata ad una utopia. La globalizzazione imperialistica dell’impero portoghese a quella del sebastianismo, la globalizzazione imperialistica francese a quella dell’universalismo, la globalizzazione imperialistica inglese a quella del mercato liberale. Ogni globalizzazione ha rappresentato d’altro canto la propria utopia attraverso una città, generalmente la città capitale dell’impero, che si fa città-mondo, e sul cui modello pretende di plasmare lo stesso mondo globalizzato su cui esercita il suo potere. Se l’archetipo storico di questo legame tra città globale e globalizzazione è Roma, ogni impero ha tentato di fare della propria capitale il modello sul quale disegnare la sua forma di globalizzazione. L’attuale processo di globalizzazione economica non sembra fuoriuscire troppo da questa tradizione, pur con una importante novità: essendo una globalizzazione multicentrica, non vi è una sola città che si fa mondo, ma una pluralità di città, connesse tra loro e omogenee nella forma. La stretta connessione tra queste città globali, così come lo sviluppo di tecnologie comunicative digitali costituiscono, infine, l’utopia realizzata di un «villaggio globale», secondo l’espressione di Marshall Mac Luhan. Analizzare l’utopia dell’attuale processo di globalizzazione significa, pertanto, comprendere il legame tra le sue città globali e la forma del mondo interconnesso come villaggio globale.
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Globalizzazione, mondializzazione, glomerizzazione
Due processi, su tutti, appaiono come i più rilevanti degli ultimi trent’anni: da una parte lo sviluppo accelerato di forme di trasporto che, a un costo ridotto rispetto a quello che dovevano sostenere altre generazioni, consentono di connettere località distanti in poche ore di volo; dall’altro lo sviluppo delle reti di comunicazione digitale, che permettono di informare e comunicare in tempo reale, velocizzando scambi economici e comunicazioni.
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