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Tradurre o tradire?
Il compito del traduttore secondo Walter Benjamin
di Afshin Kaveh
La recente edizione critica del breve testo di Walter Benjamin intitolato Die Aufgabe des Übersetzers, ovvero Il compito del traduttore (Mimesis, 2023, pp. 174, 14 euro) curato nella nuova traduzione italiana di Maria Teresa Costa con tanto di testo tedesco a fronte, permette di immergersi, con rinnovate possibilità rispetto alla vecchia edizione nella traduzione di Solmi, all’interno della ricchezza di uno degli scritti più stimolanti del filosofo tedesco. Composto ormai cent’anni fa, tra il 1921 e il 1923, fu pensato come introduzione alla traduzione che lo stesso Benjamin fece dal francese al tedesco dei Tableaux parisiens di Charles Baudelaire.
Il compito che Benjamin si diede, come da titolo, era quello di scandagliare il processo che permea la traduzione di un testo da una lingua a un’altra, mettendo però in discussione l’idea della traduzione come mero processo immobile che si limita al passaggio da un testo di partenza, privilegiandolo o meno rispetto alla diversa lingua in cui verrà poi tradotto, a uno di arrivo, arricchendolo o meno rispetto alla composizione della lingua originale. Contrapponendosi e anzi allontanandosi ferocemente dallo scontro dei diversi approcci tradizionali di traduzione, ovvero tra chi innalza la fedeltà contro la libertà e chi, viceversa, la libertà contro la fedeltà, le riflessioni di Benjamin si immettono da una parte sulla scia di quelle che saranno negli anni a seguire le sue teorizzazioni estetiche, in particolare de Il dramma barocco tedesco e di parte de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, così come del suo successivo confronto coi problemi filosofici hegelo-marxiani nelle Tesi di filosofia della storia, tanto da anteporre spesso il compito del «traduttore» a quello del «filosofo» e, come vedremo, ponendo quasi il problema della traduzione come fosse un problema della «filosofia della storia».
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Sergio Bologna e il lavoro autonomo di seconda generazione
Una lente per indagare il postfordismo
di Collettivo Le Gauche
1. Introduzione
L’operaismo si sviluppa in un contesto in cui era credenza comune l’idea che non ci fossero alternative alla grande fabbrica fordista dove migliaia di lavoratori svolgevano le loro mansioni ripetitive mentre le macchine erano adibite a quelle più complesse. A ciò si affiancava il consumo di massa, altro elemento chiave di questa fase del capitalismo. Per gli operaisti la fabbrica era il terreno fertile della lotta di classe dove inchiodare i padroni e costruire uno spazio libero dall’oppressione capitalista. Lo stesso fordismo, con la sua organizzazione del lavoro, produceva il soggetto rivoluzionario, l’operaio-massa, che era un salariato con una parte fissa, di base, una variabile, fornita dall’aumento della produttività del lavoro e dal welfare. Il fordismo, inoltre, non era confinato alla fabbrica ma si era esteso a tutta la città, per esempio nella mobilità urbana o nella regolazione degli orari dei negozi. L’operaismo era l’immagine rovesciata del fordismo e con l’avvento del postfordismo doveva lentamente sparire. Invece gli intellettuali che si rifacevano all’operaismo hanno provato ad aggiornare la teoria a partire dalla nuova situazione, questo perché gli operaisti non hanno mai sottovalutato i padroni. Alla retorica populista hanno sempre preferito scandagliare in profondità la realtà. Questo è facilmente rilevabile nell’attenzione posta al tema della tecnologia. Essa è intesa da Panzieri, uno dei padri nobili di questa lettura del marxismo, come lavoro incorporato che libera il lavoratore dalla fatica ma allo stesso tempo impone un controllo ancora più rigido sulla forza lavoro. La tecnologia plasma la forza lavoro determinando la sua composizione tecnica che si traduce in una specifica mentalità, cultura o agire politico.
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Che cosa è successo?
di Aligi Taschera
Negli ultimi quattro anni, a partire dal gennaio del 2020, è successo di tutto.
A partire dalla città cinese di Wuhan (pare) si è diffusa una forma relativamente grave di influenza, dovuta a un coronavirus (poi denominato Sars-Cov2); tale forma influenzale aveva in Italia un grado di letalità (rapporto tra il numero delle infezioni e il numero dei morti) non trascurabile, pur se concentrata soprattutto nella fascia di età maggiore di sessant’anni, con una media di 79 anni, e una mediana di 81 (il che significa che la maggioranza dei casi letali si addensava attorno agli 81 anni, cioè non molto al di sotto della speranza di vita media).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, in seguito a 4.129 decessi nel mondo intero, dichiarava all’inizio di marzo 2020 la pandemia.
La Cina, prima ancora che fossero chiariti i meccanismi di trasmissione e l’eziopatogenesi dei casi mortali, pensava bene di chiudere in casa gli abitanti della città di Wuhan, per impedire il diffondersi della cosiddetta pandemia, che, però, giungeva nel frattempo in Italia.
Qui il governo Conte II (alleanza 5Stelle – PD), con il suo ministro della salute Roberto Speranza, agli inizi di marzo pensava bene superare di gran lunga la Cina (normalmente esecrata come esempio inaccettabile di dittatura totalitaria) e, invece di chiudere in casa un’intera città (per quanto abitata da 11.000.000 di abitanti) ha chiuso in casa un’intera nazione di circa 60.000.000. di abitanti (l’Italia).
Gli altri paesi europei, e quasi tutti i paesi del mondo, finivano per imitare l’Italia, anche se spesso con provvedimenti un pochettino meno drastici.
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I fronti popolari che servono alla guerra della NATO
di Nico Maccentelli
Ci ho pensato molto a pubblicare questo mio contributo, perché so che quanto sta per accadere in Italia, in Francia, un po’ in tutta Europa, come conseguenza delle elezioni europee, vedrà coinvolti il fior fiore di compagni, antifascisti sinceri, che a causa di gruppi dirigenti miopi se non peggio, finiranno nella tonnara preparata ad arte da chi lavora ormai da decenni su “rivoluzioni colorate”, sussunzione di tematiche storicamente proprie di una sinistra dei diritti, con il tridente fondazioni, ong e servizi di intelligence. Non è dietrologia: certe operazioni politiche non nascono per caso. Ma procediamo con ordine.
C’è un articolo su Contropiano di Giacomo Marchetti che è stato ripreso su Sinistra in Rete qui e che rivela gli errori di analisi e quindi di azione politica di buona parte della sinistra di classe a partire proprio dall’area di Potere al Popolo – USB – Rete dei Comunisti.
Il Marchetti fa due operazioni: licenzia come positiva la nascita di un fronte popolare in Francia contro la “peste nera”, sviscerando tutta la panoplia di riforme di questa coalizione: dal salario minimo all’abolizione della legge sulle pensioni e quella sui carburanti fatte da Macron. La seconda operazione è quella di accostare anacronisticamente questo FP ai fronti popolari degli anni ’30.
La mia risposta fatta a commento su di questo articolo del Marchetti è questa:
«È un’analisi completamente scazzata. Il programma sociale è un fuffa, soprattutto agli albori della guerra continentale che è il vero obiettivo delle élite atlantiste e dell’imperialismo che lo vanificherebbe automaticamente.
Questo è il programma di questo “fronte popolare”.
Il vero passaggio politico di questo programma e che interessa e va nella direzione dei poteri atlantisti è questo:
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La Nuova via della seta e la narrazione sulla trappola del debito che la circonda
di Pompeo Della Posta
Pompeo Della Posta, dopo avere ricordato che la Nuova Via della Seta (NVS) trova origine in primo luogo nella necessità di collegare le aree occidentali della Cina con l’Europa attraverso l’Asia Centrale, illustra le ragioni per le quali ritiene infondata la narrazione della NVS secondo cui la Cina creerebbe trappole del debito per acquisire gli asset strutturali finanziati e mette in guardia dal bias che le tensioni geopolitiche fra Stati Uniti e Cina possono introdurre nella valutazione della NVS
La Nuova Via della Seta (NVS), lanciata nel 2013, vede la partecipazione di 154 dei 193 paesi membri delle Nazioni Unite e ha comportato nei suoi primi 10 anni di vita investimenti complessivi per circa 1.000 miliardi di dollari.
Per comprendere le ragioni che hanno condotto alla sua creazione, dobbiamo considerare innanzitutto la politica del ‘Go West, avviata nel 2000 per favorire lo sviluppo delle province occidentali della Cina. Tale sviluppo è possibile solo collegando queste ultime alle regioni landlocked dell’Asia centrale, che separano la Cina dall’Europa. In questo modo, le regioni landlocked diventerebbero land linked.
Peraltro, il fabbisogno di infrastrutture per i Paesi meno sviluppati e in via di sviluppo è certificato dalle banche regionali dei continenti asiatico, africano e latino-americano. La Banca asiatica di sviluppo stima per gli anni 2016-2030 un fabbisogno di 260 miliardi di dollari per colmare il suo gap infrastrutturale, quella africana stima un fabbisogno infrastrutturale compreso tra 130 e 170 miliardi di dollari all’anno (e un gap di finanziamento di 67,6-107,5 miliardi di dollari all’anno) e la Banca interamericana di sviluppo stima un deficit infrastrutturale di 150 miliardi di dollari per anno.
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La Palestina in testa
di Donato Caporalini
La Palestina è una Storia che ritorna, un passato che non passa. L’ultimo esempio di colonialismo di insediamento, pulizia etnica e apartheid su vasta scala. Nessuno di noi sarà davvero libero finché non faremo davvero i conti con il colonialismo e il razzismo
C’è rabbia. C’è dolore. Chi legge Ernesto Galli della Loggia sulla prima del Corriere lo capisce subito che l’uomo ci soffre. Poveretto! Ancora una volta i suoi occhi vedono una masnada di barbari, venuti chissà da dove, deturpare il volto bello della civiltà liberale. Gente orribile. Ignoranti. Al cui confronto i contestatori del 68 meritano un sentimento di nostalgico rimpianto: quelli almeno avevano letto Marcuse! E anche se si ispiravano a Lenin, e perfino a Stalin, con loro ci si poteva intendere. Oggi invece… Eh, che tempi!
Ma la colpa è di chi le alleva queste capre ignoranti. Che osano rinfacciare a Israele e all’Occidente liberale la giusta punizione che stanno infliggendo ai palestinesi. Che mordono la mano che li cresce. Ingrati. E suicidi. Perché quello che in realtà cercano con le manifestazioni e le occupazioni dei campus universitari è nientemeno che la distruzione dell’Origine. La rimozione del Padre. La negazione dell’ascendenza su cui si fonda tutto l’Occidente. Altro che protestare per i crimini di guerra e la violazione dei diritti umani! Tutte scuse. Questi sono i nostri Nemici peggiori. I Nemici dei nostri Valori, delle nostre Radici. Quelli che rinnegano la nostra Tradizione, la nostra Storia!
La Storia del vincitore
Diciamolo: come sono patetici e noiosi i conservatori. Sempre lì a fare le vittime. Sempre a lamentarsi della corruzione dei costumi, della mancanza di Autorità. Sempre a pronosticare sfracelli. E a costruire Nemici interni, alleati del Nemico esterno di turno. Lo fanno ogni volta che la società si divide. Ogni volta che sorge un conflitto. Un conflitto vero. Uno di quelli che possono davvero cambiare la realtà. In meglio o in peggio, certo. Ma cambiarla.
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Scontro Russia-Occidente: scenari di escalation
di Roberto Iannuzzi
Una “exit strategy” dallo scacchiere ucraino sarebbe preferibile all’attuale conflitto potenzialmente in grado di sfociare in uno scontro nucleare. E poi c’è l’incognita mediorientale
Il mondo si sta avvicinando a un bivio molto pericoloso. L’Occidente continua a violare le cosiddette “linee rosse” del conflitto ucraino, che si era in parte autoimposto per scongiurare la possibilità di scivolare in uno scontro diretto con Mosca.
Kiev sta lentamente ma inesorabilmente perdendo la guerra, ed è proprio questa improvvisa presa di coscienza che sta spingendo i paesi occidentali a ignorare i limiti di sicurezza che in precedenza ritenevano di dover rispettare per impedire un allargamento del conflitto.
L’assunto occidentale di partenza era che una guerra Russia-NATO sarebbe rapidamente sfociata in un confronto nucleare. Di fronte all’ineluttabile declino delle capacità di difesa ucraine, i vertici militari e politici, in Europa e oltreoceano, sembrano aver smarrito questa consapevolezza.
Ucraina: le ragioni della sconfitta
Kiev manca di uomini e armi. La nuova campagna di mobilitazione sta registrando scarsi risultati. Gli ucraini non vogliono più combattere, e fanno di tutto per sottrarsi alla coscrizione.
I pochi che vengono arruolati spesso sono inadatti al servizio militare per ragioni di età o di salute, e vengono sommariamente addestrati prima di essere mandati al fronte, spesso semplicemente a morire.
Più in generale, l’Occidente ha perso la sfida della produzione bellica. Si prevede che le fabbriche russe sforneranno quest’anno circa 4,5 milioni di proiettili d’artiglieria, a fronte di una produzione complessiva di USA ed Europa pari a circa 1,3 milioni.
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La questione palestinese oggi e la crisi della sinistra occidentale
Presentazione dell'articolo di Abdaljawad Omar "la questione di Hamas e la sinistra"
di Algamica*
“La sinistra deve affrontare questo fatto fondamentale. Non si può rivendicare solidarietà con la Palestina e respingere, trascurare o escludere Hamas.” – Adbaljawad Omar, 31 maggio 2024 – Mondoweiss.net
Presentiamo un articolo di Abdaljawad Omar, giovane dottorando e docente part-time presso il Dipartimento di Filosofia e studi culturali dell'Università di Birzeit in Cisgiordania, pubblicato da Mondoweiss il 31 maggio scorso.
Non ci nascondiamo che l'argomento chiama in causa l’intero movimento storico della sinistra occidentale in quanto riflesso agente delle necessità di una classe sociale – il proletariato – determinato dalle leggi impersonali dell’accumulazione. Il giovane intellettuale palestinese di West Bank prende spunto da un acceso dibattito che sta avvenendo in maniera sempre più articolata proprio nei paesi dove la mobilitazione a sostegno della Palestina ha dimensioni di massa. Intellettuali della sinistra e organizzazioni della sinistra, chi più e chi meno, rimproverano alle mobilitazioni in occidente di sostenere sì giustamente la resistenza palestinese ma di fatto celebrando il 7 ottobre e l’azione politica di un movimento “socialmente regressivo”, Hamas. In sostanza abbiamo a che fare con una variegata impostazione della sinistra occidentale le cui posizioni possono essere sintetizzate con “la resistenza palestinese, senza se e senza… Hamas”.
Non ci nascondiamo che in questo articolo Omar, così come quelli cui egli riferisce di Jodi Dean e di Andreas Malm e che hanno dato scandalo tra componenti della sinistra radicale occidentale il tema non è limitato a una impostazione politica pratica dell’oggi palestinese, ma ci costringe a prendere il toro per le corna, ossia la relazione della produzione del valore e del colonialismo degli occidentali che ha determinato il movimento di una classe sociale e della sua rappresentazione politica all’interno del moto determinato della storia.
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Due note sulle elezioni europee
di Il Pungolo Rosso
I risultati delle elezioni europee hanno fatto esplodere in Francia una crisi politica latente da lungo tempo, data l’enorme impopolarità di Macron e della sua élite di ricchi tecnocrati repressori e guerraioli, e hanno portato in un vicolo cieco in Germania l’altrettanto impopolare governo Scholz, ma non si può certo sostenere che insieme con l’accoppiata Macron-Scholz è stato battuto “il partito della guerra” alla Russia. Questa tesi, fatta propria anche da alcuni compagni, è stata avanzata per primo, a botta calda, dal presidente della Duma russa Volodin; ed è stata poi ripresa, tra gli altri, da Orban, dal “pacifista” Travaglio e da altri ancora, delusi tuttavia perché in Italia è andata diversamente (vedi i flop del M5S, “pacifista” a tempo scaduto, e del circo-Santoro).
In realtà, proprio in base al responso delle urne, si profila la conferma tanto della von der Leyen, assatanata esponente di punta del cosiddetto “partito della guerra”, quanto della sua maggioranza composta da popolari-socialdemocratici-liberali (eventualmente estesa a FdI e/o ai verdi) che sfidiamo chiunque a considerare contraria alla corsa alla guerra, sia nella formazione ristretta che in quella allargata. Purtroppo va registrato che la “questione guerra”, nonostante l’accelerazione avvenuta negli ultimi mesi, risulta tuttora piuttosto lontana dalla massa degli elettori, perché le sue conseguenze pratiche, a cominciare dall’inflazione e dall’inasprimento delle misure repressive, non sono ancora avvertite per tali, almeno nei paesi più lontani dal fronte ucraino.
Ma procediamo con ordine, partendo dal dato della partecipazione al voto, sospinto sullo sfondo, quasi cancellato, dai partiti vincitori delle elezioni perché ridimensionerebbe di molto la loro vittoria – un dato che va invece considerato nella sua importanza e analizzato.
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Un’altra economia
È proprio vero che non esistono alternative al capitalismo?
di Caterina Orsenigo
La scorsa primavera è uscita una serie televisiva di Scott Z. Burns intitolata Extrapolations. Il titolo rimanda al fatto che in ogni puntata si estrapolavano gli effetti del riscaldamento globale nel prossimo futuro: la prima puntata era ambientata nel 2037, la seconda nel 2046, e così via fino all’ultima, l’ottava, nel 2070. Extrapolations racconta vite, vittime e protagonisti dell’inasprirsi della crisi climatica. Tutto quello che si perde, i sempre meno che si salvano, e che si salvano sempre peggio. Ciò che non cambia mai, nemmeno di fronte ai disastri più disarmanti, è l’approccio ottuso dei gruppi dominanti: accumulo, guadagno e sviluppo perdono senso in maniera via via più plateale, eppure sembra che le loro menti non riescano a uscire da questa prigione ideologica, anche quando è quella stessa mentalità a spingere loro stessi e il mondo intero verso l’autodistruzione.
Del resto proprio l’economia è fra le poche scienze sociali (forse l’unica?) che non sembra più di tanto mettere in discussione i propri assunti. Lo diceva bene Mark Fisher: la necessità dello sviluppo viene percepita come postulato fondamentale e autoevidente, il sistema capitalistico come insostituibile. Ma ora che la fine del (nostro) mondo sembra un’ipotesi meno strampalata rispetto a qualche anno fa, da più parti comincia ad affiorare la necessità di immaginare la fine di questo apparentemente insostituibile capitalismo.
Cominciamo ricordandoci che il capitalismo non è sempre esistito: ancora oggi permangono anfratti del mondo che la sua luce abbagliante non arriva a illuminare. E ci sono idee, o almeno germi di idee, che ogni giorno cercano di farsi strada tra le sue maglie.
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Elezioni europee, cosa cambia?
di Domenico Moro e Fabio Nobile
Per fare una valutazione del risultato della competizione elettorale per il Parlamento europeo, è necessario precisare quali sono le attribuzioni di questo organismo. Il Parlamento europeo ha tre funzioni principali: a) condivide con il Consiglio dell’Unione la funzione legislativa; b) approva o respinge i candidati a componenti della Commissione europea (il governo della Ue); c) Condivide con il Consiglio dell’Unione il potere di bilancio della Ue e può pertanto modificare le spese dell’Ue.
Il problema, quindi, è che il potere è condiviso con altri organismi, che contano di più, come Il Consiglio europeo, il consiglio dell’Unione europea, e soprattutto la Banca centrale europea, che ha una notevole influenza sui governi nazionali, come prova la lettera inviata da Trichet e da Draghi nel 2011 a Berlusconi, che fu costretto a dare le dimissioni da capo dell’esecutivo. Il Consiglio europeo, composto dai capi di governo e di stato della Ue a 27, ha pure molto potere, potendo nominare il Presidente della Commissione, che deve essere approvato dal Parlamento europeo, e definisce gli orientamenti generali dell’Ue. Il Consiglio dell’Unione europea, composto dai ministri dei 27 Paesi Ue competenti per ciascun settore, detiene parecchie competenze, tra cui quelle sulla legislazione, sul bilancio Ue, sulle politiche economiche generali degli Stati membri, sugli accordi internazionali tra la Ue e altri Stati, ecc. Di fatto il potere del Parlamento europeo è inferiore a quello dei normali parlamenti nazionali anche se non può definirsi totalmente ininfluente.
Un altro aspetto da tenere in considerazione è il quadro generale della fase storica che vede la Ue in grave difficoltà economica. La crisi è tutt’altro che passata e da molti anni l’economia continentale perde posizioni a livello internazionale, in termini di quota detenuta sul Pil mondiale, e si trova in difficoltà a competere con le altre due più importanti aree economiche mondiali, la Cina e gli Usa.
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Contro la sinistra neoliberale: il caso Sahra Wagenknecht
Prefazione di Vladimiro Giacché
Sahra Wagenknecht: Contro la sinistra neoliberale, Fazi 2022
“Sinistra” era un tempo sinonimo di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale, di resistenza, di rivolta contro la classe medio-alta e di impegno a favore di coloro che non erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di sinistra voleva dire perseguire l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà, dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro possibilità di formazione e di ascesa sociale, rendere loro la vita più facile, più organizzata e pianificabile.
Chi era di sinistra credeva nella capacita della politica di plasmare la società all’interno di uno Stato nazionale democratico e che questo Stato potesse e dovesse correggere gli esiti del mercato. […] Naturalmente ci sono sempre state grandi differenze anche tra i sostenitori della sinistra. […] Ma nel complesso una cosa era chiara: i partiti di sinistra, che fossero socialdemocratici, socialisti o, in molti paesi dell’Europa occidentale, comunisti, non rappresentavano le élite, ma i più svantaggiati.
Credo che i lettori non faranno fatica a condividere questa descrizione proposta da Sahra Wagenknecht nel primo capitolo del suo libro. Questa descrizione è anche il miglior punto di partenza per introdurre quelle che ritengo siano le tesi principali di questo testo, quelle che lo rendono un libro importante e opportunamente scandaloso.
Un tempo la sinistra era questo, in effetti. E oggi? Oggi le cose sono parecchio cambiate. Se un tempo al centro degli interessi di chi si definiva di sinistra vi erano problemi sociali ed economici, oggi non è più cosi.
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Marx: scomodo e attuale, anche nella vecchiaia
di Sandro Moiso
Marcello Musto, L’ultimo Marx. Biografia intellettuale (1881-1883), Donzelli editore, Roma 2023, pp. 278, 19 euro
«L’umanità ora possiede una mente in meno, quella più importante che poteva vantare oggi. Il movimento proletario prosegue il proprio cammino, ma è venuto a mancare il suo punto centrale, quello verso il quale francesi, russi, americani e tedeschi si volgevano automaticamente nei momenti decisivi, per ricevere quel chiaro e inconfutabile consiglio che solo il genio e la completa cognizione di causa potevano offrire loro. I parrucconi locali, i piccoli luminari e forse anche gli impostori si troveranno ad avere mano libera. La vittoria finale resta assicurata, ma i giri tortuosi, gli smarrimenti temporanei e locali – già prima inevitabili – aumenteranno adesso più che mai. Bene, dovremo cavarcela. Altrimenti che cosa ci stiamo a fare?» (F. Engels, lettera a F. Sorge, 15 marzo 1883 – 24 ore dopo la morte di Karl Marx)
Marcello Musto, professore di Sociologia presso la York University di Toronto, può essere considerato tra i maggiori, se non il maggiore tra gli stessi, studiosi contemporanei di Karl Marx. Le sue pubblicazioni sono state tradotte in venticinque lingue e annoverano, tra le più recenti, dallo stesso scritte o curate: Karl Marx. Biografia intellettuale e politica (Einaudi 2018), Karl Marx. Scritti sull’alienazione (Donzelli 2018), Marx Revival. Concetti essenziali e nuove letture (Donzelli 2019), Karl Marx. Introduzione alla critica dell’economia politica (Quodlibet 2023) e Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione (Carocci 2023 con M. Iacono).
L’attuale volume costituisce la riedizione ampliata di una ricerca già pubblicata nel 2016 dallo stesso editore che pone al centro dell’attenzione gli ultimi due anni di attività del Moro di Treviri prima della morte, giunta per lui alle 14,45 del 14 marzo 1883. Sono anni di sofferenza fisica e psicologica per Marx, segnati pesantemente, ancor più che dai malanni fisici che lo perseguitano, dalla morte della moglie (Jenny von Westphalen, 12 febbraio 1814 – 2 dicembre 1881) e della figlia maggiore Jenny (1° maggio 1844 – 11 gennaio 1883). Ancora nella stessa lettera citata in esergo, l’amico Engels avrebbe commentato:
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Il gattopardo europeo
Alessandro Bianchi intervista Alberto Bradanini
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Le elezioni europee viste come un terremoto da molti commentatori si possono riassumere in estrema sintesi con altri cinque anni di "maggioranza Ursula" pronta a continuare il suo viaggio verso il baratro dell'Armageddon, fedele ai dettami dei padroni di Washington. "L’esito di tali elezioni - riassumibile nella nozione di funesta stabilità - conferma, in buona sostanza, il cupo declino filosofico-valoriale dei popoli del vecchio (in ogni senso) continente", dichiara ad "Egemonia" l'Ambasciatore Alberto Bradanini, una delle nostre bussole di riferimento costanti nei frastornati e difficili tempi attuali.
A lui abbiamo chiesto un commento sulle forze di estrema destra in ascesa, l'astensionismo e i margini di costruzione di una forza di reale cambiamento nel vecchio continente. "Non v’è dubbio che per assicurarsi il controllo sulle scelte dei paesi vassalli l’egemonia plutocratica americana si serve della Nato, una struttura un tempo difensiva, oggi di aggressione, a tutela degli interessi Usa, che condiziona in modo sistemico le scelte dei paesi colonizzati, selezionandone i ceti politici". E questa egemonia non si contrasta certo con il melonismo (italiano, francese o tedesco che sia) o l'astensione, ma con un "faticoso percorso di conoscenza e consapevolezza, avendo fede nel convincimento (da non intendersi in termini presuntuosi) che nella storia ha motivato tanti uomini di buona volontà" per gettare le basi per un reale cambiamento.
* * * *
Ambasciatore, i principali vincitori delle elezioni europee sono sicuramente le destre estreme e l’astensione. Nulla dovrebbe cambiare con la famigerata “maggioranza Ursula” a guidare il timone verso il baratro dell’Armageddon contro la Russia. È lo scenario che si aspettava?
L’esito di tale sceneggiata non è stata certo una sorpresa. Del resto, se le elezioni servissero a qualcosa, affermava A. Bierce, le avrebbero già abolite. Serviranno dunque a ben poco anche quelle europee dell’anno 2024.
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Il limite di Limes, e il nostro
di Mimmo Porcaro
Recentemente Limes, una delle pochissime entità culturali italiane capaci di porsi all’altezza dei problemi attuali, ha formulato una chiara proposta di politica estera per il nostro paese, proposta che merita di essere discussa perché, pur proseguendo un ragionamento avviato da molto tempo, rappresenta un importante salto di qualità[1]. Mossa dall’esplicito, lodevole intento di far sì che l’Italia eviti di trasformarsi in mero oggetto delle dinamiche internazionali e ne divenga invece pienamente soggetto, la rivista da voce a interventi spesso assai condivisibili che ci parlano delle condizioni di questo auspicato protagonismo: ridiscussione dell’euro, reindustrializzazione della penisola, rafforzamento dell’unità contro la frammentazione regionalistica, politiche demografiche centrate sul lavoro femminile e giovanile, mutamenti decisivi nella politica scolastica, nella gestione dell’immigrazione, ecc… Ma il clou della proposta riguarda, come detto, la collocazione del paese nello scontro geopolitico in atto.
Relazioni pericolose
E sul punto non si poteva essere più chiari: nell’editoriale del fascicolo dedicato a Una certa idea di Italia, si invoca infatti “un accordo bilaterale speciale con gli Stati Uniti, […r]icostituente della nostra pressoché nulla deterrenza, onde anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti”[2]. E nel corpo del fascicolo si precisa che, posto che il problema principale degli Stati Uniti è la Cina e che Washington non può più (se mai ha veramente potuto) controllare tutte le aree critiche del globo, posto inoltre che di difesa comune europea è persino ozioso parlare, per non restare sguarnita l’Italia deve operare una vera rivoluzione copernicana e decidersi una buona volta a sparare, ossia a svolgere in prima persona, in stretta connessione con gli Stati Uniti e anche grazie a una integrazione crescente della nostra industria militare in quella nordamericana, una particolare funzione di controllo e sedazione delle crisi mediterranee.
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La resurrezione dell’utopia
di Luca Baiada
Rino Genovese, L’inesistenza di Dio e l’utopia, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 128, € 12
Diciamo subito. Chi con questo titolo si aspetta dimostrazioni o confutazioni su Dio, resta deluso, e chi cerca la mappa perduta dell’utopia, prima si metta gli occhiali giusti. Sulla religione:
Non è sostituibile – è la tesi di questo piccolo libro – se non con una prospettiva utopico-politica che si ponga in concorrenza, e al tempo stesso al fianco, delle religioni storiche, scontando però, rispetto a queste, una debolezza intrinseca, che consiste nel proporre una rottura con quel retroterra tradizionale propriamente culturale a cui esse, invece, restano saldamente ancorate.
Piccolo libro? Forse nel numero delle pagine. Di certo il peso delle questioni comprime i temi alla densità di un buco nero, che inghiotte la luce e si rende imperscrutabile. Scelta abile, anche se, malgrado l’autore sia filosofo, tutto il discorso cede linearità in favore di un’irresistibile suggestione. Che lo faccia apposta? In fondo, a proposito del lavoro culturale, anni fa ha scritto: «Mai arrendersi completamente. Fuggire sempre – anche dal proprio fallimento»[1].
Qualche punto debole. «La credenza di tipo religioso, la fede, ha in sé l’altra fede come qualcosa da superare nel tempo o da abbattere nello spazio. Di qui un’autoconsistenza che la rende particolarmente adatta a qualsiasi pretesa identitaria, anche in senso aggressivo». Sì, ma siamo sicuri che l’utopia eviti l’aggressività? La conquista del West, per esempio, col mito della frontiera, dava ai pionieri un’aura di progresso intrisa di utopia, oltre che di messianismo protestante. Ma non era identitaria e aggressiva?
Ancora. «Il riconoscimento della pluralità delle religioni, e della loro crescente importanza culturale, ha messo in stato d’impasse la tendenza liberale a far convivere ragione e religione, che meglio poteva esprimersi quando la società mondiale pareva avviata al trionfo dell’Aufklärung e all’affermazione del solo cristianesimo»[2].
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Il trattato futuristico elaborato da Stanislaw Lem
di Roberto Paura
Stanislaw Lem: Summa Technologiae. Scritti sul futuro, Traduzione e cura di Luigi Marinelli, Luiss University Press, Roma, 2023, pp. 425, € 35,00
Un altro libro che parla di intelligenza artificiale, civiltà extraterrestri, metaverso e postumano? Anche basta! Ma… un momento, dev’esserci un errore: l’edizione originale di questo libro è apparsa in polacco nel 1964, sessant’anni fa! Ma com’è possibile, se l’autore parla di simulazioni virtuali, disoccupazione tecnologica, algoritmi intelligenti? È possibile, perché l’autore di questo libro fantastico è Stanislaw Lem, che non ha bisogno di presentazioni, se non al più quella di “uno dei massimi scrittori di fantascienza di tutti i tempi”.
La Summa Technologiae è stata per anni un oscuro oggetto del desiderio per gli appassionati di fantascienza, futurologia e filosofia scientifica. Giunta finalmente all’attenzione del mondo con la traduzione in inglese della University of Minnesota Press, nel 2013, da allora si è lavorato per portarla in Italia, superando le resistenze di quanti riducevano Lem al solo autore di Solaris. Nel 2017 su questa rivista veniva pubblicato un primo estratto in italiano, tradotto da Marco Bertoli e curato dal sottoscritto. Un primo contatto con i titolari dei diritti apparve promettente, ma non si trovarono editori interessati a cimentarsi nell’impresa di una traduzione che doveva filologicamente avvenire sull’originale polacco, e non sulla versione inglese. Una copia pirata, malamente tradotta con software automatici, fece capolino a prezzi improbabili sugli store online nel 2022. E poi, infine, eccola: la sontuosa edizione italiana realizzata dalla Luiss University Press, complice l’onda lunga del centenario, che in Italia ha visto un fiorire di nuove edizioni, ristampe, traduzioni, favorito anche dal fatto che i temi di Lem, troppo in anticipo sui tempi negli anni in cui apparvero per la prima volta le sue opere, sono oggi di estrema attualità.
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Astensione di massa e vincolo esterno
di Geminello Preterossi
Il vero dato politico delle elezioni europee, per quello che riguarda l’Italia, è la vastissima astensione: non era mai successo in queste proporzioni. È il segno di una crisi radicale di legittimazione, le cui cause profonde andrebbero indagate, invece di fermarsi alla superficie (come avviene nei talk show televisivi, ma anche in quello che resta dei giornali, tranne rarissime eccezioni). Il minimo che si può dire è che il popolo italiano nella sua maggioranza non ha raccolto l’appello di Mattarella a “consacrare” la “sovranità europea” nel rito elettorale. Un invito retorico, emotivo, perciò forzato e precario in quanto non fondato sul piano concettuale e dottrinale: l’UE non è uno Stato (né nazionale né federale), quindi non può possedere alcuna sovranità. L’UE è una strana costruzione tecnocratica, finanziaria e giurisdizionale, vocata prevalentemente ai dogmi mercatisti neo- e ordoliberali, frutto di accordi internazionali i cui “signori” continuano a essere, logicamente, gli Stati (i quali infatti possono recedere da quegli accordi, come si è visto con la Brexit). Un’istituzione a bassa intensità politica, dominata dai particolarismi, senza una visione unitaria (ma subalterna alla NATO); un costrutto “hayekiano”, funzionale a presidiare il vincolo esterno mercatista (e atlantista), a disciplinare i più deboli ma in generale i riottosi, che si ostinino eventualmente a credere nell’autonomia della politica, nella legittimità del conflitto sociale, nella sua proiezione democratica. L’UE ha nel Consiglio dei Capi di Stato e di governo (statali) la propria camera di compensazione politica degli interessi nazionali, e nella BCE il proprio custode dell’ortodossia monetaria ordoliberale, simboleggiata dall’euro (una moneta senza Stato: cioè un paradosso che non può funzionare, perché alla lunga ha costi sociali e democratici insostenibili).
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Dai bassi tassi di interesse all’alta spesa militare
Crisi di egemonia e pulsioni belliche degli Stati Uniti d’America
di Aldo Barba, Massimo Pivetti
I. Domanda effettiva e crescita dei consumi delle famiglie
La spesa per consumi personali è stata la componente più dinamica della domanda aggregata negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ‘70. Tra il 1951 e il 1980, il suo rapporto con il PIL è stato in media intorno al 58%, per poi crescere costantemente di 10 punti percentuali, stabilizzandosi dal 2003 al livello più elevato di circa il 68%. A partire dall’inizio della seconda metà degli anni ‘70, la crescita sostenuta della spesa per consumi personali ha compensato sia l’andamento sfavorevole della bilancia commerciale, sia il rallentamento dei consumi pubblici e della spesa lorda per investimenti (la crescita degli investimenti privati è rimasta allineata a quella del prodotto, grazie al peso in rapido aumento degli investimenti in prodotti di proprietà intellettuale che ha controbilanciato un marcato rallentamento degli investimenti in strutture e attrezzature non residenziali). Con la crescita della spesa per consumi, il tasso di risparmio personale è sceso dal 15% nel 1975 a meno del 2% nel 2005. Il calo del tasso di risparmio si è verificato nonostante un massiccio spostamento della distribuzione del reddito dai salari ai profitti. A causa dell’influenza del mutamento distributivo sul tasso di risparmio personale, quest’ultimo avrebbe dovuto aumentare, non diminuire. Le ragioni della sua caduta vanno quindi ricercate altrove, ponendole in connessione con la politica di lungo periodo di riduzione dei tassi di interesse.
II. Bassi tassi di interesse e distribuzione del reddito
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Che fare? Quali sono i fattori favorevoli e sfavorevoli allo sviluppo del socialismo
di Domenico Moro
Secondo Marx ed Engels il socialismo – come fase intermedia tra capitalismo e comunismo – può affermarsi soltanto in virtù di un alto sviluppo economico del capitalismo che crei la base materiale per la sua instaurazione. Senza questo sviluppo, non si potrebbe procedere all’abbattimento della proprietà privata dei mezzi di produzione e alla affermazione della proprietà collettiva. Oggi siamo arrivati a una crescita immane della produzione capitalistica, grazie allo sviluppo esponenziale della scienza e della tecnologia. Nonostante ciò il movimento socialista, nei paesi dell’Occidente capitalista e avanzato, non è mai stato così debole e arretrato. Sorge a questo punto una domanda che non può essere elusa: perché, a fronte del prodursi delle condizioni oggettive della rivoluzione, la coscienza e l’organizzazione delle classi lavoratrici che dovrebbe guidarla è così poco diffusa? L’altra domanda che, giocoforza, dovremmo porci è la seguente: oggi nelle condizioni date che cosa possiamo fare?
Rispondere a queste domande è fondamentale ma è anche molto difficile, e sicuramente qui non possiamo che limitarci, in modo molto parziale, ad avviare il discorso, tracciando delle direttrici di interpretazione della realtà sociale attuale e quindi delle condizioni di realizzazione del socialismo. Per iniziare suddividerei la questione in quattro sezioni, premettendo, però, che l’analisi si incentrerà soprattutto sui Paesi occidentali e in particolare sull’Europa e sull’Italia e tratterà solo di sfuggita le condizioni dell’immensa periferia e semiperiferia del cosiddetto Sud-globale, dove le condizioni sono diverse e meritano una trattazione a parte.
Per comodità di analisi distingueremo tra fattori oggettivi, relativi alle condizioni strutturali, economiche e sociali, e i fattori soggettivi, relativi alle condizioni sovrastrutturali cioè allo sviluppo della coscienza e dell’organizzazione della classe lavoratrice.
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Tra delegittimazione e ristrutturazione: la dialettica circolare dell’astensione
di Eros Barone
“Motus in fine velocior”
“Il moto è più veloce verso la fine”: la frase latina ben si attaglia alla descrizione di questa tappa del processo che scandisce la crisi organica del parlamentarismo borghese. Queste sono infatti le prime elezioni della storia della Repubblica in cui i votanti sono meno del 50%, per l’esattezza il 49,7%, nonostante la partecipazione diretta di molti leader di partito a questo tipo di campagna elettorale. Prendendo in considerazione i soli votanti e guardando non i voti assoluti ma le percentuali (giacché in termini assoluti ha votato meno della metà del corpo elettorale e lo stesso primato di Fdi è stato conseguito perdendo 600.000 voti rispetto alle elezioni politiche del 2022), i tre partiti di governo (Fdi, Forza Italia e Lega) vedono rafforzati i propri numeri, che insieme li portano a sfiorare il 48%. Nell’altra ala del bipolarismo competitivo avanzano il Pd, che rispetto alle politiche cresce sia in termini di voti assoluti che di percentuali (24%), e Alleanza Verdi Sinistra che, sull’onda della “candidatura-civetta” di Ilaria Salis, raggiunge il 6,6%. “Deludente”, come ha ammesso Giuseppe Conte, è il risultato di M5S, che scende sotto la soglia del 10%. Ancor più deludente il risultato conseguito dalla cosiddetta “area riformista”: né Stati Uniti d'Europa (3,76%) né Azione (3,35%) superano la soglia del 4% necessaria per mandare eletti a Strasburgo.
Sennonché la discesa in campo di molti leader (Meloni, Tajani, Schlein) e i toni radicali con cui alcuni partiti hanno cercato di vivacizzare una campagna elettorale caratterizzata dal silenzio, in parte indifferente e in gran parte ostile, della maggioranza del corpo elettorale, non sono bastati a convincere la maggioranza dei cittadini a recarsi alle urne. Tanto più sguaiato appare pertanto lo strepitio levato dai leader dei maggiori partiti nel magnificare le vittorie di Pirro conseguite in una campagna elettorale in cui ha votato meno della metà del corpo elettorale.
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In principio era il cibo… Dialogo con Wolf Bukowski
Afshin Kaveh intervista Wolf Bukowski
Afshin Kaveh: Qual è il fil rouge che collega le tue ricerche critiche sull’industria alimentare? Dal racconto Il grano e la malerba (Ortica Editrice 2012) passando per il saggio La danza delle mozzarelle (Edizioni Alegre 2015) conducendoci, oggi, a La merce che ci mangia. Il cibo, il capitalismo e la doppia natura delle cose (Einaudi 2023) quali sono stati, nello scorrere irreversibile del tempo, i punti di contatto, le continuità e quali invece, sempre che vi siano, le divergenze, le svolte e le discontinuità tra queste opere?
Wolf Bukowski: La continuità è certamente quella di aver cercato nel cibo la manifestazione di tendenze generali. Nel racconto Il grano e la malerba si trattava della logica emergenziale, che era già allora matura; ne La danza delle mozzarelle al centro c’era la messa a reddito della vita urbana e delle “tipicità” alimentari. Come è stato possibile, per esempio, che gli amministratori di un’importante città, densa di storia e di vita, abbiano pensato di scrivere fogassa e pesto in lettere luminose sui carruggi? E cosa implica, socialmente, questo? La danza delle mozzarelle voleva essere un po’ un tentativo di spiegarmelo, e in ciò mi pare ben riuscito. Quello che il saggio sconta è invece la mia adesione di allora alle istanze di un certo “attivismo” e alla sua lettura monodimensionale della questione di classe. In quella fase storica tali istanze si riconoscevano in una sopravvalutazione delle manifestazioni sindacali dei cosiddetti “riders”, i ciclofattorini. A quella sopravvalutazione ho partecipato anche io, nonostante tra me e me continuassi a ripetermi: “queste persone certamente dovrebbero poter lavorare in sicurezza e guadagnare decentemente, ma quello della consegna a domicilio dei pasti rimane un lavoro assurdo, un lavoro che non dovrebbe esistere, e questa verità spiacevole andrà detta, prima o poi”.
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Ancora circa la questione dell’eurocentrismo
Glosse a un post di Roberto Fineschi
di Alessandro Visalli
L’autorevole interprete di Karl Marx e studioso marxista Roberto Fineschi ha scritto il 24 maggio su Facebook[1] il seguente post, che riporto integralmente:
Osservazioni in calce a dibattiti recenti su eurocentrismo, “occidente globale”, “giardini e giungle” (riprendendo alcuni passaggi da un articolo[2] su Orientamenti politici e materialismo storico).
Eurocentrismo? Anticapitalismo?
1. Nel gran parlare che si fa sul cosiddetto eurocentrismo regna a mio parere una discreta confusione nelle definizioni. In particolare quando, poi, si riferisce la questione a Marx.
Se con tale termine si intende considerare la storia del mondo universo in funzione delle prospettive ed esigenze europee, va da sé che si tratta di un pregiudizio da estirpare. Se però si entra più nel dettaglio, la questione diventa molto più scivolosa e in certi casi decisamente reazionaria.
La storia del mondo è diventata eurocentrica con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, nel senso che esso ha imposto dominio, regole, forme di sviluppo a una dinamica che prima aveva più elementi indipendenti non uniti a sistema se non per contatti marginali, mentre il capitalismo è diventata la variabile dominante che ha funzionalizzato a sé l’intero mondo. In questo senso eurocentrismo non è un mero pregiudizio intellettuale, è un processo reale di dominio e sfruttamento legato al modo di produzione capitalistico.
Tuttavia, il modo di produzione capitalistico è stato sin dall’inizio un processo contraddittorio che ha prodotto allo stesso tempo contenuti potenzialmente positivi pervertiti in forma reazionaria per la sua stessa interna dialettica. Quindi, insieme allo sfruttamento, produce anche la libertà potenziale che include produttività del lavoro, sapere razionale e scientifico, dignità universale dell’essere umano, ecc. Essere contro questi aspetti non è semplicemente insensato, è reazionario.
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La "Critica dell’ideologia fascista" di György Lukács
di Antonino Infranca*
In questo volume ripropongo due saggi pubblicati nel 1982 dall’Archivio Lukács di Budapest presso la casa editrice Akadémiai Kiadó e curati dall’allora direttore dell’Archivio László Sziklai. La stessa operazione editoriale fu compiuta, nel 1989, dalla casa editrice dell’allora Repubblica democratica tedesca, Aufbau Verlag.
Nel 1933, in seguito alla salita del potere di Hitler, Lukács scrive a Mosca, subito dopo la fuga da Berlino, un lungo saggio Wie ist die faschistische Philosophie in Deutschland entstanden?, che rimarrà inedito fino al 1982. Il libro ricostruisce la nascita dell’ideologia fascista in Germania fin dalla reazione irrazionalistica contro la filosofia hegeliana fino alla vera e propria ideologia nazista. Lukács vi analizza l’influenza di Schopenhauer e Nietzsche sull’intellighenzia tedesca sia accademica e non. Infatti sia Schopenhauer sia Nietzsche non fecero mai parte dell’accademia tedesca, che fu influenzata dalle loro filosofie più tardi rispetto a certi strati della società civile tedesca. Piuttosto sulla società civile influì la politica culturale bismarckiana o del periodo guglielmino con gli storici Treitschke e Meinecke. Lukács mette in rilievo il fatto che prestigiosi filosofi e sociologi, come Max Weber o Simmel, dell’inizio del Novecento aderirono alla cultura imperialistica bismarckiana e guglielmina, approvando – nel caso di Weber – entusiasticamente l’entrata in guerra della Germania nel 1914.
All’adesione dell’accademia tedesca alla concezione del mondo irrazionalistica seguì nel primo dopoguerra anche la debolezza della socialdemocrazia tedesca, che non seppe contrastare l’ingresso in guerra della Germania e poi intervenne per uscire dalla guerra soltanto dopo il disastroso andamento della guerra.
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Sull'idealismo di Marx
di Flores Tovo
Sebbene due grandissimi pensatori, quali Hegel e Marx, siano quasi del tutto scomparsi nelle riflessioni storico-filosofiche del presente, la loro attualità, pur nascosta, è sempre viva, anche se momentaneamente coperta dalla fuliggine del pensiero nullo.
Uno dei pochi temi ancor discussi nell’ambito di quei pensatori che si rifanno alle loro teorie riguarda il problema se Marx sia da considerare un idealista o un materialista. Un tema assai sviscerato, ma mai completamente risolto. Di solito il motivo di coloro che avversavano la filosofia di Marx era quello dovuto al fatto che ritenevano che questi fosse un materialista. Del resto spesse volte Marx si proclamava tale. Inoltre molti suoi seguaci che si rifacevano alle sue vedute e a quello del suo sodale, Engels, si dichiaravano apertamente materialisti. Tuttavia in epoca recente un filosofo da poco scomparso, che si era sempre palesato come un marxista mai pentito, ossia Costanzo Preve, aveva espresso la convinzione che Carlo Marx fosse da annoverare in linea di massima come un filosofo idealista, in quanto unico e vero erede di Hegel: il che ha scombinato gli abituali e maggioritari giudizi che appunto reputavano Marx un filosofo materialista per antonomasia. Gli argomenti che Preve ha addotto sono vari, sebbene siano incentrati in quattro punti principali che, secondo il suo parere, rivelavano l’idealismo sostanziale di Marx, ossia: 1) il concetto di alienazione; 2) il feticismo delle merci; 3) la definizione di modo di produzione e di struttura economica; 4) l’uso del principio logico di contraddizione dialettica. Si tratta allora di esaminare queste questioni, cominciando per ordine e con lo scopo di accertare se Marx sia davvero un “idealista”.
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