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Torna il “bipolarismo obbligato” fondato sulla paura
di Dante Barontini
La mattina dopo, a schede quasi tutte scrutinate, tirare le somme è un dovere. L’Emilia Romagna è rimasta al Pd e Stefano Bonaccini, rovesciando le previsioni della vigilia, ossia dei sondaggi che davano Salvini e la deriva fascioleghista trionfante.
La “marea nera” – o più banalmente la solita destra conservatrice italica, immutabile da sempre sotto il frenetico susseguirsi di liste dai nomi più diversi (c’era persino un “Popolo delle libertà” ad affiancare “Forza Italia”, come nemmeno negli sketch migliori dei fratelli Guzzanti…), ha invece prevalso in Calabria, sostituendo un’amministrazione targata Pd travolta dalle inchieste sulla ‘ndrangheta (che deve aver perciò velocissimamente cambiato cavallo…).
Il “voto nazionale” era però concentrato in Emilia Romagna, ed è su questo risultato che si deve concentrare l’attenzione per ricavarne indicazioni generali.
Intanto i numeri.
Stefano Bonaccini ha preso il 51,4%, Lucia Borgonzoni il 43,68. Il candidato grillino, Simone Benini, il 3,46.
Dietro, tutti molto sotto l’1%.
Torna il “bipolarismo obbligato”
La prima considerazione è matematica: finisce qui la breve stagione del “tripolarismo”, segnata dalla presenza dei Cinque Stelle. Si torna allo schema bipolare, fondato sulla paura. In questo la separazione ridicola dei due schieramenti in una destra e una “sinistra” è totalmente funzionale all’imprigionamento del voto popolare. Esattamente come il “poliziotto cattivo” e quello “buono” in questura: entrambi “lavorano” per mandarti in galera, ma si dividono le parti perché tu ti dimentichi che prendono lo stipendio dallo stesso ufficio.
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Il "voto utile" di utili idioti al sistema
di Gianpasquale Santomassimo
Non avevo dubbi sul risultato del ballottaggio emiliano tra le due destre separatiste. Per la straordinaria mobilitazione dell'establishment, per l'invenzione e il sostegno assicurato in forme invadenti a un movimento di giovani moderati e decerebrati, per i toni da crociata contro infedeli, renitenti e scettici, additati come potenziali traditori della civiltà. Ma il fatto stesso che si fosse arrivati a una sorta di ballottaggio non può essere rassicurante per i vincitori, che si ritroveranno tra qualche mese ad asserragliarsi nel ridotto emiliano e toscano nel quadro di un'Italia compattamente di destra.
Ma dal mio punto di vista il dato più importante è che questo risultato segna la fine della sinistra in Italia, la pietra tombale su ogni velleità di ricostruire una prospettiva che nel resto d'Europa è usuale e scontata.
Da ora in poi è evidente che il destino della sinistra è unicamente quello di portare acqua (con le orecchie, il più delle volte) alle battaglie dell'establishment, alle scelte della minoranza di benpensanti e benestanti che da tempo si è intestata la rappresentanza di ciò che chiama "centrosinistra".
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Alcuni spunti di riflessione sul voto
di Riccardo Achilli
Per i cultori della materia, ci sarà più tempo per una analisi su matrici territoriali e sociali. Alcune cose sono però evidenti:
- Salvini ha perso e anche male. In Emilia-Romagna Bonaccini ha succhiato circa due punti percentuali al centro destra con il voto disgiunto, tutto voto di destra moderata e forzista che si trovava a disagio con gli estremismi verbali del capitano, ed apprezzava la buona gestione amministrativa di questi anni; un altro punto di voto disgiunto è arrivato dal M5s (differenza voto di lista - voto al candidato) ma Bonaccini avrebbe vinto anche senza il voto disgiunto. Di fatto, la Borgonzoni è avanti solo in provincia di Piacenza, che però è proiettata sulla Lombardia, in alcune zone della Romagna, dove è più forte il radicamento leghista ed in montagna, ponendo un tema di riequilibrio territoriale. Ma il cuore emiliano, la rete di città medie e piccole di pianura, ha retto;
- non è mai corretto fare paragoni fra elezioni diverse, ma la Lega perde voti rispetto alle europee, non è più il primo partito in Emilia-Romagna, la sua candidata arranca a sette punti e passa dal vincitore e persino nella trionfale cavalcata calabrese deve cedere lo scettro di partito leader a Forza Italia.
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Passare tra Scilla e Cariddi, il nostro compito
di Alessandro Visalli
“Navigavamo gemendo attraverso lo stretto: da una parte era Scilla, dall’altra la chiara Cariddi cominciò orridamente a succhiare l’acqua salsa del mare. Quando la vomitava, gorgogliava tutta fremente, come su un gran fuoco un lebete: dall’alto la schiuma cadeva sulla cima di entrambi gli scogli. Ma quando succhiava l’acqua salsa del mare, tutta fremente appariva sul fondo, la roccia intorno mugghiava orridamente, di sotto appariva la terra nera di sabbia. Li prese una pallida angoscia. Noi volgemmo ad essa lo sguardo, temendo la fine, ed ecco Scilla mi prese dalla nave ben cava i sei compagni migliori per le braccia e la forza”.
Odissea, canto XII
Per passare indenni tra Scilla e Cariddi servono alcune cose: una nave, quindi un collettivo che abbia in sé il senso del viaggio, e una rotta. Ma bisogna anche capire bene cosa sia Scilla, il mostro con dodici zampe e sei teste che ci può prendere uno per uno, e nello stesso modo cosa sia Cariddi, il gorgo nel quale possiamo esser inghiottiti tutti. Dobbiamo sapere da dove veniamo, come siamo giunti qui, cosa abbiamo perso e cosa guadagnato.
La crisi
Tutto è partito con la crisi del modello fordista e, in modo indissolubile, della prima fase del dominio geopolitico statunitense. Una fase che si chiude con la sconfitta in Vietnam e con la crisi del dollaro-oro[1]. È in queste circostanze che tramonta il keynesismo, per quanto ‘bastardo’, e sorge l’egemonia neoliberale. Si tratta di processi lunghi e largamente interconnessi, e che si sviluppano sul piano geopolitico, economico e socio-culturale con sovrapposizioni e slittamenti[2]. La crisi egemonica si compie come intreccio di più ragioni:
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Fine di “un’era” molto breve, Cinque Stelle al big bang
di Dante Barontini
Luigi Di Maio annuncia le sue formali dimissioni da capo politico dei 5 stelle e, dice lui stesso, “è la fine di un’epoca”.
Al di là dell’auto-sopravvalutazione individuale, sempre presente in questi casi, la sua rinuncia alla guida solitaria di ciò che resta del movimento Cinque Stelle certifica una crisi che si trascinava dal momento stesso in cui il “capo politico” – definizione resa obbligatoria dalla legge elettorale in vigore, parto delle “menti sottili” di Renzi e Rosato – aveva deciso di fare un governo insieme alla Lega, nel giugno 2018. Data da allora, infatti, la corsa verso il baratro nei sondaggi e soprattutto nei risultati elettorali.
Visto che non ci interessano più di tanto i gossip politici (“si dimette, ma per tornare”, “ora si va alla leadership collettiva”, “Di Battista si scalda in panchina” e via dicendo), preferiamo concentrare l’attenzione sulla fine di una stagione e di una cultura politica che ha avuto un forte successo pur essendo palesemente inconsistente.
E’ questo il piano su cui, ci sembra, si può provare a capire quali strade seguire in futuro per costruire effettivamente un’alternativa politica al tempo stesso radicale ed efficace.
Malessere sociale e rappresentanza politica
Da quasi 30 anni – da quando si è introdotta una “logica del maggioritario” nelle leggi elettorali, in curiosa coincidenza con l’entrata in vigore dei trattati di Maastricht e dei “vincoli” lì indicati – il malessere sociale è andato crescendo.
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Un po' di storia recente per gli ignari
di Gianfranco La Grassa
1. Da qualche punto debbo cominciare questa mia breve (e fin troppo succinta) memoria della storia che abbiamo attraversato da molti decenni a questa parte. Intanto partirò da una premessa di tipo personale. Ho aderito al comunismo nel 1953. Mi trovai subito immerso nei dubbi e perplessità, direi perfino in opposizione, quando uscì l’articolo di Togliatti su Nuovi Argomenti nel 1956 con la trovata della “via italiana al socialismo”. In quell’anno fui contrario al XX Congresso del PCUS (tenutosi a febbraio) e poi ammirai l’intervento di Concetto Marchesi all’VIII Congresso del PCI (verso la fine del ’56), in cui svillaneggiò Chruščëv, il meschino ricostruttore delle vicende dello stalinismo in chiave puramente personalistica e come si trattasse del frutto di una psiche disturbata e tendenzialmente criminale; con metodo insomma del tutto simile a quello, criticato dai comunisti (almeno da quelli che conoscevano un po’ il marxismo), quando si parla di Hitler folle e “mostro”, ricostruendo la storia in base a simili fatue categorie interpretative. Ricordo che Togliatti andò a stringere la mano a Marchesi dopo l’intervento e ciò rinsaldò il mio atteggiamento critico di fronte a quello che ho sempre considerato l’opportunismo dell’allora segretario piciista. Nell’ottobre del ’56 fui senza esitazioni per l’intervento in Ungheria, non approvando però l’atteggiamento incerto dei sovietici (una prima mossa aggressiva frettolosa e poco giustificata, poi l’arresto dell’operazione, infine la repressione troppo brutale).
Accettai inoltre quel fatto per ragioni che oggi si direbbero geopolitiche. Ritenevo un disastro che si sbriciolasse il campo avverso a quello atlantico (guidato e comandato dagli Usa). Cominciai tuttavia a chiedermi quale coincidenza ci fosse tra il “socialismo” imparato sui testi marxisti e quello in atto.
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Mitologie contemporanee: Craxi e la classe politica della prima repubblica
di Franco Romanò
Parte prima
Gli anniversari sono dei passaggi importanti e anche obbligati: non stupisce quindi che il nome di Bettino Craxi sia di questi tempi uno dei più citati fra coloro che prima o poi ritornano. Il problema è come se ne parla e se ne discute e può essere molto utile farlo perché su quella drammatica stagione politica prima si torna a riflettere e meglio è. Pensando al dibattito in corso, non c’è da stupirsi che le sirene della riabilitazione abbiamo preso a suonare, in modo prima flebile poi più deciso, ma non mi sembra questa l’operazione più pericolosa in corso. Ancor più subdole, infatti, sono le sirene più alte che intonano dei peana alla Prima Repubblica, contrapponendola al degrado attuale della cosiddetta classe dirigente; infondo la totale o parziale riabilitazione di Craxi invocata da molti è un problema minore dentro quest’altro. L’argomentazione fondamentale di chi eleva peana alla Prima Repubblica è che quella classe politica era ben superiore a questa di oggi. Che tale pensiero si formi anche in ambienti che dovrebbero sentirsi imbarazzati a proporlo e che il pretesto sia il ventennale della morte di Bettino Craxi assume anche dei tratti involontariamente comici perché quella stagione segnò la fine della Prima Repubblica ed è difficile per definizione che un organismo politico in fase terminale possa essere scelto in qualche modo come esempio, seppure per contrapporlo a quella odierna. L’obiezione, in questo caso, sarebbe che c’è di mezzo la Seconda Repubblica, causa di tutti i mali: ma come è nata quest’ultima? Silenzio. Ripartiamo dunque dal problema più grande: la Prima Repubblica.
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“Bambin* del neoliberismo”
di Elisabetta Teghil
“Nella grande fucina dove, attraverso processi sempre più complessi si sta forgiando il nuovo individuo, la <creatura> del capitale, nemmeno la condizione dei bambini sfugge a quest’opera di ingegneria sociale. Anzi, è il capitale, in un certo senso, ad inventare l’infanzia, almeno come la viviamo noi.”
S.Federici e L. Fortunati, Il grande Calibano, Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale, Franco Angeli, 1984
C’è un’attenzione spropositata in questa società e in questo periodo storico nei confronti dei bambini e degli adolescenti. Ma facciamo un passo indietro. Nei periodi storici precedenti al capitalismo, attuando chiaramente una semplificazione necessaria, l’adultizzazione dei bambini avveniva precocemente. Nel medioevo adulti e bambini non erano poi così diversi fra loro e il passaggio del bambino dal mondo dei piccoli a quello dei grandi era molto precoce. Lo confermano, ad esempio, varie leggi riguardanti l’età minima per il matrimonio e per l’entrata nel mondo del lavoro. I bambini venivano inseriti nel mondo degli adulti appena potevano fare a meno della madre, cioè verso i sette anni circa e a dieci anni aiutavano già gli adulti in qualsiasi tipo di attività. Praticamente, a questa età, i bambini dovevano guadagnarsi il pane, ma non nel senso di sfruttamento del lavoro minorile come lo intendiamo noi, nel senso proprio che ormai facevano parte della comunità degli adulti. D’altra parte anche il modo di pensare di adulti e bambini non era molto distante, cioè l’infanzia non aveva prerogative particolari né tra i servi né tra i padroni.
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Pensioni: muleta e controfuoco
di Louis Colmar
«Chi non lavora non mangia. Ecco qual è l'imperativo demagogico che pretende di risolvere la questione, limitandosi semplicemente a mettere in relazione il diritto di mangiare con l'obbligo di lavorare. Quella che dev'essere posta, invece, è la questione della relazione tra il diritto di mangiare e quello di non lavorare (ammesso e non concesso che sia lecito fare uso della vuota ed astratta concezione di «diritto»). Mentre la natura carnale dell'uomo esige che egli si nutra, la sua natura spirituale gli impone, forse in maniera ancora più imperiosa, di non lavorare in modo da potere così giocare e dedicarsi alla contemplazione. Bisognerebbe parlare di un diritto al non lavoro piuttosto che di un "diritto al lavoro"». (Giuseppe Rensi, 1923).
Ovviamente, il senso dell'attuale progetto [di Macron, in Francia] relativo alle pensioni non è certo quello di porre in atto un «diritto al non lavoro», ma piuttosto quello di perfezionare la ricostruzione e l'adattamento del vincolo politico del lavoro finalizzandolo alle nuove condizioni economiche della crisi della globalità capitalistica. Nel corso della presentazione del contenuto di questo progetto di riforma, il mondo dei media, all'unanimità, ha sottolineato un presunto errore strategico commesso dal Primo Ministro, che, alzando di due anni l'età minima pensionabile, per poter andare in pensione senza decurtazioni, avrebbe accidentalmente contrariato il suo principale sostegno sindacale. Al contrario, però, si tratta di una strategia deliberata: la cosiddetta tecnica della "muleta", che consiste nel distogliere l'attenzione del toro della protesta sociale agitando un'enorme drappo rosso, in modo da focalizzare l'attenzione sull'età del pensionamento, e permettere così che possa passare quello che è il cuore della riforma, vale a dire la riduzione globale dell'erogazione dell'importo monetario delle pensioni per mezzo di un sistema per così dire a punti.
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Gli ultimi bagliori del neoliberismo ovvero “lo struzzismo economico” al tramonto (si spera)
di Antonio Carlo
ALBERTO MINGARDI, La verità vi prego sul neoliberismo, Marsilio, Venezia, 2019, pp. 398
ALBERTO ALESINA, CARLO FAVERO, FRANCESCO GIAVAZZI, Austerità quando funziona e quando no, Rizzoli, Milano, 2019, pp. 343
Entrambi i volumi qui analizzati sono l’espressione più chiara di quello che chiamo “lo struzzismo economico” o accademico, che consiste nel nascondere la testa davanti ad una realtà inguardabile. Tale fenomeno concerne non solo larga parte delle teorie economiche, ma anche la statistica: così fingiamo di credere che in USA i disoccupati siano solo 5-6 milioni, mentre i 24-40 milioni di scoraggiati che lavoro non lo cercano più perché sono disperati, non vengono considerati disoccupati ma inattivi o uomini persi, e cioè scomparsi dalle statistiche della forza lavoro; inoltre accettiamo tranquillamente che venga considerato occupato chi il lavora anche un’ora alla settimana, come l’operaio a tempo pieno dell’industria o il pubblico dipendente1. Inoltre dal 2010 parliamo di ripresa nei paesi avanzati (che detengono la gran parte della ricchezza mondiale) anche se assai spesso l’incremento del PIL non basta neanche a pagare il peso degli interessi sul debito pubblico , un debito pubblico nel quale non conteggiamo spessissimo il debito del settore della previdenza, dell’assistenza e della sanità2.
Quando i problemi che la realtà pone appaiono irresolubili il contegno del sistema consiste nel nascondere la testa sotto la sabbia.
Il primo dei volumi qui analizzato difende il neoliberismo che non è responsabile di tutti i mali del mondo; ovviamente il vero responsabile è il capitalismo nel suo complesso, nell’ambito del quale il neoliberismo è solo una pessima teoria economica i cui difensori hanno legittimato anche le dittature di Pinochet e di Videla.
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Franco Fortini e le negazioni a basso prezzo
di Emiliano Alessandroni
Intervento presentato al convegno «…un intellettuale, un letterato, dunque un niente». Eredità di Franco Fortini, a cura di Salvatore Ritrovato, Antonio Tricomi e Riccardo Donati, Urbino, 21 novembre 2017
I. Intellettualismo e Negativo astratto
In tutte le sue battaglie di ordine filosofico e teorico/letterario, Franco Fortini non si è mai stancato di mettere in risalto la disposizione al negativo, dunque al conflitto, che contraddistingue le avanguardie artistiche: «nel termine stesso di avanguardia», sottolineava, vi è una «analogia di carattere militare». Si trattava, in sintesi, di riconoscere un nemico, «stabilire due fronti, cioè suscitare l’avversario, determinarlo, e così bloccarlo».1
Tali correnti estetiche tendono quindi a irrompere dentro il dibattito pubblico assumendo le vesti di una negazione radicale. Ma «una negazione», aggiungeva, di carattere tutto spirituale, concepita interamente «nell’ordine della volontà e della persuasione»,2 confinata, pertanto, entro i tracciati che delimitano la dimensione del soggetto.
La prospettiva e il linguaggio qui adottati sembrano rinviare direttamente a Hegel. Questi, invero, tanto nella piccola quanto nella grande Logica, aveva denunciato l’illusorietà di quel «Negativo astratto (Abstrakt-Negativ)»3 che, frutto di arbitri individuali, non possiede alcuna relazione con l’oggettività e le forze immanenti del processo storico reale:
Nel fatto, quando il negativo non esprima altro che l’astrazione di un arbitrio soggettivo, oppure una determinazione di un confronto estrinseco, certamente esso non esiste per l’oggettivo positivo, vale a dire che questo non è in lui stesso riferito a una tal vuota astrazione; ma allora la determinazione di essere un positivo gli è parimenti soltanto estrinseca.4
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Cinquant’anni di storia di classe
Sergio Bologna
Francesco Massimo
Niccolò Serri
Dall'Autunno caldo del 1969 alle lotte contemporanee nei settori della logistica, passando per la parabola del lavoro autonomo nella società postfordista. Un filo rosso di ricerca militante che Sergio Bologna ripercorre in questa intervista
Sergio Bologna (Trieste, 1937), militante, storico di formazione, fondatore di riviste importanti come Classe Operaia e Primo Maggio, dipendente alla Olivetti, esperto di sistemi portuali e logistici in Germania, Francia e Italia, e poi ancora fra gli animatori di Acta, la più importante associazione italiana di freelance, è una figura atipica nel mondo intellettuale italiano ed europeo. Lungo la sua traiettoria politica e biografica si dipana un filo rosso: lo studio del lavoro, delle sue trasformazioni e del suo posto nella società. Il suo incessante lavoro di ricerca può essere ricondotto a tre grandi direttrici: lo studio del movimento operaio, da quello tedesco a quello italiano, vissuto in prima persona da militante e da storico e su cui è tornato a riflettere in tempi più recenti; l’intuizione, negli anni Settanta, dell’importanza crescente della logistica nello sviluppo del capitalismo contemporaneo, vista anch’essa da una prospettiva militante (si veda in particolare il Dossier Trasporti di Primo Maggio, 1978) e più tardi con lo sguardo dell’esperto e del tecnico; infine la scoperta, a partire dagli anni Novanta, del lavoro autonomo nella società postfordista, parallelamente a un attivismo che negli ultimi anni lo ha portato a studiare e a intervenire direttamente sulle problematiche del lavoro freelance. In questa intervista ripercorriamo la sua traiettoria, esplorando i possibili prolungamenti.
* * * *
Si è appena concluso il cinquantennale dell’«Autunno caldo», la grande ondata di scioperi che nel 1969, in coincidenza con le mobilitazioni per il rinnovo contrattuale degli operai metalmeccanici, ha aperto un ciclo di lotte sociali che ha radicalmente mutato la faccia dell’Italia che usciva dal miracolo economico.
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Iran sotto attacco tra imperialismo e dinamiche sociali
di Nicola Casale, Raffaele Sciortino
La recente, nuova crisi delle relazioni tra Stati Uniti e Iran - innescata dall’omicidio preventivo di Soleimani e tutt’altro che conclusa nonostante la de-escalation in corso - permette di aggiornare lo stato di tre questioni cruciali. Innanzitutto, che cosa ci dice dello scontro dentro gli apparati di potere statunitensi in relazione alla direzione da dare alla politica estera? Secondo, le tensioni in Medio Oriente sono arrivate a un punto di rottura, e in che modo esse rispecchiano quelle globali? Infine, in che rapporto stanno lo scontro geopolitico e le dinamiche sociali, non solo in quel quadrante ma in termini più generali laddove le mobilitazioni sociali si confrontano con la realtà della pressione/intromissione imperialista? Di seguito alcuni spunti per una prima, parziale risposta.
Incontri ravvicinati in Medio Oriente
Ovviamente non sappiamo come siano andate effettivamente le cose nel momento in cui Trump ha “deciso” di alzare il livello dello scontro infliggendo un colpo duro quanto inaspettato alla dirigenza iraniana. Si possono comunque avanzare due ipotesi plausibili, rispettivamente sul perché della specifica decisione e sulla dinamica interna agli alti livelli dell’apparato statale yankee.
Sul primo versante, è plausibile che l’attacco statunitense abbia mirato a interrompere i canali di comunicazione apertisi tra Teheran e Riyadh, mediati dal governo dell’ex primo ministro irakeno Abdul-Mahdi, eliminando fisicamente lo stratega di parte iraniana di un rapprochement che, se realizzato, sconvolgerebbe letteralmente i rapporti di forza nell’area mediorientale a tutto svantaggio di Washington (qui e qui)1.
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Francia, a che punto è la protesta contro la riforma delle pensioni
di Giulia Giogli
Cinque settimane di sciopero e nessuna prospettiva di porre fine alla crisi a breve termine. Descrizione dettagliata della riforma e delle posizioni delle diverse organizzazioni in lotta
Mentre il movimento sociale contro la riforma delle pensioni entra nel suo 46 ° giorno di manifestazioni, il testo “due in uno” - un disegno di legge ordinario e un disegno di legge organico – sarà presentato al Consiglio dei ministri il 24 gennaio prima di essere esaminato dall'Assemblea nazionale dal 17 febbraio.
La riforma
Mercoledì 11 dicembre Edouard Philippe, il Ministro degli Interni, ha illustrato le linee generali della futura riforma delle pensioni. Nel complesso ha confermato l'architettura del futuro piano pensionistico "universale" che rappresenta la misura di punta del programma presidenziale di Emmanuel Macron durante la campagna presidenziale del 2017 e delineato nel rapporto Delevoye pubblicato a luglio.
Nel corso delle ultime settimane, il Ministro degli Interni si è concentrato sul fornire risposte a domande che finora sono state lasciate a grandi incognite e che hanno sollevato enormi malumori nella società civile, riversandosi nei più lunghi scioperi che la Francia abbia mai conosciuto, facendo anche chiarezza su alcune aree della riforma, compreso il suo calendario per l'attuazione. Ma quali sono i principali punti della riforma?
Creare un unico piano pensionistico "universale"
Attualmente esistono quarantadue piani pensionistici, ciascuno con le proprie regole. Emmanuel Macron si è impegnato durante la campagna presidenziale del 2017 a creare un “sistema pensionistico universale in cui un euro conferito dia gli stessi diritti” a tutti.
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Su Craxi
di Gianpasquale Santomassimo
Mi pare di capire che il film di Amelio, per le sue caratteristiche, non è in grado di suscitare una riflessione di carattere storico su personalità e ruolo di Bettino Craxi.
Vedo ribaditi in rete giudizi consolidati, che appartengono al tempo della battaglia politica dell’epoca che sancì la sua eliminazione dalla vita politica.
La riduzione della sua vicenda a pura cronaca criminale di corruzione e malversazione, da un lato, e dall’altro la difesa acritica del suo operato, in nome di un malinteso “orgoglio socialista” che non sa interrogarsi a fondo sulla distruzione di una grande tradizione politica e ideale, che non avvenne esclusivamente ad opera di agenti esterni.
Eppure il tempo trascorso dovrebbe favorire almeno lo sforzo di un giudizio equanime su una figura che ebbe un enorme rilievo nella vita politica italiana.
Premetto che detestavo Craxi, per molte ragioni, politiche, culturali, addirittura antropologiche (non tanto lui, su questo piano, quanto il mondo che attorno a lui si era creato). Però sono passati vent’anni dalla sua morte, e chi si occupa di storia deve cercare di distaccarsi, pur ricordandoli, dai giudizi del tempo.
E inoltre - fatto non secondario - perché abbiamo visto all’opera i suoi nemici, che conquistarono il potere anche attraverso le forme della sua eliminazione.
Più che altro vorrei suggerire, ripromettendomi di tornarci sopra in maniera più distesa, alcuni filoni di discussione e di ragionamento.
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Monete complementari: una critica
di Leonardo Mazzei
Commentando un mio articolo sui CCF (Certificati di Credito Fiscale), un nostro lettore — Dianade — così scriveva il 6 gennaio scorso:
«Lo so che c'é tanta informazione in rete su minibot e CCF, però che io sappia non c'é nessuno studio che faccia dei raffronti e spieghi le differenze tra l'uno e l'altro e tutte le implicazioni.
E non solo tra questi due, c'é anche la proposta di Mazzei dei BTP famiglia, c'é quella di Conditi, di Zibordi, la moneta parallela, etc. Io non mi ci raccapezzo. Credo che anche molti altri».
Senza nessuna pretesa di completezza, tantomeno dal punto di vista tecnico, proverò a dare una risposta a questa giusta domanda di Dianade.
Prima di entrare nel merito voglio però ricordare due cose. In primo luogo, la mia critica ai sostenitori dei CCF nasce dalla loro recente, ma rivelatrice proposta di mandare Mario Draghi a Palazzo Chigi, incoronandolo come Re Salvatore del Paese. In secondo luogo, chi scrive non è affatto contrario all'idea di una moneta complementare, ma non pensa proprio che la si possa realizzare senza infrangere le regole europee e senza scontrarsi con l'oligarchia eurista al gran completo. Rimando dunque a quanto ho scritto nell'articolo della settimana scorsa:
«Senza dubbio — non entrando qui nel merito delle sue possibili forme — essa (la moneta complementare) potrebbe rivelarsi utile e per certi aspetti addirittura necessaria. Ma utile e necessaria solo nel quadro di un percorso che ci porti alla vera sovranità monetaria, cioè all'uscita dall'euro».
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Austerity sfruttamento alienazione suicidio
di Stefano Lucarelli
“Colpisci il passato al cuore, le illusioni di sempre …
Abbatti il futuro, se non ti appartiene”[1]
0. Ci sono parole che richiamano dei precisi stati d’animo estremamente duri da sopportare. Parole che investono l’esistenza sebbene la nostra mente sia propensa a metterle in disparte, abile come è a imporsi compiti apparentemente più urgenti, guidata dall’esigenza della razionalità, dalle necessità del momento o assuefatta dalla stanchezza. Eppure quegli stati d’animo stanno là, inamovibili, come inamovibili sono le condizioni che li determinano e che ci spingono verso un futuro che tendiamo ad accettare in modo inesorabile. I contenuti di alcuni libri usciti negli ultimi tempi, tra l’agosto 2018 e il gennaio 2020, offrono l’opportunità di una riflessione attorno a quattro parole pesanti – austerity, sfruttamento, alienazione, suicidio. Parole che possono gettare una luce sui nostri stati d’animo più reconditi.
1. Why auserity persists? Questa domanda sfiancante, che può suscitare noia o disperazione, a seconda della condizione delle nostre esistenze, è il titolo di un recente libro di Jon Shefner e Cory Blad (Polity Press, 2020). Shefner e Blad, sociologi impegnati rispettivamente nella University of Tennessee e al Manhattan College, analizzano diversi casi studio nel corso degli ultimi 45 anni, proponendoci una storia dell’austerity, intendendola – qui sta il punto di massimo interesse – come vero e proprio modo di regolazione, un insieme di politiche volte a governare diverse tipologie di crisi realizzando, o meglio imponendo, delle nuove strutture istituzionali.
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La New Class del neoconservatorismo e la de/legittimazione del capitalismo americano
di Matteo Battistini*
Abstract. Il saggio presenta il dibattito statunitense sulla new class quale categoria politica che ha fatto da perno all’ascesa del neoconservatorismo, alla scrittura pubblica del discorso dei neoconservatori – in particolare Daniel P. Moynihan e Irving Kristol – e alla loro strategia volta ad aggredire le fondamenta scientifiche e politiche dell’ordine liberal del capitalismo americano che fra anni Sessanta e Settanta non trovava più nella middle class la parola pubblica che aveva messo a riposo il conflitto sociale e politico degli anni Trenta alimentando il consenso del secondo dopoguerra. Nel discorso neoconservatore, anche in dialogo con il neoliberalismo, new class individuava un «nemico ideologico» che andava disciplinato in favore del capitalismo ovvero educato al rispetto dell’autorità – della società e del suo fondamento morale, del mercato e delle sue gerarchie – che i movimenti sociali stavano contestando
L’obiettivo del saggio è presentare alcuni lineamenti del dibattito statunitense sulla new class in quanto categoria che ha fatto da perno all’ascesa politica e culturale del neoconservatorismo. Se la letteratura scientifica ha inquadrato la new class nel campo semantico delle scienze sociali per comprendere la trasformazione del capitalismo in senso postindustriale, nella storiografia non ha destato particolare attenzione1. È invece convinzione di chi scrive che costituisca una nozione essenziale del neoconservatorismo e del suo dialogo con il neoliberalismo, in particolare nel discorso pubblico e nell’azione politica di due figure rilevanti del movimento neoconservatore: Daniel P. Moynihan – autore del famoso Report on Negro Family che inaugurava una diffusa e aspra discussione nazionale sul welfare state – e Irving Kristol – l’intellettuale newyorkese formatosi negli anni Trenta nell’ambiente troztskysta e considerato the godfather of neoconservatism2. In questo senso, pur facendo riferimento ad altre importanti firme del discorso neoconservatore come Norman Podhoretz e Michael Novak, il saggio non vuole essere esaustivo, ma intende fornire alcune tracce per future ricerche.
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Le ingannevoli innovazioni dell’industria 4.0
di Renato Turturro
L'uso dei braccialetti elettronici viene propagandato come utile a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma in realtà ne aumenta lo sfruttamento e il controllo
La tecnologia di produzione è quindi determinata due volte dalle relazioni sociali di produzione: in primo luogo, è progettata e messa in opera secondo l’ideologia e il potere sociale di coloro che prendono queste decisioni; e in secondo luogo, il suo effettivo utilizzo nella produzione è determinato dalle vicissitudini delle lotte tra le classi nei luoghi di produzione. (David Noble,1986)
Mentre la scorsa estate si verificavano gli ennesimi infortuni mortali nei campi e in edilizia, uno dei principali giornali riportava «Bracciale elettronico in cantiere: Così proteggiamo gli operai» riprendendo le dichiarazioni dell’Assessore regionale allo Sviluppo Economico Alessandro Mattinzoli. Le dichiarazioni facevano seguito alla delibera della Regione Lombardia (Dgr n. 2048 del 31.07.2019) dedicata alla sicurezza sul lavoro. La delibera prevede l’avvio di un progetto sperimentale in due cantieri nel bresciano, dove verranno impiegati dei braccialetti elettronici fino a giugno 2020. L’obiettivo è «monitorare la salute e la sicurezza dei lavoratori con strumenti e metodi digitali». Elaborato dalla Camera di Commercio di Brescia e in particolare dall’Ente Sistema Edilizia Brescia (Eseb), in collaborazione con l’Università degli studi di Brescia e l’Università di Verona, per un costo di 100mila euro, quello che la Tesco (settore logistico) aveva sperimentato in Inghilterra nel 2009, sembra diventare realtà anche in edilizia.
Ad aprile 2018 la Fca di Melfi introdusse degli esoscheletri per «sollevare con facilità fino a 15 kg e monitorare lo sforzo degli operai addetti a operazioni di movimentazione pezzi ripetute nel tempo» ma ad oggi, si guarda bene dal mettere in discussione l’intera metodologia di valutazione Ergo-Uas adottata nei suoi stabilimenti.
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Il libro insostenibile. Breve difesa di La distruzione della ragione
di Mimmo Cangiano
tende a questo fine: dedurre dalla gnoseologia l’«eternità» della società capitalistica
György Lukács
Esiste un motivo centrale e ricorrente, un topos spesso ignorato, che attraversa la letteratura, il cinema, e più in generale un gran numero delle più svariate macchine narrative tardo-ottocentesche e novecentesche. Si manifesta quando, durante la lettura o la visione, all’improvviso l’autore ci svela che le azioni di un personaggio, fatte per ragioni dichiarate come ideologiche, etiche o connesse a una sfera comunque idealistica, collegate soprattutto a motivazioni storiche, collettive, sono in realtà eseguite per puri scopi e motivi personali (siano questi abietti o nobili ora non è importante). È un momento fondante nella ricezione di un plot. È il momento in cui il personaggio si abbassa al livello del fruitore, e il fruitore può riconoscere nel personaggio se stesso. Qui il lettore liberale sorride tranquillizzato, rassicurato nella sua coscienza che niente di collettivo sia realmente possibile, che dietro le grandi narrazioni, dietro i punti di vista totalizzanti, e finanche dietro la Storia, non vi sia altro che l’individuo, coi suoi obiettivi, bisogni e desideri: inevitabilmente separato dai suoi simili. Quel sorriso, per dirla con Gramsci, è il ghigno di Gwynplaine, perché è il momento in cui l’alienazione del lettore dai suoi simili trova conforto, tristissimo conforto, nell’alienazione del personaggio, elevato a simbolo di una condizione che al nostro immaginato lettore liberale neanche appare più storica, ma quasi naturale: questi siamo, “questo schifo qui”, dice se è in fase pessimista o se ha digerito male, il resto è ideologia.
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Crisi, Mes e conflittualità interimperialistica
di Francesco Schettino
Il MES è lo strumento del capitale europeo per difendersi dalla concorrenza e scaricare i costi delle ristrutturazioni sui lavoratori. Ecco perché
La questione del Mes in pillole
Cavalcando il puledro del nazionalismo ormai palesemente vincente in larga parte d’Europa, l’estrema destra italiana ha colto l’occasione della cosiddetta riforma del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per gridare all’ennesimo schiaffo da parte della Germania verso l’Italia e i “poveri” paesi del sud del continente – tentando così di racimolare qualche voto in più in vista delle varie tornate elettorali locali che la vedranno principale attrice.
Prima di tentare di capire come si colloca nella fase attuale e perché una lettura “locale” è giustamente coerente con un quadro proprio delle “teorie” nazionaliste, mentre è incompatibile con una visione di classe dei fenomeni economici, sembra corretto, senza alcuna velleità di essere esaustivi, data la brevità del saggio, almeno descrivere sinteticamente di cosa si tratta.
Per dirla in parole molto semplificate, il Meccanismo europeo di stabilità, come lo stesso acronimo suggerisce, nasce nello stesso ambito politico economico del processo di integrazione politica ed economica iniziato sostanzialmente negli anni ‘90 con il famoso patto di Maastricht, passando per l’adozione della valuta unica tra la fine dello stesso decennio e l’inizio del nuovo millennio, attraversando l’esplosione della crisi post 2008, l’imposizione della disciplina del pareggio di bilancio e il fallimento ellenico “gestito” dalla troika intorno all’anno 2012.
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L’ultima geopolitica: tra Leviatano e Behemoth
di Giorgio Gattei
1. Racconterò una favola, quella del Leviatano che lotta contro Behemoth. Al giorno d’oggi non va di moda il termine favola, che appare disdicevole, e si preferisce parlare piuttosto di “narrazioni” che risulterebbero necessarie per imbrigliare il disordine del mondo in una maniera comprensibile che possa essere di guida al comportamento politico più acconcio. E siccome adesso ci si è convinti che anche l’economia è un tipo di narrazione, e quindi è anch’essa una “favola”, partirò dalla favola economica che più grande non ce n’è, quella che racconta dello sfruttamento del lavoro salariato da parte dei capitalisti percettori di profitti, rendite ed interessi, quale è consegnata nelle pagine straordinarie del Capitale di Karl Marx.
Questa “favola” ha riscosso così tanto successo in passato (ma oggi non più di tanto) che da essa sono derivate altre narrazioni altrettanto favolose, come quella del Partito che, baciando la classe operaia addormentata, la risveglierebbe a volontà rivoluzionaria, oppure quella della caduta del saggio del profitto che, nel racconto del Capitale, dovrebbe svolgere la medesima funzione conclusiva del Crepuscolo degli dei nell’Anello del nibelungo di Richard Wagner. Ma dal Capitale è uscita fuori anche la favola dell’imperialismo per opera di quel grande narratore russo che si faceva chiamare Lenin (che però non è il suo vero nome): siccome i soggetti capitalistici sono plurimi, essi competono nell’arena del mondo sotto forma di Stati-nazione che cercano di accaparrarsi commercialmente, e anche militarmente qualora non basti, le maggiori aree di sfruttamento. E proprio così non era successo all’inizio del Novecento quando la competizione imperialistica, fino ad allora mantenutasi aggressiva ma pacifica, era sfociata nel grande macello della guerra mondiale del 1914-1918.
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Il business 5G, problema ancora troppo sottovalutato
Aspetti normativi e pericoli per la salute
di Rosanna Suozzi* e Arturo Raffaele Covella**
Lo scrittore statunitense Jonathan Franzen, nella sua recente raccolta di saggi, asserisce che “La tecnologia digitale è un capitalismo in iperguida, che inietta la sua logica del consumo e della promozione, della monetizzazione e dell’efficienza in ogni minuto della nostra vita” ……“Forse l’erosione dei valori umani è un prezzo che la maggioranza delle persone è disposta a pagare per la comodità gratuita di Google, il conforto di Facebook e la fidata compagnia di un iPhone” (pagina 72) La fine della fine della terra”, di Jonathan Franzen, Einaudi, 2019.
Che sia un precipuo interesse, puramente economico, è evidente anche da quanto emerso nel corso della prima riunione del Consiglio dei ministri del governo Conte bis. In quella occasione, infatti, il nuovo esecutivo ha attribuito, ipso facto, piena facoltà, sulle operazioni di ben quattro società, relativamente agli accordi con Huawei e altri operatori extra-Ue, con l’obiettivo di tutelare la sicurezza nazionale.
In pratica, siamo di fronte all’attivazione del cosiddetto “golden power” (letteralmente potere d’oro, in realtà particolari poteri, fruibili dal governo italiano, per rafforzare e proteggere una società che ha rilevanza strategica nazionale) che configura “l’esercizio dei poteri speciali esteso ai settori cosiddetti ad alta intensità tecnologica” (DL16 ottobre 2017, n.148 (convertito con modificazioni dalla legge 4 dicembre 2017, n.172). Si delineano, pertanto, precisi intrecci tra presunta sicurezza nazionale e business allo stato puro, allettando così operatori e partner extra-europei ad entrare nella rete 5g italiana.
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L'automazione digitale: come liberarsi da un'impostura
di Roberto Ciccarelli*
Qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata basta per generare una rappresentazione del futuro simile alla magia. Ogni like su Facebook, ogni acquisto su Amazon, ogni ricerca su Google sembrano vendere un sogno per cui droni, servizi online e automi possono soddisfare i desideri dei consumatori e diventare più umani degli umani. Quanto agli uomini saranno liberati dai loro errori, contraddizioni e conflitti, ovvero da loro stessi. A questi esseri si assegna il ruolo di trasformare la società in un mercato ideale senza forza lavoro. L’esempio che, più di altri, viene fatto per rappresentare la fine della forza lavoro come produttrice di ricchezza è la macchina Google che si guida da sola. Le sue imprese sono raccontate periodicamente al pari del miglioramento della ricerca sui droni. Il congegno è la promessa simbolica per i guidatori della classe media di essere sollevati dalla fatica di viaggi di ore verso l’ufficio all’altro capo della città, ottenendo in cambio l’accesso allo stile di vita dei ricchi e dei famosi che possono contare su uno chauffeur personale. Solo che questi “ricchi” sono meno dell’1% della popolazione mondiale e saranno sempre di meno, mentre la classe media che dovrebbe usufruire delle prestazioni di questo veicolo è spinta sempre più in basso. Si prefigura così un futuro dove le macchine si guideranno da sole, mentre la maggioranza degli umani andranno a piedi perché non saranno in grado di acquistarle. Questo dettaglio sfugge molto spesso alla futurologia della Silicon Valley. Più forte è la suggestione di un’automazione depurata dai limiti umani.
Lo chauffeur di Google è un esempio delle automazioni che sostituiranno la forza lavoro: perché far lavorare una persona in carne e ossa se un robot svolge le stesse mansioni senza obiezioni?
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Colonialismo, Berlino 1885- Berlino 2020: è il turno della Libia
di Fulvio Grimaldi
Bombe inesplose tra Tehran e Tripoli
Le notizie-bomba che vi nascondono sono: 1) Un cyberattacco USA che con ogni probabilità, secondo il NYT, nella notte dell’8 gennaio ha abbattuto il Boeing 737-800 ucraino sopra Tehran, con i suoi 176 passeggeri ed equipaggio e che forse darà il via alla battaglia finale tra patrioti e vendipatria iraniani; 2) Il generale Soleimani, che aveva lo status diplomatico, era in missione di pace con piena consapevolezza USA. Era stato invitato a Baghdad dal premier iracheno Abdul Mahdi per mediare nella contesa tra Iraq e Arabia Saudita. Gli americani ne erano al corrente e ne hanno approfittato per allestire la trappola e ucciderlo. 3) il regime fantoccio dei Fratelli musulmani a Tripoli, difeso dagli stessi tagliagole Isis e Al Qaida che, per conto Usa-Nato-Turchia, hanno imperversato in Siria, Iraq, Nigeria e a cui corrono in soccorso gli sponsor neocolonialisti che pretendevano di combatterli. Allora servivano a frantumare Siria e Iraq, oggi li si impiega per spartirsi la Libia, come si progetta dai convenuti a Berlino.
Si abbattono torri, si abbattono aerei....
La prova degli occultamenti relativi all’abbattimento dell’aereo sopra Tehran nella notte della risposta iraniana all’assassinio del generale Qassem Soleimani, viene pubblicata nientemeno che dal New York Times, standard aureo del giornalismo imperiale e guerrafondaio. Pur di vantarsi di un crimine riuscito, a volte i suoi apologeti si scordano della riservatezza. Di Libia e degli irresponsabili e fieri sguatteri Nato, Conte, Di Maio e Guerini, che cianciano di interventi più o meno armati, più o meno nazionali o internazionali, parliamo dopo.
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