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Le oscillazioni del mondo. Alcune note sull’ultimo libro di Jérôme Baschet
di Michele Garau
L’ultimo libro di Jérôme Baschet è stimolante e puntuale. Una riflessione mossa dall’urgenza ma non volatile. Bisogna francamente ammettere che è difficile dire se nell’incedere dell’analisi le considerazioni realizzabili prevalgano sempre sulle ricette illusorie per «osterie a venire», se il salto dai basculements del colosso dell’«Economia» ai sentieri per uscirne sia sempre convincente.
In alcuni passaggi l’impressione di una scorciatoia e di un’eccessiva semplicità si impone con forza. Fatto sta che questa stessa doppiezza dello slancio «utopico» è di per sé significativa ed importante. Una doppiezza che riguarda il suo difficile situarsi tra un gesto necessario – scrollarsi di dosso la fossilizzazione soffocante di un presente perpetuo che si presenta senza via di fuga – ed il perenne rischio «ingegneristico» che ha così pesantemente tarato i socialismi classici. Non rinunciare a focalizzare il futuro senza cedere alla tentazione di programmarlo: tale è un po’ la scommessa.
Questo problema della temporalità, di aggiungere una critica del «presentismo» capitalistico a quella verso gli inganni del progresso, è un po’ la cifra del lavoro di Baschet in questi anni, ma è anche un condensato ineludibile di quel che si para davanti ad un’intelligenza rivoluzionaria del mondo. Un primo merito di Basculements. Mondes émergents, possibles désiderables, è quello di affrontare questioni di portata enorme con una concretezza sorprendente, e non è poco.
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L’emergenza sanitaria e gli emuli di don Ferrante
di Eros Barone
L’esperienza della guerra, come l’esperienza di qualsiasi crisi nella storia, come qualsiasi grande disastro o qualsiasi svolta nella vita d’una persona, mentre istupidisce e abbatte gli uni, educa e tempra gli altri […] A volte si è riflettuto poco sul fatto che gli stessi avvenimenti che istupidiscono e abbattono certe correnti politiche ne educano e temprano altre.
Lenin, Il fallimento della Seconda Internazionale.
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Le distorsioni cognitive di una critica reazionaria della razionalità scientifica
Quasi 130.000 persone in Italia, oltre 4 milioni nel mondo – molte ma molte di più in numeri reali, ovunque superiori a quelli registrati – si sarebbero vaccinate volentieri se solo ne avessero avuto la possibilità. Sono morte anche perché non l’hanno avuta. È bene partire da questo dato drammatico nell’affrontare la polemica sulla vaccinazione, sull’obbligo della stessa, sul cosiddetto green pass. È il principio di realtà che le manifestazioni in corso contro la “dittatura sanitaria” rimuovono con disinvoltura, spesso con cinismo. Ma cosa c’entra tutto questo con il rifiuto dell’obbligo vaccinale nella sanità e nella scuola? Se il governo lo usa come schermo per nascondere la propria politica sarà una ragione in più per denunciare il governo, non per contrastare la vaccinazione. Tanto più in due settori che per ragioni diverse sono strategici al fine di combattere la pandemia, e dove la vaccinazione è strumento di protezione innanzitutto per chi ci lavora, come mostra la tragica moria di personale sanitario mandato allo sbaraglio sul fronte Covid nell’esperienza di un anno fa.
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Sulla mobilitazione contro il lasciapassare. Primi appunti
di Il Rovescio
È piuttosto evidente che la questione di cosa dire e fare contro il “green pass”, di come rapportarsi con la gente che sta scendendo in strada contro questa misura di discriminazione, di controllo e di ricatto, non è separabile da cosa si pensa – e da cosa si è fatto a proposito – dell’Emergenza Covid-19 in generale. Le vere e proprie perle di allineamento servile e di imbecillità che si stanno regalando a sinistra e all’estrema sinistra non arrivano inaspettate. Così come solo coloro che non si sono accorti che un mondo gli è passato a fianco si chiedono improvvisamente chi è, da dove esce e che cosa vuole tutta questa gente. Si strilla alle “piazze reazionarie” senza nemmeno un minimo di imbarazzo nel trovarsi nello stesso coro di banchieri, industriali, generali della Nato, giornalisti di regime, ministri degli Interni, scienziati di Sua Maestà… Il pericolo del “fascismo” (tranquilli: la democrazia basta e avanza), non lo si vede nell’azione dello Stato e di una classe dominante che colpisce compatta, ma nelle presenze di estrema destra ad alcune manifestazioni contro il lasciapassare. Come se i passi avanti della potenza coercitiva dello Stato in nome della “salute collettiva” fossero “neutri” rispetto al conflitto di classe nel suo insieme; come se il silenzio-assenso sulla discriminazione sociale e lavorativa di chi non vuole vaccinarsi non oliasse la stessa macchina che attacca i lavoratori che resistono ai licenziamenti, i rivoluzionari, e tutte le lotte.
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“L’essenza, per le fondamenta”. Intervista ad Ascanio Bernardeschi
a cura di Alessandro Testa
Il problema vero è il partito: senza un partito effettivamente internazionalista e rivoluzionario, i comunisti sono tali solo idealmente, in quanto manca lo strumento per “abolire lo stato di cose presente”
Ascanio Bernardeschi si è a Siena con la tesi "La teoria della crisi economica nel sistema di analisi di Marx”. La tesi venne premiata dalla rivista del Pc "Politica ed economia". Militante della Fgci e poi Pci dal 1963 fino allo scioglimento del partito. Ha aderito subito a Rifondazione di cui è stato segretario di circolo, membro della Segreteria provinciale e del Comitato politico regionale; è stato anche Consigliere provinciale per due legislature. Ha scritto per diverse riviste sia stampate che online ed è attualmente responsabile Economia e Lavoro del giornale comunista La Città Futura.
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È cosa nota che il modello di produzione capitalistico passa per crisi ricorrenti, che sono un inevitabile prodotto delle sue contraddizioni interne. Per prima cosa, ci farebbe piacere discutere con te della natura della crisi globale che l’occidente sta vivendo oggi, a partire da elementi storico-economici che mettano in luce le basi teoriche di quello che sta succedendo.
Occorre prima di tutto sgombrare il campo dalla diffusa opinione secondo cui questa crisi sia provocata dalla pandemia, come pure da quella che la crisi del 2007/8 fosse provocata dalla cattiva finanza; certamente il coronavirus oggi e i mutui subprime precedentemente hanno fatto da detonatore, rendendo la crisi ancora più devastante, ma le cause vengono da molto più lontano e hanno a che vedere con il processo di accumulazione capitalistica.
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La ricerca secondo il PNRR: poca, precaria e funzionale alle imprese
di coniarerivolta
Uno dei temi su cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) pone maggiormente l’enfasi è quello della ricerca, considerata un volano “per lo sviluppo di una economia ad alta intensità di conoscenza, di competitività e di resilienza” (p. 171). Belle parole, che tuttavia, ad un’accorta disamina del PNRR, nonché ad una critica considerazione del perimetro entro cui gli interventi si svilupperanno, nascondono delle pericolose insidie. Tanto per cominciare, il passaggio appena riportato prosegue con un attacco frontale allo status quo dell’apparato formativo italiano, specificando che le azioni del PNRR dovranno partire “dal riconoscimento delle criticità del nostro sistema di istruzione, formazione e ricerca”. Tra questi problemi, vengono elencate questioni di sacrosanta rilevanza per il nostro Paese, tra cui gli alti tassi di abbandono e gli importanti divari territoriali in termini di istruzione, ma anche rischiosi concetti come il presunto mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro e una ‘limitata integrazione’ dei risultati della ricerca nel sistema produttivo.
Proviamo ad eviscerare i contenuti del PNRR nel campo della ricerca e dell’istruzione, partendo da una doverosa premessa sull’entità e sul funzionamento del Piano stesso.
Il PNRR dentro la cornice dell’Unione Europea: pochi soldi e tanta condizionalità
Mentre la stampa continua a raccontarci che un fiume di denaro, per fortuna gestito dai competenti del governo Draghi, sta invadendo il nostro Paese e ci permetterà di uscire da questa catastrofe con poche ferite, ad un’attenta lettura le cifre si rivelano purtroppo del tutto inadeguate alla portata della crisi.
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Fatti e misfatti di un movimento storico in decomposizione
di Michele Castaldo
Vaccini, No Green Pass e un episodio a “latere”
Maurizio Molinari, importante giornalista italiano, lancia l’allarme dalle pagine di Repubblica: « La scienza aggredita dai populisti ». Da un populismo che già nel 2018 allarmava il nostro editorialista: « Perché è successo qui, viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa ». Non eravamo ancora in pieno stress da Covid-19, ma alcuni sintomi apparivano piuttosto preoccupanti, da fargli scrivere: « Aggrediti dalle disuguaglianze, sorpresi dai migranti, flagellati da imposte e corruzione, bisognosi di protezione e sicurezza, feriti dalla globalizzazione, inascoltati dai partiti tradizionali e rafforzati nella capacità di esprimersi dall’avvento dell’informazione digitale, gli italiani con le elezioni del 4 marzo 2018 hanno reagito consegnando le proprie sorti al primo governo populista dell’Europa occidentale, con il risultato di innescare un dominio di eventi sul Vecchio Continente dalle conseguenze imprevedibili », e va aggiunto che non era ancora accaduto l’episodio al Capitol Hill, ovvero di masse di ceto medio che inferocite per la sconfitta del loro candidato Trump davano l’assalto al palazzo simbolo del potere democratico degli Usa.
Ora, a fronte di una « pandemia mondiale », i governi di tutto il mondo e i grandi centri del potere economico, incuranti delle cause che hanno prodotto il Covid-19, hanno indicato immediatamente nel vaccino la soluzione del problema.
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Vaccino anticovid: obbligo o scelta etica?
di Alessandro Testa
Prima di addentrarci della disamina approfondita di questo delicatissimo argomento, riteniamo imprescindibile premettere che non è nostra intenzione negare l’esistenza di una grave pandemia, così come la necessità di utilizzare con urgenza e amplissima diffusione tutti i mezzi possibili per arginarla ed, infine, neppure il dovere, che come comunisti sentiamo fortemente, di anteporre le imprescindibili necessità sociali della popolazione all’idolatria dell’incondizionata ed assoluta libertà personale, cosi cara al pensiero liberal-borghese..
Ciò premesso, ci pare comunque indispensabile far sentire chiaramente la voce della ragione, della logica e della verità in un momento in cui i media di regime, spalleggiati da un nutrito gruppo di “virologi di stato”, continuano a diffondere informazioni inesatte, quando non patentemente false, tutte volte a sostenere la tesi che solo una vaccinazione di massa obbligatoria possa essere la soluzione al problema e che non sussistano problematiche scientifiche o giuridiche che ne mettano in forse l’applicabilità.
In realtà, solo la chiarezza più assoluta e cristallina riguardo ai dati scientifici e giuridici, unita però alla piena consapevolezza che la contemperazione tra libertà personale e salute collettiva è un problema etico e politico prima che giuridico e scientifico, potrà aiutarci a trovare il bandolo della matassa, consci del fatto che una situazione talmente complessa e potenzialmente tragica esige la massima cautela e prudenza e non la proclamazione di “verità indubitabili ed assolute”.
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Sul documento-appello “Costruire l’opposizione al governo Draghi”
di Andrea Catone*
Alcuni compagni mi sollecitano alla lettura e a un commento sul documento-appello “Costruire l’opposizione al governo Draghi”, elaborato e diffuso qualche settimana fa. Rispondo volentieri, scusandomi del ritardo
Condivido ciò che mi sembra essere il “nocciolo duro” dell’appello: la proposta di (traduco in un linguaggio politico della tradizione comunista) dar vita a un fronte ampio di forze sociali, culturali, politiche, unito sulla base di un programma minimo di classe adeguato ai mutamenti della fase economico-politica attuale sul piano internazionale (presidenza Biden) e nazionale (governo Draghi). Esprimo quindi la disponibilità a lavorare alla costruzione di tale fronte, per trasformare la buona intenzione che esso esprime in concreta realtà vivente, renderlo operativo, dargli testa, corpo e gambe. Cosa che è, nella situazione attuale – come gli stessi estensori dell’appello non si nascondono – molto difficile.
Per affrontare la grande questione che l’appello pone occorre definire con la massima chiarezza possibile:
– la fase politico-economica attuale analizzata dal punto di vista delle “classi subalterne”;
– gli obiettivi di fondo che, rispetto all’analisi di questa fase determinata, il fronte unito deve porsi;
– i soggetti – sociali, politici, culturali – che possono essere uniti nel fronte sulla base del programma.
In merito al contesto internazionale e alle sue implicazioni a livello nazionale
Il documento scrive (le sottolineature sono mie, AC):
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Sovrano è chi discrimina i non vaccinati
di Geminello Preterossi
Il governo Draghi ha varato un drastico irrigidimento del green pass, sulla scia delle scelte di Macron, che le ha difese in tv con toni aggressivi, i quali hanno suscitato vaste e intense proteste in Francia (di cui per diversi giorni a stento si riusciva a trovare notizia nei media italiani). Un giro di vite che non a caso si è accompagnato alla minaccia, da parte di Macron, di rimettere in campo in autunno le contestatissime riforme neoliberiste delle pensioni, del lavoro e dei sussidi sociali. Queste avevano suscitato una forte, vasta mobilitazione di massa alla fine del 2019, con scioperi continui e manifestazioni sindacali molto partecipate, che avevano portato al ritiro del pacchetto di riforme euriste (che noi avevamo già conosciuto con Monti), la cui attuazione è sempre stato il vero mandato del Presidente francese creato in provetta dai centri finanziari euro-globalisti. Poi, la crisi del coronavirus ha desertificato non solo la società francese, ma tutto l’Occidente, neutralizzando a lungo la possibilità stessa del conflitto. Oggi, di fronte all’emergere di nuove proteste, Macron ha confermato l’impianto di fondo del green pass, anche se ha dovuto concedere qualche lieve alleggerimento. Del resto, anche il Consiglio di Stato si era pronunciato sfavorevolmente su alcune misure, giudicate “sproporzionate”, in particolare in merito all’entità delle multe e al profilo anche penale delle sanzioni previste. Non c’è da illudersi, ma l’esempio francese (tanto quello delle lotte iniziate alla fine del 2018 con i Gilets jaunes, quanto il ridestarsi della società oggi) mostra che forse la partita generale, pur difficilissima, è ancora aperta: protestando, criticando, non piegando la testa, si può provare a frenare la deriva in atto, e comunque testimoniare il rifiuto di esserne complici.
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Lo stratega contro
L’attualità antagonista di Guy Debord
di Gabriele Fadini
A chi lo definiva un filosofo, Guy Debord rispondeva di essere uno stratega. Per comprendere appieno ciò che egli intendeva Gabriele Fadini comincia dal momento in cui nell’opera di Debord la strategia non è solo riscontrabile tra le righe come una modalità di azione, ma in cui diviene il tema stesso di un’opera: Il gioco della guerra, ovvero il resoconto di una partita a un gioco di strategia, ideato dallo stesso fondatore dell’Internazionale Situazionista. A partire da qui, Fadini può approfondire alcuni aspetti del pensiero teorico-politico di Debord, confrontandosi anche con le interpretazioni di Agamben, Freccero e Bifo.
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Come mostrano ancora queste ultime riflessioni sulla violenza, non ci saranno per me né ritorno, né riconciliazione. La saggezza non verrà mai [i].
Iniziare un testo dedicato a Guy Debord citando le ultime parole della sceneggiatura del suo ultimo film In girum imus nocte et consumimur igni non significa solo installarci in quel «gioco» secondo cui la massima fedeltà ad un autore consiste nella massima infedeltà, quanto più riflettere sulle regole del particolare gioco che è quello debordiano e ancor di più sull’utilità di questo gioco per un pensiero che si voglia antagonista. Il nostro intento, infatti, è quello di dimostrare come il gioco fornisca un accesso peculiare, originale ma soprattutto fortemente attuale, alla riflessione dello stratega francese.
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Liquidare il dogma
Intervista a Carlo Formenti
“Liquidare il dogma secondo cui il socialismo è possibile solo laddove le forze produttive hanno raggiunto un elevato grado di sviluppo”
Carlo Formenti, politico, giornalista e scrittore ben conosciuto nell’ambiente marxista, nasce a Zurigo nel 1947 e si trasferisce a Milano pochi mesi dopo; la sua vita politica inizia nei primi anni Sessanta, quando il padre lo inserisce nella formazione bordighista in cui militava.
A partire dal 1967, frequenta i gruppi maoisti, finché contribuisce a fondare il Gruppo Gramsci; dal 1970 al 1974 si dedica all’attività sindacale, che interrompe per completare gli studi, laureandosi nel 1976, con una tesi sull’impatto delle tecnologie informatiche sull’organizzazione del lavoro, pubblicata da Feltrinelli con il titolo Fine del valore d’uso.
Dalla fine degli anni Settanta abbandona la politica attiva, limitandosi alla lotta ideologica e teorica; negli anni ‘80 è caporedattore del mensile “Alfabeta”, e ai primi del Duemila diviene ricercatore all’Università di Lecce, dove riprende le ricerche sulle conseguenze economiche, politiche, sociali e culturali della rivoluzione tecnologica.
Torna alla vita politica attiva negli ultimi cinque anni, militando in alcune formazioni della sinistra sovranista, per avvicinarsi infine al Partito Comunista guidato da Marco Rizzo. Fra i suoi libri più recenti: Utopie Letali (Jaka Book 2013), La variante populista (DeriveApprodi 2016), Il socialismo è morto viva il socialismo (Meltemi 2019).
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Innanzitutto grazie per aver accettato di condividere con noi alcune tue riflessioni su tematiche di grande respiro internazionale e italiano. Come prima questione, ci piacerebbe chiederti quali riflessioni possono essere fatte sul cosiddetto “socialismo con caratteristiche cinesi”, e in particolare cosa questo ci può insegnare riguardo alla transizione tra il modello capitalista e quello socialista.
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Il lavoro al tempo delle piattaforme
di Giulio De Petra
Intervento per la sessione “L’egemonia delle piattaforme" del convegno “Rileggere il Capitale”, organizzato da ARS e CRS
Un conflitto necessario
La traiettoria del capitalismo, delle sue crisi e dei suoi sviluppi, si intreccia inestricabilmente con quella del lavoro, della sua forma e delle sue lotte.
È la riorganizzazione continua del modo di produzione capitalista che determina la forma del lavoro, i modi e l’intensità dello sfruttamento, le caratteristiche della sua alienazione.
E, nello stesso tempo, sono i conflitti prodotti dall’organizzazione politica del lavoro a determinare i tempi e i modi dei passaggi della riorganizzazione del capitalismo.
Ed è un conflitto necessario, senza il quale il meccanismo di sviluppo del capitalismo rischia di avvitarsi su se stesso, di procedere per inerzia, proseguendo sulla propria traiettoria senza adeguata consapevolezza delle conseguenze sociali, economiche, ambientali che determina.
Questa reciproca implicazione di lavoro e capitalismo vede nell’utilizzo delle tecnologie storicamente disponibili la risorsa determinante, quella che consente determinate forme di produzione e quella che influenza l’organizzazione politica del lavoro.
La comprensione di come le tecnologie digitali, la forma attuale delle tecnologie di produzione e di organizzazione sociale, modificano e determinano la forma del lavoro è quindi centrale per comprendere la forma attuale del capitalismo.
Ma è centrale anche da un altro punto di vista, che è una delle motivazioni (la principale?) di queste due giornate di analisi e confronto.
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Appunti sulla cultura del lavoro tra liberalcapitalismo e postmodernismo
di Gerardo Lisco
La proposta di Letta di istituire un’imposta patrimoniale per costituire un fondo a favore dei giovani, che dovrebbe servire per l’Università o per avviare un’attività imprenditoriale, è da inserire nel cambio di paradigma che vuole il lavoro non più un diritto ma un dovere, secondo la logica del Ministro Fornero. La proposta è stata respinta dal Presidente del Consiglio Draghi, la destra Conservatrice si è opposta alla proposta avanzata da Letta sostenendo la decisione del Presidente del consiglio. La destra conservatrice si è schierata a difesa dell’idea che solo riducendo il prelievo fiscale sui patrimoni e sui redditi alti è possibile liberare risorse utili al rilancio dell’economia, in sostanza la teorie del trickle-down rappresentata dalla curva di Laffer; la destra Liberale, il PD e il ceto di opinionisti e intellettuali che gravitano nella sua orbita si sono immediatamente affannati a sostenere la proposta di Letta come di sinistra e a sottolineare come essa fosse stata sostenuta da Liberali come Einaudi e Keynes.
La proposta avanzata da Letta non molto tempo fa è l’altra faccia della medaglia rispetto all’idea avanzata da Renzi di un referendum per abrogare il reddito di cittadinanza. Entrambi gli istituti vanno inquadrati nel contesto economico e sociale nel quale devono operare. Come spiegano Van Parijs e Vanderborght [1] l’idea di introdurre strumenti quali reddito di base, nel caso specifico il reddito di cittadinanza, o una dotazione di base secondo la proposta avanzata da Letta sono rintracciabili a partire dalla fine del XVIII secolo interessando sia la destra che la sinistra ( solo per memoria le categorie politiche di destra e sinistra nascono proprio sul finire del 700 durante la Rivoluzione francese). I due autori, per inciso, appartengono alla schiera di coloro che da Sinistra sostengono la necessità di introdurre istituti quali il reddito di cittadinanza.
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Sulla lettera aperta di Cacciari e Agamben
di Andrea Zhok
La lettera aperta congiunta di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben sul Green Pass (vedi testo nei commenti) ha ricevuto, come prevedibile, un’accoglienza esplosiva. Uno dopo l’altro si sono attivate sulla stampa una serie di firme, più o meno note, per spiegare:
che “le discriminazioni sono ben altre” (Di Cesare, Repubblica),
che “la vita non viene forse prima della democrazia, non viene forse prima di tutto?” (D’Alessandro, Huffingtonpost),
che “il green pass è come la patente o il porto d’armi, che nessuno contesta” (Flores D’Arcais, MicroMega),
che “Cacciari e Agamben non hanno le competenze, lascino fare a chi le ha” (Gramellini, Corriere), ecc. ecc.
Ora, personalmente non credo di essere stato una volta in vita mia d’accordo con Agamben, e dunque ero restio finanche a leggere la lettera, però a fronte di tale qualificata batteria di fucilieri non ho potuto esimermi.
Ciò che ho trovato, e che nel mio piccolo voglio brevemente commentare, è un testo con molti difetti, ma certamente non liquidabile con gli argomenti che ho visto in giro.
Il testo, comparso sul sito dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, presenta un’argomentazione molto breve, con un difetto strutturale: essa parte come un argomento “di principio” e “di valore simbolico” circa la minaccia alla vita democratica, prosegue con considerazioni di ordine pragmatico sullo stato della sicurezza dei vaccini e sulla mancanza di una prospettiva (“Dovremo dunque stare col pass fino a quando?), e chiude di nuovo su note di principio.
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La base del Pd è anti-operaia
di Stefano Scacchi
“Bisogna capire come mai il Pd è stato superato da Giorgia Meloni”, si chiede una militante del Partito Democratico nella chat di una sezione milanese dopo che La7 ha diffuso il sondaggio (SWG) che dà Fratelli d’Italia al 19,5% delle intenzioni di voto, mentre il Pd è fermo al 19,2%. È il 17 maggio. La Lega è al 21%. Quindi, sommando i due partiti principali, la destra in Italia è al 40,5%. Un’enormità. La domanda è già un passo avanti rispetto all’atteggiamento classico della base Pd degli ultimi 25 anni verso quello che si trova alla sua destra, dalla nascita di Forza Italia in avanti. Normalmente la reazione è sempre improntata a una superiorità culturale che induce a spiegare questi voti ‘populisti’ con l’ignoranza di quegli elettori. Quindi già il fatto di dire che “bisogna capire” è incoraggiante. Dimostra uno scatto di umiltà di solito assente.
La prima risposta potrebbe essere che Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno un elettorato che li vota per interesse, non solo per assonanza di opinioni e valori culturali. Potrebbe sembrare una motivazione bassa, ma è una componente fondamentale della politica. Meloni e Salvini forniscono una risposta al disagio di larghe fette della popolazione italiana, operai compresi. La loro risposta è ispirata a puro egoismo sociale: è colpa degli immigrati che riducono le opportunità a disposizione degli italiani più deboli. Ma almeno è una risposta in grado di aggregare un consenso ispirato alla comunanza di interessi collettivi. La miscela che dovrebbe accendere il motore di un partito politico.
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Marx dovrà aspettare ancora
di Pietro Bianchi*
Ritornando al suicidio del gemello Camillo, l’ultimo film di Marco Bellocchio riflette sulla morte e la responsabilità
Capita spesso nella vita di avere un alter-ego: un amico coetaneo, un fratello o magari addirittura un gemello o un coscritto nato il proprio stesso giorno e con il quale si è cresciuti. È la prossimità più assoluta che mostra in modo più nitido la distanza, quando magari la vita anche a fronte di condizioni sociali o familiari simili porta a prendere scelte diverse e a separare le proprie esistenze. È quello di cui racconta A Letter to You, l’ultimo album di Bruce Springsteen, in cui si ritorna ai tempi dei Castiles, un gruppo che a metà degli anni Sessanta calcava i palchi dei bar della riviera del New Jersey riscuotendo un discreto successo locale. Allora il leader della band era un tale George Theiss. Nell’intensa “Last Man Standing”, Springsteen prova a ricostruire il suo sguardo di allora, pieno dell’ammirazione del comprimario che guarda colui, Theiss, che sarebbe certamente diventato una star e che era capace già allora di attirare il desiderio della folla: “You take the crowd on their mystery ride”.
Ma i Castiles si sciolsero nel 1968 e George Theiss decise di sposarsi ad appena vent’anni. Iniziò a lavorare come muratore e rimase a suonare nei bar della riviera durante i weekend per il resto della vita mentre Springsteen diventava una star planetaria. In una recente intervista per Rolling Stone la moglie di Theiss racconta che per il marito non fu sempre facile vedere l’esplosione di successo di quello che a diciotto anni era soltanto il primo chitarrista della sua band, fino a che a una festa a casa di Springsteen pochi anni fa Theiss si scoprì incapace di salire sul palco per una jam session con il Boss, tanto la situazione lo faceva soffrire.
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Introduzione a NoCity. Paura e democrazia nell’età globale
di Antonio Cecere
Questo libro è fortemente sconsigliato a coloro che sono abituati a leggere la sera prima di addormentarsi: benché la scrittura di Martone sia coinvolgente e mai noiosa, il tema è decisamente inadatto a chi ama le favole consolatorie. Due domande precise campeggiano nel libro ed è preferibile farle emergere sin dalle prime righe della nostra introduzione. Martone ci chiede, fondamentalmente, in quali condizioni storiche la pandemia ha trovato il mondo e, soprattutto, che cosa abbia imparato il Tiranno dalla situazione pandemica globale.
Antonio Martone è un filosofo che si inserisce nel grande dibattito contemporaneo circa il rapporto problematico fra esistenza e senso, fra individuo e comunità. Egli riprende criticamente classici fondamentali, come Hobbes, Rousseau, Tocqueville, Stirner, Nietzsche che inserisce con originalità in campi teorici già dissodati da autori novecenteschi come Heidegger, Camus, MerleauPonty. Grazie a questa ampiezza di studi, e alla ricchezza di un pensiero sempre attento all’evoluzione del proprio tempo, Martone riesce a proporci un quadro critico del dibattito attuale intorno a un focus preciso, ovvero il rapporto di dominio dell’uomo sull’uomo, declinato secondo le nuove direttrici oggi dominanti: la tecnica, l’economia e/o il linguaggio ingabbiato dai social media.
Per meglio introdurre il lettore a questo importante lavoro, propongo di seguirmi in due diversi momenti di osservazione: un’escursione (breve) e un’incursione (profonda) dal e nel testo.
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Appunti sulla crisi della forma-rivista
di Lanfranco Caminiti
0. Di cosa parliamo
0.1. alla voce «rivista» il dizionario De Mauro on line dice: a) pubblicazione periodica che intende offrire una rassegna delle conoscenze in un determinato campo e si distingue per il carattere specialistico degli interventi; b) periodico ad alta tiratura, riccamente illustrato e destinato a un pubblico non specializzato al quale offre aggiornamenti d’attualità e di costume, rubriche fisse, corrispondenza con i lettori, ecc. Qui – senza obbligatoriamente assumere una visione sfigata o elitaria delle cose – ci riferiamo con più attinenza alla prima definizione a), dove «specialistico» può essere interpretato come «punto di vista» e «approfondimento» (la seconda, è ormai invalsa l’abitudine di definirla magazine). Aggiungendovi due elementi costitutivi: un gruppo di lavoro (una redazione, per lo più volontaria) che si riunisce intorno a un «progetto di idee» (anche nel caso di una rivista «accademica» e/o universitaria) e il carattere «non convenzionale», controtempo. D’altro canto, questa precisazione comporta il riferimento a un «lettore di progetto», che è un altro elemento costitutivo. Senza necessariamente affondare nei riferimenti storici alle gazzette del Settecento, quello di cui si parla è il «processo virtuoso» – a esempio nel Novecento – tra il lavoro intellettuale di avanguardie (artistiche, letterarie, politiche) e l’interpretazione (anticipazione, formazione) di sommovimenti sociali a venire (nel gusto, nella comunicazione, nella produzione, nel fare storia). La rivista (quella della definizione a)) è stata una forma propria della relazione fra il lavoro intellettuale (in cooperazione) e lo spazio pubblico. È ancora così?
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Chi è l'imperatore del mondo? La nuova era del dominio epistemico
di Ugo Bardi
Il re Kamehameha 1 ° delle Hawai'i ( 1736 - 1 819) praticava l'arte di dello scambio di doni durante il suo regno, come è tipico dei re e governanti. Si ricorda che disse: " E 'oni wale no 'oukou i ku'u pono 'a'ole e pau". "Infinito è il bene che vi ho dato per goderne." Ai nostri tempi Google sembra aver adottato lo stesso atteggiamento: ci fa regali sotto forma di dati gratuiti. In vista del concetto di "colpo di stato epistemico" proposto da Shoshana Zuboff, Google sta rapidamente diventando l'imperatore epistemico del mondo.
In epoca romana, era una buona cosa essere l'imperatore: avevi oro, palazzi, donne, schiavi e molti privilegi, incluso il potere di mettere a morte chiunque a tuo piacimento. Gli imperatori erano visti come creature semidivine, elevati al trono dagli Dei stessi ma, in pratica, diventavano presto vecchi e spelacchiati (se sopravvivevano fino alla vecchiaia, non facile data la concorrenza). Allora, perché i Romani obbedivano agli imperatori?
Non è una domanda difficile a cui rispondere. Gli imperatori romani praticavano un gioco praticato da tutti i governanti. Si chiama "scambio di doni" ("gift-giving"). Fa parte del concetto di condivisione : qualcosa di profondamente radicato nella natura degli esseri umani, in definitiva è una manifestazione di empatia tra gli umani .
La condivisione crea naturalmente legami sociali che generano i modelli gerarchici che consentono alla società di strutturarsi. In una società armoniosa, i leader governano senza bisogno della forza. Governano in base al loro prestigio, a sua volta ottenuto da un uso giudizioso dei doni.
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«Che Fare?»
Roberto Ciccarelli intervista Mario Tronti
Il colloquio. Intervista sul comunismo possibile al filosofo e uomo politico in occasione dei suoi novant’anni. Sette tesi, più una senza numero, per le nostre e le future generazioni: «Basta demonizzare il Novecento, recuperare la memoria delle lotte, organizzare i conflitti». Autoritratto di una vita ispirata al principio: «Pensare estremo, agire accorto»
La rivoluzione è in esilio ma cerca il chiarore del giorno nella sua notte insonne. Mercoledì scorso 21 luglio Mario Tronti ha compiuto novant’anni e coltiva la tensione politica che ha attraversato la vita di uno dei più grandi filosofi politici contemporanei. Un lavoro instancabile. In autunno pubblicherà altri due libri.
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Rossana Rossanda ha scritto «La ragazza del secolo scorso». Nella sua autobiografia Pietro Ingrao ha scritto «Volevo la luna». Cosa pensa Mario Tronti a 90 anni?
A tutto fuorché a scrivere un libro autobiografico. Sono allergico a questa forma letteraria. Ne ho lette molte di autobiografie e alcune mi hanno anche appassionato, come quelle che tu citi. Ma, tra l’altro, Rossana e Pietro erano personalità pubbliche molto note e riconosciute, erano state protagoniste di eventi, avevano molto da ricordare e da raccontare. Io sono una personalità pubblica ignota, non avrei da trasmettere alcun ricordo che interessi, tutt’al più qualche titolo di rivista o di giornale, e un solo libro giovanile di successo, che ha avuto, per fare un paragone azzardato, lo stesso destino del Salinger de Il giovane Holden: poi sei quello e nient’altro.
Operai e Capitale…
Sì. Raccomando sempre: non scrivere un libro di successo da giovani, perché si rimane per sempre imprigionati in una sola casella.
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L’egemonia della Tecnica e la speranza della Magia
di Roberto Paura
Federico Campagna: Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà, Edizioni Tlon, Roma, 2021, pp. 337, € 18,00
“Un altro mondo è possibile” fu lo slogan che il movimento no-global adottò in occasione delle drammatiche contestazioni del G8 di Genova, nel 2001, di cui in questi giorni ricorre il ventennale. Un’aspirazione ambiziosa, perché sosteneva – e sostiene ancora oggi – la possibilità di pensare un mondo unito, ma non secondo le logiche del mercato. La sconfitta di quel movimento, che coincise con la più grande vittoria del there is no alternative con cui il neoliberismo si è imposto negli ultimi quarant’anni, non ha tuttavia sopito le speranze che un altro mondo sia davvero possibile: un discorso tornato in auge fin degli inizi del 2020, quando la pandemia di Covid-19 ha mostrato tutte le contraddizioni di un sistema da lungo tempo in crisi e reso urgente la necessità di un ripensamento complessivo.
Quanto sia complessa l’operazione ce lo mostra il filosofo Federico Campagna, italiano trapiantato a Londra, in un libro giunto da noi in un momento quanto mai opportuno rispetto all’originale uscita inglese nel 2018: Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà non è un manuale per il “dopo”, un ricettario per business coach, uno di quegli innumerevoli instant-book con cui guru improvvisati cercano di motivare una società terribilmente provata dagli ultimi avvenimenti, quanto piuttosto – scrive Campagna nell’introduzione – “un libro per chi giace sconfitto dalla storia e dal presente”.
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Contro il politically correct
di Giovanna Cracco
La morale, il linguaggio, il pensiero associativo e la pratica denotativa; fintamente emancipativo e mai antisistemico, perché il politicamente corretto ci immobilizza socialmente divenendo regressivo
Political correctness. Tanto se n’è scritto negli ultimi anni, in termini positivi e negativi. Nato nell’ambiente liberal statunitense dei cultural studies alla fine degli anni ‘80, si è poi diffuso in tutto il mondo occidentale. Tuttora mantiene nella sfera culturale e politica di sinistra una posizione di sostegno – anche se voci critiche iniziano a emergere – mentre a destra è spesso contestato. Per quanto le dinamiche della sua evoluzione già si trovassero nell’iniziale impostazione del pensiero, è difficile immaginare che alla nascita fosse possibile prevedere le caratteristiche conformistiche e repressive che ha raggiunto oggi. Jonathan Friedman inizia a scriverne, in termini di appunti per un ipotetico libro, nel 1997; continua a ragionarci nei primi anni Duemila, e lascia gli scritti nel cassetto; riprende più volte il manoscritto, aggiornandolo, e infine lo pubblica nel 2017. In Italia esce nel 2018, per i tipi di Meltemi, con il titolo “Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime”. Il testo è interessante perché Friedman è un antropologo, e la sua riflessione si interroga sulla natura strutturale del politicamente corretto come forma di comunicazione e sul contesto che ne consente l’emersione fino a farlo divenire una pratica dominante. “Criticato e discusso in una serie di pubblicazioni, [il politicamente corretto] ancora non è stato analizzato dal punto di vista antropologico” scrive Friedman nell’introduzione; per concludere:
“Questo non è un libro sui pro e i contro di una forma specifica di politicamente corretto […] è piuttosto una critica generale di tutte le forme di politicamente corretto come mezzo di soppressione del dibattito”.
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Crisi ecologica e crisi sociale: il PNRR è il problema, non la soluzione
Tavola rotonda a Napoli
di coniarerivolta
La lunga coda della pandemia ha portato con sé, oltre alle tragiche conseguenze sanitarie, anche una situazione di prolungata crisi economica, che parte dalle centinaia di migliaia di contratti precari non rinnovati e arriva ai licenziamenti di massa messi in atto dai padroni un secondo dopo la rimozione del blocco dei licenziamenti. A fronte delle preoccupazioni quotidiane che attanagliano la stragrande maggioranza della popolazione del nostro Paese, una narrazione entusiastica e ottimista rimbalza dai principali mezzi di comunicazione agli esponenti di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, tutte, con qualche sfumatura, strette a coorte intorno al Governo Draghi. Niente paura, è il messaggio che ci bombarda ogni giorno, l’Europa solidale è al nostro fianco e il cosiddetto Recovery Fund – ufficialmente noto come Next Generation EU – è il veicolo che ci condurrà in un futuro più giusto, più inclusivo, più verde.
Non è particolarmente difficile demistificare la natura meramente propagandistica di questa narrazione. A fronte del fiume di denaro che ogni giorno ci viene promesso, la realtà dei fatti parla di un ammontare di risorse risibile. Al netto dei contributi che l’Italia apporterà, infatti, negli anni a venire al bilancio europeo, secondo le stime più ottimistiche riceveremo circa 50 miliardi di euro da spalmare, cioè da dividere, su sei anni. Una semplice comparazione con le risorse aggiuntive messe in campo dal Governo italiano nel 2020 e quindi in un solo anno, pari a circa 108 miliardi e del tutto insufficienti a tamponare le conseguenze della crisi economica che iniziava a mordere, vale più di tante chiacchiere.
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Dal ‘Capitale’ al Tecno-capitalismo e alle piattaforme
di Lelio Demichelis
Intervento per la sessione “L’egemonia delle piattaforme sui media” del convegno “Rileggere il Capitale”, organizzato da ARS e CRS
Premessa
Per metodo intellettuale, ci piace guardare ai processi e alla loro evoluzione nel tempo, più che ai loro effetti. Cercando di capire cioè la genealogia di ciò che oggi ci sembra nuovo, ma che spesso è invece la riproposizione del vecchio capitalismo in forme che sembrano nuove solo perché accompagnate da una nuova tecnologia e dalle retoriche che ne determinano l’accettazione sociale – accettazione che a sua volta è funzionale all’adattamento dell’uomo e della società alle esigenze del capitale.
Anticipando la conclusione della riflessione che segue, diciamo allora che il digitale è sempre rivoluzione industriale/industrialista; che i social media di oggi sono l’evoluzione (o meglio l’involuzione) dei mass media novecenteschi (in particolare della televisione), dell’industria culturale descritta a metà del ‘900 dalla Scuola di Francoforte e della società dello spettacolo debordiana; che le piattaforme sono l’evoluzione della fabbrica fordista e necessarie alla trasformazione dell’intera società in fabbrica. Una società non industriale, ma industrializzata.
Nessun reale cambio di paradigma rispetto a ieri, dunque; nessuna transizione a qualcosa di assolutamente nuovo; nessuna quarta rivoluzione industriale. Credere il contrario – che tutto sia cioè veramente nuovo – significa invece reiterare nuovamente gli errori interpretativi del passato, non vedendo l’evoluzione dei processi industriali e capitalistici: sempre apparentemente rivoluzionari, ma in verità sempre trasformistici, cioè: cambiare tutto per non cambiare nulla nella struttura e nella sovrastruttura dei meccanismi di organizzazione industriale della società e di accumulazione del capitale.
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Tra conflitto e pratica dell’obiettivo
Riccardo Emilio Chesta intervista la Tech workers coalition italiana
Anche in seguito alla crisi da Covid-19 da circa un anno in Italia si è costituita una sezione della Tech workers coalition (Twc), rete transnazionale dei lavoratori delle aziende Ict. Li abbiamo incontrati dopo un evento pubblico online di presentazione delle loro attività. Composta di lavoratori qualificati nel settore informatico, grafico, che include progettisti e sviluppatori, la Twc è un soggetto che cerca di parlare a diverse realtà lavorative investite dagli attuali processi di digitalizzazione e innovazione tecnologica. Si propone di coinvolgere nelle proprie iniziative non solo chi le tecnologie digitali le programma e sviluppa ma anche chi le esperisce nel proprio lavoro, come i rider delle piattaforme di food-delivery o i magazzinieri della logistica, tentando dunque di gettare ponti che leghino i lavoratori più tecnicamente qualificati con i lavoratori manuali sempre più coinvolti dai processi di digitalizzazione. Da un lato la Twc si pone obiettivi specifici e settoriali – è composta in prevalenza da lavoratori e lavoratrici del settore informatico – ma ritiene che possano essere un mezzo attraverso cui coinvolgere nella propria organizzazione tanto lavoratori manuali quanto figure tecniche ibride, a cavallo col lavoro culturale, come i grafici e i designer.
Già l’adozione del termine “coalizione” li identifica come un soggetto aperto, non corporativo che tenta di andare oltre un’opera pur necessaria di sindacalizzazione e organizzazione, ponendosi come obiettivo un’opera più generale di acculturazione all’azione collettiva e alla costruzione di solidarietà tra i lavoratori tech, in primis sul proprio posto di lavoro ma anche al di là, invitando a riflettere sui legami tra la propria professionalità e le implicazioni più generali in società.
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