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Legge di stabilità: i soldi che ci sono e non ci sono, dipende dagli obiettivi
di Roberta Fantozzi
Continuano le operazioni di propaganda e manipolazione del governo sulla Legge di Stabilità. Ma la Legge di stabilità per il 2016 è un inno al neoliberismo: prodiga verso le imprese e i ceti abbienti, a cui destina una gran quantità di risorse in tutti i modi possibili, mentre accelera la distruzione di ogni comparto e funzione pubblica con l’eccezione della spesa militare, favorisce l’evasione fiscale, e non dà che qualche mancia per la condizione di disagio sociale dei più deboli.
1. Il rapporto con i vincoli europei: l’austerità “flessibile” e il neoliberismo
La comunicazione pubblica del governo è tutta centrata alla descrizione di una manovra che finalmente dà e non toglie. Una manovra espansiva con cui si cerca di accreditare anche l’immagine di un premier che mette in discussione le politiche europee. Non è così. Come viene riaffermato in ogni documento, il governo si muove “nel pieno rispetto delle regole di bilancio adottate dall’Unione Europea”. Nessuna vertenza viene aperta per modificare il quadro delle politiche di austerità, i vincoli su deficit e debito del Fiscal Compact.
Il governo sfrutta invece, concentrandoli nel 2016, i margini di manovra concessi dalla cosiddetta “austerità flessibile”, cioè dalla possibilità di spostare nel tempo il raggiungimento degli obiettivi fissati dalla UE.
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Gli attentati del 13/11 e la predisposizione della scacchiera
Federico Dezzani
La strage di Parigi del 13/11 ha già prodotto un risultato finora impensabile: su iniziativa di Angela Merkel, la Germania schiera mezzi ed uomini in Medio Oriente, a fianco di Francia, Regno Unito ed USA, nonostante il Califfato stia subendo pesanti rovesci in Siria ed Iraq. Nel frattempo le condizioni economiche dell’eurozona volgono al peggio, con la Francia che registra ad ottobre un nuovo record di disoccupati e la deflazione che avanza ovunque. La guerra all’ISIS è solo un espediente per procrastinare lo sfaldamento della UE/NATO: l’avversario strategico degli angloamericani è infatti Mosca, capace di aggregare l’Europa post-euro su basi alternative al sistema euro-atlantico. Con l’ammassarsi degli occidentali nel sempre più affollato ed incandescente Medio Oriente, la scacchiera è predisposta: è sufficiente un casus belli simile all’abbattimento del Su-24 e sarà guerra.
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L’Europa tra crisi economica e guerra all’ISIS
Una delle ricadute della strage del 13/11, coordinata come abbiamo sottolineato nei nostri lavori dai servizi segreti francesi, è stata senza dubbio la possibilità di eclissare i dati francesi sul mercato del lavoro, pubblicati la settimana scorsa e relativi al mese di ottobre: cifre pessime che, col nuovo record di 3,81 mln di disoccupati1, certificano la situazione critica della Francia, alle prese con un debito pubblico prossimo al 100% del PIL ed una bilancia commerciale in cronico disavanzo.
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La miracolosa rinascita di Antonio Gramsci
di Robert Bösch
"La verità è che le possibilità di successo di una rivoluzione socialista non hanno altra misura che il successo stesso"
- Antonio Gramsci (1891-1937), riferendosi alla Rivoluzione d'Ottobre -
Al più tardi, con la sparizione dell'URSS dalla scena politica mondiale, anche quello che si soleva chiamare "teoria marxista" ha perso ogni e qualsiasi rilevanza sociale. Anche le varianti più illuminate del marxismo si riferivano all'Unione Sovietica, se non come socialista, quanto meno come formazione sociale "post" o "non-capitalista". La sua caduta catastrofica ha sigillato anche il verdetto sulla sinistra fino ad allora esistente, e sul suo concetto di teoria.
In questo contesto, non si può non considerare, o nutrire grande interesse per Antonio Gramsci. Non è facile comprendere perché un pensatore che ha visto come proprio compito quello di "tradurre in italiano" le esperienze della Rivoluzione d'Ottobre (Zamis, 1980), e per il quale Lenin era il "maggior teorico moderno" del marxismo (Perspektiven, 1988), non venga trattato come un cane morto. Di fatto, la rinascita di questo rivoluzionario fallito dei tempi della III Internazionale suscita sorpresa, se si considera che non solo la sinistra, ma anche la destra teorica, ha riscoperto per sé questo "marxista classico". Se Gramsci era già popolare a partire dal decennio 1970, in un determinato spettro della sinistra accademica, che in Germania Occidentale era riunito intorno alla rivista Argument, nel 1977 il teorico della nuova destra francese, Alain de Benoist, ha scritto un libro in cui adattava a suo modo il pensiero di Gramsci.
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La crisi odierna e la lezione di Marx
di Alberto Leiss
Un resoconto del convegno di Alessandria su «I ritorni di Marx». I nessi tra forza economica e capacità egemonica del centro del potere capitalistico. Crisi e ruolo dell’Unione europea, un «nuovo mostro» che non è stato ancora adeguatamente analizzato. La costruzione del soggetto tra neoliberismo, psicanalisi e femminismo della differenza
Dunque lo spettro di Marx è tornato ad aggirarsi sullo scenario della nuova, lunga e devastante crisi ca- pitalistica che ci accompagna dal 2008, sollevando moltissimi interrogativi sui veri meccanismi che sostengono il sistema uscito vincitore dal confronto con l’alternativa comunista e socialista. Un confronto aperto proprio dalle opere del professore di Treviri a metà dell’Ottocento, divenuto conflitto acuto e tragico dopo la rivoluzione del 1917. Apparentemente concluso con la fine dell’Urss.
Ma è davvero possibile – come si è augurato in premessa Aldo Tortorella – che questo nuovo ritorno avvenga «a occhi aperti» da parte di coloro che non rinunciano a rimeditare e attualizzare la lezione di Marx? Evitando il rischio di ulteriori errori e limiti di natura ideologica, se non propriamente dogmatica, proprio grazie al fatto che è stato abbastanza brutalmente tolto di mezzo l’equivoco di una costruzione in corso, con sicura ricetta, di «mondi nuovi»?
La discussione svoltasi per tre giorni a Alessandria, per iniziativa di Critica marxista e della Fondazione Luigi Longo, nel convegno intitolato appunto I ritorni di Marx, sembra fornire una prima significativa risposta positiva.
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La barbarie del lavoro
di Domenico Tambasco
Raggiunto pienamente il traguardo della libera licenziabilità attraverso il Jobs Act, l’attacco neoliberista punta ora dritto al cuore della prestazione lavorativa: l’orario di lavoro e il suo presidio costituzionale, l’art. 36. Superato quest’ultimo baluardo, non resta null’altro nel campo dei diritti lavorativi: siamo giunti alla barbarie del lavoro
È vorace il neoliberismo, come tutti gli “ismi” avendo,
nel suo patrimonio genetico, un cromosoma totalitario che pretende il completo asservimento della persona e della sua esistenza.
È suadente il neoliberismo, sussurando continuamente alle orecchie dei cittadini dell’ormai globale villaggio la parola “libertà” che, nella cruda realtà dei fatti, cela il tintinnio di nuove catene.
Raggiunto pienamente il traguardo della libera licenziabilità attraverso le “tutele crescenti”, la lotta di classe da alcuni decenni promossa dall’1% della società[1] si dirige determinata, ora, verso il cuore della prestazione lavorativa: l’orario di lavoro. Ecco dunque che qualche perlustratore in avanscoperta “spara” i primi colpi di avvertimento, dichiarando che
“L’ora-lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione… dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento la retribuzione oraria”[2], trattandosi di “un tema culturale su cui lavorare”, poiché “il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore e sempre più risultato”. Del resto “per molti anni i ritmi biologici e di vita si sono piegati agli orari fissi, ma con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà”.
Di qui l’invito alle giovani schiere di economisti e giuslavoristi ad “immaginare il futuro su questo tema”.
Lo schema adottato è quello classico: si attacca l’obbiettivo definendolo “vecchio”, d’ostacolo all’innovazione e alla libertà dei “moderni”: nel caso di specie, al fattore “tempo” del rapporto di lavoro viene contrapposto il “risultato”, “l’apporto dell’opera”.
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Il fronte interno della “guerra al terrore”
di Carlo Formenti
Il modo in cui i governi europei (a prescindere dal colore ideologico) e i media hanno reagito agli attacchi terroristici di Parigi è straordinariamente significativo, nella misura in cui contribuisce a ridefinire il significato di alcuni termini del lessico politico moderno. In particolare ne prenderò qui in considerazione tre – socialdemocrazia, liberalismo, patriottismo – a partire da alcuni articoli apparsi nei giorni scorsi sul Guardian e sul Corriere della Sera.
L’appoggio dei partiti della Prima Internazionale ai governi che avevano scatenato la Prima Guerra Mondiale ha sancito la morte della prima socialdemocrazia, quella, per intenderci, che si distingueva dal comunismo non per il fine – il superamento della società capitalistica – ma per la scelta del mezzo: le riforme al posto della rivoluzione. Quanto alla morte della seconda socialdemocrazia – quella nata a Bad Godesberg con il ripudio del marxismo – può essere fatta coincidere (come si sostiene in un recente libro-conversazione di cui sono co autore con Fausto Bertinotti, “Rosso di sera”, ed. Jaca Book) con la fine del compromesso fra capitale e lavoro del trentennio postbellico e con la sua definitiva conversione all’ideologia liberal liberista. Conversione cui ha fatto seguito, non a caso, la scelta di appoggiare la (e, nel caso del New Labour di Tony Blair, di partecipare alla) “guerra al terrore” dichiarata da George Bush dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001.
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Il futuro e il suo doppio
di Emanuele Braga
Quale è il futuro della cultura? Facciamo un gioco, scommettiamo su di una ipotesi. Lo scenario più probabile e strategico è fortemente connesso all’integrazione di due componenti principali: partecipazione democratica e innovazione tecnologica, al fine di inventare nuovi modelli produttivi.
Se fosse così, pongo subito qui la questione fondamentale: il capitale prodotto dalla cooperazione sociale può essere economicamente sostenibile trovando forme nuove di organizzazione? e se si che forma assume questo tipo di produzione? Oppure c’è un rischio originario: creatività, innovazione, partecipazione, cooperazione, nuove tecnologie sono più che altro nuove parole d’ordine per riempire di contenuti vecchi modelli di business plan e per gestire nuove governance di centro destra?
Ecco questo è l’interrogativo che metto al centro.
Una decina di anni fa ero convinto che fare arte fosse discutere le condizioni di possibilità della produzione stessa. Erano appena finiti gli anni novanta, e il concetto di creativo aveva appena fatto la sua entrata in società!, troppi vernissage, troppa estetizzazione di temi cool, troppa dimensione social e community based, tutti volevano essere artisti, creativi, troppa mercificazione diffusa del desiderio e delle aspettative. Il mercato del lavoro sembrava essersi trasformato in una agenzia di viaggi, ma l’unico viaggio reale che in effetti avresti mai fatto era quello di andare a comprare il biglietto. Nella storia dell’arte ovviamente tutti gli eventi degni di questo nome sono nati da movimenti di sovversione, perché come ovvio la vita nasce dal desiderio.
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Libertà, fraternità, uguaglianza
Quello che resta di due secoli di dominio europeo
Bruno Amoroso
Ormai è troppo tardi per salvare il salvabile. In realtà non c’è più nulla da salvare. Gli argomenti forti dell’Occidente fino a ieri erano che i vincitori hanno sempre ragione, e quindi è meglio stare dalla loro parte e ricavarne qualche dividendo, anche se a spese degli altri. Ragionamento pratico che si contrabbandava con argomenti culturali, sempre ben retribuiti o gratificati, come se gli orrori dell’Occidente fossero solo errori, che noi avremmo potuto correggere o se non altro ostacolare.
Ora l’incanto si è rotto, cioè non esiste più. L’Europa di Barcellona (1995) è tornata a essere ufficialmente quel coacervo di paesi militarmente e economicamente imperialisti, in concorrenza perenne tra loro, e le raffinatezze culturali non hanno più attrazione né tra i propri cittadini né tra gli altri. La guerra e la povertà che l’Europa ha esportato nel mondo da almeno due secoli gli sono tornate in casa e i suoi lamenti ipocriti e i suoi veri dolori non fanno più impressione a nessuno.
Semmai ci rendono un po’ più eguali agli altri che le stesse tragedie vivono da sempre. E la mano è sempre la stessa. Le armi sono occidentali – chi diceva che il progresso tecnico avrebbe portato più pace, eguaglianza e meno morti? – la rapina delle ricchezze e della vita delle persone continua indisturbata da parte delle nostre multinazionali e transnazionali. Del dividendo di cui abbiamo goduto un po’ tutti ora ci arriva il conto da pagare. A mandarcelo sono le nostre élite politiche ammaestrate come quelle degli altri paesi da noi colonizzati nei “Centri di Eccellenza” di Londra e Parigi.
La cultura europea e i suoi tecnici ne sono corresponsabili. Da quanti decenni si producono armi e crimini contro l’umanità senza che i nostri scienziati e tecnici denuncino ciò all’opinione pubblica, nascondendosi dietro al paravento dell’autonomia della Scienza?
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Pivot to Europe. Il Piano che non c’è ma si vede
Pierluigi Fagan
(Ammiraglio A. Mahan, The Influence of Sea Power upon Hitory, 1890, pg.1)
Nell’Ottobre 2011, l’allora Segretario di Stato americano Hillary Clinton, pubblicava un articolo su Foreign Policy dal titolo: “America’s Pacific Century”[i]. L’articolo tratteggiava le linee del riorientamento strategico USA, in direzione dell’Asia. Tale dottrina venne battezzata “pivot to Asia” ed è comunemente citata come l’asse principale delle geopolitica obamiana. La geopolitica è l’aspetto più importante della vita degli stati poiché è l’ambito in cui si determinano i rapporti di forza tra gli stessi. Ogni stato è un sistema ed ogni sistema dipende strutturalmente da una serie di condizioni esterne che ne determinano la sicurezza, la forza, la salute. La parte “politica” di geo-politica, serve a risolvere i problemi determinati dalla parte “geo”, cioè della geografia. Ogni stato ha una sua condizione geografica alla quale è fisicamente vincolato, tale condizione presenta problemi ed opportunità, la politica serve appunto per minimizzare i problemi e dilatare le opportunità date dal vincolo geografico. Ne discende che mentre la parte politica della geopolitica ha una sua variabilità interpretativa, la parte geo è in un certo senso “fissa”.
La parte fissa, la geo di geopolitica, vede sin dalla nascita della disciplina, il mondo diviso in due aree: l’area di terra cioè il continente detto isola-mondo euroasiatico che va dal Portogallo alla punta estremo orientale siberiana e l’area di mare.
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Leggere Bettelheim nel 2015
di Giovanni Di Benedetto
Ciò che più colpisce chi si accosta al lavoro intellettuale di Charles Bettelheim è il suo disincanto precoce, risalente agli anni ’30 del Novecento, sulla natura politica e sociale del mondo dell’Unione Sovietica, senza che tale punto di vista critico lo abbia mai costretto a rinunciare alle sue idee marxiste e comuniste. In ragione di questa considerazione si capisce perché l’obiettivo di Bettelheim fosse quello di non dimenticare lo scarto che separava la teoria di Marx e Engels dalla realtà del socialismo. Peraltro, questo presupposto metodologico vale a maggior ragione per chi vive nel tempo presente e sconta gli effetti di vera e propria restaurazione della stagione che si è aperta dopo il biennio 1989-91, in un contesto storico molto differente da quello in cui compaiono i lavori teorici più importanti del fondatore, alla Sorbona, del Centre pour l'Étude des Modes d'Industrialisation.
Bettelheim, nel suo lavoro di intellettuale marxista, consulente economico a Cuba, in Algeria, in Egitto e in India, docente universitario irregolare, prende le mosse dalla necessità di mettere in discussione il paradigma dell’economia capitalistica secondo cui solo un mercato autoregolato avrebbe inscritto nel proprio destino uno sviluppo privo di crisi e deragliamenti. Contro Friedrich Hayek e Ludwig von Mises, e rifacendosi alle argomentazioni di Engels secondo il quale la produzione immediatamente sociale esclude la trasformazione dei prodotti in merci e quindi, in assenza di scambio, in valori, l’economista francese ribadisce la necessità di organizzare la produzione in base ad un piano che tenga conto dell’utilità degli oggetti in uso, considerati in rapporto alla quantità di lavoro necessario alla loro produzione.
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Keynes e l’inelasticità degli investimenti
Beneath Surface
La domanda relativa a come e perché gli investimenti non reagiscano come si vorrebbe al Quantitative Easing e alla politica monetaria in genere ricorre con crescente frequenza. Con l’aiuto di Keynes cerchiamo di scoprire qualcosa in più.
Tanto i classici quanto Keynes ritenevano che un fattore determinante il livello degli investimenti fosse il tasso di interesse. Keynes però rimarcò anche che un ruolo altrettanto e più fondamentale la occupa la redditività attesa degli investimenti: se il loro rendimento è basso malgrado tassi di interesse bassi, allora potrebbe essere considerato, a livello aziendale, non profittevole indebitarsi per avviare detto investimento (vds nota 1).
Keynes dedicò il cap.XII del libro quarto della Teoria Generale al ruolo delle aspettative di lungo termine e all’efficienza del capitale in particolare, pur “perdendosi” in una lunga tirata sul deludente stato(all’epoca sua) della fiducia delle imprese nella stabilità delle proprie previsioni, minate dalla speculazione borsistica sui titoli aziendali (colpa la separazione fra proprietà e gestione, lo abbiamo visto con Schumpeter) trainata dagli animal spirits di cui ci aveva già parlato Forchielli.
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Impero e aristocrazia
di Elisabetta Teghil
E’ evidente che ci sono tensioni fortissime nel mondo occidentale che scaturiscono dal tentativo, per molti versi riuscito, di costituire un’aristocrazia multinazionale che si propone di imporsi come soggetto contrattuale con la super potenza statunitense. In Europa l’iperborghesia annidata nelle multinazionali sta smantellando le forze sindacali e partitiche che si oppongono al neoliberismo e, quest’ultimo, significa disoccupazione, povertà, annullamento dello Stato sociale, venuta meno della sanità pubblica, del pensionamento generalizzato, della contrattualizzazione del salario. Tutto questo passa anche, necessariamente, attraverso la repressione e una cultura securitaria che colpiscono particolarmente i gruppi politici e le forze sociali che più contrastano il neoliberismo. La repressione, in tutte le sue articolazioni, sottolinea e caratterizza questo momento storico dell’autoespansione del capitale. E la repressione si colloca nello squilibrio fra strutture nazionali statuali e la ricomposizione capitalistica di fondo che è permeata dallo scontro fra multinazionali e Stati per la ricollocazione delle gerarchie capitalistiche che vedono gli Stati Uniti con il loro alleato inglese, all’offensiva e l’unico interlocutore è l’aristocrazia sovranazionale, l’iperborghesia, che vuole portare in dote al matrimonio la “testa” del mondo del lavoro. Il programma di classe oggi passa, oltre che su obiettivi e scadenze di lotta, anche su una valutazione degli equilibri, degli scontri, dei rapporti di forza che lo sviluppo globale presenta. Questa attenzione non è secondaria perché ne scaturisce la possibilità di porre qualche ostacolo alla voracità con cui l’iperborghesia si serve della socialdemocrazia come arma politica. Oggi, ci troviamo di fronte ad una situazione che non è più il lavoro in fabbrica a determinare i rapporti sociali bensì la messa al lavoro della società e, quindi, lo sfruttamento di tutti coloro che nella società sono attivi.
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La rivoluzione del desiderio nel Sessantotto
Houellebecq e Lacan via Žižek
di Paolo Tamassia
[Questo saggio è uscito in versione francese, con il titolo La révolution du désir pendant Mai 68: Houellebecq et Lacan via Žižek, in Le Roman français contemporain face à l’histoire. Thèmes et formes, a cura di G. Rubino e D. Viart, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 407-421. La traduzione è dell’autore]
Osservatore acuto o, secondo alcuni, cinico dissettore dell’epoca contemporanea, Michel Houellebecq ha sempre sostenuto la necessità di uno sguardo storico retrospettivo per una comprensione profonda del presente. Uno degli assi principali della sua opera consiste nel tentativo di rispondere ad un quesito fondamentale: per quale motivo si è giunti alla situazione attuale? Una situazione ritenuta catastrofica e senza via d’uscita. È la domanda che si pongono molti personaggi delle Particelle elementari [1] , il romanzo su cui si concentrerà il mio discorso. Se Houellebecq non è certo l’unico autore contemporaneo a rivolgersi al passato per comprendere l’attuale stato delle cose, più rari sono coloro che delineano nella propria opera romanzesca una sorta di filosofia della storia[2], come accade all’inizio di questo libro in cui – nota il narratore – viene raccontata la storia «di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo Secolo» (p. 7). Si tratta qui di una concezione della storia secondo la quale l’umanità è manovrata e scandita da alcune rare «mutazioni metafisiche», ossia da alcune «trasformazioni radicali e globali della visione del mondo adottata dalla maggioranza» (pp. 7-8). Ciò che colpisce, in questa teoria, è il carattere assolutamente impersonale, ma implacabile e inevitabile, di tali trasformazioni : «Appena prodottasi, la mutazione metafisica si sviluppa fino alle proprie estreme conseguenze, senza mai incontrare resistenza. Imperturbabile, essa travolge sistemi economici e politici, giudizi estetici, gerarchie sociali.
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Smart working, smart profit… Smart strike?
di Lavoro Insubordinato
Avete bisogno di un convivente che vi aiuti a pagare affitti e bollette? Fra poco non sarà più un problema. È in arrivo lo smart working, il lavoro agile che permetterà allo sfruttamento di entrare nelle case di lavoratori e lavoratrici in salute e in malattia, 365 giorni l’anno finché licenziamento non li separi.
Pensate che esista ancora uno scarto tra pubblico e privato e che solo le donne abbiano il privilegio di lavorare tra le mura domestiche senza limiti alla giornata lavorativa? No, roba vecchia, lo smart working sarà per tutti, maschi e femmine, dipendenti pubblici e privati.
Avete paura di non essere abbastanza flessibili? Lo yoga non serve. Ora potrete essere sempre al lavoro, flessibilissimi e produrre, produrre come non avete mai fatto prima, senza limiti di orario e all’ora che preferite, in altre parole: sempre! Always! Immer!
Produttività continua e azzeramento dei costi di gestione: un toccasana per le aziende che, già rinvigorite dal Jobs Act, possono tirare l’ennesimo sospiro di sollievo. Lo scopo del lavoro agile, secondo l’articolo 1 del ddl non ancora approvato, è «incrementare la produttività e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro», ossia riconciliare il lavoratore con l’idea che i tempi di lavoro hanno occupato tutta la vita.
Lo smart working si ispira liberamente alle smart holidays, meglio note come Discretionary Time Off (DTO), sistema già diffuso nelle grandi multinazionali della Silicon Valley, General Electric e fra poco anche Linkedin.
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L’uso strumentale dell’accusa di «terrorismo» e il parallelo tra Isis e Brigate rosse
Militant
Gli attentati di Parigi del 13 novembre ci hanno fatto – lo ammettiamo, ingenuamente – pensare per un momento che finalmente, in Italia, dopo tanto blaterare di «terrorismo», i commentatori avrebbero capito cosa è il «terrorismo» e avrebbero imparato a distinguerlo non solo dalla lotta armata ma anche dalla normale dialettica politica tra le classi. Abbiamo peccato di ingenuità, appunto.
Avremmo dovuto ricordare, infatti, che già nel novembre del 2014, un anno fa, su «Famiglia Cristiana» il sociologo Stefano Allievi, disquisendo sull’Isis, si chiedeva retoricamente
che cosa sarebbe successo in Italia se le Brigate rosse avessero avuto un loro territorio? [...] All’interno dell’islam si svolge una battaglia culturale che somiglia a quella affrontata dalla sinistra all’epoca del terrorismo. Allora, semplificando, ci fu una serie di passaggi: da “i brigatisti sono provocatori fascisti” a “compagni che sbagliano” a “nemici del popolo”. Solo quando riconobbe che i terroristi, anche se si richiamavano a ideologie e simboli della sinistra, erano nemici dei lavoratori e dello Stato, la sinistra innescò il processo che sconfisse il terrorismo.
Si trattava di una delle prime avvisaglie di quel parallelo tra Isis e Brigate rosse, esperienze diversissime ma “incredibilmente” racchiuse sotto la comune categoria di “terrorismo”, che negli ultimi giorni, dagli attentati di Parigi in poi, è stata riproposta spesso – più o meno tra le righe – dai media e dal mondo politico. Per primo si è espresso Matteo Renzi che, come un disco rotto, ha ribadito più volte a distanza di giorni il concetto che «l’Italia ha sconfitto il terrorismo interno negli anni ‘70 e ‘80 e sicuramente ha la forza per combattere il terrorismo anche in questa fase» (leggi) e che «per isolare il terrorismo italiano negli anni ‘70 e ‘80, più ancora delle azioni del governo è stata importante la reazione della società civile: l’indignazione degli operai, dei studenti e dei cittadini» (leggi).
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Cos'è il lavoro nell'Ubercapitalismo?
Alessandro Gandini
In un articolo apparso a fine ottobre sul magazine online “Medium”, Robin Chase, fondatrice di Zipcar (un noto servizio di car sharing collaborativo angloamericano), racconta come il tempo medio di vita di un'impresa dal 1960 a oggi sia radicalmente calato: dai 61 anni, in media, degli anni Sessanta, ai 15 di oggi. Chase sostiene che questo sia un indicatore, fra i tanti, del processo di cambiamento socio-economico in atto. Innovate or die, questo è il mantra. Qui, l'industrializzazione e l'automazione basate su un'idea centralizzata del lavoro (gerarchica e top-down) oggi lasciano spazio (meglio, cedono il passo) a un'idea di organizzazione del lavoro centralizzata, distribuita e non gerarchica che Chase sintetizza nella definizione Peers Inc.
L'idea alla base di Peers Inc. è quella secondo cui la nuova industrializzazione al tempo dell'economia di Internet si basa su un modello di organizzazione del lavoro incentrato su una piattaforma e un core centrale, esiguo, di lavoratori che garantiscono il funzionamento della stessa. Attorno a questi, poi, si estende una larga parte di “lavoratori” che non lavorano direttamente per la piattaforma, ma offrono servizi ai clienti della stessa – quelli che Chase chiama Peers. Uber, ad esempio, funziona cosi: c'è la piattaforma, c'è il core di lavoratori che ne permettono il funzionamento (i dipendenti di Uber nel mondo) e ci sono i Peers: nel caso di Uber, i drivers che mettono a disposizione le auto ai clienti della piattaforma – noi, che dobbiamo andare a Linate, e il taxi costa parecchio, e non lo possiamo chiamare con l'app. Anche Airbnb funziona così: c'è il core di lavoratori che gestisce la piattaforma, ci sono i clienti (noi, che vogliamo andare in vacanza spendendo poco per un uso cucina) e ci sono i Peers: quelli che Airbnb chiama host, quelli che una volta avremmo chiamato affittacamere, che offrono il servizio ai clienti della piattaforma.
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Il dizionario vivente di Marx
Gianpaolo Cherchi intervista Peter Jehle
Intervista con il filosofo tedesco Peter Jehle, direttore editoriale dell’Istituto di teoria critica e protagonista del monumentale progetto internazionale di un «Dizionario storico-critico del marxismo», ormai giunto alla pubblicazione di nove volumi
Il Dizionario Storico-Critico del Marxismo è un progetto unico nel suo genere, non solo per le dimensioni monumentali e per il carattere internazionale che esso assume (si pensi solo ai numerosi collaboratori che partecipano da ogni parte del mondo), ma soprattutto per il momento storico preciso in cui una simile operazione ha luogo: un periodo che, oltre ad essere assai povero di criticità nel dibattito politico internazionale, anche sul piano culturale sembra aver perso un orizzonte critico di riferimento.
Carenza di criticità che ha portato ad una situazione assai lontana dalla «fine delle ideologie» prospettata da Francis Fukuyama: quella in cui viviamo, infatti, è in realtà l’era più ideologica della storia, con l’affermazione su scala globale del modello capitalista, supportato e mai contraddetto dalle nuove democrazie liberali.
In un tale contesto, quello di un Dizionario Storico-Critico del Marxismo (HKWM, n.d.r.) rappresenta un punto di assoluta importanza e di rilievo internazionale.
Abbiamo intervistato Peter Jehle, responsabile del progetto editoriale, nonché membro dell’Istituto berlinese di Teoria Critica (InKriT; www.inkrit.de).
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Ci vuole illustrare il progetto dell’HKWM?
Come si può facilmente prevedere, l’influenza storica del pensiero di Marx delinea il principale ambito tematico del HKWM.
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I ritorni di Marx*
di Aldo Tortorella
I seppellimenti e i ritorni di Marx nelle letture e nelle vicende storiche e politiche nel Novecento. La interpretazione antideterministica di Gramsci e la rivalutazione del ruolo della soggettività. Marx, un autore mosso da una potente ma misconosciuta carica etica
I seppellimenti e i ritorni di Marx nelle letture e nelle vicende storiche e politiche nel Novecento. La interpretazione antideterministica di Gramsci e la rivalutazione del ruolo della soggettività. Marx, un autore mosso da una potente ma misconosciuta carica etica. Di un ritorno, quasi una moda, di Marx si è largamente parlato dopo l’inizio della grande crisi aperta nel 2008 dal fallimento della Lehman Brothers e dal rischio fallimentare di altre grandissime banche americane – poi salvate coi soldi pubblici, a testimonianza di un meccanismo, detto per convenzione liberistico, specializzato nel privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
La stampa e la diffusione dei testi di Marx si moltiplicò in tutto il mondo, si manifestarono nuovi movimenti ispirati direttamente o indirettamente ad una critica del capitale finanziario, trovò vastissima eco la ricerca di Piketty, non marxista, sul capitale nel XXI secolo e sulla sua concentrazione nello stesso modo e nelle stesse mani di sempre, un tema d’interesse marxiano. Più recentemente la conferma di un ritorno è avvenuta da una fonte insolita ma sensibile allo spirito dei tempi com’è il mondo dell’arte visiva, con la dedica a Marx della Biennale di Venezia di quest’anno, compresa una lettura pubblica e sistematica del testo del Capitale.
La parte maggiore della nostra ineffabile stampa quotidiana ha trattato l’argomento quasi come una sorta di stranezza del curatore nigeriano, il quale – Okwi Enwezor – è, in realtà, uno dei più rilevanti intellettuali americani della materia, illustre docente universitario e creatore delle più grandi mostre d’arte del mondo.
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Affinità e divergenze con il professor Boeri
di Francesco Macheda*
Pochi giorni dopo la presentazione della Legge di Stabilità alla fine di ottobre di quest’anno, il presidente dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS) Tito Boeri ha tuonato che sarebbe stato ‘importante’ con la manovra per il 2016 “fare l’ultima riforma delle pensioni”. Boeri ha ribadito che la riforma delle pensioni “è davvero molto importante farla, sono riforme che vanno fatte”, auspicando “che il 2016 sia l’anno in cui si andrà a un intervento organico, strutturale e definitivo sulle pensioni”. [i]
Forse i tempi ristretti imposti dalle telecamere hanno impedito a Boeri di illustrare i contenuti della riforma che ha in testa. Boeri non spiega quali meccanismi finanziari e solidaristici desidera vengano ristrutturati, non dice chi dovrebbe pagare chi, chi dovrebbe ricevere cosa, quanto, quando e come.
Fortunatamente, la storia accademica di Boeri, nonché la strategia gestionale adottata fin dal suo insediamento a capo dell’INPS, ci consentono di avanzare qualche considerazione relativa l’organicità dell’intervento strutturale che, nei proposti dell’economista bocconiano, dovrebbe ‘modernizzare’ il sistema pensionistico italiano una volta per tutte. La mia ipotesi è che le ‘strategie riformatrici’ del presidente dell’INPS siano volte all’ulteriore indebolimento del mondo del lavoro al fine di sacrificare i diritti previdenziali dei lavoratori del nostro paese sull’altare del mercato. Ciò è del tutto coerente alla sua impostazione teorica neoclassica-individualista in campo previdenziale.
A tal scopo, intreccerò l’orientamento normativo delle dichiarazioni e documenti redatti da Tito Boeri in qualità di presidente dell’INPS con la sua analisi accademica.
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Il ruolo della Lega Nord e le risposte sbagliate
di Lorenzo Soli
Un paio di settimane fa si è tenuto nella città felsinea un evento che ha riempito i titoli dei mass media nazionali, ovvero il raduno capeggiato dalla Lega Nord, a cui si sono uniti Forza Italia e Fratelli d’Italia, e le conseguenti proteste dei vari movimenti studenteschi, dei collettivi facenti capo alla vasta galassia dell’antagonismo, oltre a svariate organizzazioni politiche che hanno sfruttato l’occasione per darsi visibilità elettorale. Cogliamo l’occasione per analizzare alcune dinamiche e inquadrare correttamente il contesto che non è certamente solo locale.
La Lega, che fino a poco tempo fa diceva “mai più con Berlusconi”, ha occupato Piazza Maggiore con una dimostrazione volta a far leva sull’insoddisfazione di vasti strati della popolazione e ad inaugurare un periodo di collaborazione tra queste forze politiche. Non c’è bisogno di dire quale vergogna sia stato tutto ciò per una città medaglia d’oro della Resistenza: cori razzisti, saluti romani, inneggi al fascismo, sono stati la norma. Ma inquadrare l’evento in maniera più dettagliata è necessario se si vuole comprendere effettivamente le dinamiche intrinseche di questa situazione ed esporre in maniera critica i fatti di cronaca avvenuti e l’impostazione generale che i vari movimenti hanno assunto in questo caso specifico, ma che assumono più in generale in ogni ramo della loro attività e che sono parte integrante della situazione di confusione e disorganizzazione in seno alla gioventù e agli strati proletari.
Innanzitutto nessuna analisi può prescindere dalla comprensione dello scenario di crisi organica che l’Italia sta attraversando.
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Paint it red. L’ordine della guerra e il nostro disordine transnazionale
∫connessioni precarie
Tanto la guerra santa quanto quella democratica pretendono oggi di imporre un principio d’ordine. Entrambe dividono con precisione i campi, chiedono di schierarsi per raggiungere gli scopi stabiliti. Rifiutare l’ordine della guerra non significa però confidare nel pacifismo. Non appare neppure lontanamente possibile ripetere l’esperienza del grande movimento che, dopo l’aggressione all’Iraq nel 2003, era stato addirittura indicato come la seconda grande potenza mondiale. Nonostante la diffusa diffidenza verso la guerra come soluzione, nonostante la scarsa fiducia in coloro che la guerra dovrebbero condurla, contrapporre semplicemente la pace alla guerra in corso appare velleitario e, in fondo, impraticabile. C’è una gran fretta di dichiarare una guerra per la quale gli aggettivi ormai si sprecano. C’è chi, con tutta la sua autorità, dice che è già scoppiata la terza guerra mondiale, c’è chi aggiunge che questa guerra mondiale è guerra civile e c’è chi dice che siamo in presenza della madre di tutte le guerre, la guerra globale. E prima di tutto c’è ovviamente la guerra santa. Il tempo che abbiamo di fronte, però, non è fatto solo di combattimenti, ma anche di una pace segnata dall’oppressione e da linee di confine che si confondono in continuazione dentro le metropoli e sulle strade che le congiungono. Se dunque vogliamo l’opposto di questo tempo, non possiamo chiedere semplicemente la sospensione della guerra, dobbiamo puntare decisamente alla trasformazione delle condizioni che lo rendono possibile. Nonostante i proclami, non siamo nemmeno di fronte allo scontro fondamentale tra principi inconciliabili. Il 13 novembre a Parigi non è stata dichiarata la guerra che rende finalmente evidente i fronti, perché nonostante tutto non è auspicabile consegnare questo tempo alle relazioni tra gli Stati, nelle quali i nemici possono improvvisamente diventare se non amici, almeno alleati. Per noi, invece, questo è decisivo. Dobbiamo individuare con chiarezza i nostri nemici senza guardare ai fronti disegnati da altri.
Non si può dipingere di rosso una porta nera. In questi ultimi giorni molto è stato giustamente detto sul differente peso dei morti, misurando le poche lacrime versate davanti alle stragi sui diversi e distanti fronti di guerra e lo scandalo per l’attacco a una delle più importanti capitali d’Europa.
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Isis e Jihadismo: dopo il 13 novembre
di Pier Francesco Zarcone
La tragicità del presente momento storico
Dopo i recenti attentati jihadisti a Parigi - un ulteriore episodio (e nemmeno dei più rilevanti in termini quantitativi) di una lunghissima catena di orrori di cui non si vede la fine - è difficile restare in silenzio. Ma c'è il problema di cosa dire, tanto più che commentatori di professione e tuttologi di varia tendenza stanno intervenendo in massa, in una profusione di banalità e di pseudoricette sul cosa fare.
L'Isis appare ormai come il nemico numero uno non solo per gli occidentali o i non musulmani, ma anche e soprattutto per gli stessi musulmani che, in definitiva, ne sono le prime vittime: non si dimentichi che a combattere sul campo i jihadisti ci sono proprio dei musulmani di ben diverso orientamento. E qui sta un primo problema.
Non da oggi va registrata l'assenza di protagonisti del passato da cui - in qualche modo, e pur con tutti i noti limiti - ci si poteva aspettare una produzione di anticorpi rispetto al radicalismo omicida degli islamisti. Ci si riferisce alle sinistre dei paesi islamici, al "progressismo" laico - per quanto militar-borghese - al nazionalismo arabo e al ruolo teoricamente esercitabile da élite musulmane non reazionarie. Tutto questo non c'è più, e nemmeno ci si può illudere che vi siano elementi "in sonno", nascosti da qualche parte per motivi tattici. Al riguardo è sintomatica la situazione turca, in fase pesantemente involutiva rispetto al periodo del repubblicanesimo kemalista, laicizzante alla sua maniera.
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Socialismo o astrazione?
di Mario Pezzella
1. Come rileggere Marx dopo la crisi economica del nostro presente e la rivoluzione passiva, che ha ricodificato in forma neoliberista le istanze di emancipazione degli anni sessanta del Novecento? Questa è la domanda di partenza di Finelli (Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014) che, di contro ai più tradizionali marxismi della contraddizione e dell’alienazione, pone al centro dell’opera di Marx un crescente e totalitario affermarsi dell’astrazione in ogni piega del reale. Il marxismo della contraddizione si muoveva secondo lo schema dialettico del rovesciamento e della negazione della negazione:esso sottolineava soprattutto il contrasto tra forze produttive e rapporti di produzione, che conduce di necessità al superamento dell’ordine capitalistico e al comunismo. Entro lo stesso capitale si sviluppano capacità tecniche, scientifiche, intellettive, che sono già oggettivamente generiche e comuni e dunque incompatibili con l’appropriazione privata della ricchezza.
È la stessa forza-lavoro a essere il motore necessario del rovesciamento, secondo uno schema evolutivo che ha trovato una delle sue più compiute espressioni in Storia e coscienza di classe di Lukács. Nel corso dello sviluppo del capitale, la forza-lavoro perde, è vero, i suoi caratteri qualitativi, concreti, differenzianti; ma proprio per questo – superando ogni limite individualistico – può risolversi in soggetto universale-collettivo all’altezza dei mezzi di produzione creati dal capitale stesso. A questo processo di rovesciamento e contraddizione risolutiva, si affianca – soprattutto nel primo Marx – l’idea dell’uomo come genere comune, comunità originaria, che il capitale ha dissolto con l’incremento della divisione del lavoro.
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La false flag della tutela del consumatore tra ordoliberismo e TTIP
di Quarantotto
1. Lo spunto per ri-attualizzare la questione, che troverete approfondita ne "La Costituzione nella palude", lo fornisce questo recente commento di "Stopmonetaunica":
"Se ho capito bene, quello che lei definisce consumismo senza senso è lo spostamento ordoliberista dai diritti del lavoro ai diritti del consumatore considerato come unico Dio. Se è questa la definizione che ne dà sono perfettamente d'accordo; è chiaro che i due diritti si trovano sovente in conflitto; banalmente: il consumatore vuole pagare di meno una merce, il lavoratore vuole essere pagato di più; la deflazione salariale adesso fa sì che sia anche una scelta obbligata da parte del consumatore il pagare meno le merci e nel contempo chiedere tutte le garanzie che queste merci siano prodotte con standard qualitativi alti; è quindi un circolo vizioso, un feedback negativo, che porta alla catastrofe sociale..."
2. Due piccole precisazioni: "consumismo senza senso" è una (felice) definizione non mia, ma di Rawls.
La "catastrofe sociale", in realtà, dipende da quale osservatore di consideri. Un neo-liberista, cioè in particolare un ordoliberista, vedrebbe tale schema come un virtuoso ripristino non solo del magico sistema dei prezzi, ma anche delle indispensabili gerarchie (di fatto), che devono governare la società come "Legge" superiore alla "legislazione" degli "inutili" parlamenti (quando non siano espressione del sondaggismo controllato dagli "operatori economici razionali").
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Žižek, Badiou e la Rivoluzione Culturale Cinese
di Sebastiano Isaia
Lettera ad Alain Badiou su Mao e sulla Rivoluzione Culturale; per una serie di circostanze non ho trovato il tempo, il modo e la voglia di pubblicarla. Me ne ero quasi dimenticato quando ieri mi sono imbattuto nella Risposta ad Alain Badiou scritta da Slavoj Žižek. Così oggi mi decido a postare la mia Lettera al filosofo francese, senza mutarne una virgola. Il lettore non si lasci ingannare dal titolo: si tratta di un format retorico strumentale all’esigenza di esporre nel modo più diretto e sintetico possibile la mia posizione su alcuni importanti eventi storici, la cui spinta propulsiva ideale come si vede è lungi dall’essersi esaurita. Insomma, da parte di chi scrive non si culla alcuna pretesa di poter interloquire da “pari a pari” con un intellettuale di fama e di prestigio internazionali. Premetto alla Lettera alcune considerazioni sulla Risposta di Žižek che in larga parte riprendono i temi esposti nella prima. Mi scuso quindi con il lettore per le ripetizioni.
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1. Sulla Risposta di Žižek alla Lettera di Badiou. Scrive Žižek a Badiou alludendo agli esiti disastrosi dello stalinismo e del maoismo: «La nostra tesi dev’essere che solo la sinistra radicale è in grado di tracciare tutti i contorni di queste catastrofi». Chi scrive ha mosso politicamente i suoi primi passi sul terreno arato e fertilizzato dai vinti, ossia da quei comunisti che già negli anni Venti del secolo scorso incominciarono a denunciare la battuta d’arresto, ancora vivo Lenin, e poi l’involuzione fino alla piena e totale sconfitta del Grande Azzardo chiamato Rivoluzione d’Ottobre. Parlo di Bordiga, di Gorter, di Pannekoek, di Korsch, di Trotsky e di pochissimi altri ancora. Le loro lezioni della controrivoluzione, non sempre concordi tra loro su tutti gli aspetti della questione e naturalmente in una mia personale ricezione, hanno costituito il mio punto di partenza, la prospettiva dalla quale non solo ho iniziato a interpretare la storia del movimento operaio internazionale del passato e del presente, ma ho anche approcciato gli scritti marxiani.
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