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Intelligenza artificiale, crisi delle competenze, simulazione del saper fare
di Il Chimico Scettico
Il vero punto di rottura dell'intelligenza artificiale non risiede nella sua capacità di simulare l'intelligenza, quanto piuttosto nel permettere agli utenti di simulare competenze che non possiedono realmente. Questo fenomeno può ridefinire profondamente concetti come autorevolezza, originalità e merito che, in teoria, dovrebbero essere fondanti per una società. Sottolineo "in teoria" perché una società governata in larga parte da simulacri come Baudrillard li ha definiti è già pronta per sostituire intelligenza e competenza con i rispettivi segni.
Il dibattito sull'IA si dovrebbe schiodare dalla dimensione filosofica del passato, incentrata sulla domanda se una macchina possa pensare, per includere l'impatto sociale di queste tecnologie.
C'è una questione già presente: cosa accade quando chiunque può produrre risultati che sembrano provenire da un esperto senza esserlo davvero? L'apparente "democratizzazione" della conoscenza o delle competenze in realtà alimenta un equivoco colossale.
Andiamo indietro nel tempo per dare un'occhiata a una rivoluzione che rimosse barriere all'accesso di una tecnologia. Il boom dei personal computer aveva portato con sé prima quello dei sistemi operativi e poi quello delle interfacce grafiche (MacOS prima, Windows poi). E la maggior parte del software più importante, dal sistema operativo agli applicativi più rilevanti, inclusi quelli per la programmazione, era a pagamento. Poi arrivò Linux, gratuito: qualcuno commentò in chiave marxista, dicendo che i mezzi di produzione erano stati distribuiti alla popolazione.
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Obbedienza
di Alberto Giovanni Biuso
Dal 1943 al 1945 il governo tedesco – il Cancelliere e i suoi più stretti collaboratori – vissero tra il bunker di Berlino e quello costruito in una zona di campagna della Prussia orientale. L’ossessione per la sicurezza era tale che il cibo destinato a Hitler veniva prima assaggiato da delle «donne tedesche giovani e di buona salute», reclutate nei villaggi vicini al bunker. Il film di Soldini Le assaggiatrici è tratto da un romanzo di Rosella Pastorino ispirato a tale vicenda. Le sette donne coinvolte, donne sole perché i mariti erano al fronte o già morti, formano a poco a poco un universo nel quale le diverse idee politiche – una soltanto di esse è convintamente nazionalsocialista –, le vite vissute, le sensibilità e gli obiettivi descrivono le diverse reazioni che è possibile avere di fronte all’ingiunzione, all’ordine, alla richiesta di un’obbedienza perinde ac cadaver. Tutto questo viene raccontato da Silvio Soldini con chiarezza e con ottimi ritmi narrativi.
Ben al di là del caso specifico, e certo eccezionale, il film è interessante proprio come paradigma dell’obbedienza. Seguendo con attenzione trama, paure, reazioni, fatti, si comprende quanto fondamentale e pervasivo sia tale paradigma per le vite umane individuali e collettive. E quanto pericoloso esso sia, persino distruttivo. Rivolgendosi alla SS della quale è diventata l’amante, la protagonista Rosa Sauer afferma: «Tu non sei un uomo, tu sai solo obbedire, sempre e comunque». Anche quando l’ordine è di morte, soprattutto quando l’ordine è di morte e riguardi donne e bambini indifesi.
È quanto sta accadendo a Gaza, dove i soldati dell’IDF, l’esercito di Israele, procedono senza incertezze a dare la morte a centinaia di migliaia di bambini e di donne.
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Oltrepassare la pigrizia… e il lavoro
di Anselm Jappe*
Proponiamo questa breve riflessione di Anselm Jappe, ancora una volta sulla questione del lavoro, tema centrale per la Critica del Valore (Wertkritik) – corrente di pensiero a cui anche lo stesso Jappe appartiene.
Può sembrare una perdita di tempo, oggi, a fronte di catastrofi ecologiche e umanitarie, massacri e guerre, disoccupazione endemica e diffusa miseria crescente, occuparsi una volta di più della tematica del lavoro, soprattutto nell’ottica in cui lo fa la critica del valore, cioè quella – detto con una battuta e in modo insufficiente – del «rifiuto» del lavoro. Un rifiuto certo motivato, non un semplice vezzo da abitanti benestanti del primo mondo, se è vero che, come sostiene questa corrente di pensiero riprendendo soprattutto quello che loro definiscono il «Marx esoterico»,1 una tale questione è decisiva per le sorti del capitalismo, nella misura in cui si tratta di un sistema sociale fondato sul lavoro e sull’estrazione di valore che esso permette. Proprio la crisi di questo meccanismo, dovuta alla esplosiva capacità produttiva propria della terza rivoluzione industriale, quella a traino informatico e microelettronico, è la causa prima, secondo questa lettura, degli immani disastri ecologici e sociali a cui stiamo assistendo ormai da decenni. La conseguente carenza di una valorizzazione adeguata per gli ingenti capitali in circolazione toglie al regime del capitale qualsiasi freno inibitorio (al di là delle messinscene green o quant’altro), e lo conduce a cercare la redditività senza più rendere conto a niente e a nessuno, tantomeno a se stesso, entro un vortice distruttivo e autodistruttivo.
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Assistiamo attoniti all’agonia del diritto internazionale
di Alessandro Scassellati
I paesi potenti si comportano come se il diritto internazionale non contasse, o addirittura non esistesse. Un numero crescente di studiosi e giuristi sta perdendo fiducia nel sistema attuale del diritto internazionale. Altri sostengono che la colpa non sia della legge, ma degli Stati che dovrebbero rispettarla. Proprio quando il mondo ha disperatamente bisogno di anziani saggi, il suo destino è nelle mani di vecchi e spietati patriarchi. Il diritto internazionale che presiede all’ordine globale sta venendo smantellato da una generazione di governanti che non vivrà abbastanza per vedere i detriti che si lascia alle spalle
Mentre il mondo è alle prese con un’ondata di conflitti armati, crisi umanitarie e palesi violazioni dei principi fondamentali del diritto internazionale (tra cui attacchi all’indipendenza delle corti internazionali, preoccupazioni sul genocidio e sulle guerre in Medio Oriente), i commentatori si interrogano sempre più sulla rilevanza del diritto internazionale. Ha mai avuto importanza? È mai stato espressione di solidarietà globale e di un’umanità comune? E se sì, perché oggi sta fallendo in modo così catastrofico? Allo stesso tempo – e ironicamente in mezzo a questa turbolenza globale – il diritto internazionale, incluso il diritto dei diritti umani, rimane il quadro normativo più dominante per legittimare e delegittimare i comportamenti sulla scena globale, a dimostrazione della sua persistente influenza anche quando la sua applicazione appare precaria. Con l’espressione “agonia del diritto internazionale” cerchiamo di mettere in luce un dibattito cruciale sull’efficacia e la legittimità del diritto internazionale nell’affrontare le sfide globali. Essa evidenzia il divario tra gli ideali del diritto internazionale e la sua applicazione pratica, in particolare in ambiti come la prevenzione dei conflitti militari, i diritti umani, la tutela ambientale e la giustizia economica.
A fine aprile, alcuni terroristi hanno ucciso 26 civili nella città indiana di Pahalgam, situata nella regione montuosa di confine del Kashmir. L’India ha rapidamente incolpato il Pakistan dell’attacco, ha lanciato attacchi missilistici verso di esso e ha annunciato la sospensione del trattato sulle acque dell’Indo, minacciando di fatto di interrompere i tre quarti dell’approvvigionamento idrico del Pakistan. L’India sta ipotizzando di chiudere il rubinetto a 250 milioni di persone. Ciò violerebbe non solo il trattato, ma anche le leggi internazionali sull’uso equo delle risorse idriche.
I governanti pakistani hanno la spaventosa consapevolezza che non ci sia molto da fare perché assistiamo a un’improvvisa erosione delle istituzioni multilaterali, delle norme istituzionali internazionali.
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Attraversando il continente nero. Letture di Carlo Formenti
di Alessandro Visalli
Tra il novembre 2024 e il marzo 2025, sul blog di Carlo Formenti, Per un Socialismo del Secolo XXI sono stati pubblicati una serie notevole di letture di testi relativi ad autori africani. Questi consentono di aprire una finestra su un enorme e storico dibattito legato alle trasformazioni del ciclo di lotte anticoloniali e al loro esito nell’età unipolare. Lotte che oggi potrebbero trovare l’occasione di una nuova stagione nell’era multipolare che si sta aprendo. Ciò a patto di comprendere gli errori, le compromissioni e le dimenticanze che si sono date.
Apre la serie, composta da sette post, l’analisi di tre autori caratterizzati dal loro impegno marxista: Said Boumama[1], Kevin Ochieng Okoth[2], Amilcare Cabral[3]. Segue la lettura della posizione di Walter Rodney[4], quindi la lettura di alcuni “classici”, ovvero intellettuali militanti della generazione precedente, come Du Bois, Padmore, Williams, James, Césaire[5], quindi la posizione di Cedric Robinson[6]. Infine, il marxismo nero e femminista di Angela Davis[7].
Due correnti: la prassi e la critica del discorso
L’insieme di queste letture illumina una tensione tra due modi di affrontare, dal punto di vista degli attori ‘periferici’, l’apertura critica determinatosi prima nella mobilitazione contro il colonialismo e razzismo occidentale (du Bois, Williams, Césaire, Fanon) e nel contesto delle lotte di liberazione nazionali, influenzate dal ‘socialismo arabo’ e dal marxismo (Okoth, Cabral, Rodney), da una parte, e l’ampia e maggioritaria corrente formatasi in seguito, soprattutto negli anni Novanta, intorno alla reazione alle delusioni e fallimenti della decolonizzazione (Said, Spivak, Bhabha, Hall, Mignolo, Quijano, Mbembe ed altri). Si tratta di una divaricazione su più piani: tra studi (decoloniali) che trovano la loro collocazione essenzialmente entro una svolta epistemologica (circa il modo di definire la verità) e politico-culturale che prende forza in quegli anni nel contesto dell’accademia americana e diventa particolarmente forte nei dipartimenti di letteratura, il post-modernismo; e, dall’altra, in contesti più impegnati nelle lotte contro il neocolonialismo e la sua base ‘razzialistica’ (in base alla distinzione di Cedric Robinson che vedremo tra breve).
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Il lato oscuro dei diritti umani: contro l’uso capitalistico della questione omosessuale
di Eros Barone
1. Società ed omosessualità
La tesi che sta al centro di questo articolo è che il comportamento omosessuale è tanto più diffuso quanto più la società è contrassegnata dall’antagonismo tra i suoi membri, cioè quanto più essa è competitiva. La riprova è costituita, a mio avviso, dalla civiltà della Grecia antica, in cui, come è noto, il comportamento omosessuale si manifestava nella forma della pederastia e rispecchiava fedelmente la struttura di una società ove i maschi liberi vivevano immersi in una dimensione di agonismo permanente (lo studioso Giorgio Colli, ad esempio, fa risalire a questo dato socio-antropologico la stessa nascita della dialettica), 1 così come fortemente agonistici erano i rapporti tra le stesse città dell’Ellade. Non a caso l’istituzione delle Olimpiadi fu anche e soprattutto la valvola di sfogo per tenere sotto controllo questa energia potenzialmente distruttiva, i cui correlati mitologici sono rappresentati da figure come quelle di Eracle e di Achille. Non sorprendono pertanto né la diffusione del comportamento omosessuale in Grecia né la sua progressiva diffusione e legittimazione nella civiltà romana grazie alla progressiva ellenizzazione di quest’ultima, tappa finale del passaggio da una società di tipo patriarcale-solidaristico a una società imperiale-cosmopolita con forti connotazioni individualistiche e competitive.
Per quanto concerne l’esistenza di un nesso inscindibile fra comportamento omosessuale e competitività nelle diverse epoche e nelle diverse società, mi limito solo ad alcuni esempi relativi al settore militare, in cui il modello competitivo trova la sua principale e radicale applicazione, anche se il discorso potrebbe essere più ampio. La falange macedone e il battaglione sacro tebano, formati da oltre un centinaio di coppie omosessuali, possono bastare per l’epoca classica, a meno che non si voglia ricordare l’esclusione dei legionari omosessuali passivi dall’esercito romano, motivata da chiare esigenze di efficienza militare sia nella difesa che nell’attacco.
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Merz lancia la sua offensiva: neoliberismo e bellicismo, le armi che devasteranno la Germania
di Fabrizio Verde
Tagli alla spesa pubblica e corsa agli armamenti: la duplice minaccia che, ignorando la crisi energetica e la concorrenza globale, trasformerà la recessione in un collasso irreversibile
La locomotiva d’Europa è in panne. Deragliata. La Germania affonda in una crisi economica definita dalla sua stessa industria come la più lunga e profonda dalla riunificazione. Tre anni consecutivi di recessione – un calo dello 0,3% nel 2023, dello 0,2% nel 2024 e una previsione di ulteriore -0,1% nel 2025 – dipingono un quadro desolante, un malato d’Europa in netto contrasto con la crescita dell’1,1% attesa per l’Unione. Macchine ferme, ordini evaporati, investimenti in fuga: è il lamento unanime degli industriali riuniti nella potente Federazione dell’Industria Tedesca (BDI). La produzione industriale, il cuore della potenza tedesca, è crollata del 16% rispetto al picco del 2018. Settori vitali ed energivori, strangolati dalla rinuncia al gas russo a basso costo imposta da folli sanzioni auto-inflitte, hanno visto la produzione crollare di un quinto. Un fiume di licenziamenti, 37.700 solo nei primi sei mesi del 2025, il dato peggiore dalla pandemia, sta svuotando le fabbriche, in particolare quelle automobilistiche, con 20.700 posti persi nel settore che era la bandiera del ‘Made in Germany’.
Sulla scena di questo disastro economico, aggravato dalla concorrenza della Cina e dall’ascia protezionista di Donald Trump pronta a calare da oltreoceano – minaccia che potrebbe far sprofondare il PIL tedesco di un ulteriore 0,5% – si staglia l’ombra di Friedrich Merz e della CDU.
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Il Maestro e Margherita da Bulgakov al grande schermo
di Carlotta Guido
A Mosca, su una panchina presso gli Stagni del Patriarca, in un tempo così definito da diventare infinito, è stato affermato l’impossibile. Tre uomini, tutti e tre notevoli rappresentanti di un impegno, di un pensiero, di un modo d’essere, affermano il Caos. Soltanto uno di loro, però, è in grado di volerlo davvero. È questo l’incipit del capolavoro postumo di Michail Bulgakov, Il Maestro Margherita; ma bisogna attendere una quarantina di minuti per vederlo sul grande schermo nell’omonima versione cinematografica firmata da Michail Lokšin.
L’intreccio è risaputo: nella Mosca del 1929, uno strano figuro che si fa chiamare Woland (un calibratissimo August Diehl), spacciandosi per esperto di occulto e magia nera, si insinua nelle vite di alcuni personaggi di spicco della città, dimostrandosi ghiotto di teatro e letteratura. Con lui un pugno di bizzarri manigoldi: l’instancabile Korov’ev (Jurij Kolokol’nikov), per gli amici Fagotto, l’irascibile Azazello (Aleksej Rozic), l’imperscrutabile Hella (Polina Aug) e il gatto Behemoth. A fare da perno è la figura del Maestro (Evgenij C'īgardovič), autore di talento, intento a portare sulle scene la sua nuova opera, Ponzio Pilato; nel mentre, una lunare Margherita (Julija Snigir') lo incrocia casualmente per le strade di una Mosca assediata dai cantieri per non lasciarlo mai più.
Coprodotto dalla statunitense Universal, che per lungo tempo ne ha bloccato la distribuzione mondiale in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, il film di Lokšin arriva ora nelle sale italiane.
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«La nuova religione di massa è il culto della guerra»
di Emmanuel Todd
Per l’antropologo francese Emmanuel Todd, la matrice religiosa delle società occidentali attraversa tre fasi: religione attiva, religione zombie e, infine, religione zero – la scomparsa completa della fede e dei suoi valori morali. Negli Stati Uniti e in Israele, che hanno raggiunto lo stadio zero, Todd osserva la comparsa di nuove forme di religiosità: un evangelismo delirante e un ebraismo ultraortodosso. Ma la vera novità, in entrambi i Paesi, è il culto della guerra: una religione di massa post-monoteista, nutrita di nichilismo e di divinità guerriere. La sua incarnazione simbolica? Thor, il dio scandinavo della guerra.
Una sequenza in tre fasi può descrivere la dissoluzione della matrice religiosa delle nostre società: religione attiva (credenza e pratica regolare), religione zombie (incredulità accompagnata dalla sopravvivenza di valori morali e sociali) e infine religione zero (scomparsa completa).
Ho inizialmente applicato questo schema al cristianesimo, in tutte le sue varianti – cattolica, protestante, ortodossa – per poi estenderlo agli altri due grandi monoteismi, l’ebraismo e l’islam, concentrandomi in quest’ultimo caso sulla componente sciita. Così, possiamo descrivere per la Scandinavia per esempio una sequenza tipo: «protestantesimo attivo, protestantesimo zombie, protestantesimo zero». Per l’Iran: «sciismo attivo, sciismo zombie», con la possibilità futura di uno «sciismo zero». In Israele, invece, la sequenza appare già compiuta: «ebraismo attivo, ebraismo zombie, ebraismo zero».
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Decima parte. I profsojuz durante la NEP: il settore socializzato (parte II)
Ci eravamo lasciati con Vladimir Il’ič, ripartiamo da lui. Guarda caso subito dopo aver rimesso i paletti tolti in tempo di guerra civile e comunismo di guerra, parla del diritto di sciopero nelle aziende nazionalizzate. Il suo è un capolavoro di EQUILIBRIO tra dovere di rappresentanza sindacale e senso di responsabilità nei confronti della nuova collettività di cui si fa parte, lo Stato degli operai e dei contadini:
Finché ci saranno le CLASSI, la LOTTA DI CLASSE sarà inevitabile. L’esistenza stessa delle classi sarà inevitabile, nel periodo di TRANSIZIONE dal capitalismo al socialismo, e il programma del PCR afferma in modo inequivocabile che noi siamo solo AI PRIMI PASSI DI QUESTA TRANSIZIONE.
Per questo sia il partito comunista, sia i soviet, così come i sindacati, devono riconoscere apertamente l’esistenza della lotta di classe e la sua inevitabilità, almeno fino a quando, fosse anche solo nelle sue linee fondamentali, non sarà completata l’elettrificazione dell’industria e dell’agricoltura e, con essa, saranno completamente sradicati (подрезаны все корни) gli interi comparti della piccola imprenditoria e del commercio. Da ciò discende che, allo stato attuale, NON POSSIAMO IN ALCUN MODO ESIMERCI DAL LOTTARE SCIOPERANDO, e NEPPURE CONSENTIRE LA PROMULGAZIONE DI UNA LEGGE che LO SOSTITUISCA OBBLIGATORIAMENTE con un TAVOLO DI MEDIAZIONE STATALE.
D’altro canto, è evidente che l’obbiettivo finale della lotta tramite sciopero nel capitalismo è la distruzione dell’apparato statale e il rovesciamento di quel potere statale in mano alla borghesia. IN UNO STATO PROLETARIO DI TRANSIZIONE come il nostro, invece, L’OBBIETTIVO FINALE DELLA LOTTA TRAMITE SCIOPERO non può che essere il RAFFORZAMENTO DELLO STATO PROLETARIO ovvero DEL POTERE STATALE IN MANO AL PROLETARIATO, per mezzo di una LOTTA SERRATA CONTRO LE DISTORSIONI BUROCRATICHE DI TALE STATO, CONTRO I SUOI ERRORI, LE SUE DEBOLEZZE, GLI APPETITI DI CLASSE DEI CAPITALISTI CHE SFUGGONO AL SUO CONTROLLO, ECCETERA1.
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Cane pazzo
di Enrico Tomaselli
Sono gli Stati Uniti a guidare Israele, che ne è il docile strumento per il controllo del Medio Oriente, o viceversa è Israele a controllare di fatto gli USA, anche grazie alla capillare azione dell’AIPAC [1], che tra finanziamenti e ostracismi ad hoc tiene in pugno l’intero Congresso?
C’è da lunghissimo tempo un acceso dibattito sulla relazione tra Stati Uniti e Israele, sulla natura di questo rapporto – che certamente non può essere semplicemente riassunto in termini geopolitici. L’opinione prevalente, quantomeno negli ambienti del cosiddetto dissenso, sembra essere che siano gli USA a tenere le redini del comando, e come sempre in questi casi, una volta assunta una tesi si finisce per leggere ogni fatto come coerente con la tesi stessa.
La mia personale opinione, in merito, è che la natura di questa relazione sia in effetti assai più complessa di quanto possa essere riassunto nella scelta binaria, A o B. E che, in ultima analisi, entrambe abbiano potenti leve per condizionare le scelte dell’altro, così come – conseguentemente – entrambe abbiano bisogno l’uno dell’altro. Il recente conflitto con l’Iran, la cosiddetta guerra dei 12 giorni, è un’ottima occasione per verificare queste diverse tesi.
Quello che possiamo dare per certo, è che Washington sapeva che Tel Aviv stava preparando l’attacco. E, ovviamente, questo può essere letto in modi diversi. Può significare che il negoziato avviato da Witkoff con la mediazione del Qatar era, sin dall’inizio, null’altro che una cortina fumogena per coprire l’attacco stesso. O, viceversa, poiché la fermezza iraniana stava bloccando le trattative, Trump ha pensato che l’azione israeliana potesse indurre Teheran a più miti consigli. In entrambe i casi, però, la vera domanda è: tenuto conto del fatto che sia a Washington che a Tel Aviv non potevano non essere consapevoli dei limiti strutturali dell’operazione Rising Lion, qual’era il vero obiettivo?
Ovviamente quella del nucleare militare iraniano è una favoletta per il pubblico occidentale, che oltretutto se la beve pari pari da trent’anni [2], quindi ciò che si voleva conseguire non era la distruzione del programma nucleare di Teheran.
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Perché Netanyahu non batterà l’Iran
di Pino Arlacchi
Il cessate il fuoco tra Israele e Iran è più l’inizio di una nuova fase del conflitto che la sua conclusione. Gli Stati Uniti sono intervenuti per impedire che il fallimento dell’attacco israeliano diventasse troppo evidente e producesse danni più profondi.
I due obiettivi dell’aggressione israeliana – la distruzione delle installazioni nucleari iraniane e il crollo del regime – erano stati platealmente mancati, ed era meglio ripiegare usando il classico espediente del face saving: salvare la faccia e ritirarsi urlando di avere vinto, e invitando l’Iran a fare altrettanto. Teheran ha accettato perché aveva anch’essa, comunque, subito molti danni, e aveva anch’essa bisogno di ricaricare il fucile.
Al di là degli sviluppi a breve (nuovi bombardamenti da entrambi i lati, qualche ulteriore barbaro assassinio di scienziati e civili) è probabile che questo conflitto assuma gradualmente il profilo di una vera e propria guerra di posizione, la cui posta può essere la sconfitta storica del nemico, l’azzeramento definitivo della sua capacità di minaccia e di distruzione. Questo tipo di guerra è radicalmente diversa da quelle che Israele è abituata a fare. E a vincere grazie alla sua tecnologia militare avanzata, alla sua possibilità di scaricare in poco tempo il massimo della sua potenza offensiva, e grazie all’appoggio senza riserve degli Stati Uniti.
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I limiti della dottrina della sicurezza indivisibile
di comidad
I media si sono soffermati un po’ troppo sulla frase di Guido Crosetto secondo cui la NATO, così com’è, non avrebbe più ragione di esistere. La dichiarazione più significativa del ministro della Difesa era invece un’altra, e cioè che, comunque, la NATO se la voleva tenere stretta. Il motivo dell’affettuoso abbraccio di Crosetto (consulente di Leonardo SpA) nei confronti della NATO è facilmente spiegabile, se si considera che nello stabilimento Leonardo di Cameri in Piemonte vengono assemblati i caccia F-35 della Lockheed Martin. Il business del caccia più costoso di tutti i tempi si è rivelato talmente lucroso per Leonardo che il governo tedesco ha deciso di non acquistare i caccia prodotti nello stabilimento di Cameri e di costruirne uno proprio per assemblare gli F-35.
Il business della “difesa” è una partita di giro nella quale la lobby delle armi occupa i governi, i quali a loro volta drenano il denaro pubblico verso la lobby delle armi. Ovviamente tutto ciò va benissimo per le cosche di affari, ma non ha niente a che vedere con la “sicurezza”; anzi, è molto più probabile che un’alleanza tra trentadue paesi diversi finisca per comportarsi come una baby gang dominata non solo dal bullo più violento del gruppo, ma anche dalla cerchia di adulatori che manipola il bullo. Il fallimento dei blocchi militari come la NATO in termini di sicurezza è il punto di partenza della nota dottrina, enunciata da Xi Jinping, della cosiddetta “sicurezza indivisibile”. Tutto il discorso è molto bello, molto confuciano: se cerco la mia sicurezza a scapito di quella degli altri, è inevitabile che ciò mi ritorni indietro come aumentata insicurezza.
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La controrivoluzione del presidente
di Michele Paris
La gigantesca legge di spesa voluta da Donald Trump è vicina all’approvazione definitiva del Congresso di Washington dopo che il Senato l’ha licenziata con il più ristretto dei margini nella notte di martedì. Nota come “Grande e Bellissima Legge”, quest’ultima farà aumentare ancora di più un debito pubblico già fuori controllo negli Stati Uniti, con implicazioni enormi sia sul fronte interno sia su quello internazionale. Nel concreto, si tratta di uno dei più imponenti trasferimenti di ricchezza dal basso verso l’alto della piramide sociale e segna un punto di rottura probabilmente definitivo nel processo già ben avviato di smantellamento del sistema di welfare americano uscito dalle battaglie e rivendicazioni del “New Deal” e degli anni Sessanta del secolo scorso.
Il pacchetto di spese e tagli aveva già ottenuto il via libera della Camera dei Rappresentanti nel mese di maggio e al Senato è stato al centro di accesissime discussioni, in particolare per le possibili conseguenze politiche degli attacchi a popolari programmi di assistenza sociale. La versione approvata tra martedì e mercoledì è stata alla fine anche più estrema rispetto a quella della Camera, riflettendosi su una votazione in aula tiratissima che ha costretto il vice-presidente J. D. Vance, il cui incarico include costituzionalmente anche quello di presidente del Senato, a esprimere il voto decisivo per il passaggio della legge (51-50).
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Presidente firmatutto e i quattro, o cinque, cialtroni dell’Apocalisse
di Fulvio Grimaldi
“Mondocane video”, canale Youtube
https://www.youtube.com/watch?v=XelW90k7hf0&t=559s
https://youtu.be/XelW90k7hf0
Settant’anni di terrorismo di Stato e mafia con manovalanza fascista ha prodotto la palude da cui è sorto l’attuale governance (dire “governo” è troppo), che ha sancito (Decreto Sicurezza) che chi protesta, rivendica giustizia, difende la nuda vita, commette reati da carcere. Che chi si oppone a speculazioni ladronesche e militaristiche che devastano territorio, ambiente, cultura, società, commette reati da carcere. Che chi dice la verità, istiga il terrorismo, diffonde fake news e commette reati da carcere. Che chi occupa una casa, perché vive sotto i ponti, od occupa un’aula piuttosto che cederla alle smargiassate di un generale invitato a illustrare opportunità e splendori della guerra, commette reati da carcere.
Ma soprattutto…
…coloro che in questi ottant’anni di un dopoguerra di guerre NATO hanno condotto la guerra interna contro il proprio popolo a forza di attentati stragisti utilizzando servizi segreti, mafie, fascisti, provando malamente a mascherarsi da custodi dell’ordine democratico, col Decreto Sicurezza sono autorizzati a uscire allo scoperto e operare in piena legalità: “I servizi potranno creare e dirigere organizzazioni criminali e terroristiche”.
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Iraq: prossima tappa del “riassetto sionista” del Medio Oriente?
di Enrico Vigna
Dopo l’ultima aggressione armata all’Iran, conclusasi con una rapida tregua dopo aver decapitato i più alti e validi esponenti militari e scientifici del paese, molti analisti militari arabi e internazionali, focalizzano nell’Iraq, la prossima mossa di Israele, in quanto, quello iracheno “è l’ultimo fronte rimasto”, al momento non coinvolto degli obbiettivi sionisti.
Infatti, mentre stanno compiendo il genocidio e la pulizia etnica in Gaza, mentre stanno destrutturando militarmente e territorialmente la Cisgiordania e i Territori occupati palestinesi, dopo aver sfibrato militarmente e politicamente Hezbollah e le forze della Resistenza in Libano, dopo aver partecipato alla distruzione della Siria araba e sovrana, occupandone poi grandi aree e mentre continua la conflittualità militare a distanza, per ora, con lo Yemen di Sana’a, molti analisti stanno riflettendo e valutando se il prossimo tassello, per finire il lavoro di destabilizzazione regionale, sia quello di mettere in ginocchio l’Iraq, destrutturandolo a proprio interesse strategico.
Questo perché lì è presente il PMF, le “Forze di Mobilitazione Popolari”, l’ultima forza consistente dell’”Asse della resistenza”, quest’ultima alleanza al momento gravemente sfibrata.
Le PMF, sono una coalizione di milizie, in gran parte sciite irachene di circa 136.000 uomini, che diventano circa 170.000, sommata ad altre forze resistenti locali, tra cui Kata’ib Hezbollah, Nujabaa, Kataib Sayyed al-Shuhada, Ansarullah al-Awfiyaa. l'Organizzazione Badr ed a una minoranza di brigate sunnite, cristiane, yazide e shabak, tutte unificatesi per combattere contro le forze statunitensi durante l'invasione USA dell'Iraq.
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Un “nuovo 11 settembre”: il paradigma della guerra permanente come deterrenza finanziaria
di Fabio Vighi
Non sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli attacchi di Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11 settembre”. Naturalmente, si riferiscono al racconto ufficiale dell’11 settembre, indelebilmente impresso nella sua terrificante iconografia (che però tende a escludere la risposta scatenata dagli Stati Uniti in Medio Oriente nei due decenni successivi, una prolungata operazione genocida nota come “guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta “nuovo 11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà, è l’opposto di quanto i mass media lasciano intendere: e cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le emergenze globali si susseguono senza soluzione di continuità affinché il proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico globale) possa essere calciato un po’ più in là.
Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ‘Quando il Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata, Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo. E il costo e le minacce per l’America e il mondo continuano ad aumentare’. Da qui la richiesta di nuovi miliardi di dollari in pacchetti di emergenza destinati sia all’Ucraina che a Israele (ma anche alla sicurezza delle frontiere con il Messico e altre “crisi internazionali”). È un po’ come se ci stessero vendendo due guerre al prezzo di una – Joe Biden in versione Vanna Marchi.
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Tripolarità senza catastrofe
di Salvatore Minolfi
Storditi da un trentennio di monocultura unipolare, ci siamo largamente disabituati a ragionare di potere, il cui perimetro definitorio è andato sempre più sfumando negli ampi e rilevanti territori circostanti, per confondersi, di volta in volta, con la potenza industriale, la ricchezza finanziaria, la forza commerciale, l’esuberanza demografica, l’innovazione high tech, il fascino ideologico, ecc. Disabitudine insostenibile se rapportata a un tempo storico la cui cifra dominante è rappresentata da una crisi conclamata dell’ordine internazionale, la cui severità è testimoniata non solo dai sorprendenti sviluppi che pure la punteggiano, ma anche dai sempre più vistosi disaccordi che emergono quando si discute della forma che il mondo stesso oggi presenta o va tendenzialmente assumendo in conseguenza di questa crisi. In breve, l’incertezza investe non solo i tradizionali parametri di analisi, ma la realtà stessa, poiché fornisce spesso indicazioni contraddittorie e ci costringe a fare i conti con l’elusività che sembra avvolgere il potere nella sua forma più alta e distillata. È su questo livello che ha senso avventurarci, rinunciando per ciò stesso alle più diffuse e confortevoli semplificazioni.
Negli Stati Uniti – l’unico paese dove l’analisi del potere e la riflessione strategica non si sono mai interrotte – le divergenze sono tali da coprire pressoché l’intero spettro delle rappresentazioni possibili, ciascuna delle quali porta con sé, inevitabilmente, orientamenti e prescrizioni differenti per l’agire politico delle classi dirigenti.
Potere e influenza
Mi riferisco, innanzitutto, al fatto che la riflessione sul potere oscilla (ormai da più di mezzo secolo) tra due diversi campi semantici: il potere come “capacità” e il potere come “influenza”.
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È giunto il momento di una pace globale in Medio Oriente
di Jeffrey D. Sachs
La soluzione è chiara: è ora che gli Stati Uniti riconoscano che i propri interessi strategici richiedono una rottura decisiva con la strategia distruttiva di Israele
L’attacco di Israele e degli Stati Uniti all’Iran ha avuto due effetti significativi. In primo luogo, ha messo ancora una volta in luce la causa principale dei disordini nella regione: il progetto di Israele di “rimodellare il Medio Oriente” attraverso un cambio di regime, con l’obiettivo di mantenere il proprio dominio e impedire la creazione di uno Stato palestinese. In secondo luogo, ha evidenziato l’inutilità e l’incoscienza di questa strategia. L’unica via per la pace è un accordo globale che affronti la questione della statualità della Palestina, la sicurezza di Israele, il programma nucleare pacifico dell’Iran e la ripresa economica della regione.
Israele vuole rovesciare il governo iraniano perché l’Iran ha sostenuto i suoi alleati e attori non statali schierati con i palestinesi. Israele ha anche costantemente minato la diplomazia tra Stati Uniti e Iran sul programma nucleare iraniano.
Invece di guerre infinite, la sicurezza di Israele può essere garantita da due misure diplomatiche fondamentali: porre fine alla militanza istituendo uno Stato palestinese con le garanzie del Consiglio di sicurezza dell’ONU e revocare le sanzioni contro l’Iran in cambio di un programma nucleare pacifico e verificabile.
Il rifiuto del governo israeliano di estrema destra di accettare uno Stato palestinese è alla radice del problema.
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Guerra e austerità, il nuovo sogno europeo
di coniarerivolta
Con la decisione assunta nel vertice NATO del 25 giugno a L’Aia, i Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord si impegnano ad aumentare le spese militari e connesse alla difesa al 5% del PIL annuo entro il 2035.
Tale decisione risponde all’esigenza di aumentare del 30% la capacità militare dell’Alleanza e renderla “più letale”, nelle parole del Segretario Generale Mark Rutte. In applicazione dell’articolo 3 del Trattato fondativo della NATO, tutti gli Stati membri sono impegnati a mantenere e accrescere la loro capacità bellica.
In attuazione di questo orientamento strategico, la NATO definisce periodicamente gli “Obiettivi di capacità”, che stabiliscono operativamente cosa un Paese debba essere in grado di fare in caso di guerra – andando ben oltre la definizione quantitativa delle risorse materiali necessarie. Proprio perché questa metrica è qualitativa e non si traduce in un impegno finanziario puntuale, è maturata in seno alla NATO la decisione di passare dalla mera indicazione di un aumento degli “Obiettivi di capacità” all’impegno finanziario sancito a L’Aia in termini di spesa.
Nella Dichiarazione de L’Aia, vengono chiariti i motivi di questa vera e propria corsa al riarmo: l’impegno al drastico incremento della spesa militare è giustificato dalle “profonde minacce alla sicurezza e sfide, in particolare la minaccia di lungo termine posta dalla Russia alla sicurezza Euro-Atlantica e la persistente minaccia del terrorismo.
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Haaretz: Gaza, un campo di sterminio
di Davide Malacaria
“Israele sta perpetrando un genocidio a Gaza? Ora c’è una prova indiscutibile”. Inizia così un articolo di Gideon Levy su Haaretz a commento del dossier, pubblicato sullo stesso giornale, che ha svelato le perverse dinamiche degli omicidi intenzionali dei gazawi che si affollano nei pressi dei centri di aiuto per cercare qualcosa di cui sfamarsi.
“Non si può definire in altro modo ciò che sta accadendo in quei posti da diverse settimane se non come genocidio”, prosegue Levy. “Genocidio come intento, genocidio come obiettivo, genocidio nella portata, genocidio per il gusto del genocidio”.
“Se Israele non pone fine a tutto ciò immediatamente – non domani, oggi – non potrà più godere del beneficio del dubbio. Dal punto di vista legale, ovviamente, dobbiamo attendere la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, che sta ritardando a tal punto che c’è da temere che non ci saranno molti palestinesi ancora vivi a Gaza quando si deciderà a pronunciarsi”.
“[…] I soldati delle Forze di Difesa Israeliane ricevono l’ordine di sparare per uccidere in massa delle persone affamate. Folle che si ammassano a motivo di un mix di follia e perversione, che ha portato Israele a rimuovere le agenzie ONU dedite a tale scopo ed esperte per sostituirle con una misteriosa quanto mostruosa organizzazione americano-israeliana con inclinazioni evangeliche” [a guidarla è il pastore evangelico Johnnie Moore, entusiasta sostenitore della Grande Israele messianica ndr.].
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Susan Neiman: “L’ideologia woke non è di sinistra”
di Gerardo Lisco
Ci siamo sbagliati la cultura woke è di destra. La sinistra torni universale cosi esordisce Susan Neiman nell’intervista sul suo recente saggio dal titolo La sinistra non è woke. Un antimanifesto pubblicato in Italia a maggio per la UTET. Le interviste rilasciate da Susan Neiman, a la Repubblica e al supplemento “Donna” allegato al quotidiano, hanno anticipato la pubblicazione del suo in italiano. Su “Donna”, intervistata a febbraio, la Neiman affermava: Siamo nell’era Post – Woke, e non dobbiamo dare nulla per scontato. Nell’intervista si spinge molto oltre nella sua critica all’ideologia woke fino ad affermare che ha spianato la strada a Trump e più in generale alla destra. La Neiman , filosofa americana che si dichiara in modo esplicito Socialista non fa sconti alla sinistra woke e post moderna. Prima di entrare nel merito di quanto scrive due sono le cose che mi hanno particolarmente colpito. La prima è che il saggio non ha l’introduzione di nessun filosofo, politologo, sociologo italiano; la seconda è che a parte il quotidiano sopra citato ad avere trattato il saggio sul proprio canale YouTube è stato Diego Fusaro. Eppure potenzialmente potrebbe aprire un confronto non indifferente. Pur essendo un saggio di filosofia, come dichiara la stessa autrice, ha uno scopo divulgativo per cui il linguaggio utilizzato lo rende comprensibile ad un pubblico che va molto oltre gli specialisti del settore. A riprova di quanto il variegato mondo di sinistra, deliberatamente, censuri il saggio della Neiman, è l’enfasi di questi giorni per il gay pride di Budapest.
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La verità sulla "resistenza" della Spagna
di Carlos X. Blanco
Incredibile. In alcuni media europei, Sánchez viene presentato come un eroe antimilitarista.
In questi giorni ho letto articoli e opinioni di amici, soprattutto stranieri, che a mio parere sono fondamentalmente sbagliati. Sono amici intelligenti, che generalmente concordano con le mie diagnosi, ma su questo tema sbagliano e cadono a terra. È vero che l'Europa sta affondando, e con il famoso "riarmo" sta affondando rapidamente e miseramente. È giusto che si levino voci che dicono "basta!". Ma la voce di Pedro Sánchez è come il gracchiare di un corvo, e annuncia solo altra morte.
Non molto tempo fa, un anno fa, la NATO chiese ai paesi europei un fermo impegno a spendere il 2% per le "esigenze di difesa". Era già molto. Il contesto di "crescente insicurezza", ci dissero, era causato dalla guerra in Ucraina e dalla presunta "minaccia russa alle porte dell'Europa occidentale".
Nessuna minaccia russa è mai stata giustificata. La Russia ha già abbastanza da fare solo per assicurarsi il suo (enorme) spazio. La Russia non invaderà la Germania, la Francia, la Spagna... Si può maledire il vento quando ci soffia addosso, ma poi l'aria viene diretta in faccia, ed è allora, quando si riceve ciò che ci si è attirato addosso, il momento preciso per maledirsi, esclamando: "Stupido!".
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I russi accelerano mentre crollano le forniture di armi occidentali all’Ucraina
di Gianandrea Gaiani
(Aggiornato alle ore 23,55 del 3.7.25)
L’esercito russo ha compiuto a giugno la sua più grande avanzata in territorio ucraino dal novembre 2024 e ha accelerato la sua avanzata per il terzo mese consecutivo.
Nonostante i commenti scettici sull’incremento dei progressi russi espressi nei giorni scorsi da diversi osservatori in Occidente, ispirati dall’articolo di Michael Carpenter su Foreign Affairs dal titolo perentorio “L’Ucraina può ancora vincere”), sono i dati provenienti da fonti russe, ucraine (come il sito Deep State) e dall’Institute for the Study of War (ISW), think-tank neocon smaccatamente filo-ucraino con sede negli Stati Uniti, a confermare l’accelerazione delle forze di Mosca su tutti i fronti, come Analisi Difesa ha evidenziato già nell’articolo sul conflitto ucraino del 30 giugno.
Secondo l’ISW le truppe russe hanno conquistato in giugno 588 km² di territorio ucraino (556 secondo Deep State), ne avevano conquistati 507 km² a maggio (449 secondo deep State), 379 km² ad aprile e 240 km² in marzo.
Le conquiste territoriali sono il frutto anche di una crescente superiorità qualitativa e numerica delle truppe e dei mezzi russi. Nella prima metà del 2025 oltre 210.000 russi si sono arruolati a contratto nelle forze armate nella prima metà del 2025, e altri 18.000 si sono uniti alle “unità di volontari”. Come ha detto ieri il vice segretario del Consiglio di Sicurezza nazionale, Dmitry Medvedev.
Lo stesso Medvedev lo scorso gennaio aveva detto che nel 2024 i contrattisti arruolati erano stati 450.000 e quelli entrati nelle formazioni di volontari 40.000. Mentre nel 2023, secondo quanto affermato lo scorso anno dal presidente Vladimir Putin, i contrattisti arruolati erano stati 486.000.
Alla fine del 2023 Putin aveva detto che due terzi dei militari impiegati a quel tempo in Ucraina erano contrattisti e un terzo riservisti richiamati alle armi. Lo scorso anno la testata Moscow Time aveva scritto che lo stipendio mensile minimo di un soldato a contratto in Russia era di 210.000 rubli (oltre 2.000 euro), vale a dire tre volte di più del reddito medio del Paese, a cui andavano aggiunti una serie di corposi benefit.
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Andrea Zhok: La violenza nella società contemporanea
Carlo Di Mascio: Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
Salvatore Bravo: "Sul compagno Stalin"
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Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
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Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
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