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La critica del valore come confezione ingannevole
di Thomas Meyer
1. Introduzione
Sono già passati alcuni anni dalla scissione di Krisis e dalla conseguente dissoluzione di quello che era il suo contesto precedente (cfr. Kurz, 2004). Anni durante i quali i testi di Krisis (e di Streifzüge) sono stati criticati più volte da Exit. [*1] Sia che si trattasse di una critica riduttiva del lavoro, o che nascondessero ed ignorassero le critiche al sessismo, all'antisemitismo e al razzismo, sia che esprimessero un punto di vista della classe media degli uomini precarizzati (cfr. Scholz, 2005). Con il riferimento positivo al «software libero», insieme allo scandalo delle merci che si presume non siano più tali, vale a dire, con la propaganda dei cosiddetti «beni universali», così come con la presunta «sorella delle merci», divenne evidente la fissazione sulla sfera della circolazione e l'adesione all'individualismo metodologico (cr. Kurz, 2008).
A partire dalla pubblicazione del libro "La Grande Svalorizzazione" (Lohoff; Trenkle 2012), il termine di «merci di second'ordine» (obbligazioni, prodotti finanziari, ecc.) ha cominciato a circolare in diversi testi di Ernst Lohoff, nei quali le merci di prim'ordine rappresentano i beni di consumo abituali (mele, automobili, armadi, ecc.). Le «merci di second'ordine» sarebbero la «nuova merce di base», in quanto nuova «base della valorizzazione del valore» al posto ed in sostituzione della forza lavoro (Lohoff 2016, 17) e, infine, le merci di second'ordine sarebbero la nuova «merce-denaro» che avrebbe sostituito l'oro (Lohoff 2018, 11). Mentre la nuova merce denaro « [esiste] solo dal lato delle attività di bilancio della banca centrale» (ivi, 38). La crisi del capitalismo viene negata a partire dal fatto che si afferma, in tutta serietà, che l'accumulazione di capitale fittizio non è affatto fittizia, e che il lavoro non è assolutamente l'unica fonte di produzione di plusvalore.
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Beirut, Baghdad, Cairo, Hong Kong, Quito, Santiago, La Paz
Masse autodeterminate, masse eterodirette
di Fulvio Grimaldi
“Credo che tutta questa operazione sia un trucco. Baghdadi verrà ricreato con un nome diverso, un diverso individuo, e l’Isis, nella sua interezza, potrà essere riprodotto con un altro nome, ma con lo stesso pensiero e gli stessi scopi. Il direttore di tutta la commedia è lo stesso, gli americani”. (Bashar al Assad)
E, alla luce di Storia e cronaca, mi fido più di Assad che di qualsiasi fonte occidentale.
Il video del Pentagono su uccisione di Al Baghdadi, un bombardamento sul presunto bunker. Punto.
Sesta morte di Al Baghdadi
Per prima cosa dobbiamo smettere di sghignazzare- peraltro rabbiosamente – sull’ennesima eliminazione del turpe socio del noto fu senatore McCain, Al Baghdadi, che piagnucola e si fa scoppiare senza che nessuno lo possa riprendere, dato che tutto quello che gli Usa hanno fatto con i Chinook è polverizzare un presunto bunker, mettere al confronto qualche lembo di qualcuno con le mutande che un presunto curdo avrebbe sottratto a un presunto califfo e disperdere ogni presunta prova scientifica e inoppugnabile in mare. Copia poco fantasiosa di quanto questi illusionisti da baraccone dello Stato Profondo avevano fatto con Osama bin Laden, o a Pearl Harbor, o nel Golfo del Tonchino, o l’11 settembre, o con John e Robert Kennedy quando volevano smetterla in Vietnam, o con Nixon, quando strinse la mano a Mao. Quanto, ma quanto ci hanno fatto ridere. Con tanto di smorfia.
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Una risata vi seppellirà
di Olimpia Malatesta
Il Joker di Todd Phillips è la rappresentazione perfetta della degenerazione di una rabbia giusta, la manifestazione dei sintomi morbosi del pericoloso interregno in cui viviamo [Allerta, contiene spoiler]
Bruciando tutte le tappe che consegnano un film alla storia del cinema il Joker di Todd Phillips è già diventato un cult: campione assoluto di incassi, film d’uscita in ottobre più redditizio di tutti i tempi, vincitore del Leone d’oro a Venezia, Joker è ormai oggetto di accesa discussione tra cinefili e comuni spettatori di tutto il mondo. A quasi un mese dalla sua uscita in Italia e a due negli Stati uniti occorre interrogarsi sulle ragioni di questo successo planetario che non può dipendere semplicemente da una pellicola eccellente sotto il profilo tecnico e impeccabile sotto quello stilistico. Joker è una lama conficcata nel ventre di un neoliberismo agonizzante. È un film profondamente politico che parla del mondo atroce in cui viviamo. Per questo non può che suscitare un vivissimo interesse.
Pur essendo ambientato negli anni Ottanta Joker restituisce una fotografia talmente realistica dei nostri tempi disperati, da non poter non sortire un effetto di immediata identificazione con il protagonista, magistralmente interpretato da Joaquin Phoenix. Accompagnato dalle musiche angoscianti della compositrice Hildur Guðnadóttir, Joker rievoca le tonalità cupe di Shining (1980), mentre Gotham City restituisce la stessa atmosfera claustrofobica della Manhattan trasformata in penitenziario a cielo aperto di 1997: Fuga da New York (1981). I riferimenti agli anni Ottanta in questo film si sprecano: forse a voler sottolineare che è proprio in quel periodo che si afferma il neoliberismo. L’inizio del film svela subito la cifra politica (o sociologica) della storia che sta per essere raccontata. Rivolgendosi alla sua assistente sociale il protagonista domanda: «Is it just me, or is it getting crazier out there?». E lei risponde: «It is certainly tense. People are upset, they’re struggling, looking for work. These are though times». Il film interroga l’intera epoca storica del neoliberalismo e ne annuncia i possibili esiti mostruosi.
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Marxismo, politica, capitalismo, classe operaia
Intervista a Gianfranco La Grassa
Il professor Gianfranco La Grassa è uno dei più importanti economisti di derivazione marxista del nostro paese. Allievo di Antonio Pesenti e Charles Bettelheim, è stato fortemente influenzato dalla scuola althusseriana. Negli anni ha scritto lavori molto interessanti sul pensiero di Marx e l’analisi del capitalismo. Dal maoismo allo studio del conflitto strategico, emerge dalla sua parabola intellettuale tutta la sua capacità di analisi del capitalismo e del pensiero marxiano. Professore associato all’Università Ca’ Foscari di Venezia tra il 1979 e il 1996 e alla facoltà di Giurisprudenza di Pisa tra il 1964 e il 1981, negli anni ‘70 ha scritto spesso su Critica Marxista, l’organo teorico del PCI. Negli anni ‘80, con Costanzo Preve, fondò il Centro Studi di Materialismo Storico. Attualmente cura, con l’aiuto di Gianni Petrosillo, il sito Conflitti e Strategie e il proprio canale YouTube.
* * * *
1) Professor La Grassa, lei ha avuto un percorso intellettuale molto interessante. Da maoista, agli studi sulla divisione tecnica come struttura portante del capitalismo per arrivare ai giorni nostri. Esiste un fil rouge che attraversa tutta la sua parabola intellettuale e quanto ha pesato l’influenza dei suoi due maestri Antonio Pesenti e Charles Bettelheim?
R. Dal punto di vista della discussione e interpretazione della teoria marxista (e, in particolare, di Marx), è innegabile che l’influenza maggiore è stata quella del Maestro francese, Bettelheim. Questi divenne di fatto parte della scuola althusseriana (sia pure con sue particolarità) nella seconda metà degli anni ’60. Ci si ricordi che nel 1965 uscì appunto il decisivo volume “Lire le Capital” di Althusser e i suoi allievi principali. Per quanto riguarda Bettelheim il testo più rilevante è “Calcul économique et formes de propriété” (1969), su cui si tenne il corso del 1970-71 all’Ecole Pratique des Hautes Etudes, cui partecipai interamente.
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Chi assiste chi? Il meridione paga le pensioni del nord Italia
di Vincenzo Alfano*, Lorenzo Cicatiello**, Pietro Maffettone***
Pensioni 2020: La "questione meridionale" ed il tema del "dualismo e delle due velocità del nostro Paese"
La cosiddetta questione meridionale, ed il tema del dualismo e delle due velocità del nostro Paese, hanno storia molto antica: basti pensare che a leggere Nitti, politico e studioso del tema di classe 1868, pare di trovarsi di fronte un moderno editoriale su di un giornale italiano.
Si ripete una retorica che vede nei, pur ampi, divari di capacità fiscale nel nostro paese, due diversi ed opposti poli. Questi sarebbero un Meridione stantio, che beneficia di una redistribuzione a cui contribuiscono in maniera netta le viceversa avanzate e prospere regioni del Nord, talvolta raffigurate come stanche di far la carità ad un Mezzogiorno borbonico, cronicamente arretrato, spendaccione ed incapace di auto-sostentarsi. I livelli di spesa primaria per i cittadini italiani sarebbero dunque garantiti come (all’incirca) omogenei solo grazie a questo trasferimento fiscale lungo la direttrice Nord-Sud, una vera e propria autostrada di trasferimenti di risorse pubbliche. L’efficacia di questo tipo di narrativa è sotto gli occhi di tutti. Senza voler addentrarci troppo a fondo in argomentazioni politologiche di carattere tecnico sul populismo e la retorica secessionista, non sembra peregrino pensare che l’ascesa della Lega di Bossi (e poi di Maroni, ed in parte anche l’ultima di Salvini) e del tema del federalismo fiscale (declinato in vari modi nel corso degli ultimi trent’anni), abbiano come comune punto di appoggio intellettuale una tale visione.
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Le risposte che è difficile trovare
Marco Diani intervista Nicos Poulantzas
E se accettassimo l'idea di una tensione strutturale tra la teoria e la pratica? Di fronte a problemi nuovi non troviamo soluzioni bell'e pronte nè in Marx, nè in Lenin, nè in Gramsci. Le difficoltà dei partiti operai non riguardano tanto la "forma" organizzativa, quanto il rapporto tra politica e società. Classe operaia e democrazia formale: una questione teorica cui guardare senza miti
Questa intervista a Nicos Poulantzas è apparsa sul settimanale comunista Rinascita il 12 ottobre 1979, pochi giorni dopo la morte dell'autore, e può essere considerata la sua ultima espressione pubblica. Nel corso dell'intervista emergono i temi centrali della sua analisi: l'irrisolta questione del potere e della teoria dello stato moderno nel pensiero marxista e l'inadeguatezza delle forme di rappresentanza e di organizzazione politica affermatesi nei partiti del movimento operaio occidentale.
Il testo, riprodotto di seguito, ci è stato segnalato da Marco Diani, che ringraziamo, ed è stato ricavato da una lunga conversazione da lui tenuta con Poulantzas, che avrebbe dovuto costituire il prelundio a un libro.
* * * *
Nel dibattito sulla « crisi del marxismo », o meglio dei marxismi, è stato ripreso e sviluppato il tema della « responsabilità della teoria ». Da parte tua, hai spesso ricordalo che non sì possono attribuire alla teoria responsabilità che non ha bisogna dedurne che sei propenso a separare i presupposti teorici dalla pratica e dalle realizzazioni polìtiche?
Precisiamo. In un primo momento, ho voluto intervenire nel pieno di una polemica, quella dominata dall’antimarxismo isterico dei nouveaux philosophes, in cui il marxismo era identificato puramente e semplicemente con il gulag. Mi sembra sempre più urgente abbandonare la concezione, impressa da Lenin al marxismo e ancor molto resistente, fondata sulla adeguazione tra teoria e pratica, e in base alla quale si riconoscono e si classificano i « ritardi » e gli « scarti » attribuiti alle peripezie della storia.
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Uscire dall'economia
di Antonio Savino
Filosofia economica. La crisi economica ed ecologica del pianeta è la conseguenza dell'elevata capacità produttiva di merci raggiunta, come mai nella storia, merci che devono passare dalla cruna dell'ago della loro valorizzazione per trasformarsi in denaro. Se non sopraggiungono strategie per abolire questo stato di cose, non si avrà nessun cambiamento e l'arma delle crisi e dei conflitti mondiali sarà sempre carica (Parafasi art. in Krisis)
Premessa
Se nel precapitalismo il sistema egemone era la religione che a sua volta aveva preso il sopravvento sul precedente sistema della città-impero (la Roma sacralizzata) nella modernità invece il sistema egemone è l'economia. Il valore che si valorizza ha preso il sopravvento sia sulle precedenti relazioni ed ha egemonizzato ogni altra forma di relazione sociale, è la grammatica della modernità. Essa ha messo l'intelligenza umana, l'intelligenza collettiva, al servizio del valore privato.
Il capitalismo non ha niente di “naturale”, ma è il frutto storico di relazioni e reazioni spontanee che si sono succedute nel tempo (da quasi 800 anni). Nato in un Occidente medioevale da una serie di coincidenze; è frutto di una “tempesta perfetta', come si dice in scienze. Conseguenza di una concatenazione di eventi particolari verificatesi in una particolare zona del mondo, si ha attecchito ed ha avuto successo.
La forma capitalista si è affermata in Occidente e poi ovunque e da qui ha segnato la storia dell'umanità degli ultimi secoli.
Per questo il capitalismo non va considerato come frutto di qualche progresso naturale, e neppure come un epifenomeno tecnologico, ma è una idea di uomo e di mondo mutuata dall'economia.
Il capitalismo nelle sue invarianti antropologiche, è un insieme di dispositivi sociali, un complesso sistema di relazioni che formano un insieme di canali, dighe e cascate dove scorre il fluido dell'economia, “liquido” su cui nuota tutta la civiltà attuale.
Dispositivi niente affatto “naturali”, ma prodotti dall'uomo, e per questo fanno parte integrante del suo “patrimonio” culturale. Un ordine sociale che ha plasmato il senso comune, e l'inconscio collettivo.
Ovunque nel mondo, sui fili portanti della società capitalista, si hanno le medesime reazioni di fronte ai medesimi stimoli si è un insieme omogeneo almeno sul fronte economico.
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Un governo senza qualità: quale opposizione possibile?
di Giovanni Bruno
La manovra del governo giallo-rosa non è di sinistra. La costruzione di un fronte anticapitalista comunista unito è l’unica soluzione a fronte di una nuova crisi imminente
Dall’esecutivo scaturito dalla folle estate (dalla Repubblica del Papeete al consolidamento dell’asse euro-quirinalizio), con un tratto sostanzialmente neo-conservatore e neo-centrista, che manovra finanziaria ci si può aspettare? Il documento di Economia e Finanza che l’esecutivo penta-dem(ocrisitiano) ha varato e che delinea i caratteri della prossima Legge di bilancio da portare nelle aule per i passaggi parlamentari è una manovra senza paradigmi, o piuttosto incardinata sulle compatibilità di sistema, ma elargendo qualche “mancetta” verso alcuni settori più sofferenti della popolazione.
La cifra neo-centrista dell’esecutivo è chiara: frutto di quell'accordo tra PPE e PSE (su cui c'è stata la convergenza dei 5 Stelle) che ha portato alla Presidenza della Commissione Europea Ursula von der Leyen, è in sostanziale continuità con la grosse koalition popolar-socialista responsabile delle politiche di austerity e di tagli alla spesa pubblica, a servizi sociali, sanità, istruzione, pensioni che per un paio di decenni ha funestato i popoli dell’Unione Europea, a partire dai greci. Al momento, a parte qualche promessa a mezza bocca di una maggiore attenzione e di una (limitata) flessibilità (garante il neo-commissario Gentiloni), non è stato neppure preso in considerazione che i parametri coercitivi della Commissione vengano ripensati: perciò, non ci possiamo aspettare dalla Legge di Bilancio per il 2020 nient’altro che qualche contenuta elargizione, ma nessun provvedimento che ripristini diritti e servizi massacrati dai governi degli ultimi venti anni.
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Il Reaganismo, la Curva di Laffer e la Flat Tax
Alcune considerazioni realistiche
di John Komlos1 e Salvatore Perri2
Presentiamo un saggio degli economisti, professori John Komlos e Salvatore Perri, che pone una serie di interrogativi sui conclamati effetti positivi della politica economica adottata negli Stati Uniti dal presidente Ronald Reagan negli anni ’80. I prevalenti toni di ammirazione per quelle teorie – egli fu comunque un grande Presidente – vanno forse ridimensionati, solo a por mente agli effetti reali sugli investimenti e sulla redistribuzione dei redditi che l’applicazione di quei principi generò – e continua a generare – sull’economia mondiale
Abstract. I partiti e i movimenti sovranisti che stanno salendo alla ribalta in gran parte dei paesi occidentali hanno come comune denominatore, di politica economica, la proposta di una riduzione generalizzata delle tasse sulla scorta delle ipotesi teoriche di Arthur Laffer. I tagli delle tasse alle classi più abbienti così come sperimentate negli Stati Uniti da Ronald Reagan e come applicate anche oggi da Donald Trump, vengono riproposte in altri termini sotto forma di regimi fiscali forfettari come la “Flat Tax”. I limiti di questa proposta risiedono proprio negli effetti a lungo termine che tali politiche hanno avuto sul tessuto sociale ed economico statunitense, nell’evanescenza, ai limiti dell’irrealismo, delle ipotesi teoriche su cui si fonda la curva di Laffer e nei possibili effetti catastrofici che una tale politica potrebbe avere sui conti pubblici di un paese indebitato, come l’Italia. Promettere meno tasse può portare consensi politici nel breve periodo, ma non è detto che non sia foriero di disastri economici nel lungo.
Riduzioni delle tasse e crescita tra mito e realtà
Le proposte di riduzione generalizzate delle tasse caratterizzate dallo slogan “meno tasse per tutti” hanno sempre rappresentato un formidabile catalizzatore di consensi nelle campagne elettorali dei paesi occidentali.
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Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”. Parte III
di Alessandro Visalli
Nella seconda parte (qui la prima) di questa lettura dell’ultimo libro di Giovanni Arrighi avevamo descritto il modo in cui l’autore dà conto dell’intervallo tra la “crisi spia” degli anni sessanta, connessa con il doppio deficit statunitense, l’esaurimento del predominio industriale e il termine con successo dell’inseguimento dei paesi sconfitti della seconda guerra ed aiutati a rialzarsi in chiave antisovietica nei confronti degli Usa, l’evento scatenante epocale della sconfitta in Vietnam.
L’approccio del libro è molto largo e profondo, nel tentare di spiegare i lunghi percorsi della transizione in corso, e gli assetti di forza che di volta in volta si susseguono in essa, pone in questione l’idea che il capitalismo sia una sorta di destino del mondo, una tappa di un processo necessario di autosuperamento dell’umanità, che di qui, e necessariamente di qui, potrà infine giungere alla condizione pacificata del socialismo. Chiaramente questa critica viene svolta e diventa pertinente in considerazione della questione che è al centro del libro: può lo sviluppo imponente cinese costituire la base di un nuovo ciclo egemonico che sia significativamente diverso dal capitalismo anglosassone al quale succede (in caso succeda)? Non è, in altre parole, il modello cinese in effetti una pura e semplice mimesi del capitalismo occidentale senza neppure l’apparenza di libertà liberale? Ovvero, non è il peggio dei due sistemi?
Arrighi risponde di no. Ma nel farlo è costretto a chiedersi per quale ragione anche nella cultura marxista, ovvero nelle tante e diverse culture marxiste, in genere il capitalismo sia considerato contemporaneamente inevitabile e progressivo.
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Kodoku-shi, la morte solitaria
di Yosuke Taki
Un settore di grande successo
Nell’estate del 2018 si è registrato in Giappone un caldo record, con temperature di oltre 40 gradi in diverse città. Mai così caldo da quando la nazione nipponica ha cominciato a farne statistiche nel 1946. Sotto quel clima rovente, però, c’è stato un settore che non si è mai fermato in tutta l’estate.
Questa professione si chiama in giapponese tokushu-seisō-gyōsha, detta per brevità tokusō, ovvero impresa di pulizia speciale. Si tratta di ripulire luoghi che sono stati teatro di incidenti o persino di omicidi. Ultimamente però la tokusō è molto richiesta per pulire case e appartamenti dove è avvenuta la cosiddetta kodoku-shi, la morte solitaria: i cadaveri vengono trovati, in genere molto tempo dopo il decesso, in condizioni inenarrabili e spesso all’interno di ambienti pieni zeppi di immondizia accumulata a volte fino ad altezza d’uomo. Immagino che rimaniate esterrefatti, ma addirittura nel vocabolario contemporaneo giapponese esiste già un termine specifico per designare queste case riempite di rifiuti: gomi-yashiki, letteralmente “dimora di immondizie”. Sembra che i poveri abitanti di quelle case vivessero barricati dietro pareti di barattoli e di spazzatura senza più avere alcuna relazione con gli altri esseri umani. Insomma, una versione adulta degli hikikomori, gli auto-reclusi giovanili. Queste persone vivono nella trascuratezza totale, quello che in inglese si definisce self-neglect, e muoiono in completa solitudine. È per questo che i loro cadaveri vengono trovati dopo giorni, a volte persino dopo settimane, in molti casi solo per via degli odori prodotti dalla loro decomposizione. Sono di solito i padroni di casa o i vicini a chiamare la polizia, e dopo il ritrovamento del cadavere tocca alla tokusō il compito di ripulire e risanare l’ambiente, spesso in tutta fretta, perché la situazione è insopportabile per la vita e il benessere dei vicini.
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La straordinaria sollevazione cilena ha un significato internazionale
di Il Cuneo rosso
Dopo aver raccontato delle lotte in Libano e dell’Algeria, pubblichiamo un’altra breve nota sul Cile, per sottolineare l’importanza internazionale della grandissima sollevazione tuttora in pieno corso in questo paese, e la necessità di dare ad essa la nostra solidarietà di classe nelle forme possibili. Vuol essere un invito ad alzare lo sguardo e ad osservare come là dove la crisi e il meccanismo stritolatore del capitalismo globale colpiscono più duro (Sud-America, Centro-America, Medio Oriente), lì le risposte di lotta delle classi sfruttate si stanno facendo sempre più imponenti.
La magnifica sollevazione di massa in Cile è ancora a metà del guado – sia Pinera che i militari torturatori sono ancora lì! -, ma ha già assunto un valore mondiale. Perché proprio in Cile ha preso avvìo 46 anni fa il lungo ciclo “neo-liberista” globale, l’ininterrotta offensiva con cui la classe capitalistica ha aggredito il proletariato industriale e via via in progress l’intero campo delle classi non sfruttatrici. Nel 1973 l’avvento della dittatura militare stroncò nel sangue l’esperienza riformista di Allende e spianò la strada alle controriforme “neo-liberiste” del diritto del lavoro, delle pensioni, dei servizi sociali, della scuola, dei trasporti, dell’energia, dell’acqua, della sanità. In totale: una brutale svalorizzazione della forza-lavoro, la sua torchiatura all’estremo, lo smantellamento dei diritti e delle organizzazioni operaie. Per questa via il Cile è diventato, prima con Pinochet, poi con i suoi successori di centro-sinistra (Alwin, Frei, Lagos, Bachelet) e di centro-destra (Piñera) uno dei paesi-vetrina dei miracoli del modello di sviluppo “neo-liberista” – per i suoi tassi di sviluppo (di sviluppo dei profitti), per i bassi indici di disoccupazione, per la riduzione della povertà e altre frodi statistiche del genere. Il risultato sociale di questo prodigio è ora sotto gli occhi del mondo intero. Prima la rivolta dei giovani contro il ventesimo aumento del biglietto del metro in 12 anni; poi una montante mobilitazione di massa contro lo stato di guerra decretato da Piñera; infine due giorni di sciopero generale con manifestazioni oceaniche a Santiago e in tutte le principali città cilene, al grido di “Fuera Piñera y fuera los milicos”, “Abajo el estado de emergencia”.
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Rosa Luxemburg, Raul Sendic e Lenin bevono mate e discutono di potere in Uruguay
di Bollettino Culturale
Insurrezione e riflessione
Le classi dominanti latinoamericane (complici e allo stesso tempo fedeli servitori del colonialismo e dell'imperialismo) hanno sempre costruito l'immagine di un mostro spettrale e caricaturale per evocare e reprimere la ribellione delle classi popolari. Prima battezzarono quella bestia demoniaca come "cannibale indigeno" e "bighorn nero". Quindi "Giacobino assetato di sangue". Più tardi "stupratore anarchico" e "comunista mangiatore di bambini" (il pittore messicano Diego Rivera rise molto dicendo che, essendo un comunista, in Unione Sovietica provò la carne di bambino e la trovò molto gustosa). Avanzando nel tempo, quel fantasma onnipresente adottò la figura di "offensore sovversivo e apolide". Più tardi fu demonizzato come "terrorista" fino a quando non arrivò ai nostri giorni con il molto ripetuto dai media degli Stati Uniti "narco-terrorismo"...
Il filo rosso che attraversa questa prolungata demonizzazione è l'attribuzione dell'irrazionalità e della follia alle nostre ribellioni popolari. Ogni ribelle è un delirante, completamente privo di ragione e di logica.
Contrariamente a questa storia maccartista, ripetuta e riciclata fino ad oggi dalla voce del maestro, l'insurrezione in America Latina è stata più che prolifica nei suoi tentativi di riflessione, fondamento logico e argomentazione ragionata delle sue ribellioni. La tradizione della scrittura segna una chiara continuità durante l'insurrezione. Che Guevara, oltre ad essere un comandante di guerriglia e un convinto comunista internazionalista, è soprattutto uno scrittore prolifico. Il vertice più alto di un'intera tradizione di scrittura e pensiero marxista ribelle.
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Più delle sette piaghe potè Di Maio (e Grillo)
Dal vaffa dei cinquestelle ai vaffa ai cinquestelle
di Fulvio Grimaldi
Sono stato alla Festa Nazionale dei 5Stelle a Napoli e ve ne dirò. Un’organizzazione da paura, degna della migliore Festa nazionale dell’Unità. E tantissima gente. Della quale mi illudo di aver percepito gli umori, divisi tra chi era venuto a riconoscersi e confortarsi nella Grande Famiglia, qualunque cosa essa facesse; chi sperava di ritrovare, nel grande affresco, i tratti del dipinto-capolavoro di cui si era innamorato; e chi si presentava con il broncio, più o meno disposto a esibirlo. Di tutta quella gente sotto ai vari palchi condivido il trauma: la botta dell’Umbria è tale da indurre o la sveglia, o il coma.
Ma pochissimi, sempre di quelli sotto il palco, denuncerei di complicità con l’accaduto; semmai qualcuno di eccesso di fiducia per il pastore, elemento costitutivo del gregge, ma inerente anche all’assenza di un meglio. Il guaio è che, sparito il Partito Comunista che, a dispetto dei vari Togliatti, Napolitano e Berlinguer, una bella fetta di società aveva dotato di cultura, conoscenza e coscienza politica, di queste non v’è stata più traccia nella base del Movimento. Vedo gli smarriti, o euforici, che si aggiravano per padiglioni e viali della Mostra d’Oltremare, più come vittime, che come sicari. Ci torniamo dopo.
Peccati mortali
Andiamo in Umbria e citiamo alcuni peccati mortali che hanno inserito il M5S nella parte inferiore del Giudizio Universale comminatoci dalla cortesia del Signore e dall’infinito amore del suo figliolo. A partire dal matrimonio, ahinoi non morganatico, con il corpo politico a cui è assegnato il compito di produrre milionari e miliardari immuni e impuniti, soprattutto esteri, dato che dobbiamo essere globalisti-cosmopolitici-cittadini del mondo, e, corrispondentemente, masse sconfinate e indistinte di angustiati e affamati, ripugnanti portatori di “invidia sociale” e di “odio” cosmico.
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L'unità dei comunisti e la questione comunista
Pubblichiamo un interessante dialogo fra Alessandro Pascale, Roberto Gabriele e Paolo Pioppi
Il compagno Alessandro Pascale si è fatto interprete, in questi ultimi tempi, di sollecitazioni unitarie nei confronti di un'area che, in vario modo, si definisce comunista. La domanda che viene spontanea è questa: non è il caso di indagare meglio su come impostare la questione? È esigenza primaria quella di invocare l'unità o è preliminare portare la questione sul terreno dell'analisi e aprire un dibattito di contenuti sui processi che possono dare un fondamento solido alla questione che il compagno pone?
Noi riteniamo preliminare dare risposta su questo terreno prima di inoltrarci in discorsi unitari che, come il passato dimostra, non hanno prodotto risultati. I fallimenti dei progetti unitari hanno, a nostro parere, natura oggettiva e su questo bisogna indagare e discutere.
Da questo punto di vista due sono le questioni sul tappeto: 1) il rapporto tra crisi del movimento comunista e organizzazione comunista e 2) la natura dei gruppi che in Italia si richiamano al comunismo.
Analizziamo la prima questione. Sulla “ripresa” del movimento comunista, in Italia come altrove, pesa la crisi irreversibile che esso ha attraversato a livello mondiale negli anni '90 del secolo scorso. Illudersi che si possa andare avanti con la denuncia dei traditori e ricostruire sic et simpliciter un partito comunista, come è dimostrato da questi decenni di tentativi andati a vuoto, è un'operazione perdente, sia nella versione cosiddetta marxista-leninista che in quella dei progetti di “rifondazione”. In ambedue i casi si è trattato di ipotesi che non facevano certamente i conti con ciò che era avvenuto o stava avvenendo.
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Oltre l’illusione della green economy. Alcune riflessioni
di Militant
“E’ più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”
(Fredric Jameson)
Prima (ovvia) premessa
Interrogato su quali leggi scientifiche avrebbero superato indenni il test del tempo senza essere rigettate o radicalmente riformulate dalle future generazioni di scienziati, Albert Einstein indicò la prima e la seconda legge della termodinamica. “E’ la sola teoria fisica di contenuto universale di cui sono convinto che nell’ambito di applicabilità dei suoi concetti di base non verrà mai superata.” Semplificando, le due leggi affermano che l’energia totale dell’universo è costante, non può essere né creata né distrutta, ma che essa cambia continuamente forma, anche se in una sola direzione, da disponibile ad indisponibile, e che il “grado di disordine” del sistema, l’entropia, è in continuo aumento. La terra rispetto al sistema solare rappresenta un sistema termodinamicamente chiuso, ciò significa che assorbe energia dal sole, ma non riceve materia dall’universo circostante. Ora, se alle reminiscenze di fisica aggiungiamo frettolosamente anche quelle di chimica, rispolverando la legge di conservazione della massa di Lavoisier, secondo la quale all’interno di un sistema chiuso la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti (nulla si crea, nulla si distrugge…), appare evidente, come vanno ormai sostenendo praticamente tutti, che il pianeta su cui viviamo è “finito”. Intendendo con questo che lo stock di materie prime su cui possiamo e potremo contare è destinato prima o poi ad esaurirsi, ponendoci di fronte ad un problema di scarsità.
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Democrazia e potere
di Salvatore Bravo
Diritto e violenza
Il Marx di Maurizio Ricciardi in “Il potere temporaneo Karl Marx e la politica come critica della società” è il Marx della prassi (dal gr. πρᾶξις «azione, modo di agire», der. di πράσσω «fare»), in cui la cristallizzazione del potere capitalistico opera capillarmente e nel contempo si irrigidisce in istituzioni che eternizzano il potere politico. Le istituzioni che in Hegel erano il luogo etico nel quale il diritto esplicava l’universale, in Marx non solo sono storicizzate, ma non vi è nessun diritto che precede la prassi, il diritto si forma nella storia, nella relazione tra struttura e sovrastruttura. Le istituzioni ed il diritto, se rappresentate come astoriche, sono il mezzo con cui i sistemi perpetuano se stessi e legittimano la violenza. Con la genealogia storica si denuncia la modalità ideologica con cui il potere si afferma nel quotidiano. La ricostruzione storica curvata nell’ideologia, nella difesa degli interessi particolari a cui si doveva “necessariamente” giungere è già violenza, perché si vorrebbe inibire il pensiero, la critica radicale e la prassi. La storia collassa su se stessa, si chiude al futuro, ed il passato diventa il despota del presente1:
”Ciò che preme a Marx è mettere in discussione l’ipoteca del passato sul presente, il cui effetto è la radicale destoricizzazione dei rapporti tra gli uomini, che non vengono interpretati per ciò che sono, ma per ciò che si presume siano sempre stati e di conseguenza dovranno essere sempre, legittimando in questo modo la necessaria e indiscutibile trascendenza del potere”.
Astoricizzazione e gerarchia
Storicizzare è riportare il fenomeno storico alla sua genetica storica. Con la categoria della comprensione si materializza l’attività del soggetto storico resistente che in quanto tale “si umanizza”, mentre la naturalizzazione del presente, per mezzo della sua astoricizzazione preserva e conserva “l’antiumano”, il dominio della forma merce sulla persona.
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Miseria del sovranismo. Smarrimento della dialettica e proliferazione dell'ideologia
di Emiliano Alessandroni*
1. Questioni teoriche preliminari
Nella Scienza della Logica Hegel descrive in questi termini la natura ontologicamente relazionale di ogni contenuto determinato:
Quando si presuppone un contenuto determinato, un qualche determinato esistere, questo esistere, essendo determinato, sta in una molteplice relazione verso un altro contenuto. Per quell'esistere non è allora indifferente che un certo altro contenuto, con cui sta in relazione, sia o non sia, perocché solo per via di tal relazione esso è essenzialmente quello che è[1].
Si tratta di un aspetto successivamente ben compreso e metabolizzato dalla filosofia di Marx: «un ente che non abbia alcun oggetto fuori di sé non è un ente oggettivo. Un ente che non sia esso stesso oggetto per un terzo, non ha alcun ente come suo oggetto, cioè non si comporta oggettivamente, il suo essere non è niente di oggettivo». Questo riferirsi ad altro, ossia essere in rapporto con altro, costituisce la naturale essenza di ogni ente in quanto ente:
Esser oggettivi, naturali, sensibili, e avere altresì un oggetto, una natura, un interesse fuori di sé, oppure esser noi stessi oggetto, natura, interesse di terzi, è l'identica cosa. La fame è un bisogno naturale, le occorre dunque una natura, un oggetto, al di fuori, per soddisfarsi, per calmarsi. La fame è il bisogno oggettivo che ha un corpo di un oggetto esistente fuori di esso, indispensabile alla sua integrazione e alla espressione del suo essere. Il sole è oggetto della pianta, un oggetto indispensabile, che ne conferma la vita, come la pianta è oggetto del sole, dell'oggettiva forza essenziale del sole.
Un ente che non abbia fuori di sé la sua natura non è un ente naturale, non partecipa dell'essere della natura[2].
L'avere fuori di sé la propria natura significa che nessun ente naturale finito, ma a ben vedere anche nessun contenuto determinato, sia autosufficiente.
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Dipendenti pubblici di uno Stato privatizzato
di Federico Giusti e Ascanio Bernardeschi
Parallelamente al processo di privatizzazione dei pubblici servizi si è trasformato il rapporto di pubblico impiego e con le esternalizzazioni in campo ci sono lavoratori più divisi e con meno diritti
Alla fine del 1800 emerse la necessità di disciplinare il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, fino ad allora avente natura puramente privatistica, in maniera differenziata rispetto al privato.
Se alcune motivazioni erano ragionevoli (garantire al dipendente pubblico, figura di servitore dello Stato e garante dell’imparzialità della pubblica amministrazione una certa indipendenza dai politici), altre erano completamente negative (evitare la sindacalizzazione, la politicizzazione, il diritto di sciopero ecc). Per cui il rapporto di lavoro, sia collettivo che individuale veniva regolato esclusivamente dalla legge e da atti amministrativi, escludendo ogni forma di contrattazione. E anche il contenzioso fra dipendenti e PA venne demandato alla giustizia amministrativa e non a quella civile.
La Costituzione repubblicana confermò i principi di indipendenza del dipendente pubblico. L’art. 54 prevede che i “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, quindi sia dipendenti che politici, debbano “adempierle con disciplina ed onore”; l’art. 97 dispone che gli uffici pubblici siano organizzati in base alle leggi e che all’impiego pubblico si acceda mediante concorso; l’articolo 98 che “i pubblici impiegati siano al servizio esclusivo della Nazione”. Tuttavia la Carta, affermando il diritto di tutti i lavoratori alla sindacalizzazione e allo sciopero, senza dubbio ha indicato la strada di una equiparazione fra lavoratori dipendenti privati e pubblici per quanto concerne i diritti fondamentali.
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Un nuovo Marx
di Roberto Fineschi
[Trascrizione, con revisione minima, della conferenza inaugurale del ciclo “Officina Marx 2018”, tenutosi presso Le stanze delle memoria il 22 ottobre 2018. Per una trattazione più dettagliata di molte delle questioni toccate, si veda: R. Fineschi, Un nuovo Marx. Interpretazione e prospettive dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008]
1. Il titolo del mio intervento è “Un nuovo Marx”. Da una parte è un titolo un po’ paradossale perché Marx è un autore ben noto, molto letto, molto interpretato. Su di lui si sono scritti fiumi di inchiostro e non solo: la sua faccia era impressa su bandiere politiche, il suo nome è stato utilizzato da molti e in molte direzioni come bagaglio politico ideologico per legittimare movimenti storici, addirittura Stati.
In questo senso, nella misura in cui lo si utilizzava politicamente, era in una certa misura inevitabile creare una ortodossia, perché i movimenti politici che diventano istituzioni hanno bisogno di una verità ufficiale, eterna che, chiaramente, per esigenze di identità e di autolegittimazione , tende irrimediabilmente ad irrigidirsi in formule che piano piano perdono appiglio alla realtà e si trasformano in un formulario da ripetere negli anniversari e nelle celebrazioni.
Sicuramente questo è in parte il destino che l’opera di Marx ha subito in Unione Sovietica o nell’est Europa dove era una dottrina ufficiale di una istituzione e non poteva che essere vera, immodificabile, sicura in secula seculorum. Il diamat ne è l'esempio per antonomasia. Tra gli elementi cardine di queste varie formulazioni avevamo ovviamente che il socialismo reale costituiva l’inveramento delle teorie di Marx: il socialismo reale realizzandosi verificava le previsioni di Marx, l’esistenza di una intrinseca necessità storica per cui alla fine lì si doveva arrivare. Il presunto esito della evoluzione storica era quello che si era verificato.
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Il puzzle europeo perde il collante
di Dante Barontini
Può sembrare curioso, in giorni monopolizzati dal voto in Umbria e dalle sue indubbie conseguenze politiche per l’Italia, girare lo sguardo sulla crisi dell’Unione Europea. I malevoli diranno: “ma ciavete la fissa…”
E invece ci sembra proprio che sia diventato impossibile capire perché il “malessere popolare” prende direzioni così folli (la Lega in Italia, Afd in Germania, Le Pen in Francia, ecc) se non si fanno i conti fino in fondo con la governance continentale, le politiche che questa ha imposto e che vorrebbe portare avanti senza grandi mutamenti, con i disastri provocati nelle economie e quindi nella “coesione sociale” dei diversi paesi.
Non solo di quelli euromediterranei, a questo punto, visto che anche la Germania è quasi ufficialmente in recessione.
La polarizzazione estrema del voto in Turingia – dove vincono la sinistra (non tanto) estrema con Die Linke e l’ultradestra più estrema con Afd – sono apparentemente in contraddizione con il voto umbro (tutto a destra, niente a sinistra, qualcosa – ma in tracollo – al centro).
La differenza ci sembra evidente: in Turingia (Germania Est, ex Ddr) è ancora viva la memoria di uno “stato sociale” magari non ricchissimo, ma certamente più egualitario della giungla liberista attuale, e c’è almeno un partito che dice di perseguire politiche sociali di redistribuzione, localmente guidato anche da dirigenti che non hanno rinnegato ogni cosa (non dappertutto è così, per la Linke).
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Nemico (e) immaginario. L’Intelligenza artificiale tra timori e utopie
di Gioacchino Toni
Nel saggio L’algoritmo della post-produzione. Come rinunciare al lavoro e vivere felici – contenuto nel volume D. Astrologo, A. Surbone, P. Terna, Il lavoro e il valore all’epoca dei robot. Intelligenza artificiale e non-occupazione (Meltemi, 2019) –, Dunia Astrologo apre significativamente la sua analisi circa l’incidenza dell’Intelligenza artificiale sul mondo del lavoro riportando una celebre affermazione del Moro di Treviri: “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressi e oppressori sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.” Karl Marx
La storia, di tanto in tanto, opera dei veri e propri salti di paradigma e ogni rivoluzione, continua Astrologo in apertura di analisi, ha determinato una modificazione degli stili di vita, delle condizioni economiche e dei modelli culturali. Visto che in molti casi la portata dei cambiamenti non è stata prevista, nel momento in cui ci si occupa dei mutamenti delle tecnologie, risulterebbe utile tentare di comprendere quali saranno le evoluzioni che avranno successo e quali i loro effetti sul modo di produzione, dove si concentrerà il potere economico e quale direzione politica prenderà la società nei prossimi decenni.
Sin da quando, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, si è iniziato a parlare di Intelligenza artificiale, si è sempre palesata una certa dose d’inquietudine derivata dal timore che un prodotto dell’attività cognitiva umana possa prendere il sopravvento su chi l’ha prodotto.
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«Siamo i sovversivi della diplomazia»
Geraldina Colotti intervista Jorge Arreaza
Intervista in esclusiva al ministro degli Esteri della Repubblica Bolivariana del Venezuela
Pubblichiamo questa bella e interessante intervista, ricca di spunti, realizzata in esclusiva da Geraldina Colotti a Jorge Arreaza, ministro degli Esteri della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Durante il colloquio con la giornalista italiana il ministro venezuelano ribadisce alcuni concetti chiave della diplomazia bolivariana, forgiata da Hugo Chavez. «Con il comandante Chavez, ma possiamo dire già con Bolivar, ci configuriamo come un attore internazionale sovversivo che si oppone all’ordine economico e politico dominante», afferma Arreaza, per poi aggiungere in un altro passaggio: «Non voglio offuscare i meriti degli altri, ma la differenza tra chi si limita ad applicare il protocollo e la diplomazia di pace è che in Venezuela governa il popolo, l’essere umano, la comunità».
Il popolo venezuelano è ben cosciente di quanto affermato da Arreza e per questo difende strenuamente il proprio governo e la Rivoluzione Boliviariana. Al contrario di quanto avviene ad esempio in Ecuador dove il popolo in rivolta contro il neoliberismo è deciso a mandare a casa il governo guidato dal traditore Lenin Moreno.
Jorge Arreaza, ministro degli Esteri venezuelano, ci riceve nel suo ufficio a Caracas. Con il suo stile sobrio e incisivo, ha smascherato e schivato molte trappole tese al Venezuela a livello internazionale, evidenziando l’alto livello raggiunto dalla “diplomazia di pace” del suo paese. Gli chiediamo di spiegarci la lunga marcia del socialismo bolivariano negli organismi internazionali.
* * * *
Tu sei uno dei volti più rappresentativi del chavismo. Qual è stato il tuo percorso e come ti sei trovato ad affrontare questa difficile congiuntura internazionale?
Io ho un percorso di studi in relazioni internazionali, concluso con un dottorato a Cambridge, nel Regno Unito, sugli Studi europei, che non ho mai avuto modo di esercitare. Mi è toccato farlo nel momento più complicato per le nostre relazioni internazionali: quando gli Stati Uniti hanno iniziato a imporci misure unilaterali, sanzioni. Trump ha minacciato di ricorrere all’opzione militare una settimana dopo che ho assunto l’incarico.
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Abolire Quota 100: la guerra alle briciole per le briciole
di coniare rivolta
Che ‘Quota 100’ fosse una misura limitatissima e di corto respiro rispetto alle gravissime falle e inadeguatezze sociali del sistema pensionistico italiano, era chiaro sin dall’introduzione della misura. Il provvedimento, lo ricordiamo, consente in via sperimentale, per il triennio 2019-2021, agli iscritti all’INPS, di conseguire il diritto alla pensione anticipata non appena venga raggiunta un’età anagrafica di almeno 62 anni e un’età contributiva di almeno 38 anni. Una misura che non risolve in alcun modo il problema delle esigue pensioni attese dai lavoratori per via del combinato disposto di sistema contributivo e carriere lavorative precarie e che, proprio nella logica perversa del contributivo, offre ai lavoratori una triste alternativa tra anticipo del diritto alla pensione ed entità della pensione stessa. Insomma, un mero lenitivo che, per soli tre anni, ha reso meno rigido il sistema di accesso anagrafico e da anzianità contributiva alla pensione, consentendo a molti la possibilità di godersi qualche anno in più di meritato riposo a spese di un minor reddito pensionistico. Tutte queste caratteristiche hanno mostrato, con grande evidenza, la linea velleitaria e del tutto subordinata alla politica economica patrocinata dalle classi dominanti e dalla regìa europea dei pochissimi e striminziti provvedimenti sociali del precedente governo giallo-verde.
Eppure, nel dibattito riguardante la predisposizione, ancora in corso, del disegno di legge di bilancio del nuovo Governo, si è giunti ad un’evoluzione che supera la stessa immaginazione, con punte di apparente masochismo politico.
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Lucio Colletti. Marxismo e Lotta di classe
di Leo Essen
Lucio Colletti è stato uno dei più raffinati marxisti italiani. La sua conoscenza di Hegel era pari a quella di Jean Hyppolite. Ma a differenza di quest’ultimo, il quale ebbe come allievi (diretti e indiretti) Deleuze, Derrida, Foucault, Balibar e Althusser, Colletti lasciò poche tracce del suo passaggio, se si escludono le influenze su Napoleoni e Orlando Tambosi. La sua posizione mediana era incuneata tra i computisti neo-ricardiani partoriti da Sraffa, e gli operaisti legati a Marcuse, Schmitt, Heidegger, Lukács, Korsch e compagnia bella.
Insegnava filosofia teoretica all’università di Roma, era iscritto al Partito Comunista Italiano (PCI), e collaborò con la rivista del Partito «Società» fino al 1962, anno in cui il PCI, impaurito dalla linea troppo leninista e marxista della rivista, ne decise la chiusura. Nel 1964 uscì anche dal PCI.
Mi trovai sempre più emarginato all’interno del partito - disse nel 1974, nella famosa intervista alla New Left Review (Intervista politico-filosofica) -, mi si permetteva quasi soltanto di pagare la tessera. La militanza nel PCI non ebbe più senso per me, e lasciai il partito in silenzio.
Colletti sarebbe potuto diventare una Star della filosofia europea, e avere una caterva di discepoli e seguaci, se non si fosse incaponito nella demolizione del Diamat, combattendo una guerra solitaria e inutile che lo allontanò da Hegel e dai nuovi e giovani marxisti. Il disgusto per il Diamat lo portò ad abbandonare Hegel e ad arretrare verso Kant e l’empirismo. Da un punto di vista strettamente epistemologico, disse, c’è solo un grande pensatore moderno che può aiutarci, ed è Kant.
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