È morto il Papa, viva Jacques Camatte!
Coup de dés
di Donatello Fumarola
Nei giorni (pasquali) in cui se ne andava all’altro mondo il papa più a sinistra che si ricordi (almeno stando alle sue dichiarazioni pubbliche, alla vulgata di quella figura pop che ha saputo essere il gesuita Bergoglio) se ne andava anche una delle figure meno conosciute, più schive e più ostinate e originali della cultura politica europea, il francese Jacques Camatte1. Filosofo, attento e acuto interprete di Marx, sodale di Amedeo Bordiga (fondatore del PCI) col quale da giovanissimo (negli anni Cinquanta) intraprende uno scambio epistolare che porterà a un’amicizia e a un intenso dialogo (non privo di contrasti) che durerà fino alla morte di quest’ultimo. Membro del Partito Comunista Internazionale fino al 1966. Dal 1968 è fondatore e animatore della rivista «Invariance», ancora attiva on-line. Autore di svariati testi teorico politici che portano, tutti, la stessa dedica (alla moglie) e lo stesso esergo:
Il tempo è l’invenzione di uomini incapaci di amare.
L’amore quindi al centro, o almeno è così che mi piace leggere il senso persistente del pensiero complesso e stratificato di Camatte, della «Gemeinwesen» come comunità di affetti, comunità di amatori, di persone capaci di agire per smuovere «il sole e l’altre stelle» (il sol dell’avvenir!). Mi è capitato spesso di citare questa frase di Camatte, quasi ogni volta che qualcuno sottolineava la minaccia di un ritardo, insegnatami da un amico che viveva costantemente fuori orario e conosceva e mi ha fatto conoscere Camatte.
Una frase semplice, lapidaria, che in poche parole inquadra il senso (negativo) del capitalismo (che d’altra parte è ben rappresentato dalla formula «Il tempo è denaro»), quella forza, alimentata dagli esseri umani, contro la quale Camatte ha cercato per tutta la sua vita di opporsi, elaborando una proposta comunitaria centrifuga, affettiva, radicale, organica. Una proposta che ha saputo confrontarsi col tempo storico, con gli sviluppi politici e le istanze del momento, con quella dimensione messianica che la sinistra (sciaguratamente) ha incarnato. E su questo punto, su questo fantasma che si è aggirato a lungo per l’Europa, Camatte ha avuto una lucidità maggiore di molti altri suoi contemporanei.
La rivoluzione è possibile solo se la controrivoluzione è andata fino in fondo. […] La disfatta della rivoluzione e lo stroncamento del processo di rimessa in continuità della specie con il suo divenire anteriore, del suo ritorno alla comunità. Essere rivoluzionario in un periodo di controrivoluzione è mantenere nell’ambito della controrivoluzione il possibile di quel processo. Essere nel divenire di liberazione è mantenere, a scapito della psicosi che ci attanaglia, il desiderio della rimessa in continuità col nostro essere originale. Processo liberatorio e prassi rivoluzionaria sono in certo modo movimenti isomorfi, nella misura in cui l’essenziale non è la liberazione, ma la realizzazione sia dell’individualità che della specie. […] Processo liberatorio e prassi rivoluzionaria si separano però nella misura in cui la seconda aveva bisogno della violenza per attuarsi, e nel fatto che ciò a cui si pensava di tornare non è mai pienamente esistito.
(«Dialogando con la vita», fondamentale libro-intervista per capire il movimento di pensiero di Camatte, pubblicato da Colibrì nel 2000)
Il concetto fondamentale di comunità ‒ per la specie che siamo2 ‒, comunità umana, Gemeinwesen, è al centro del pensiero camattiano, della sua necessità, nella sua possibilità. Camatte da un certo punto (dal 1968) non ne fa più una questione di classe, ma di specie. Sposta letteralmente la lettura del pensiero di Marx dalla merce all’individuo e al suo essere inserito in una comunità, o alla possibilità di sottrarsene. Sarà quest’ultima necessità, l’abbandono del mondo dominato dal Capitale, a prendere piede, che poi è forse il modo più efficace per non alimentarlo: non partecipare ai suoi rituali e ai suoi usi, non comprarne la merce, quindi là dove possibile auto-produrre, riciclare, i modi per non alimentarlo ci sono e a ben rifletterci sono la sola arma in mano all’umanità per non farsene divorare.
All‘assalto al cielo, Camatte contrappone una sorta di ritorno alla terra (nel senso anche di quella da coltivare), di riconnessione con ciò da cui il capitalismo ci ha separati (rendendo ogni cosa e ogni azione dipendente dalla produzione di merce). Critica della separazione dunque, in sintonia con Guy Debord3, altro grande lettore atipico e interprete radicale di Marx. Se vogliamo una vita libera, dicono entrambi, bisogna formulare una profonda e definitiva critica della separazione. È una questione di grande importanza, una delle questioni principali che determinano il processo di alienazione di cui parlava Marx, imprescindibile rispetto alle pratiche di liberazione necessarie a rompere il giogo che ci rende pari agli animali da lavoro, separati anche da noi stessi in quanto umani, quindi separati dalle qualità che potenzialmente ci appartengono e che ci rendono «unici».
Purtroppo l’influenza del pensiero di Camatte non è stata così pervasiva come altre filosofie che hanno portato avanti le idee comuniste nel XX secolo. Si resta nel racket (per usare le parole di Camatte a proposito delle «organizzazioni artificiali» dopo il Sessantotto), imprigionati nella separazione identitaria, nel riconoscimento ideologico (sempre mancante) della propria banda. Come tifosi con la nostra bandierina in mano (mentre la squadra per cui tifiamo da tempo è uscita dal campo e lo stadio è ormai vuoto).
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