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Ritorno al futuro: l’Iran è la nuova Russia (e la propaganda riparte)

di Lavinia Marchetti*

In un atto di grafomania, ho messo insieme alcuni pensieri, un pourparler tra me e me, tra una lettura e l’altra di analisti, politologi, geopolitologi, informatori di regime, corrotti, burloni opinionisti.

Insomma, certo che sì, eccoci di nuovo. La ruota gira, e a ogni giro s’inverte l’asse dell’innocenza. Nuova guerra, vecchio copione. Come in un allestimento d’opera che cambia solo la scenografia, ma non la partitura.

L’Iraq di Saddam, l’Afghanistan dei Talebani, la Somalia dei signori della guerra, la Siria di Assad: sono tutti stati prima disumanizzati attraverso una narrazione totalizzante, poi purificati con il fuoco, infine riabilitati, spesso dagli stessi che avevano premuto il grilletto morale.

L’Iraq, per esempio: invaso nel 2003 sulla base di una fiction sulle armi chimiche, confezionata con slides, provette e sintassi d’intelligence. Risultato: oltre 460.000 morti, e oggi eccolo lì, partner strategico.

L’Afghanistan: vent’anni di esportazione della libertà a suon di droni, bombe, missili, mine antiuomo, oltre 240.000 vittime, per poi riconsegnarlo, come pacco Amazon danneggiato, ai Talebani.

La Somalia: test bench per operazioni militari con brand ONU, resta ancora oggi “Stato fallito” solo perché, ironia della storia, continua a cadere sotto il peso delle stesse mani che dicono di volerla sollevare.

E la Siria: oltre mezzo milione di morti, milioni di sfollati, laboratori segreti, alleanze liquide, controrivoluzioni fabbricate e svendute. Ora si ipotizza una graduale normalizzazione diplomatica con Damasco.

Come dire: abbiamo trascorso anni a finanziare, armare e promuovere una galassia di opposizioni armate in nome della libertà, contribuendo persino a sostituire, in alcuni distretti siriani, il potere di Assad con gruppi legati direttamente all’attentato dell’11 settembre.

Ottimo piano strategico: abbattiamo un regime laico e centralizzato, e ci ritroviamo con bande salafite che sognano il Califfato. E oggi, dopo mezzo milione di morti.

Ma il problema non è la guerra. Il problema è che il pubblico continua ad applaudire, e anzi si prenota per il bis. Secondo alcuni sondaggi, pare che un italiano su due sia disposto ad arruolarsi. Io, francamente, ne sono felice. Il fronte, come si sa, dà lavoro, migliora l’autostima e sfoltisce elegantemente la demografia. Altro che reddito di cittadinanza: ecco il reddito di belligeranza.

Il PIL salirà, le file all’INPS si accorceranno, e finalmente potremo chiamare “sacrificio per la patria” ciò che fino a ieri era precarietà strutturale. Una manovra win-win: l’Europa si riarma, Israele ringrazia, e intanto noi esportiamo corpi e importiamo senso. E se poi ci scappa qualche mortaio tra i padiglioni della Biennale, pazienza: almeno avrà qualcosa da dire anche l’arte contemporanea.

Quindi, per i media, l’Iran è la nuova Russia. Non importa che sia una teocrazia e non un’autocrazia, che abbia un sistema politico interno molto più eterogeneo di quanto si racconti, che stia subendo un attacco e non lo stia compiendo: la propaganda non cerca simmetrie, cerca pretesti. E il mantra si aggiorna: ieri era “vai a vivere a Mosca“, oggi è “vai a vivere a Teheran“.

I giornali che nel 2022 aprivano con titoli come “Putin vuole marciare su Lisbona“, oggi scrivono che “Teheran minaccia Roma“. Le stesse rubriche geopolitiche che due anni fa pubblicavano rivelazioni sugli ‘007 ucraini’ capaci di intercettare i “piani di invasione russa dell’Europa centrale” ora si affidano alle dichiarazioni dell’ambasciatore israeliano per dire che l’Iran vuole il Mediterraneo.

I talk show che ripetevano ossessivamente che “la Russia sta perdendo e proprio per questo è pericolosa“, oggi ci dicono che “l’Iran non ha mezzi, ma proprio per questo è una minaccia“.

Lo schema si copia e incolla, con precisione burocratica, dalla cartellina Ucraina alla cartellina Iran. Anche gli editoriali sembrano essere stati riutilizzati: basta sostituire il nome di Mosca con quello di Teheran e il gioco è fatto.

La stampa non informa: compila moduli. Ripete, fotocopia, spunta le caselle giuste nel formulario dell’Occidente perbene. Non interroga, bensì interpella come si fa a scuola guida: A, B, C o D? E la risposta è già cerchiata. Il cittadino non pensa, reagisce. Non sceglie, si schiera.

Ma attenzione: la parte è già stata decisa in redazione, possibilmente con l’ausilio di un press kit dell’ambasciata più vicina. La complessità? Non fa click. L’ambiguità? Non monetizza. Il dubbio? Non si indicizza su Google News.

Così le stesse frasi, gli stessi titoli, le stesse allucinazioni semantiche migrano con agilità da Putin a Khamenei, da Mosca a Teheran, senza nemmeno passare per un controllo passaporti. Perché la geopolitica dell’informazione funziona come una parodia del teatro di Brecht: stesso palco, stessi attori, maschere intercambiabili. Applausi registrati inclusi. Al via la Sit-com del Déjà vu.

Proprio quando l’Ucraina stava smettendo di performare il ruolo di laboratorio bellico-mediatico ideale, ecco che Israele attacca l’Iran. Ed ecco che i nostri media, con una rapidità da manuale, ricompongono il quadro morale precotto: è di nuovo febbraio 2022.

Si riparte con la liturgia dei buoni e dei cattivi, la luce e le tenebre, gli eroi e i barbari. Tel Aviv è Kyiv, Teheran è Mosca. E chi prova a dire “fermi tutti” viene immediatamente bollato come simpatizzante dell’ayatollah, filo-Kamenei, nemico dell’Occidente. Non importa il merito delle questioni, conta solo la fedeltà narrativa.

I nostri giornali, che si presentano come garanti della libertà e della verità, si sono rivelati ancora una volta cinghie di trasmissione del discorso egemonico. La pace, quando non proviene dalla voce autorizzata, viene trattata con sospetto, come una forma di devianza.

I giornalisti che un tempo si spendevano per la verità oggi ripetono disciplinatamente la linea dell’ambasciata. L’autonomia del pensiero, archiviata. La pluralità, sospesa. La stessa stampa che ammoniva contro la propaganda russa è oggi perfettamente sincronizzata con il lessico di Tel Aviv.

Le pubblicità pro-Israele spuntano ovunque: su YouTube, sotto i video di cucina, nei podcast di recensioni cinematografiche, mentre i nostri governanti pubblicano reel su Instagram. I contenuti? Sempre gli stessi: Israele combatte per noi, l’Iran costruisce testate nucleari, siamo già sotto attacco.

Operazione Rising Lion“: il nome suona già da blockbuster. E ovviamente il Mediterraneo è di nuovo in pericolo, l’Europa in bilico, le democrazie sotto minaccia. Dove l’abbiamo già vista, questa scena?

I media si affrettano a rispolverare il grande classico: i “piani segreti“. I famigerati documenti riservatissimi, provenienti da fonti anonime ma sempre certe, che annunciano che l’Iran vuole conquistare l’Europa. Da dove arrivano queste fonti? Ma da Tel Aviv, ovvio. Stessa fonte, stesso copione. E funziona sempre.

Nel frattempo, la stampa torna ad ammiccare all’apocalisse nucleare. Israele, potenza atomica mai dichiarata, mai firmataria di trattati di non proliferazione, bombarda impunemente le basi iraniane con la scusa che l’altro potrebbe sviluppare armi.

Il paradosso è perfetto: per impedire la costruzione di un’arma nucleare, si bombarda un impianto nucleare. Non è logica, è fede. Una fede cieca nell’impunità occidentale.

E mentre si bombarda, si negozia. O meglio: si bombarda e si invita l’altro a sedersi con garbo, possibilmente portando anche i pasticcini. L’aggressore? Resta elegantemente fuori dalla sala, impegnato a pianificare il prossimo round.

Si convoca l’Iran, non Israele. Si chiede all’aggredito di indossare la maschera della ragionevolezza, magari con il collare ancora al collo. Anche questo già visto, certo. Ma stavolta è pure meglio coreografato. La pace è trattata come una prova di sottomissione, il negoziato come un atto unilaterale di pentimento. L’unico paradosso è che tutto questo venga ancora definito diplomazia.

Le reazioni? Prevedibili. La Francia, che una settimana prima sembrava scoprire la Palestina, si riallinea in tempo record. L’Europa, che fingeva tentennamenti, si ricompatta nel sostegno all’alleato armato fino ai denti. Gli Stati Uniti, ovviamente, parlano di autodifesa israeliana. Chi prova a dire qualcosa sulla legalità internazionale viene bollato come nostalgico del patto di Varsavia.

La cosa più grottesca? È sempre un crimine di guerra se a colpire un ospedale è l’Iran. Se lo fa Israele per due anni consecutivi a Gaza, è un danno collaterale. La verità? È un crimine sempre. Ma non è la verità a decidere chi ha il diritto di esistere.

E allora ci risiamo: dopo l’Iraq di Saddam, la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad, ecco il turno dell’Iran. La propaganda, un tanto al chilo, è sempre pronta. Con nuovi nemici esistenziali, nuove minacce nucleari, nuovi Hitler. Tutti i giorni è il Giorno della Memoria, ma con il telecomando puntato solo sui genocidi concordati.


* da Facebook
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Comments

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Irene Starace
Tuesday, 01 July 2025 09:11
"Secondo alcuni sondaggi, pare che un italiano su due sia disposto ad arruolarsi". Puzza di propaganda lontano un miglio! Gli italiani non vogliono la guerra, tranne una minoranza di lobotomizzati purtroppo fuori dall'età di leva.
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Lorenzo
Monday, 30 June 2025 22:58
Vi è piaciuto essere 'liberati' dagli anglosassoni e dalla finanza apolide? Ora godetevi i padroni che vi siete scelti.

Per quanto riguarda l'insulsaggine e l'ottusa ripetitività del regime propagandistico demoplutocratico, non deriva dall'ottusità di chi fa propaganda ma da quella di chi la deve ricevere. Il primate medio vuole solo identificarsi con un gregge ripetendone gli slogans elementari ed instaurando primitive dialettiche d'inclusione/esclusione.

Ecco perché per coinvolgerlo (non dico convincerlo perché il convincimento presuppone un minimo di concettualizzazione) è necessario martellarlo ininterrottamente d'un messaggio sufficientemente elementare da essere introiettato in modo istintivo, rigorosamente non argomentato (perché l'argomentazione lo annoierebbe e lo allontanerebbe all'istante) e dotato d'un buono e un cattivo colla maiuscola.
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