Perché l’Occidente sta fomentando la guerra contro la Cina?
di Alessandro Scassellati
Uno dei veri motivi che alimenta l’ostilità degli Stati Uniti e dell’Occidente collettivo nei confronti della Cina è che lo spettacolare sviluppo economico della Cina ha fatto aumentare il costo del lavoro cinese e ridotto i profitti delle aziende occidentali. Un secondo elemento è la tecnologia. Pechino ha utilizzato la politica industriale per dare priorità allo sviluppo tecnologico in settori strategici nell’ultimo decennio e ha ottenuto progressi notevoli. Lo sviluppo tecnologico della Cina sta ora infrangendo i monopoli occidentali e potrebbe offrire ad altri Paesi del Sud globale fornitori alternativi di beni industriali necessari a prezzi più accessibili. La possibile saldatura economica tra Cina e Sud globale rappresenta la sfida fondamentale all’assetto imperiale occidentale e allo scambio ineguale.
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Negli ultimi quindici anni, l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Cina si è evoluto dalla cooperazione economica all’antagonismo più assoluto (si veda il rapporto Revising US grand strategy toward China del 2015). I media e i politici statunitensi hanno continuato a impegnarsi in una retorica anti-cinese persistente, mentre il governo statunitense ha imposto restrizioni commerciali e sanzioni alla Cina e ha perseguito il rafforzamento militare in prossimità del territorio cinese. Washington vuole che la gente creda che la Cina rappresenti una minaccia.
L’ascesa della Cina minaccia effettivamente gli interessi degli Stati Uniti, ma non nel modo in cui l’élite politica statunitense cerca di presentarla. Le relazioni tra Stati Uniti e Cina devono essere comprese nel contesto del sistema capitalista mondiale.
L’accumulazione di capitale negli Stati occidentali (inclusi Giappone e Corea), spesso definiti il “centro” o “Nord globale”, dipende dalla manodopera e dalle risorse a basso costo provenienti dalla periferia e dalla semi-periferia, il cosiddetto “Sud globale”1. Questa condizione è fondamentale per garantire elevati profitti alle multinazionali che dominano le catene di approvvigionamento globali. La sistematica disparità di prezzo tra il centro e la periferia consente inoltre all’Occidente di ottenere un’ampia appropriazione netta di valore (“estrattivismo” neocoloniale2) dalla periferia attraverso scambi ineguali nel commercio internazionale.
Fin dagli anni ’80, quando la Cina si aprì agli investimenti e al commercio occidentali3, ha svolto un ruolo cruciale in questa condizione, fornendo un’importante fonte di manodopera per le aziende occidentali: manodopera a basso costo, ma anche altamente qualificata e altamente produttiva. Ad esempio, gran parte della produzione di Apple si basa sulla manodopera cinese. Secondo una ricerca dell’economista Donald A. Clelland, se Apple avesse dovuto pagare i lavoratori cinesi e dell’Asia orientale allo stesso modo di un lavoratore statunitense, ciò le sarebbe costato 572 dollari in più per iPad nel 2011. La Repubblica Popolare Cinese ha beneficiato delle riforme maoiste (riforme agrarie, trasformazione delle relazioni sociali, creazione di istituzioni sociali per la gestione della finanza e della proprietà e formazione della prima industrializzazione) che hanno prodotto una popolazione istruita e sana. Risparmi interni e investimenti esteri si sono combinati in un sistema finanziario controllato dal governo. Questo capitale è stato utilizzato, insieme al trasferimento di tecnologia e scienza, per industrializzare il Paese e rafforzarne le forze produttive complessive.
Ma negli ultimi quindici anni, i salari in Cina sono aumentati in modo piuttosto drastico. Intorno al 2005, il costo orario del lavoro nel settore manifatturiero in Cina era inferiore a quello dell’India, meno di 1 dollaro all’ora. Negli anni successivi, il costo orario del lavoro in Cina è aumentato a oltre 8 dollari all’ora, mentre in India si attesta ora su soli 2 dollari all’ora circa. In effetti, i salari in Cina sono ora più alti che in qualsiasi altro Paese in via di sviluppo dell’Asia. Si tratta di un’evoluzione storica importante.
Ciò è accaduto per diverse ragioni fondamentali. Innanzitutto, la manodopera in eccesso in Cina è stata sempre più assorbita nell’economia salariata, il che ha amplificato il potere contrattuale dei lavoratori. Allo stesso tempo, l’attuale leadership del presidente Xi Jinping ha ampliato il ruolo dello Stato nell’economia cinese, rafforzando i sistemi di previdenza pubblica – tra cui l’assistenza sanitaria pubblica, l’edilizia popolare e ora anche la scuola materna gratuita e l’abolizione delle tasse per l’assistenza all’infanzia e l’istruzione nelle scuole pubbliche – che hanno ulteriormente migliorato la posizione dei lavoratori4.
Questi sono cambiamenti positivi per la Cina – e in particolare per i lavoratori cinesi – ma rappresentano un grave problema per il capitale occidentale. I salari più elevati in Cina impongono un vincolo ai profitti delle aziende occidentali che operano lì o che dipendono dalla produzione cinese per componenti intermedi e altri input chiave.
L’altro problema, per gli Stati occidentali, è che l’aumento dei salari e dei prezzi in Cina sta riducendo la sua esposizione a scambi ineguali. Durante l’era dei bassi salari degli anni ’90, il rapporto tra esportazioni e importazioni tra la Cina e l’Occidente era estremamente elevato. In altre parole, la Cina doveva esportare grandi quantità di beni industriali per ottenere le importazioni necessarie. Oggi, questo rapporto è molto più basso, rappresentando un netto miglioramento delle ragioni di scambio della Cina, riducendo sostanzialmente la capacità delle economie occidentali di appropriarsi di valore prodotto dalla Cina.
Dato tutto ciò, i capitalisti negli Stati occidentali sono ora disperati nel tentativo di fare qualcosa per ripristinare il loro accesso a manodopera e risorse a basso costo. Un’opzione – sempre più promossa dalla stampa economica occidentale – è quella di delocalizzare la produzione industriale in altre parti dell’Asia (come India, però per ora punita da Trump con un dazio del 25%) dove i salari sono più bassi. Ma questo è costoso in termini di perdita di produzione, necessità di trovare e formare nuova forza lavoro salariata e altre possibili interruzioni delle catene di approvvigionamento, senza contare che questi Paesi hanno già tutti la Cina come maggiore partner commerciale estero. L’altra opzione è quella di costringere i salari cinesi a scendere di nuovo. Da qui i tentativi degli Stati Uniti di indebolire il governo cinese e destabilizzare l’economia cinese, anche attraverso la guerra economica e la costante minaccia di un’escalation militare.
Ironicamente, i governi occidentali a volte giustificano la loro opposizione alla Cina sostenendo che le esportazioni cinesi sono troppo economiche. Si sostiene spesso che la Cina “bara” nel commercio internazionale, sopprimendo artificialmente il tasso di cambio della sua valuta, il renminbi. Il problema con questa argomentazione, tuttavia, è che la Cina ha abbandonato questa politica circa un decennio fa. Come ha osservato l’economista del Fondo Monetario Internazionale (FMI) José Antonio Ocampo nel 2017, “Negli ultimi anni, la Cina si è piuttosto impegnata a evitare un deprezzamento del renminbi, sacrificando una grande quantità di riserve. Ciò potrebbe implicare che, se non altro, questa valuta sia ora sopravvalutata”. La Cina ha infine consentito una svalutazione nel 2019, quando i dazi imposti dall’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump hanno aumentato la pressione sul renminbi. Ma questa è stata una normale risposta a un cambiamento delle condizioni di mercato, non un tentativo di far scendere il renminbi al di sotto del suo tasso di mercato.
Gli Stati Uniti hanno ampiamente sostenuto il governo cinese nel periodo in cui la sua valuta era sottovalutata, anche attraverso prestiti del FMI e della Banca Mondiale. L’Occidente si è schierato decisamente contro la Cina a metà degli anni 2010 (con l’amministrazione Obama), proprio nel momento in cui il Paese ha iniziato ad aumentare i prezzi e a mettere in discussione la sua posizione di fornitore periferico di input industriali a basso costo per le catene di approvvigionamento dominate dall’Occidente.
Il secondo elemento che alimenta l’ostilità degli Stati Uniti nei confronti della Cina è la tecnologia. Pechino ha utilizzato la politica industriale per dare priorità allo sviluppo tecnologico in settori strategici nell’ultimo decennio e ha ottenuto progressi notevoli. Ora possiede la più grande rete ferroviaria ad alta velocità del mondo (che si estende per quasi 50.000 chilometri e collega più di 550 città5, produce i propri aerei commerciali (il Comac C919), è leader mondiale nelle tecnologie delle energie rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idroelettrico e batterie elettriche), dei veicoli elettrici, delle comunicazioni (5G), della lavorazione dei metalli e della raffinazione delle terre rare (i minerali strategici per il nuovo round tecnologico dell’accumulazione) e gode di tecnologie mediche avanzate, tecnologia per smartphone, produzione di microchip, intelligenza artificiale, ecc. (tutti settori individuati e sostenuti dal programma industriale strategico Made in China 2025 del 2015). Le innovazioni tecnologiche che provengono dalla Cina sono vertiginose. Si tratta di risultati che ci aspettiamo solo dai Paesi ad alto reddito, e la Cina lo sta ottenendo con un PIL monetario pro capite inferiore di quasi l’80% rispetto alla media delle “economie avanzate”. È senza precedenti.
Ciò rappresenta un problema per gli Stati dell’Occidente collettivo, poiché uno dei pilastri principali dell’assetto imperiale è la necessità di mantenere il monopolio sulle tecnologie necessarie per l’accumulazione come beni strumentali, medicinali, computer, aerei e così via. Questo costringe il “Sud del mondo” a una posizione di dipendenza, costringendolo a esportare grandi quantità delle proprie risorse minerali, agroalimentari e industriali a basso costo per ottenere queste tecnologie necessarie. Questo è ciò che sostiene l’appropriazione netta delle economie centrali attraverso uno scambio ineguale.
Lo sviluppo tecnologico della Cina sta ora infrangendo i monopoli occidentali e potrebbe offrire ad altri Paesi del Sud del mondo fornitori alternativi di beni necessari a prezzi più accessibili. L’ascesa della Cina ha ispirato e trascinato una serie di Paesi, tra cui Indonesia, Vietnam, Malaysia e Bangladesh, che altrimenti non avrebbero potuto immaginare le possibilità al di fuori della trappola della dipendenza dall’Occidente. È grazie al potere della Cina che l’Indonesia è riuscita a vietare l’esportazione di nichel non lavorato e a promuovere la propria industrializzazione, ed è grazie alla Cina che l’industrializzazione è tornata a essere realtà nel continente africano. Inoltre, la Cina ha dato avvio all’iniziativa della Belt and Road per creare nuovi mercati (alternativi a quelli occidentali) e uno sviluppo economico più armonioso nel Sud del mondo6. Tutto ciò ha rappresentato una sfida fondamentale all’assetto imperiale occidentale e allo scambio ineguale.
Gli Stati Uniti hanno risposto imponendo sanzioni e tariffe unilaterali volte a rallentare e finanche paralizzare lo sviluppo tecnologico ed economico della Cina7. Finora, questo non ha funzionato; semmai, ha aumentato gli incentivi per la Cina a sviluppare le proprie capacità tecnologiche e produttive. Con quest’arma in gran parte neutralizzata, gli Stati Uniti vogliono ricorrere al bellicismo (che però le condizioni della loro economia, attualmente tenuta fuori dalla recessione grazie ai robot e all’assistenza sanitaria, segnalano che il Paese non è più in grado di sostenere come in passato8, il cui obiettivo principale sarebbe quello di distruggere la base industriale cinese e dirottare i capitali di investimento e le capacità produttive cinesi verso il settore degli armamenti. Gli Stati Uniti vogliono entrare in guerra con la Cina non perché la Cina rappresenti una qualche forma di minaccia militare per il popolo statunitense, ma perché lo sviluppo cinese mina gli interessi del capitale imperiale.
Le affermazioni occidentali secondo cui la Cina rappresenti una qualche forma di minaccia militare sono pura propaganda. I fatti concreti raccontano una storia fondamentalmente diversa. Infatti, la spesa militare pro capite della Cina è inferiore alla media globale e pari a 1/10 di quella dei soli Stati Uniti (che nel 2025-26 spenderanno un trilione di dollari, aumentando pericolosamente il proprio deficit e debito pubblico – circa 37 mila miliardi di dollari, con un costo per interessi di 1.200 miliardi). La Cina ha una popolazione numerosa, ma anche in termini assoluti, il complesso militare-industriale occidentale allineato agli Stati Uniti spende oltre sette volte di più in potenza militare rispetto alla Cina. Gli Stati Uniti controllano otto armi nucleari per ogni arma nucleare posseduta dalla Cina.
La Cina può avere il potere di impedire agli Stati Uniti di imporre la propria volontà, ma non ha il potere di imporla al resto del mondo come fanno gli Stati occidentali. La narrazione secondo cui la Cina rappresenti una sorta di minaccia militare è ampiamente esagerata.
In realtà, è vero il contrario. Gli Stati Uniti hanno centinaia di basi e strutture militari in tutto il mondo (circa 750-800). Un numero significativo di queste si trova vicino alla Cina, in Giappone, Corea del Sud, Filippine e altri Paesi dell’Asia-Pacifico. Al contrario, la Cina ha una sola base militare straniera, a Gibuti, e nessuna base militare vicino ai confini statunitensi.
Inoltre, la Cina non ha sparato un solo proiettile in una guerra internazionale da oltre 40 anni, mentre durante questo periodo gli Stati Uniti e i loro alleati hanno invaso, bombardato o condotto operazioni di cambio di regime in oltre una dozzina di Stati del Sud del mondo. Se c’è uno Stato che rappresenta una minaccia nota per la pace e la sicurezza mondiale, sono proprio gli Stati Uniti.
La vera ragione del bellicismo occidentale è che la Cina sta raggiungendo uno sviluppo sovrano e questo sta minando l’assetto imperiale da cui dipende l’accumulazione di capitale occidentale. L’Occidente collettivo (almeno la sua classe dirigente) non vuole permettere che il potere economico globale gli sfugga di mano così facilmente, mettendo in conto nuove guerre e finanche il rischio dell’estinzione umana dovuta all’utilizzo delle armi nucleari.
Trump ha respinto 35 anni di idealismo imperialista statunitense e ha riportato il realismo di destra alla Henry Kissinger nella politica estera statunitense. Un cambiamento significativo, ma anche un segnale di profonda disperazione. Il governo statunitense non immagina più di poter plasmare il mondo a propria immagine. Apparentemente, persegue un programma più modesto, ovvero che gli Stati Uniti dovranno usare il loro potere per promuovere prima di tutto i propri interessi e che dovranno controllare il mondo così com’è piuttosto che trasformarlo in qualcosa che non è. Questo non è affatto un progresso. La struttura dell’imperialismo statunitense rimane intatta. Ma i mezzi saranno diversi. Verrà usata la forza, ma per promuovere un programma a favore degli interessi statunitensi piuttosto che degli interessi della borghesia globale. Non si sa ancora come reagirà la borghesia del Sud del mondo a questi sviluppi. È probabile che non abbia capito (così come sembra non aver capito neanche quella europea, soggiogata e disponibile a donare il proprio sangue agli Stati Uniti con il suo umiliante e deplorevole accordo commerciale) che gli Stati Uniti non difenderanno più i loro interessi, ma cercheranno di ottenere la migliore combinazione possibile solo per la propria borghesia su tutto il resto9. Questo indebolirà la fiducia nella globalizzazione che finora ha attanagliato le borghesie del Sud del mondo? In altre parole, nel Sud del mondo emergerà una componente patriottica della borghesia? Certamente, qualcosa del genere probabilmente accadrà col tempo, se la borghesia sarà in grado di riconoscere i propri interessi di classe.
Trump non è amico né della Cina né del Sud del mondo e né dell’Europa. Promuoverà un’agenda imperialista con tutte le sue forze. I suoi consiglieri, in particolare Elbridge Colby del Dipartimento della Difesa, hanno chiarito che l’arresto dello sviluppo economico e tecnologico della Cina (come dell’Europa) è la parte principale del loro programma, e che questo arresto si estenderà ai rapidi sviluppi di qualsiasi Stato del Sud del mondo. Il tentativo di uno Stato del Sud globale di rivendicare la propria sovranità verrà attaccato dalla Casa Bianca di Trump. Gli unici interessi che promuoverà saranno quelli della borghesia statunitense, e userà la forza per garantirseli. Ogni dubbio sul fondamentale impegno di Trump verso l’imperialismo è già stato dissipato dal genocidio dei palestinesi a Gaza.
Note
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Il concetto di Sud del mondo o globale è stato introdotto per la prima volta all’attenzione mondiale con la Commissione Brandt (1980), dove il Sud si riferiva ai Paesi che naufragavano nella povertà, in contrapposizione al Nord, che si riferiva alle ex potenze coloniali. Il concetto fu elaborato dalla Commissione Sud (1989), presieduta dall’ex presidente della Tanzania Julius Nyerere e con un commissario cinese, Qian Jiadong, che era un assistente di Zhou Enlai e suocero di Wang Yi, l’attuale ministro degli Esteri cinese. Il concetto di Commissione Sud fu sviluppato per riferirsi ai Paesi in via di sviluppo che dovevano elaborare un programma per il loro sviluppo, non solo ai Paesi bloccati nella povertà. Fu un passo avanti. La Commissione Sud, che aveva studiato gli sviluppi già notevoli nella regione cinese di Shenzhen, avanzò l’idea che la dipendenza non fosse permanente e che una rottura potesse avvenire con il trasferimento di tecnologia e il corretto sfruttamento delle risorse interne. Questo era molto più di quanto fosse stato proposto dal vecchio programma di modernizzazione e sviluppo. La formazione dei BRICS nel 2009 è stato un segnale importante di questo risveglio del Sud globale, ma lo è anche l’insistenza sulla necessità di una nuova teoria dello sviluppo e della creazione di nuove istituzioni per la finanza e lo sviluppo (tra cui la Nuova Banca di Sviluppo, istituita nel 2014) che promuovano e lavorino per incrementare il commercio e la cooperazione Sud-Sud.[↩]
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Neocolonialismo è un termine usato dal presidente del Ghana Kwame Nkrumah nel 1965 per descrivere una situazione di indipendenza riferita solo formale (Nkrumah fu vittima di un colpo di stato l’anno successivo). I Paesi ottennero la loro sovranità politica, ma non furono in grado di controllare le proprie economie. Questa mancanza di controllo si verificò perché dovettero prendere in prestito denaro dall’estero per quasi tutto (anche per pagare i conti del settore pubblico) e dovettero permettere alle aziende straniere di sfruttare le loro risorse perché non avevano né il capitale, né la tecnologia, né le competenze per farlo. Questa mancanza di potere finanziario e scientifico lasciò questi Paesi in preda ai loro ex padroni coloniali. Ai nostri giorni, le linee di base del neocolonialismo rimangono intatte per molti Paesi, esacerbate dalla spirale apparentemente infinita del debito. L’attuale debito estero totale dei Paesi in via di sviluppo è di 11,4 trilioni di dollari e oltre il 98% dei proventi delle esportazioni di questi Paesi viene utilizzato per ripagare i ricchi detentori di obbligazioni. Questo rende impossibile lo sviluppo. Questa è la struttura del neocolonialismo contemporaneo. Fu questa struttura a produrre la teoria della dipendenza, la cui formula fu articolata da Andre Gunder Frank come “lo sviluppo del sottosviluppo”.[↩]
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Nel 1978, con riforme di Deng, la dirigenza cinese riconobbe che senza la trasformazione delle forze produttive, l’economia cinese sarebbe rimasta stagnante e non sarebbe stata in grado di provvedere ai bisogni del suo popolo e di svolgere un ruolo internazionalista nel mondo. Per questo motivo, l’ingresso di capitali e tecnologia fu consentito a condizione che si aderisse al programma pianificato del socialismo con caratteristiche cinesi. L’ingresso di tecnologia e finanza permise alla Cina di potenziare le sue forze produttive e di diventare uno dei motori economici più potenti del mondo.[↩]
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Un anno chiave è stato il 2014, quando due fatti divennero chiari: in primo luogo, che i mercati nordamericani ed europei non sarebbero stati in grado di assorbire le materie prime e i manufatti prodotti in Cina, e in secondo luogo, che ai capitalisti cinesi non doveva essere permesso di diventare una classe in senso politico e che la disuguaglianza doveva essere eliminata il più possibile. Il mandato di Xi Jinping sarà ricordato come l’epoca in cui la Cina si è spostata dai mercati del Nord per costruire una struttura di mercato del Sud attraverso la Belt and Road Initiative, quando la Cina ha significativamente impedito ai suoi capitalisti di avere qualsiasi influenza politica (l’esperienza di Jack Ma è esemplare) e quando la Cina ha sradicato la povertà assoluta e accelerato il suo programma di uguaglianza.[↩]
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Pechino è riuscita a costruire la rete a un ritmo vertiginoso, garantendo al contempo la sicurezza e raggiungendo velocità di viaggio record. I treni a levitazione magnetica (MAGLEV) recentemente testati hanno superato i 600 km/h, e una nuova generazione di treni proiettile in grado di raggiungere i 400 km/h. Questo potrebbe ridurre i tempi di percorrenza tra Pechino e Shanghai, le due principali città della Cina, di oltre un’ora, riducendo le quattro ore di viaggio a tre.[↩]
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La politica della Belt and Road, formulata per la prima volta nel 2013 come politica “One Belt, One Road”, era inizialmente incentrata sul tentativo del governo cinese di abbandonare la dipendenza dai mercati statunitense ed europeo dopo il crollo di questi ultimi nella crisi finanziaria del 2007. A Pechino divenne chiaro che i mercati del Nord del mondo non sarebbero stati permanentemente accessibili a Paesi come la Cina. Per cercare nuovi mercati, Pechino cercò di proseguire la politica di sviluppo occidentale nella Cina occidentale (inclusi Xinjiang, Tibet e Qinhai) avviata da Jiang Zemin e Hu Jintao, per poi estenderla all’Asia centrale. Oltre a ciò, la Belt and Road si proponeva di costruire infrastrutture nel Sud del mondo per facilitare uno sviluppo economico più armonioso tra la Cina e quelle regioni. Dal 2013 al 2024, l’impegno della Cina nella BRI ha raggiunto un totale di 1.175 miliardi di dollari, tra investimenti, prestiti e donazioni. Si tratta di una trasformazione significativa dell’agenda per lo sviluppo. Nel maggio 2025, il presidente Xi Jinping ha offerto ai leader latinoamericani e caraibici una linea di credito per investimenti da 9 miliardi di dollari, rafforzando la posizione della Cina come principale partner commerciale del Sud America. Ventidue Paesi latinoamericani hanno aderito all’iniziativa Belt and Road, mentre l’impegno sistematico della Cina in Africa continua ad approfondirsi attraverso investimenti infrastrutturali e partnership per l’approvvigionamento minerario..[↩]
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Un recente articolo del Washington Post suggerisce un preoccupante “ammorbidimento” nell’approccio dell’amministrazione Trump nei confronti di Pechino, evidenziando quelle che considera pericolose concessioni su Taiwan e sulla tecnologia, guidate da un’attenzione esclusiva per un accordo commerciale. Tuttavia, dal punto di vista della Cina, questi sviluppi riguardano meno le “concessioni” e più un necessario, seppur tardivo, riconoscimento delle realtà globali e della duratura forza della posizione di principio della Cina. Ciò riflette una crescente consapevolezza che la cooperazione, non lo scontro, offre la strada più stabile per entrambi i Paesi e il mondo. Le aziende americane, riconoscendo l’immenso potenziale del mercato cinese e i vantaggi dello scambio tecnologico, hanno costantemente sostenuto un impegno aperto. Quando le aziende americane possono partecipare al mercato cinese, ciò fornisce loro entrate vitali per la ricerca e lo sviluppo, il che, in ultima analisi, va a vantaggio della loro competitività. La fermezza della Cina di fronte ai dazi e sanzioni unilaterali e il suo impegno ad aprire ulteriormente il mercato cinese hanno dimostrato che la Cina è un partner affidabile e indispensabile nell’economia globale.[↩]
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Gli sforzi del presidente Donald Trump per ripristinare i posti di lavoro nel settore manifatturiero attraverso l’imposizione di dazi sulle importazioni hanno prodotto finora scarsi progressi e stanno mettendo a repentaglio la competitività degli Stati Uniti. Se la sua amministrazione continua sulla strada attuale, è probabile che gli Stati Uniti si trovino ad affrontare un declino della primazia del dollaro e una recessione economica senza precedenti condita dalla stagflazione. Ad oggi, i dazi di Trump hanno fatto salire l’aliquota media dei dazi negli Stati Uniti al 18%, la più alta dagli anni ’30. Un incremento destinato a far aumentare i prezzi di beni di consumo, dall’elettronica all’abbigliamento. Sebbene le entrate tariffarie mensili siano aumentate fino a raggiungere i 29 miliardi di dollari entro luglio 2025, il triplo rispetto al livello del 2024, il Congressional Budget Office prevede che i prezzi più elevati e le interruzioni della catena di approvvigionamento finiranno per frenare la crescita economica. La tensione economica è già visibile. La crescita del PIL statunitense è rallentata all’1,2% annualizzato nella prima metà del 2025, in calo rispetto al 2,8% del 2024. La crescita dell’occupazione nel settore manifatturiero si è arrestata, con i settori legati al commercio che ne hanno sostenuto i costi.[↩]
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Con i dazi di Trump destinati ad attaccare gli standard di vita dei ceti medi e delle classi lavoratrici statunitensi e a ridurre i loro consumi di almeno 2.500 dollari nel 2025, i mercati statunitensi non saranno più un posto accogliente per le merci di Europa, Cina e Paesi del Sud del mondo.[↩]