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Scarsità e redistribuzione del lavoro
Leo Essen intervista Giovanni Mazzetti
In questa fase di crisi sanitaria, che si sta trasformando in crisi economica e dell’occupazione, il tema della redistribuzione del lavoro e della riduzione della giornata lavorativa emerge con forza. La posta in gioco è immensa. Il numero dei disoccupati cresce come non mai dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Che fare?
Vogliamo tornare al mondo di prima, sperando di riacciuffare il lavoro perso, anche se si trattava di un lavoro pessimo e mal pagato? Oppure vogliamo prendere atto che il mondo della produzione è nelle nostre mani, che c’è bisogno di un cambio di paradigma, che c’è bisogno di assumere i cambiamenti già avvenuti nelle cose, maturando nuovi rapporti?
Sono domande che ci poniamo tutti, e che ho rivolto a Giovanni Mazzetti, già Professore di Economia Marxista all’Università della Calabria, Presidente del Centro Studi e Iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e redistribuzione del lavoro complessivo.
* * * *
In questi giorni di emergenza la preoccupazione di trovare vuoti gli scaffali dei supermercati è grande. Oggi, più di ieri, è evidente che la nostra sopravvivenza di persone e di lavoratori è legata a quella di altri lavoratori. Si può andare oltre la divisione del lavoro, e assumere un atteggiamento, per così dire, autarchico, oppure si deve interpretare la divisione del lavoro entro un nuovo paradigma sociale?
Il lavoro particolare, unilaterale, è stato il punto di partenza della condizione umana. Vale a dire che i nostri lontani antenati hanno imparato a praticare la produzione in una miriade di forme diverse, ciascuna delle quali era appannaggio solo di questo o quell’organismo locale (tant’è vero che nelle popolazioni meno sviluppate il concetto astratto di lavoro non esiste.)
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Non c'è liberazione dal lavoro senza liberazione del lavoro
di Gianluca Pozzoni
“Smith Ricardo Marx Sraffa: Il lavoro nella riflessione economico-politica” di Riccardo Bellofiore (Rosenberg&Sellier, 2020) non è un semplice compendio di storia del pensiero economico. È piuttosto un'immersione nelle teorie economiche moderne che spinge l’autore a interrogarsi sul ruolo del lavoro nell’attuale fase neoliberista del capitalismo, sul suo futuro aperto, e sui compiti politici che questo futuro pone
Tanto vale dichiararlo in apertura: dietro al titolo esoterico, da “addetti ai lavori”, dell’ultimo libro di Riccardo Bellofiore – Smith Ricardo Marx Sraffa – si nasconde in realtà un testo fortemente militante. Si tratta, beninteso, di una militanza teorica, da economista critico. Lo stesso titolo del libro è un omaggio all’opera Smith Ricardo Marx, pubblicata all’inizio degli anni Settanta da un altro economista critico, Claudio Napoleoni, antico maestro di Bellofiore. E se l’impostazione di Bellofiore non risparmia neppure lo stesso Napoleoni, criticato in vari punti, fedele all’approccio del suo predecessore è invece la scelta di avanzare una proposta teorica ripercorrendo alcune tappe fondamentali del pensiero economico moderno.
Al pensiero classico di Adam Smith, primo termine di confronto in ordine di tempo, sono infatti dedicati i primi due capitoli dopo quello introduttivo. Segue poi un capitolo dedicato al pensiero di David Ricardo, e altri due ancora a Marx. Chiudono il corpo del volume, prima delle appendici, due capitoli dedicati rispettivamente a Piero Sraffa e John Maynard Keynes. Ma come annunciato in apertura, non ci troviamo davanti a un semplice compendio di storia del pensiero economico. Stante l’interesse didattico dei profili dei vari autori qui tracciati, questa escursione nelle teorie economiche moderne si svolge all’insegna di una scelta tematica ben specifica, enunciata nel sottotitolo: il lavoro nella riflessione economico-politica. Scelta che, peraltro, spinge l’autore fino a interrogarsi sul ruolo del lavoro nell’attuale fase neoliberista del capitalismo, sul suo futuro aperto, e sui compiti politici che questo futuro pone. Ma andiamo con ordine.
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Editoriale n. 1 di Officina Primo Maggio
di Redazione
Qui il manifesto della nuova rivista e qui l'indice del primo numero
Scrive Sarah Lazare nel numero di In These Times del 12 marzo: «Pensavamo che il nostro sistema fosse caratterizzato da precarietà e senso di paura dei lavoratori, il Coronavirus ci ha fatto capire che è stato costruito così deliberatamente».
È vero. Tutte le caratteristiche negative del nostro tempo, in termini di sistema capitalistico in generale e in termini di sistema-Italia, stanno venendo a galla in maniera più chiara e più comprensibile di quanto abbiano potuto fare le migliaia di analisi e di denunce degli ultimi vent’anni.
Noi cominciamo qui la nostra avventura di Officina Primo Maggio. Eravamo pronti a uscire quando è partita l’emergenza. Far finta di nulla era ridicolo, mettersi a fare grandi analisi, tanti lo facevano, meglio di quanto avremmo potuto fare noi. Vorremmo provare allora a cambiare gioco e a pensare che cosa di positivo potrebbe nascere nella testa della gente, perché se c’è un dato certo è che il “pensiero unico” con il Coronavirus è andato in frantumi, e almeno su un paio di cose dovrebbe avere qualche difficoltà a ricostruire la sua compattezza di prima.
Primo, il ruolo dello stato e del servizio pubblico in generale.
Il problema però non dobbiamo guardarlo solo con l’ottica dell’emergenza: anche il più accanito neoliberale oggi è disposto a invocare uno stato autorevole, un comando centralizzato, una sanità pubblica efficace per combattere un virus. No, dobbiamo ripensare il ruolo dello stato da dove lo avevamo lasciato con Primo Maggio, e precisamente da quando ci siamo posti il problema dello smantellamento del welfare state. Quello che stava accadendo ce lo avevano spiegato Fox Piven e Cloward: non era tanto la demolizione del welfare quanto la sua trasformazione in sistema di regolazione e controllo.
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Il “Manifesto contro il lavoro” venti anni dopo
di Cybergodz
È uscita in Germania, nel 2019, la IV edizione del Manifesto contro il lavoro (I edizione in Germania nel 1999, tr. it.2003).1
Un’edizione particolarmente significativa poiché cade nel ventennale della prima uscita di questo importante e acuto libro che, provocatoriamente – nell’epoca della “disoccupazione” cronica e della litanía generalizzata implorante “lavoro, lavoro” -, attaccava (e attacca) frontalmente e “categorialmente” il paradigma lavorista, dimostrando come si tratti di un costruzione storica e non connaturata all’umano tantomeno eterna. Un paradigma, cioè, legato a doppio filo alla modernità capitalistica e di fatto in “scadenza” nell’epoca della terza rivoluzione industriale, quella caratterizzata dalla produzione guidata dalla microelettronica e capace di performances produttive impensabili già solo per il taylorismo-fordismo del boom economico del secondo dopoguerra.
Il Manifesto contro il lavoro, per essere più precisi, così come tutto il pensiero critico che si rifà alla Critica del Valore – corrente di pensiero di cui lo stesso Manifesto fa parte – non opera però una mera critica del “fare” tout court. Gli autori di questo intrigante Pamphlet2 sono stati spesso superficialmente accusati di essere niente più che un manipolo di intellettuali svogliati fannulloni sfaccendati e, naturalmente, parassiti (con tutta la connotazione anti-semita che questo tipo di accuse porta con sé),3 imputati di una sorta di “istigazione” al vagabondaggio. Anche se non ci sarebbe, in fondo, niente di particolarmente scandaloso se il messaggio di questo libro mirasse ad un mero rifiuto a priori del diktat lavorista capitalistico – come comunque anche fa – il Manifesto opera tuttavia una critica più articolata e profonda.
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Il ritorno della questione salariale
di Luca Casarotti
Una recensione a “Basta salari da fame!” di Marta e Simone Fana
A due anni da Non è lavoro, è sfruttamento (già recensito qui su Lavoro Culturale), Laterza pubblica Basta salari da fame! (2019, pp. XX-172). L’accostamento dei titoli è sufficiente a segnalare che i due libri sono tra loro in rapporto di stretta parentela. Non solo perché Marta Fana è autrice del primo e coautrice – con il fratello Simone – del secondo, ma anche perché comune è il tema affrontato: i modi in cui si dà lo sfruttamento della classe lavoratrice, in Italia e non solo. Se il pamphlet del 2017 era soprattutto una fenomenologia del qui e ora, il saggio del 2019 mantiene il focus sull’attualità, ma imprime alla critica dello stato delle cose la profondità della prospettiva storica. L’obiettivo è rompere la gabbia del “non ci sono alternative”, ossia rispondere con gli strumenti del materialismo storico alla naturalizzazione del presente. O meglio, di un’idea del presente, quella condensata nell’ubiqua massima (d’autore incerto) secondo cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Una naturalizzazione che si è sentita evocare a più riprese in occasione dei trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, e che non è affatto nuova. È anzi piuttosto datata: il libro che ne rappresenta il manifesto filosofico politico, The End of History and the Last Man di Francis Fukuyama, risale al 1991), ma riprende in buona sostanza Kojève, il quale a sua volta interpretava, forse unilateralmente, Hegel. Come che sia, è poca cosa accontentarsi di constatare quanto può essere vecchia e teoricamente insostenibile l’idea di un capitalismo naturalizzato, perché è su quest’idea (non a caso strenuamente difesa dal suo cantore, a costo d’introdurre caveat e fare concessioni ai critici) che si continuano a giustificare la realtà dei rapporti di produzione e le radicali ineguaglianze che ne sono il fondamento e il prodotto.
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Il salario sociale di classe
di Carla Filosa
Il governo del capitale, qualunque sia la sua denominazione (democratico, fascista, liberale, ecc) può mantenersi solo attraverso menzogne, sviamenti, dilazioni, svuotamento di contenuti
Nei nostri tempi di continua precarizzazione del lavoro, delle finte “autonomie lavorative”, dei lavori senza contratto, dei “lavoretti”, della mancanza di sicurezza sul lavoro, ecc., sembra prioritario fare chiarezza sulle cause delle modalità remunerative che tendono a cancellare il significato di salario, erroneamente identificato nella sola busta paga. Le ultime generazioni non conoscono a volte neppure l’uso di questo termine, al massimo si parla di stipendio, quando devono ricevere un pagamento per prestazioni effettuate.
Anche la comunicazione mediatica favorisce l’obliterazione concettuale del lavoro salariato usando prevalentemente le parole come “occupazione” o “disoccupazione” legate ad una ineluttabile fase di crisi economica, di cui non si menziona né l’origine né le dinamiche di una sua possibile risoluzione.
Riaffrontare i temi legati al salario ripropone quindi una necessaria riflessione critica sui temi sociali legati all’attualità sì dei processi inflattivi, dei fenomeni ambientali e migratori, delle innovazioni tecnologiche, ecc., ma soprattutto delle relazioni sociali che fanno capo alle “diseguaglianze” e alle “povertà assolute e relative”, su cui ormai si organizzano analisi e dibattiti diventati di moda.
Per orientarsi pubblichiamo la presentazione del libro di Gianfranco Pala “Propriamente salario sociale di classe. Critica delle mistificazioni del valore della forza-lavoro” edito da La Città del Sole che sarà presentato venerdì 6 marzo 2020 alle ore 18.30 presso la Libreria Fahrenheit 451 Piazza Campo de’ Fiori 44 - Roma da Carla Filosa, Presidente dell’Università popolare A. Gramsci, che ne ha scritto l’introduzione che proponiamo ai nostri lettori.
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L'orientamento della sinistra davanti al problema del lavoro
di Sergio Farris
Relazione presentata al convegno organizzato dal Coordinamento della Sinistra di ValleTrompia il 15/02/2020
Prologo
Che il lavoro in Italia non possa essere considerato in situazione ottimale e che i lavoratori dipendenti non attraversino un periodo florido, quasi tutti sono disposti ad ammetterlo. I più avveduti riconoscono anche la tendenza in corso all'aggravamento della disuguaglianza e all'approfondimento della povertà assoluta e relativa.
Tutti i maggiori partiti si dichiarano favorevoli ad affrontare il tema del lavoro. Solitamente essi pongono l'incremento e la tutela dell'occupazione al primo posto nelle rispettive agende politiche. Specialmente quando le pagine dei giornali rendono conto delle ricorrenti crisi aziendali.
Vi sono tuttavia rimarchevoli differenze riguardo alle analisi e ai metodi con i quali l'argomento può essere focalizzato. Altrettanto vale per i mezzi politici da attivare al fine di raggiungere un elevato livello di occupazione e posti di lavoro di qualità.
Attualmente il tasso di disoccupazione ufficiale è di circa il 10%. Gli occupati assommano a circa 23 milioni. Il tasso di disoccupazione giovanile si avvicina al 30%. Va meglio a Brescia e in altre zone del Nord, territori in cui la disoccupazione è storicamente inferiore rispetto alla media nazionale. Comunque, quando si tratta del tasso di disoccupazione, va anche tenuto conto di fenomeni quali il part-time involontario, il diffusissimo precariato, il lavoro autonomo sotto forma di false partite Iva, eccetera. (Ufficialmente, gli autonomi regolari sarebbero 5 milioni 363 mila). E soprattutto, anche quando ci si riferisce agli occupati, andrebbe tenuto conto delle retribuzioni e della qualità delle prestazioni lavorative. (Si ha spesso a che fare con lavoro povero, soprattutto nel composito settore dei servizi).
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Caso Foodora: la Cassazione difende i rider, la politica i loro padroni
di Alessandro Somma
Dopo tre anni di battaglia legale, i rider di Foodora ottengono finalmente giustizia: sono lavoratori subordinati, e non autonomi come vuole la piattaforma. Si tratta di una vittoria significativa, di un segnale importante per il capitalismo digitale e per la voracità con cui punta allo sfruttamento del lavoro. È però un segnale debole, perché al coraggio dei giudici corrisponde l’inadeguatezza della politica, se non la sua complicità con i nuovi padroni, a beneficio dei quali ha edificato e presidiato il quadro delle regole entro cui hanno potuto prosperare. Regole che si avviano a divenire il punto di riferimento per una complessiva riforma del lavoro sempre più ridotto a merce.
Il coraggio dei giudici
Nel 2017 alcuni fattorini addetti alla consegna di pasti, i cosiddetti rider, chiedono al Tribunale di Torino di riconoscere la loro condizione di lavoratori subordinati. Foodora, il loro datore di lavoro, sostiene però che i rider sono lavoratori autonomi in quanto per le consegne non utilizzano mezzi messi a disposizione dall’impresa: la bicicletta e lo smartphone sono di loro proprietà. Inoltre non hanno alcun obbligo contrattuale di rispondere alle chiamate: sono come i Pony Express degli anni Novanta[1], che la Corte di Cassazione aveva negato fossero lavoratori subordinati facendo leva proprio su questo aspetto[2].
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Pensioni: muleta e controfuoco
di Louis Colmar
«Chi non lavora non mangia. Ecco qual è l'imperativo demagogico che pretende di risolvere la questione, limitandosi semplicemente a mettere in relazione il diritto di mangiare con l'obbligo di lavorare. Quella che dev'essere posta, invece, è la questione della relazione tra il diritto di mangiare e quello di non lavorare (ammesso e non concesso che sia lecito fare uso della vuota ed astratta concezione di «diritto»). Mentre la natura carnale dell'uomo esige che egli si nutra, la sua natura spirituale gli impone, forse in maniera ancora più imperiosa, di non lavorare in modo da potere così giocare e dedicarsi alla contemplazione. Bisognerebbe parlare di un diritto al non lavoro piuttosto che di un "diritto al lavoro"». (Giuseppe Rensi, 1923).
Ovviamente, il senso dell'attuale progetto [di Macron, in Francia] relativo alle pensioni non è certo quello di porre in atto un «diritto al non lavoro», ma piuttosto quello di perfezionare la ricostruzione e l'adattamento del vincolo politico del lavoro finalizzandolo alle nuove condizioni economiche della crisi della globalità capitalistica. Nel corso della presentazione del contenuto di questo progetto di riforma, il mondo dei media, all'unanimità, ha sottolineato un presunto errore strategico commesso dal Primo Ministro, che, alzando di due anni l'età minima pensionabile, per poter andare in pensione senza decurtazioni, avrebbe accidentalmente contrariato il suo principale sostegno sindacale. Al contrario, però, si tratta di una strategia deliberata: la cosiddetta tecnica della "muleta", che consiste nel distogliere l'attenzione del toro della protesta sociale agitando un'enorme drappo rosso, in modo da focalizzare l'attenzione sull'età del pensionamento, e permettere così che possa passare quello che è il cuore della riforma, vale a dire la riduzione globale dell'erogazione dell'importo monetario delle pensioni per mezzo di un sistema per così dire a punti.
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Le ingannevoli innovazioni dell’industria 4.0
di Renato Turturro
L'uso dei braccialetti elettronici viene propagandato come utile a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma in realtà ne aumenta lo sfruttamento e il controllo
La tecnologia di produzione è quindi determinata due volte dalle relazioni sociali di produzione: in primo luogo, è progettata e messa in opera secondo l’ideologia e il potere sociale di coloro che prendono queste decisioni; e in secondo luogo, il suo effettivo utilizzo nella produzione è determinato dalle vicissitudini delle lotte tra le classi nei luoghi di produzione. (David Noble,1986)
Mentre la scorsa estate si verificavano gli ennesimi infortuni mortali nei campi e in edilizia, uno dei principali giornali riportava «Bracciale elettronico in cantiere: Così proteggiamo gli operai» riprendendo le dichiarazioni dell’Assessore regionale allo Sviluppo Economico Alessandro Mattinzoli. Le dichiarazioni facevano seguito alla delibera della Regione Lombardia (Dgr n. 2048 del 31.07.2019) dedicata alla sicurezza sul lavoro. La delibera prevede l’avvio di un progetto sperimentale in due cantieri nel bresciano, dove verranno impiegati dei braccialetti elettronici fino a giugno 2020. L’obiettivo è «monitorare la salute e la sicurezza dei lavoratori con strumenti e metodi digitali». Elaborato dalla Camera di Commercio di Brescia e in particolare dall’Ente Sistema Edilizia Brescia (Eseb), in collaborazione con l’Università degli studi di Brescia e l’Università di Verona, per un costo di 100mila euro, quello che la Tesco (settore logistico) aveva sperimentato in Inghilterra nel 2009, sembra diventare realtà anche in edilizia.
Ad aprile 2018 la Fca di Melfi introdusse degli esoscheletri per «sollevare con facilità fino a 15 kg e monitorare lo sforzo degli operai addetti a operazioni di movimentazione pezzi ripetute nel tempo» ma ad oggi, si guarda bene dal mettere in discussione l’intera metodologia di valutazione Ergo-Uas adottata nei suoi stabilimenti.
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L'automazione digitale: come liberarsi da un'impostura
di Roberto Ciccarelli*
Qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata basta per generare una rappresentazione del futuro simile alla magia. Ogni like su Facebook, ogni acquisto su Amazon, ogni ricerca su Google sembrano vendere un sogno per cui droni, servizi online e automi possono soddisfare i desideri dei consumatori e diventare più umani degli umani. Quanto agli uomini saranno liberati dai loro errori, contraddizioni e conflitti, ovvero da loro stessi. A questi esseri si assegna il ruolo di trasformare la società in un mercato ideale senza forza lavoro. L’esempio che, più di altri, viene fatto per rappresentare la fine della forza lavoro come produttrice di ricchezza è la macchina Google che si guida da sola. Le sue imprese sono raccontate periodicamente al pari del miglioramento della ricerca sui droni. Il congegno è la promessa simbolica per i guidatori della classe media di essere sollevati dalla fatica di viaggi di ore verso l’ufficio all’altro capo della città, ottenendo in cambio l’accesso allo stile di vita dei ricchi e dei famosi che possono contare su uno chauffeur personale. Solo che questi “ricchi” sono meno dell’1% della popolazione mondiale e saranno sempre di meno, mentre la classe media che dovrebbe usufruire delle prestazioni di questo veicolo è spinta sempre più in basso. Si prefigura così un futuro dove le macchine si guideranno da sole, mentre la maggioranza degli umani andranno a piedi perché non saranno in grado di acquistarle. Questo dettaglio sfugge molto spesso alla futurologia della Silicon Valley. Più forte è la suggestione di un’automazione depurata dai limiti umani.
Lo chauffeur di Google è un esempio delle automazioni che sostituiranno la forza lavoro: perché far lavorare una persona in carne e ossa se un robot svolge le stesse mansioni senza obiezioni?
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Esuberi & rottamazioni … che fare?
di Francesco Cappello
Esuberi più recenti, come riportati dalla stampa, senza pretesa di completezza
SAFILO annuncio di 700 esuberi in Italia e chiusura stabilimento di Martignacco (Udine) Nonostante la previsione di vendite in leggera crescita nei prossimi cinque anni, l’azienda ha avviato un programma di ristrutturazione industriale. L’amministratore delegato Angelo Trocchia ha affermato che punterà su “una crescita più significativa del nostro business e-commerce direct-to-consumer“.
CONAD il gruppo Conad dichiara 3.100 esuberi, di cui più di mille nella sola Lombardia, su 6.600 dipendenti dei negozi Auchan e Simply (punti vendita già confluiti in Conad), appena acquisiti. I lavoratori che operano già sotto il marchio Conad hanno visto un peggioramento delle loro condizioni lavorative, rispetto al passato, in termini di orario, turni e salario.
CONTINENTAL 500 esuberi annunciati , da qui a 10 anni, negli stabilimenti Continental di Pisa e Fauglia. Sono il primo risultato dei cambiamenti produttivi, del passaggio dalle auto a benzina o diesel alle auto elettriche. L’auto elettrica ha bisogno di nuovi macchinari e linee produttive che comporteranno la riduzione del 60% della forza lavoro.
Anche le fabbriche del GRUPPO MAHLE pagano il prezzo della grande fuga dal diesel.
Risultano in via di chiusura in Piemonte, 620 esuberi alla BOSCH di Bari, produzione in calo del 30 per cento nello stabilimento FCA di Pratola Serra, nell’avellinese.
FEDEX-TNT giganti delle spedizioni e consegne a domicilio. In ballo 361 licenziamenti e 115 trasferimenti. Il progetto prevede, anzitutto, la chiusura di 24 sedi su 34 e l’allontanamento di 361 lavoratori (315 in Fedex, quasi tutti corrieri, e 46 in Tnt). Previsti anche cento spostamenti di sede. Si teme esternalizzazione massiccia di personale.
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Tempo rubato: Food for thought
di Eugenio Donnici
1. Tempo rubato inteso come un campo di battaglia. Sottrazione di tempo da parte di pochi, di un piccolo gruppo che restringe gli spazi di emancipazione collettiva. Un terreno conflittuale dove si scontrano desideri di autonomia personale ed imperativi di comando. Un furto legalizzato che espropria i venditori della forza lavoro, precari e sottopagati. Ladri di tempo che rubano sogni, che rullano gli affetti, che impediscono l’auto-realizzazione dei “dipendenti”, il che presuppone la variabile “indipendente”, e quindi che i primi agiscano in funzione dei secondi, che i primi siano funzionali ai secondi. Una relazione di dipendenza che ha di nuovo preso il sopravvento, che è diventata dominante e imprescindibile.
E lo Stato cosa fa?
Rimane a guardare, incarna il fuori gioco della politica, manifesta la sua impotenza.
Sembra che la politica abbia perso il suo tempo o che porti in giro i suoi perditempo, che non sia in grado di incidere sugli aspetti essenziali di quella relazione di tempo, da cui parte il lavoro di S. Fana e che trova un’espressione sintetica nel titolo del suo libro.
La sua analisi fa riferimento alla teoria del valore-lavoro di Marx, una teoria che è stata oggetto di una miriade di interpretazioni, ma l’autore non entra nei dettagli polemici e sulla fondatezza o validità della teoria. Egli evidenzia con molta chiarezza un aspetto della teoria di Marx che è caduto nel dimenticatoio e che troppo spesso non viene preso in considerazione, se non in via accessoria, vale a dire il perseguimento del plus-valore-plus-lavoro e che si condensa e trova attuazione nella pratica sociale dello sfruttamento.
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La solitudine operaia nel corrotto crepuscolo del sindacato dell’auto negli USA
di Felice Mometti
Che cosa si è ottenuto scioperando 40 giorni di fila contro un’azienda multinazionale il cui secondo maggior azionista è il sindacato che ha indetto lo sciopero? La domanda è legittima. Se la sono posta, su Facebook, alcuni operai della General Motors (GM) americana guardando l’accordo contrattuale sottoscritto dal sindacato United Auto Workers (UAW) alla fine di ottobre.
Lo scenario
A metà settembre sono scaduti i contratti aziendali delle Big Three, le tre principali aziende automobilistiche americane: General Motors, Ford e Fiat-Chrysler Automobiles (FCA). La strategia del sindacato unico UAW – negli Usa non sono ammessi più sindacati nella stessa fabbrica ‒ è quella di scegliere di volta in volta l’azienda in cui si firmerà l’accordo pilota da applicare poi nelle altre due. Gli iscritti all’UAW nelle tre fabbriche sono circa 150 mila, praticamente quasi tutti gli addetti negli Stati Uniti, su un totale di 390 mila aderenti al sindacato. Una forza d’urto in teoria considerevole se si guarda solo ai numeri e a un tasso di sindacalizzazione di oltre il 90%. Un conto però sono i numeri e le percentuali, un altro sono la struttura, il funzionamento e la volontà del sindacato di avanzare rivendicazioni e produrre conflitto. Non è mai un rapporto lineare e il caso americano ne è un esempio perché nei fatti, in base ad accordi tra sindacato e Big Three, c’è l’obbligo di iscriversi all’unico sindacato riconosciuto.
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La crisi ingravescente del sindacato collaborazionista
di Eros Barone
L'esportazione dei capitali fa realizzare un lucro che si aggira annualmente sugli 8-10 miliardi di franchi, secondo i prezzi prebellici e le statistiche borghesi di anteguerra. Ora esso è senza dubbio incomparabilmente maggiore. Ben si comprende che da questo gigantesco soprapprofitto - così chiamato perché si realizza all'infuori e al di sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del "proprio" paese - c'è da trarre quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore dell'aristocrazia operaia. E i capitalisti dei paesi "più progrediti" operano così: corrompono questa aristocrazia operaia in mille modi, diretti e indiretti, aperti e mascherati. E questo strato di operai imborghesiti, di "aristocrazia operaia", completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per i salari percepiti, per la sua filosofia della vita, costituisce ai nostri giorni...il principale puntello sociale (non militare) della borghesia. Questi operai sono veri e propri agenti della borghesia nel movimento operaio, veri e propri commessi della classe capitalista nel campo operaio..., veri propagatori di riformismo e di sciovinismo, che durante la guerra civile del proletariato contro la borghesia si pongono necessariamente, e in numero non esiguo, a lato della borghesia, a lato dei "versagliesi" contro i "comunardi". Se non si comprendono le radici economiche del fenomeno, se non se ne valuta l'importanza politica e sociale, non è possibile fare nemmeno un passo verso la soluzione dei problemi pratici del movimento comunista e della futura rivoluzione sociale.
V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, dalla Prefazione alle edizioni francese e tedesca, 1920.
Il documento qui riportato è il riassunto della relazione svolta il 19 dicembre del 2019 da Nino Baseotto, segretario confederale della Cgil, al Direttivo nazionale di questo sindacato. Il riassunto, reperibile sul sito web della federazione varesina del Partito comunista italiano, è stato redatto da Cosimo Cerardi, segretario di tale organizzazione politica, presente alla riunione locale in cui la suddetta relazione è stata nuovamente esposta dal suo autore. 1
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