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La retata di Parigi
Andrea Brazzoduro intervista Enzo Traverso
Viste le reazioni scomposte che hanno accompagnato l’indegna retata parigina del 28 aprile 2021 abbiamo chiesto a Enzo Traverso – tra i massimi storici del mondo contemporanea – di ragionare insieme sulla «stagione della conflittualità» tra storia, memoria, politica e giustizia. Tra questi termini il grande convitato di pietra è infatti la storia, cioè il lavoro di comprensione degli eventi del passato. In che senso l’arresto di un pugno di uomini e donne dai capelli bianchi aiuterebbe l’Italia a «fare i conti con la Storia» – se non proprio col Novecento – come hanno scritto alcuni? Da una parte questi ex militanti politici sono trattati come criminali comuni secondo i dettami di un’ideologia presentista tra le più becere e ignoranti. Dall’altra è convocata (impropriamente) tutta la panoplia dei memory studies per imporre una narrazione del trauma, fondata sul paradigma vittimario. In base a che cosa si dice che nella società italiana ci sarebbe una ferita aperta rispetto agli anni Settanta? Come in Francia per l’occupazione dell’Algeria, sembra piuttosto che si tratti di esplicito uso politico della storia, che niente ha a che fare con i processi sociali reali di elaborazione della memoria.
Intorno a questi temi, a partire dalla ‘retata parigina’, abbiamo intervistato Enzo Traverso per tentare di andare oltre il monologo collettivo che imperversa nel dibattito pubblico.
* * * *
Donne e uomini coi capelli grigi, tra i 60 e i 78 anni, tradotti in manette, all’alba, nelle camere di sicurezza dell’antiterrorismo. «Ombre rosse» è il nome scelto per la retata con cui, il 28 aprile 2021, sono stati arrestati 7 ex militanti della sinistra rivoluzionaria rifugiati in Francia da anni e accusati dalla giustizia italiana di una serie di delitti che vanno dall’associazione sovversiva all’omicidio commessi, secondo l’accusa, tra il 1972 e il 1982. Si tratta di «chiudere con il Novecento», come scrive «la Repubblica»?
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Governare la società del dopo covid
a cura di Salvatore Biasco
Documento di sintesi delle discussioni organizzate dal Network “Ripensare la cultura politica della sinistra” il 28 dicembre 2020 e il 5 e 6 marzo 2021
Le coordinate politiche del documento
Il filo rosso delle discussioni tenute in incontri (chiusi) dal nostro Network ha riguardato l’orizzonte possibile per la sinistra nella riorganizzazione del Paese dopo la tempesta della pandemia. Non a caso il documento di sintesi parla di biforcazione nelle scelte da adottare, il cui percorso dipenderà in gran parte dal tipo di politiche che il Paese progetterà e implementerà.
Non si trattava di discutere il Recovery Plan avanzando un ennesimo contropiano e neppure di redigere un manifesto. Ma di mettere a fuoco una cultura politica capace di condurre alle domande giuste nella definizione di una visione dell’Italia, senza lasciarle poi sospese nell’aria, ma indagando anche le possibili risposte ed entrando, per quanto possibile, nel merito delle questioni. Nel corso degli incontri (pur con l’intervallo di appena due mesi) si è verificato un significativo passaggio di fase, che invita a riflettere sugli interlocutori e destinatari di queste riflessioni collettive.
La visione culturale che ispira questa sintesi non combacia con gli schemi mentali cui ci ha abituato la sinistra ufficiale in questi anni. Mai come in questo momento è divenuta evidente come la sua modesta capacità di produrre idee, il suo distacco dal paese reale e l’indeterminatezza della rappresentanza, siano alla base dell’indubbia sconfitta che ha subito con le vicende che hanno portato all’avvento del governo Draghi. Quella sconfitta non può essere archiviata solo come questione di numeri parlamentari. Essa pone in rilievo ancora una volta che fuori da una qualificante presenza di governo la sinistra rimane disarmata, senza egemonia, senza idee forza, progetto politico e mobilitazione sociale.
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La parabola del M5S da partito alternativo al nuovo centro-sinistra
di Domenico Moro
Il Movimento 5 Stelle (M5S) rappresenta una delle novità più importanti della vita politica italiana degli ultimi dieci anni e ha contribuito anche nel rendere più difficile – certo insieme ad altri più importanti fattori – la rinascita di una aggregazione politica di sinistra radicale e comunista. Per questo è importante chiedersi le ragioni sia della sua rapida ascesa sia dell’altrettanto rapida discesa che sembra stia attraversando nell’ultimo periodo. Una discesa che è speculare alla sua evoluzione da partito alternativo al sistema politico complessivo a partito che sta in una larghissima maggioranza in appoggio al governo Draghi e che sta diventando una costola del nuovo centro-sinistra progettato dal PD a direzione lettiana.
I numeri dell’evoluzione del M5S sono impressionanti. Alle politiche del 2013 il M5S aveva raccolto il 25,56% dei consensi, risultando pressoché appaiato al PD, che prese il 25,43%. Nel 2018 il M5S, presentatosi sempre da solo alle elezioni politiche, raccolse ben il 32,68% dei voti alla Camera dei deputati, risultando il primo partito e staccando di ben 14 punti il secondo partito, il PD, che raccolse appena il 18,76% dei suffragi. In valori assoluti il M5S ebbe 10milioni e 732mila voti contro i 6milioni e 161mila del PD. Si tratta di un distacco tra la prima e la seconda forza politica che nella storia elettorale italiana si è verificato poche volte con questa ampiezza. Però, in soli tre anni di governo, il M5S ha quasi dimezzato, secondo i più recenti sondaggi, la sua quota di elettorato, scendendo dal primo al quarto posto tra i vari partiti. Infatti, al primo posto troviamo la Lega (22%), seguita dal PD (20%), da Fratelli d’Italia (18%) e dal M5S (17%). Senza contare che un terzo dei suoi parlamentari ha abbandonato il partito.
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Mario Draghi, uno dei Cavalieri dell’Apocalisse
di Fulvio Bellini
Premessa: la storia non è finita nonostante Mario Draghi
Tra le varie forme di morfina che vengono date alla nostra società in stadio terminale, come appunto si fa con i malati di cancro per i quali le diffuse metastasi non danno più speranza di guarigione ma si applicano le cure palliative, vi è anche quella di convincere l’opinione pubblica che la storia sia giunta al suo epilogo, avendo “messo in tasca” la moneta d’oro perfetta: la democrazia parlamentare sul dritto ed il sistema liberista sul dorso del conio. Nel 1992 uno dei tanti maggiordomi del capitalismo trionfante, Francis Fukuyama, pubblicò il famoso saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”. Sosteneva questo erudito lacchè che la caduta del muro di Berlino rappresentava la volontà dell’umanità di tendere inesorabilmente ai sistemi politici ed ai principi della democrazia liberale, meta conclusiva della vicenda storica di ogni popolo della Terra. Chi ha scritto la sceneggiatura della commedia o del dramma, dipende da quale prospettiva la si vede, relativa all’ascesa alla Presidenza del Consiglio di Mario Draghi (e vedremo che non si tratta di sceneggiatori di Bruxelles ma di Washington) a mio avviso si sono ispirati almeno al titolo dello smentitissimo saggio di Fukuyama, creando un personaggio che rappresentasse contemporaneamente la fine per una certa vicenda politica italiana e l’ultimo uomo possibile al governo del Bel Paese. Per gli ideologhi stile Fukuyama, il concetto di fine della storia sottende anche l’esenzione dalla necessità di studiarla, essendo ormai inutile ragionare del nostro passato e dei suoi protagonisti.
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Una democrazia a pezzi
di Alessandro Coppola
La democrazia italiana versa in condizioni catastrofiche, probabilmente le peggiori fra i paesi di quella che un tempo era definita l’Europa occidentale. Le ultime settimane hanno illustrato questa condizione in modo particolarmente persuasivo attraverso le sue varie dimensioni.
Le modalità con le quali si è prodotta la crisi del governo Conte, prima di tutto. Sappiamo che nella crisi non sono mai state pubblicamente formulate da parte di chi l’aveva determinata richieste precise che, soddisfatte le quali, l’avrebbero sventata. Le vere ragioni si sono rivelate in seguito, quando la nascita del governo Draghi è stata rivendicata come l’obiettivo di un’azione che, per l’appunto, non aveva mai posto esplicitamente quell’obiettivo. Questa opacità è resa possibile dalla attesa generalizzata di un intervento presidenziale che, ormai, non è più irrituale ed è diventata un tratto strutturale del nostro sistema. Tanto da permettere ad alcuni attori politici di parassitare le azioni del Presidente. Se Matteo Renzi non avesse avuto la certezza che le camere non sarebbero state sciolte in virtù, per l’appunto, di un intervento presidenziale per un “governo del presidente” non avrebbe potuto aprire una crisi senza mai dichiarare i suoi veri obiettivi, correndo i relativi rischi e trovandosi di fronte ai relativi ostacoli. Renzi è abile e scaltro, ma questa sua abilità è in gran parte prodotta dal contesto di generalizzata deresponsabilizzazione della classe politica e sovra-responsabilizzazione del Quirinale che, per quelli come lui, è diventato ideale.
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La Repubblica al capolinea
di Sandro Arcais
Con l’avvento di Draghi si chiude un ciclo e se ne apre uno nuovo. Come ha affermato Lucio Caracciolo
Questo governo è spartiacque. Fine di un non-regime, quello successivo alla Prima Repubblica, seguito per trent’anni da un declino tendente al caos.
Se Draghi fallirà, fallirà l’Italia. Se riuscirà, avremo un’altra repubblica. Presidenziale di fatto se non di diritto, perché la selezione dei ministri di questo esecutivo è funzionale al trasferimento di Draghi al Quirinale
Detto in altra maniera, più colorita, con Draghi si è sotterrato il corpo ormai in avanzato stato di putrefazione della Repubblica nata dalla Resistenza e basata sulla Costituzione e si sancisce anche in Italia la vittoria schiacciante del capitale nella sua decennale lotta di classe dall’alto contro il lavoro.
Con Draghi, si chiude il lungo ciclo apertosi con la nascita della Repubblica (se non prima, sin dal collasso della monarchia, l’8 settembre 1943) in cui il “quarto partito” evocato da De Gasperi, sconfitto nella lotta per la guida del nuovo stato nato dalle ceneri della monarchia fascista, intraprende una sorda e paziente guerra di condizionamento e contenimento dei progetti dei vittoriosi partiti di massa, in particolare di quello cattolico. Le loro casematte sono i ministeri e le istituzioni finanziari, la grande impresa privata e le sue organizzazioni sindacali, i sostanziali e pesanti appoggi esterni, inglesi, soprattutto, e statunitensi.
Questo lungo ciclo può essere diviso in almeno cinque fasi:
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L’alternativa c’è
Leandro Cossu intervista Pino Cabras
Abbiamo intervistato Pino Cabras, deputato sardo eletto nel 2018 col MoVimento Cinquestelle, “dissidente” della fiducia al Governo Draghi e fondatore della componente del gruppo misto “L’Alternativa c’è”.
* * * *
Il voto della fiducia al governo Draghi non è di certo il primo che vede lei e gli altri “dissidenti” prendere una posizione non allineata rispetto al resto del gruppo parlamentare ma di sicuro più coerente al programma del MoVimento Cinque Stelle per le elezioni del 2018. Penso, per esempio, alla riforma del MES votata a metà di dicembre dello stesso anno. L’espulsione a seguito del voto contrario al Governo Draghi è stato il culmine di un processo di snaturamento del MoVimento iniziato da quando è diventato partito di governo?
Il M5S ha esaurito assai più presto del previsto la propria spinta propulsiva che derivava dagli anni in cui era il “partito della crisi”, ossia la forza politica che rappresentava milioni di cittadini sommersi da quel che definisco l’Europeismo Reale e che premevano per un’alternativa al rigorismo dei “dittatori dello spread”. Il problema è che assieme a una retorica che suonava rivoluzionaria, il M5S non esprimeva anche una progettualità altrettanto coraggiosa e intransigente rispetto al cuore delle decisioni, ossia la politica economica. In un certo senso ci si accontentava di governare i milioni di euro, ma i miliardi li governava lo stato profondo: cioè le tecnostrutture burocratiche, una cinghia di trasmissione fra Bruxelles e Francoforte e le opache decisioni economiche di quei palazzi romani inaccessibili alla classe dirigente grillina, concentrata sulla “scatoletta di tonno” di Montecitorio, in parte già svuotata.
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Il governo di unità militare
di Andrea Turco
La nomina a commissario per l'emergenza del generale Figliuolo rinnova il mito per cui l'unica organizzazione efficace è quella militare, cioè autoritaria. E per le forze armate il Covid si conferma un affare che aumenta finanziamenti e visibilità
In una scena famosa del film Vogliamo i colonnelli – feroce satira di Mario Monicelli che immagina un colpo di Stato in Italia sull’esempio del regime greco a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta – un gruppo sgangherato di nostalgici fascisti e vecchi arnesi dell’esercito si ritrova ad arringare giovani uomini bianchi che nelle intenzioni dovrebbero costituire la manovalanza del golpe. Il più esagitato è l’onorevole Giuseppe Tritoni, interpretato da Ugo Tognazzi. Le sue parole, a distanza di quarant’anni, risultano paradigmatiche:
Ordine, Obbedienza, Disciplina! Basta con l’anti-storica uguaglianza. Ma che vuol dire? Ma perché un ingegnere deve essere uguale a un muratore… madonna di un dio! Soltanto i coglioni sono uguali l’uno all’altro.
Di quel film, zeppo di riferimenti nemmeno troppo velati al principe Junio Valerio Borghese e alla destra del Movimento Sociale Italiano, quella appena riportata è una delle battute invecchiate meglio. Alla pari dell’invocazione del titolo. Nel dibattito pubblico, almeno in quello mainstream, di fronte alla millantata indisciplina del popolo italiano si finisce prima o poi fatalmente per invocare l’esercito. Ancor di più nell’era Covid che stiamo vivendo. Il governo Draghi ha accelerato questo processo. Il fatto più emblematico in questo senso è il recente affidamento della gestione dell’emergenza Coronavirus al generale di corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, dal 2018 comandante logistico dell’Esercito italiano.
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Il documento degli ex M5S “L’ Alternativa c’è”
di *******
Primo manifesto di "L'alternativa c'è"
I nostri principi
● Ci sentiamo ancora collegati al programma elettorale col quale siamo stati eletti nel marzo 2018 nel M5S di allora e per il quale i cittadini ci hanno accordato la loro fiducia e riposto in noi la speranza di un cambiamento. Vogliamo restare fedeli a tutto questo e considerare il programma del 2018 come base di partenza per ogni ulteriore sviluppo.
● La nostra azione nasce in opposizione al governo Draghi, ma esprime una più generale opposizione ai governi ‘tecnici’ e al ‘vincolo esterno’ dietro cui si nascondono politiche neoliberiste che applicano il darwinismo sociale all’economia e alla vita delle persone.
● Mettiamo al centro della politica la persona, la comunità e l’ambiente, non il mero profitto. La politica, e dunque il controllo democratico, deve tornare a governare la cosa pubblica.
● La nostra collocazione è oltre gli schieramenti di destra e sinistra storicamente determinati, che non bastano più a interpretare la realtà, la cultura e i processi economici e sociali, né la geopolitica. Non ci interessano le vecchie etichette e le finte contrapposizioni che nascondono compromessi, interessi trasversali e grandi ammucchiate. Vale ancora il concetto: “Un’idea non è di destra né di sinistra. È un’idea, buona o cattiva”. Il nostro programma ha come riferimento il popolo sovrano – che è il primo attore dell’articolo 1 e dell’articolo 3 della Costituzione – e crede in un forte intervento dello Stato nella sfera economica e sociale.
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Il declino italiano e san Draghi
di Leonardo Mazzei
Le cifre del declino italiano sono tante e tutte convergenti. La caduta del Pil nel 2020 (-8,9%) non ha precedenti nel dopoguerra. Un vero tracollo, che non è stato però un fulmine a ciel sereno, bensì il picco negativo di una decadenza iniziata vent’anni fa. Ce lo ricorda un pezzo del Sole 24 Ore del 25 febbraio.
L’articolo di Gianni Trovati – Il gelo italiano lungo 20 anni – si basa su un’elaborazione dei dati ufficiali della Commissione europea. Il fine è quello di mettere a confronto l’andamento dell’economia italiana con quello dell’intera Eurozona. Il risultato è impressionante. Dal 2001 al 2020 l’Italia ha perso oltre il 18% rispetto all’insieme dell’area euro. Una vera catastrofe, ma ovviamente il quotidiano di Confindustria si guarda bene dal chiedersi cosa sia successo di particolare 20 anni fa.
I numeri del Sole non lasciano comunque spazio a troppe discussioni sulla drammatica decadenza del nostro Paese. Leggiamo:
«La lunga stagnazione italiana ha ridotto del 18,4% il peso del nostro Paese sul complesso della produzione cumulata dall’Eurozona nei suoi confini attuali. Oggi il Pil italiano vale il 14,5% di quello dell’area euro, contro il 17,7% coperto nel 2001, all’interno di un quadro che negli anni a cavallo del 2000 era piuttosto stabile».
Quale la conseguenza sul reddito medio degli italiani è presto detto:
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Un Mario vale l'altro?
Giuseppe Molinari intervista Christian Marazzi
Si fa presto a dire che la nomina di Draghi rappresenta un’edizione aggiornata del governo «lacrime e sangue» di Mario Monti. Già nei tuoi precedenti interventi ci invitavi a guardare anche alle discontinuità nell’approccio dei governi e delle istituzioni finanziarie alla gestione della crisi. Si delinea un «nuovo corso» in cui le politiche fiscali di intervento pubblico, coniugandosi con le politiche monetarie espansive, riacquistano sempre più importanza. La nomina di Draghi e, ancora prima, l’approvazione del Next Generation EU, si iscrivono in questo contesto. Ovviamente, ci sono alcuni elementi che ritornano nella scelta di Draghi: così come nel 2011, viene nominato un «governo tecnico», «un governo dei competenti» per sanare le insufficienze della politica e per incolonnare l’Italia all’interno di un determinato paradigma. In questo caso, però, probabilmente il governo Draghi non sarà chiamato soltanto ad imporre l’austerity ma a definire un piano di spesa per i fondi che arriveranno. Cosa ne pensi?
Inizio con una premessa: questo nuovo governo certifica il collasso della rappresentanza. È un discorso che ci siamo fatti già da qualche anno, ma è avvenuto in un modo per certi versi inimmaginabile, per i partiti sarebbe stato difficile fare peggio di così. È l’attestazione di un problema serio nella società.
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La crisi di governo come spettacolo
di Fabio Ciabatti
La triste commedia messa in scena dalla classe politica durante l’ultima crisi di governo è stata unanimemente e fortemente condannata dai media main stream. Siamo di fronte a una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si lamentano commentatori di ogni risma, e i partiti sono capaci soltanto di fare giochi di palazzo dimenticandosi dell’interesse generale. Vergogna! Alla gogna! Eppure la maniacalità con cui viene seguito ogni sussurro proveniente dalle stanze e dai corridoi del “palazzo” suscita molti dubbi sul significato reale dell’indignazione sbandierata da giornalisti e opinionisti. Se del solito teatrino della politica si tratta, perché puntare ossessivamente i riflettori su questi attori di serie B? In realtà quello che è andato in scena con la complicità di giornali, televisioni e media digitali non è tanto una rappresentazione teatrale di pessima fattura quanto un vero e proprio spettacolo, nel senso che a questo termine attribuiva Debord.
“Lo spettacolo – sostiene il padre del situazionismo – riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato”.1 Per quel che qui ci interessa possiamo sostenere che lo spettacolo della crisi di governo ha riunificato, a suo modo, la sfera politica e quella economica; la prima intesa come l’istanza che si presume possa garantire l’interesse generale e la coesione complessiva di una società, la seconda come l’ambito in cui i singoli capitali organizzano la produzione finalizzata al perseguimento del profitto.
A questo proposito chiediamo un po’ di pazienza perché vorremmo ribadire, come si sarebbe detto un tempo, alcune banalità di base. E ci piace farlo, a mo’ di omaggio, attraverso un testo di qualche anno fa di Ellen Meiksins Wood, importante esponente del marxismo politico, scomparsa nel gennaio di cinque anni fa.2
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Il governo dei Giavazzi
di Lorenzo Zamponi
La nomina dell'economista liberista come consigliere a Palazzo Chigi getta le ombre del passato sulla riconversione ecologica promessa da Mario Draghi
Una restaurazione, senza neanche passare per la rivoluzione. È difficile non pensarla in questi termini, di fronte all’ipotesi, riportata da molti organi di stampa, che sia Francesco Giavazzi a sostituire Mariana Mazzucato, teorica dello «stato imprenditore» e di un nuovo modello keynesiano nell’innovazione, nel ruolo di consigliere economico della Presidenza del Consiglio. Sarebbe il quarto incarico governativo a nostra memoria per il professore della Bocconi: dirigente del Ministero del Tesoro tra il 1992 e il 1994, a occuparsi di privatizzazioni, poi consigliere economico di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi quando quest’ultimo era definito da Guido Rossi «l’unica merchant bank in cui non si parla inglese», tra il 1998 e il 2000, e infine consulente di Mario Monti per la spending review nel 2012. Anni meravigliosi, in cui sono state poste le fondamenta dell’economia pubblica italiana come la conosciamo ora.
Un suo ritorno a Palazzo Chigi, già anticipato, del resto, dall’utilizzo di frasi intere tratte da un suo editoriale dello scorso anno nel discorso con cui il presidente del consiglio Mario Draghi ha chiesto la fiducia alle camere, sarebbe un segnale molto netto dell’impostazione ideologica che Draghi intende dare al proprio governo. Dopo settimane di chiacchiere su keynesismo e liberalsocialismo e di stucchevoli riferimenti a Federico Caffè come «maestro» del presidente del consiglio, a prevalere nell’organigramma dell’esecutivo sarebbe una scuola nettamente diversa.
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‘Il capitale disumano’. Ritratto di un tecnocrate, dal faceto al serio
di Alba Vastano
Draghi è oggi il premier eletto con standing ovation finale, perché tutto il sistema parlamentare odierno è conforme alle politiche neoliberiste europee di cui Draghi è il simbolo e l’esecutore. Per comprendere qual è il compito di un tecnocrate dell’austerity, basterebbe fare riferimento ad una letterina che ci arrivò il 5 agosto 2011. Ripercorrere la sua escalation nel mondo dell’alta finanza europea e l’esecuzione capitale avvenuta sugli Stati nazionali, svelando la sua vera natura di strangolatore di popoli, è un atto di chiarezza e di onestà
Via Conte. Habemus Mario Draghi al governo. I suoi ormai fedelissimi estimatori dal centro destra al centrosinistra sostengono che, da super esperto qual è, sia l’uomo che saprà risolvere in breve i tanti guai derivanti da anni di crisi dovuta all’incompetenza dei governanti precedenti. Sono in molti, infatti, nelle fila dei partiti parlamentari, a fidarsi delle competenze di alto spessore del banchiere dell’Ue. Tranne una piccola frangia di occasionali dissidenti, tutte le forze parlamentari sono entrate a far parte del bacino delle larghe intese, realizzando un’anomalia governativa che fino a ieri sembrava impossibile. Ebbene, grazie alla nuova accozzaglia politica di centro destra e centrosinistra, i fini matematici, con l’occasione, sono riusciti a superare l’impossibile fino ad oggi: sommare le pere con le mele.
Tutti a festeggiare la bizantina intesa e a magnificare sua eccellenza, mister Europe, dimenticando le beghe pubbliche da osteria, di cui sono stati attori protagonisti fino a ieri e a cui ormai eravamo, da spettatori inermi, avvezzi e quasi rassegnati. Perché le continue schermaglie parlamentari movimentavano, a volte spassosamente, le nostre giornate, specie in questi tempi spenti di pandemia, in cui l’informazione mainstream ha impennate notevoli nello share televisivo.
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Alcune note sul discorso di fiducia di Mario Draghi al Senato
di Alessandro Visalli
Siamo davanti a tempi davvero complessi. Tempi nei quali ci si divide, e giustamente.
A volte solo perché si era già divisi e si era giunti ad un crocicchio nel quale sembrava di stare insieme, ma provenendo da sentieri diversi. Un attimo si era stati nello stesso posto, ma, in effetti, la traiettoria era diversa. Ognuno aveva una sua dinamica.
Altre volte si era nello stesso posto e tempo perché, ad un certo grado, si condivideva un’urgenza primaria, ma questa, al cambiare del contesto necessariamente si dissolve repentinamente. I fatti impongono infatti sempre nuovi ordinamenti, e ci si scopre diversi. Improvvisamente l’amico diviene avversario.
Uno dei termini di maggiore divisione è il giudizio sul governo che si presenta, dichiarandosi necessario.
Capita allora che un discorso[1] per certi versi mediocre, piuttosto banale (ma non privo di chiarezza, a suo modo, di una sua scolastica), nell’articolo[2] di Carlo Galli diventa “concreto e di alto respiro”. Oppure è il senso dell’urgenza e della priorità che fa dire[3] a Mario Tronti che c’è “nientedimeno” che da ridisegnare i confini della divisione dei poteri e si è in presenza di un mutamento di clima politico che rende possibile l’elezione di un capo dello Stato “di sicura garanzia”.
Ovunque, insomma, nelle diverse parti ed anime della borghesia italiana, si respira un clima di sollievo: l’ubriacatura del 2018 si può archiviare, le plebi possono essere ricacciate nei piani bassi dai quali avevano rumorosamente cercato di risalire. Finalmente!
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