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machina

Da Reagan a Clinton: i percorsi del neoliberismo

di  Bruno Cartosio

0e99dc 2d92e6fe83bc4a5e84093d10620ef8fbmv2Nella nostra «cartografia dei decenni smarriti», è di fondamentale importanza mettere a fuoco l’affermazione di quella fase definita «neoliberista» a partire dal luogo centrale in cui essa si è affermata, ossia gli Stati Uniti. «Avevamo in mente di cambiare un paese, abbiamo invece cambiato il mondo» diceva Reagan all’inizio del 1989. Per ripercorrere il «presente come storia», pubblichiamo l’estratto di un libro importante di Bruno Cartosio, L’autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton (Shake, 1998). Il titolo fa riferimento all’ipotesi di Giovanni Arrighi e più in generale degli studiosi della World-systems theory, secondo cui gli Stati Uniti – a dispetto di quello che poteva sembrare – avevano imboccato la strada di un lungo e tutt’altro che lineare declino. Ad alcuni decenni di distanza, dentro una crisi globale che pare infinita, quella ipotesi e gli interrogativi che essa contiene, qui impostati e sviluppati da Cartosio, mostrano la loro lungimirante pregnanza.

* * * *

L’abbiamo visto crescere nelle cose, quel fenomeno che sarebbe stato chiamato neoliberismo reaganiano, prima ancora che l’uomo di Hollywood venisse chiamato a interpretare il ruolo di presidente degli Stati Uniti. Le teorie liberiste, da Friedrich August von Hayek a Milton Friedman, erano tutte disponibili da tempo. In periferia, il generale Pinochet a partire dal 1973 e Margaret Thatcher nel 1979 avevano già aperto la strada mettendole brutalmente in pratica. Al centro dell’impero, invece, il neoliberismo è cresciuto e si è diffuso prima nelle cose, reaganiano ante litteram nella seconda metà degli anni Settanta con il democratico Jimmy Carter alla presidenza degli Stati Uniti, per poi arrivare a imporsi come dottrina e visione generale del mondo a partire dalle presidenze Reagan negli anni Ottanta.

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machina

Senza padri né maestri. Giovani degli anni Ottanta

di Diego Giachetti

Pubblichiamo un'analisi di Diego Giachetti sugli anni Ottanta che si inserisce nel progetto della cartografia dei decenni che Machina sta portando avanti e che darà vita in primavera a due Festival, il primo a Roma sugli anni Ottanta e il secondo a Bologna sugli anni Novanta [1]

0e99dc df085f0c2cd34a6791972b677163e24amv2Delle nostre voglie e dei nostri jeans che cosa resterà
Cosa resterà di questi anni Ottanta
Afferrati e già scivolati via
Anni vuoti come lattine abbandonate
Anni rampanti dei miti sorridenti da wind-surf
(Raf, Cosa resterà degli anni ’80, 1989)

Negli anni Ottanta due giovani generazioni s’intersecavano, si combinavano e si scompaginavano. Una, più attempata, aveva per protagonisti gli attori sociali e politici dei movimenti degli anni Settanta. L’altra, infante e adolescente nel decennio precedente, si accingeva a diventare giovane negli anni Ottanta. Il primo e più «anziano» spezzone generazionale stava abbandonando il campo dell’impegno politico, travolto dal riflusso, come si diceva, dopo la sconfitta dei movimenti e delle possibili rivoluzioni, politiche e personali, allora possibili. Una ritirata spesso costretta, rabbiosa, rancorosa, incapace di produrre adattamento e inserimento nella vita quotidiana, ancora in grado di organizzare resistenze sociali, culturali e politiche, minoritarie e sempre più relegate in determinati e specifici ambiti. Parallelamente maturava una generazione «vacua», secondo la definizione del filosofo ex operaista Massimo Cacciari, che aveva evitato il «massacro» della repressione poliziesca e mass-mediologica subito dai giovani estremisti degli anni Settanta, ma che non sfuggì alla rivincita della politica negli anni Ottanta [2]. Una rivincita all’insegna del rampantismo craxiano, della politica come investimento, carriera, affare e accaparramento delle risorse, che preparava il suo fallimento nei confronti della società civile, dei partiti e delle istituzioni, camminando, senza saperlo, verso «tangentopoli», termine usato dal 1992 per definire un sistema diffuso di corruzione politica

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carmilla

I comunisti della capitale…

di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Bandiera Rossa 3Come è noto, la letteratura sulla Resistenza italiana al nazi-fascismo negli anni 1943-1945 è pressoché sterminata. Di certo molto più ampia della letteratura sulla coeva rinascita del movimento operaio organizzato. Sono rare, invece, le opere che indagano in profondità il nesso tra questi due processi. E addirittura rarissime sono quelle che svolgono questo tipo di indagine occupandosi dei comunisti dissidenti rispetto alla politica del “partito nuovo” di Togliatti. Lo scritto di David Broder appartiene a questo piccolo campo di studi. E si segnala per la sua particolare lucidità di giudizio, e per il modo con cui tiene assieme la dimensione sociale e quella politica del fenomeno studiato – i “comunisti dissidenti” di Roma organizzati nel Movimento comunista d’Italia o Bandiera rossa -, il “locale”, il nazionale e il contesto internazionale.

Il triennio 1943-1945 è stato un momento particolarmente tumultuoso per l’intera società italiana. Crolla il fascismo. La classe capitalistica e la monarchia manovrano con grande abilità per non restare sepolte sotto le macerie del regime mussoliniano, che hanno per un ventennio supportato. L’Italia è spaccata in due. L’esercito italiano si va disfacendo dentro una “nazione allo sbando”. Tutto il territorio è occupato da eserciti stranieri: l’esercito tedesco in ritirata verso nord al di là della linea gotica, gli eserciti alleati in avanzata dal Sud. Sul piano politico-amministrativo, al centro-nord c’è la repubblica “sociale” di Salò sotto tutela dell’occupante nazista, che mescola una brutale ferocia con la demagogia “anti-capitalista” del fascismo delle origini. Nel Sud la monarchia dei Savoia ormai al tramonto cerca disperatamente di realizzare il passaggio più possibile indolore al campo anti-nazista, tenendo sotto stretto controllo il risveglio della vita sociale e politica a lungo compresse dal fascismo e disinnescando, anche con gli eccidi, il “pericolo comunista”.

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machina

Eric Hobsbawm. Marxismo, scienza e politica negli studi di uno storico militante

di Alberto Pantaloni

Pubblichiamo un ritratto di Eric Hobsbawm, storico e militante marxista, autore della grande tetralogia di storia generale – L'età della rivoluzione 1789-1848, Il trionfo della borghesia 1848-1875, L'età degli imperi 1875-1914 e Il secolo breve 1914-1991

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Il 2 ottobre del 2012 si spegneva a Londra Eric Hobsbawm. A distanza di un decennio, sono ancora diverse le iniziative, editoriali e non solo, che ne ricordano, anche criticamente, la biografia tanto personale quanto intellettuale. Ricordandone solo le più recenti: un altro grande storico inglese, Richard J. Evans ha dato alle stampe nel 2019 una monumentale biografia dal titolo Eric Hobsbawm: A Life in History [1]; nel 2020, la storica Anna Di Qual ha pubblicato in modalità open access il volume Eric J. Hobsbawm tra marxismo britannico e comunismo italiano [2], nel 2021 la London Review of Books ha prodotto un documentario dal titolo Eric Hobsbawm: The Consolations of History, regia di Anthony Wilks, disponibile gratuitamente in rete [3].

L’autore nato ad Alessandria d’Egitto si chiese nella sua biografia del 2002:

«perché una persona come me dovrebbe scrivere un’autobiografia o, più precisamente, perché altri, senza particolari collegamenti con me, o con che potrebbero non aver saputo della mia esistenza prima di aver visto la copertina in libreria, dovrebbero pensare che valga la pena di leggerla» [4].

Parafrasando questa frase, potremmo chiederci se ha senso, dopo 10 anni, ricordare una figura come quella di Hobsbawm e cercare di farla conoscere a una platea più vasta della comunità degli addetti e delle addette ai lavori. Di primo acchito, la risposta sembrerebbe facile: ma come, l’autore de Il secolo breve, uno dei più grandi storici del Novecento! Tuttavia, se si trattasse solo di questo, sarebbe tutto relativamente facile, come si fa in occasione di anniversari che riguardano eventi storici o personalità «importanti», per i quali si preparano bei discorsi agiografici che «santificano» il personaggio.

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tempofertile

Enzo Traverso, “Rivoluzione”

di Alessandro Visalli

rivoluzioneoittfIl libro[1] del 2021 di Enzo Traverso reca come sottotitolo “1789-1989: un’altra storia”, ed è un’ampia ed interessante ricostruzione della logica e della pratica storica dell’età rivoluzionaria nel ciclo aperto dalla Rivoluzione francese e concluso (in occidente) con il crollo dell’Urss. La rivoluzione viene vista come improvvisa interruzione del continuum storico, secondo una nota formula di Walter Benjamin, ed inseguita sia nelle sue determinazioni teoriche, sia nella pratica vicenda e nei protagonisti.

 

Rivoluzione e leggi storiche

Contrariamente a molte interpretazioni il testo valorizza quell’interpretazione della rivoluzione non determinista che si può ritrovare anche in Marx, nel quale, secondo Traverso se ne trovano anzi due, a combattere una silenziosa battaglia: una determinista ed una non determinista.

La prima è esemplificata nel notissimo passo di “Per la critica dell’economia politica”:

“a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura”[2].

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materialismostorico

L’indecifrabile genealogia degli anni Settanta

di Alessandro Barile (Università “La Sapienza” di Roma)

Riflessioni a partire dal libro di Marco Morra, Fabrizio Carlino, Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano, La città del sole 2020

cd4009Anni di anniversari importanti questi. Ne ricordiamo di sfuggita alcuni, che hanno stimolato riflessioni e impegnato giornali e case editrici: la Rivoluzione russa e la nascita di Marx, di Lenin e di Engels; e poi ancora, più vicini a noi nel tempo e nello spazio, la nascita del Pci, il cinquantenario del Sessantotto, dell’Autunno caldo, i quarant’anni dal 1977 o dall’assassinio di Moro. Il Sessantotto aveva forse esaurito le parole e la carta nelle stagioni precedenti, e l’anniversario si è spento nella retorica di alcuni e nell’accanimento degli altri. Eppure, ragionare sui nostri anni Settanta sembra ancora utile, nonostante l’evidente sollievo con cui se ne parla, di qualcosa cioè di sepolto, da studiare sine ira et studio (sine ira per modo di dire). D’altronde, l’unica narrazione che resiste è quella dietrologica, che insiste a chiedersi: quale è il mistero degli “anni di piombo”? Trovando nel complotto la risposta che non riesce ad accettare nella cosa, e alimentando un mercato editoriale fondato sul retroscena. Un tentativo utile per ripensare gli anni Settanta è dato dal recente lavoro di Marco Morra e Fabrizio Carlino, due giovani ricercatori che hanno raccolto una selezione di interventi svolti ad un convegno del 2018 sui cinquant’anni dal ’68, organizzato presso l’Università di Napoli Federico II. Il libro (Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano), proprio perché espressione di più voci e sensibilità, si presta ad una lettura ragionata, sollevando una molteplicità di questioni che vanno ad incidere nel rapporto tra storia e politica, investendo la riflessione sull’ultimo grande ciclo di lotte di classe del nostro paese. Proprio questo incrocio di problemi, e di tensioni, rende difficile studiare gli anni Settanta senza implicare un inevitabile posizionamento. Il confine tra ricerca storica e valutazione politica slitta continuamente, si fa poroso, s’intrufola nei giudizi o sorprende lo storico nei suoi involontari lapsus. Dunque, una storia difficile.

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gasparenevola

Caccia alle streghe: successo di una mitologia e “razionalità” politica

Lettura sotto l’ombrellone

di Gaspare Nevola

Caccia alle streghe. Imperniata su una mitologia. Su una mitologia che ottiene grande successo. E che possiede una sua sorprendente “razionalità” politica. Una storia paradossale ed enigmatica, su cui riflettere. Tra Progresso, Medioevo e Modernità

caccia alle streghePrologo

«La natura aborre il vuoto, anche nella mente. Oggi il penoso vuoto della noia viene riempito e continuamente rinnovato dal cinema e dalla radio, dalla televisione e da giornali. Più fortunati di noi, oppure meno fortunati (chi sa?), i nostri antenati dipendevano, per il lenimento della noia, dagli spettacoli settimanali del loro parroco, completati di tanto in tanto dai discorsi dei cappuccini in visita o dai gesuiti di passaggio. La predicazione è un’arte, ed in questa, come in tutte le altre arti, i cattivi esecutori superano di gran lunga quelli buoni» (Aldus Huxley, 1952)

Oggi, settanta anni dopo, qualcosa di questo ritratto va certamente aggiornato. Rispetto agli anni ’50 dello scorso secolo, alcuni interpreti nuovi della partitura devono trovare posto. Così come è necessario tenere conto di altre arti del sapere e del dire che riempiono il vuoto della mente.

Negli scorsi giorni, sempre al riparo del sacro ombrellone, per distrarmi da una campagna elettorale tirata fino al grottesco da politici e giornalisti e compagnia cantando, ottimi interpreti della “teoria dei campi” ereditata da Bourdieu, ho letto-riletto un vecchio saggio dello storico inglese Hugh Trevor-Roper (1914-2003), La caccia alle streghe in Europa nel Cinquecento e nel Seicento, ripescata nella memoria e nella libreria. Ero studente quando lessi per la prima volta questo denso saggio, e ricordo che ne avevo scritto sul quaderno delle letture (chissà dove finito). Procederò con una certa libertà, inseguendo sfide interpretative del passato che si accompagnano a interrogativi sul presente. Cosa pretendere di più da una lettura sotto l’ombrellone e l’orizzonte oltre le onde?

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iltascabile

Lo spettro del conflitto termonucleare globale durante la Guerra fredda

di Roberto Paura*

Una rassegna storica e tecnica delle previsioni, le strategie e le minacce degli anni in cui l’impensabile è stato pensato

B279865C 6C4D 4367 969E BD17338EF6B8Nel luglio 1985, in risposta a un colpo di stato promosso dai sovietici a Belgrado, le forze americane invadono la Jugoslavia. In Unione Sovietica il Politburo – che vede la sua sfera d’influenza scricchiolare dopo che la Corea del Nord e il Vietnam hanno intrapreso processi di liberalizzazione e i paesi del Patto di Varsavia sono squassati da movimenti di protesta – decide di rispondere mobilitando l’Armata Rossa e invadendo l’Europa attraverso la Germania ovest, la Norvegia e la Turchia. Ben presto, tuttavia, la forza d’invasione convenzionale si scontra con una dura opposizione e i sovietici non riescono a spingersi oltre l’occupazione dei Paesi Bassi. Frustrata dallo stallo, Mosca lancia un attacco nucleare su Birmingham, a cui gli americani rispondono distruggendo Minsk. Poco dopo, un colpo di stato da parte dei nazionalisti ucraini rovescia il governo sovietico e mette fine alla guerra.

Nel 1988 invece, per prevenire il dispiegamento di una rete intelligenti di satelliti anti-missili balistici in orbita da parte degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica fa esplodere sei bombe atomiche sopra i cieli americani, mettendone a tappeto le apparecchiature elettroniche. Prima che il suo aereo precipiti, il presidente statunitense riesce a dare l’ordine di una rappresaglia massiccia che distrugge le principali città sovietiche, inclusa Mosca. L’URSS reagisce con un altro lancio di missili balistici che spazza via le principali città della costa est, tra cui Washington e New York. Al termine di questo devastante scambio, durato appena 36 minuti, le vittime si contano in decine di milioni, mentre i paesi europei decidono di dichiarare la neutralità sulla base di un accordo segreto precedentemente siglato da Francia, Regno Unito e Germania ovest: la loro scelta mette fine all’escalation nucleare.

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laboratorio

La cecchina dell'Armata Rossa

Autobiografia di una soldatessa

di Domenico Moro

Pavlichenko in a trenchLa cecchina dell’Armata Rossa (Odoya, 2021, euro 22) è un libro interessante e da leggere, non solo perché ci descrive alcuni episodi della Seconda guerra mondiale poco conosciuti in Italia, come le vicende dell’assedio di Odessa e Sebastopoli. Il libro ci restituisce anche uno spaccato della vita sociale, non solo militare, dell’Urss degli anni ’40 del XX secolo, immediatamente prima dello scoppio della guerra e durante i primi due anni di combattimento.

Il libro si ricollega a un sotto-settore del genere dei libri di guerra, quello delle autobiografie dei cecchini, cioè dei tiratori scelti o sniper, parola inglese che negli ultimi anni è sempre più utilizzata per definire questa specialità militare. Il cecchino si presta ad essere il protagonista di libri o film d’azione perché, nell’epoca del dominio delle macchine e degli eserciti di massa, rappresenta il combattente individuale che, utilizzando un fucile di precisione e combattendo spesso in modo solitario, infligge perdite pesanti al nemico. Non a caso, negli anni recenti sono usciti diversi film sui questi soldati, spesso ispirati a autobiografie di cecchini del passato e del presente. Tra questi ci sono American sniper (2014) di Clint Eastwood, sul cecchino statunitense Chris Kile, operativo durante la seconda invasione dell’Iraq, e il Nemico alle porte (2001) di Jean Jacques Annaud, sul cecchino sovietico Vasilij Zajcev, che combatté a Stalingrado.

Anche sulla protagonista di La cecchina dell’Armata Rossa, Ljudmila Pavličenko, è stato girato un film, Resistance. La battaglia di Sebastopoli (2015). Si tratta di una produzione russo-ucraina, fatto notevole, a fronte del solco che, a partire dal 2014, si è scavato tra le due nazioni sorelle e che ha condotto alla guerra attualmente in corso.

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gasparenevola

Tradizione e rivoluzione, dall’oscurità della storia

Una lettura sotto l’ombrellone

di Gaspare Nevola

corpus 9 927x6401. Una comunità che arriva dall’oscurità della storia

Kalasha (o Kalash) è una comunità che arriva dall’oscurità della storia umana. Da secoli vive sulle pendici dell’Hindikush, ai confini tra Pakistan e Afghanistan. Vive nelle valli che le sue genti, secondo immemore tradizione, chiamano “Il Tetto del Mondo”. Sotto il profilo politico-amministrativo, la comunità fa parte del multietnico Pakistan a dominanza musulmana, di cui costituisce la comunità più piccola (circa 5 mila persone) e una minoranza religiosa che continua a seguire un culto “pagano”, politeista. I suoi abitanti sono geneticamente ritenuti euro-asiatici, e forse con geni europei; hanno in prevalenza una carnagione rosea, capelli biondi e occhi chiari, non di rado azzurri; si ritengono discendenti dei soldati di Alessandro Magno, che ebbe a governare quelle terre con le sue milizie. Nel corso del tempo la comunità ha abbandonato i territori più bassi, sempre più islamizzati, e si è ritirata in tre remote valli di alta montagna, nel distretto di Chitral. Questo, tuttavia, non le ha permesso di restare al riparo dagli aspri conflitti armati che hanno via via pervaso l’Afghanistan e lo stesso Pakistan, dato che l’area – proprio perché impervia – è diventata luogo di guerriglia e di manovre militari di portata strategica in un confine caldo della conflittualità internazionale

Con ogni probabilità, gli attuali Kalasha rappresentano l’ultima discendenza di una popolazione antichissima ora in via di estinzione. La loro è un’economia di sussistenza, basata sulla coltivazione del grano e della vite e sull’allevamento di ovini e bovini.

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machina

All’attacco, e poi si vedrà

di Gigi Roggero

0e99dc 5f796e4ebaf64925b731f60601f4c3f7mv2Con il secondo volume su Lenin, con il sottotitolo Verso la Rivoluzione d’Ottobre (1905-1917), Guido Carpi completa una delle più importanti biografie in circolazione del dirigente bolscevico. In questo articolo Gigi Roggero dialoga con un’opera pensata come unitaria. E unitario è il percorso di Lenin, a patto però che per unitarietà non si intenda omogeneità o linearità. La misteriosa curva della sua retta, di cui ci hanno parlato prima Babel’ e poi Tronti, è ancora lì a interrogarci.

* * * *

È fin troppo scontato, di fronte al sequel di un film, o al protrarsi delle stagioni di una serie televisiva, sostenere che il primo episodio fosse decisamente migliore. Ciò non vale necessariamente per i libri, o almeno non vale per questo libro, il Lenin di Guido Carpi (Stilo editrice, 2020-21), di certo una delle più importanti biografie in circolazione del dirigente bolscevico. Non ripetiamo quanto già abbiamo scritto nella recensione del primo volume [1]: la continuazione conferma i meriti e le caratteristiche della lettura leniniana offerta da Carpi. Del resto, i due volumi sono pensati come un’opera unitaria. Si potrebbe dire che unitario è il percorso di Lenin, a patto però che per unitarietà non si intenda omogeneità o linearità. La misteriosa curva della sua retta, di cui ci hanno parlato prima Babel’ e poi Tronti, è ancora lì a interrogarci.

 

Al diavolo le cambiali della borghesia!

Come già per il primo volume – La formazione di un rivoluzionario (1870-1904) –, anche per il secondo il sottotitolo delimita i confini temporali e tematici dell’analisi: Verso la Rivoluzione d’Ottobre (1905-1917).

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resistenze1 

La CIA e l'anticomunismo della Scuola di Francoforte

Gabriel Rockhill*

310px AdornoHorkheimerHabermasbyJeremyJShapiro2I fondamenti dell'impianto teorico globale

La teoria critica della Scuola di Francoforte è stata, insieme alla teoria francese, uno dei prodotti più caldi dell'industria teorica globale. Insieme, esse fungono da fonte comune per molte delle forme di critica teorica di tendenza che attualmente dominano il mercato accademico del mondo capitalista, dalla teoria postcoloniale e decoloniale alla teoria queer, all'afro-pessimismo e oltre. L'orientamento politico della Scuola di Francoforte ha quindi avuto un effetto fondante sull'intellighenzia occidentale globalizzata.

I luminari della prima generazione dell'Istituto per la Ricerca Sociale - in particolare Theodor Adorno e Max Horkheimer, che saranno al centro di questo saggio - sono figure di spicco di quello che viene definito marxismo occidentale o culturale. Per coloro che hanno familiarità con il riorientamento di Jürgen Habermas dal materialismo storico nella seconda e poi nella terza generazione della Scuola di Francoforte, questo primo lavoro rappresenta spesso una vera e propria età dell'oro della teoria critica, quando essa era ancora - anche se forse passiva o pessimista - dedicata in qualche modo alla politica radicale. Se c'è un fondo di verità in questo assunto, è solo nella misura in cui la prima Scuola di Francoforte viene paragonata alle generazioni successive che hanno rifatto della teoria critica un'ideologia radicalmente liberale, o anche solo palesemente liberale. [1] Tuttavia, questo punto di paragone pone l'asticella troppo in basso, come accade ogni volta che si riduce la politica alla politica accademica. Dopo tutto, la prima generazione della Scuola di Francoforte ha vissuto alcuni degli scontri più catastrofici della lotta di classe globale del XX secolo, quando si combatteva una vera e propria guerra mondiale intellettuale sul significato e sul senso del comunismo.

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jacobin

Olocausto e memorie anticoloniali

di Enzo Traverso

Comprendere un genocidio significa anche desacralizzarlo e confrontarlo con altre forme di violenza di massa. Per contestualizzare il nazismo bisogna coglierne l'eredità materiale e culturale col colonialismo

germania jacobin italia 1320x481Una nuova «disputa tra storici» (Historikerstreit) sull’Olocausto sta scuotendo la Germania. La prima si era svolta oltre trentacinque anni fa, durante la Guerra fredda, quando il paese era ancora diviso e molti avevano un’esperienza diretta del nazismo e della Seconda guerra mondiale. Contro lo storico neoconservatore Ernst Nolte, che deplorava il fatto che la Germania rimanesse prigioniera di «un passato che non passa», Jürgen Habermas voleva fare la memoria dell’Olocausto un pilastro della coscienza storica tedesca.

L’interpretazione apologetica di Auschwitz come semplice «copia» del Gulag – secondo Nolte i crimini bolscevichi erano il «prius logico e fattuale» del totalitarismo moderno e quelli nazisti la reazione di un paese minacciato – aveva indubbiamente un significato politico durante la Guerra fredda. Nel ventunesimo secolo, però, è diventata largamente superflua anche per i neoconservatori. La Germania appartiene all’Occidente non più come avamposto geopolitico di un mondo bipolare, ma come uno dei suoi attori chiave, soprattutto come motore dell’Unione europea.

Nato dopo un lungo, complesso e tormentato processo di «elaborazione del passato», il Memoriale dell’Olocausto che sorge oggi nel cuore di Berlino offre una prova tangibile di come il nazismo sia diventato parte integrante dell’autorappresentazione storica tedesca. Tuttavia, serve anche ad altri scopi. A conclusione di un lungo processo di «superamento del passato» (Vergangenheitsbewältigung), la Germania è finalmente attrezzata per assumere la guida dell’Ue: al di là della sua egemonia economica, ha le carte in regola anche dal punto di vista dei diritti umani.

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jacobin

Il Medio Evo secondo i marxisti

di Paolo Tedesco

Le società classiste non cominciarono con il capitalismo: anche il mondo antico e quello medievale avevano sistemi di sfruttamento. Il cui funzionamento ‒ e anche la loro scomparsa ‒ potrebbe rivelare qualcosa sul futuro che ci attende

medioevo jacobin italia 1320x481In qualità di storici, Karl Marx e i suoi seguaci si occuparono in primo luogo dell’ascesa del capitalismo, della sua diffusione nel mondo e dei modi in cui lo si sarebbe potuto volgere a conclusione. Allo stesso tempo, però, essi tentarono di spiegare lo sviluppo delle società precapitalistiche alla luce del materialismo storico e dei suoi concetti principali; così facendo, cercarono di individuare le condizioni che permisero la formazione delle società di classe, prima che le contraddizioni interne ne causassero il collasso.

Le loro originali reinterpretazioni della teoria marxista hanno permesso di leggere queste affascinanti epoche storiche nei termini loro propri, anziché presentarle come semplice anticamera all’ascesa del capitalismo. Quest’ultimo approccio aveva infatti l’effetto, paradossale per i marxisti, di far apparire il capitalismo una fase naturale dello sviluppo sociale.

In quest’articolo discuterò la tradizionale visione marxista del mondo precapitalistico e i suoi problemi. Darò poi un breve resoconto delle proposte alternative elaborate da tre dei maggiori storici marxisti contemporanei: Chris Wickham, John Haldon e Jairus Banaji.

 

Marx e il Medioevo

L’interesse principale di Marx per le società del passato scaturiva dalla sua esigenza di identificare un meccanismo generale per tutti i processi di trasformazione sociale che aiutasse a spiegare tanto l’avvento del capitalismo quanto la sua prevedibile crisi. Marx presentava la storia come una progressione di fasi, dall’antichità al feudalesimo al capitalismo e infine al socialismo.

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“Holodomor”: il PD e l’invenzione del “crimine contro l’umanità” bolscevico in Ucraina

di Fabrizio Poggi

holodomor crimine invenzione 720x300Nel 1983 Ronald Reagan, in piene “guerre stellari”, lanciava la campagna sul “50° anniversario della carestia-genocidio in Ucraina”, chiamata dai nazionalisti di Kiev “holodomor”.

A settembre del 2018, la Commissione esteri del Senato USA approvava una risoluzione che riconosceva la carestia del 1932-1933 in Ucraina come un genocidio del popolo ucraino.

Nel maggio del 2022, per non esser da meno dei maestri yankee, quella consorteria amministrativo-affaristica denominata PD – simbiosi tra la più oscurantista e reazionaria DC scelbiano-tambroniana e i più retrivi settori euro-atlantisti del tardo PCI – per affiancare all’invio di armi alla junta golpista di Kiev anche un‘arma ideologica, intende far approvare anche dal Parlamento italiano una mozione per chiedere al governo di «riconoscere l’holodomor come crimine contro l’umanità».

Questo perché, dicono i presunti demo-studiosi “di storia russa”, «quando il capo del Cremlino parla di de-nazificazione dell’Ucraina in realtà vuole dire che va cancellata l’identità nazionale ucraina».

Il che, con una costruzione sintattica suicida sul piano logico, dovrebbe significare che “l’identità nazionale ucraina” sia davvero integralmente nazista. E probabilmente l’intento dei promotori della mozione, è sdoganare il nazismo come parte costitutiva dell’identità europea “democratica”.

Su questo giornale, si è accennato in varie occasioni alla questione del “holodomor” (“golodomor” in russo) e alla diffusione del relativo mito, a partire dalla propaganda goebbelsiana sui “milioni di ucraini deliberatamente sterminati dal governo sovietico“.