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machina

Louise Michel, una vita per la rivoluzione

di Fernanda Mazzoli

Un ritratto della rivoluzionaria francese Louise Michel, scritto da Fernanda Mazzoli

0e99dc 41e5b59f80b5463396c76f71c5cf34d5mv2Già dalla nascita – maggio 1830 – la vita di Louise Michel è posta sotto il segno dell’anomalia, se non dello scandalo: sua madre è una giovane contadina che lavora come domestica nel castello di Vroncourt, in Haute Marne e suo padre il figlio dei proprietari del maniero. Il padre non la riconoscerà e, infatti, la futura rivoluzionaria porta il cognome della madre, Marianne Michel, alla quale voterà un affetto profondo e protettivo. Storia dolorosa, ma tutto sommato non poi così originale, se non fosse che la piccola viene cresciuta amorevolmente nel castello dai nonni paterni, Charlotte e Charles Demahis, presso i quali Marianne continua a lavorare circondata dalla stima di tutti. Il padre, invece, si è trasferito in una fattoria dei dintorni, si è sposato con un’altra donna e sembra estraneo al singolare gruppo familiare, al quale va aggiunta un’altra figlia, separata dal marito, che è tornata a vivere con i vecchi genitori insieme al figlio Jules, cugino e compagno di giochi di Louise. Il nonno – discendente di un’antica famiglia – è un seguace di Voltaire, trascorre il suo tempo immerso nei libri, ama l’arte e la musica e coltiva la memoria dei grandi rivoluzionari dell’89. È lui ad occuparsi personalmente dell’istruzione della bambina.

Il castello ha conosciuto tempi migliori, le sue quattro torri dominano una campagna fatta di vigneti, prati e boschi, da lontano sembra un mausoleo o una fortezza, ma è in gran parte in rovina ed aperto ai venti come una nave. Ed abitato da animali di ogni sorta – cani, gatti, uccelli, caprioli, puledri – che entrano tranquillamente nella grande sala al pianterreno dove nelle sere d’inverno la famiglia al completo- comprese Marianne e la nonna materna di Louise, una contadina del villaggio – si riunisce intorno al grande tavolo, ascoltando le letture ad alta voce fatte dai padroni di casa e lavorando a maglia.

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jacobin

Per una storia in costruzione

di Chiara De Cosmo

Un libro su Marx e il dibattito italiano degli anni Settanta sulla storia antica e il nesso tra ricerca filosofica, pratica militante e storiografia

IMG 0717 1536x560Nel 1974, presso l’Istituto Gramsci di Roma che all’epoca rappresentava una delle più importanti istituzioni culturali del Pci, un gruppo di studiosi di differenti provenienze disciplinari si riunì, sotto la direzione di Aldo Schiavone, per avviare il primo ciclo del Seminario di antichistica. Il suo scopo era quello di riflettere sui metodi e sui contenuti della storiografia del mondo antico. Fu l’inizio di una feconda stagione di dibattito in Italia, che riassumeva al contempo alcuni dei migliori risultati della discussione internazionale di teoria storica e sociologica e accoglieva l’eredità di alcuni studiosi socialisti italiani (in particolare Ettore Ciccotti e Giuseppe Salvioli), che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si erano proposti di riflettere sulla situazione di stagnazione della penisola a partire dallo studio e dalla riscoperta della struttura economica della Grecia e della Roma antiche. A uno sguardo retrospettivo, l’aspetto che forse oggi più colpisce di questa fase della storia culturale italiana è l’esigenza da cui nacque questa discussione, un’esigenza che era condivisa da tutti i suoi protagonisti: quella di unire la partecipazione appassionata alle vicende politiche, sociali e culturali del paese con la riflessione su questioni di teoria della storiografia, rifondandole a partire da una rinnovata interpretazione del lascito marxiano.

Uno dei meriti di Categorie marxiste e storiografia del mondo antico (Manifestolibri, 2022), in cui Sebastiano Taccola ricostruisce in maniera ricca e articolata le linee di questo dibattito, è quello di riuscire non solo a restituirne la vitalità, ma anche più in generale a individuarne i margini di connessione con le riflessioni marxiste più recenti.

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lantidiplomatico

"Il grande disegno di Kissinger": 50 anni fa i petrodollari nascevano in questo modo

di Giacomo Gabellini

720x410c50onhwzCome è noto, l’Europa distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale riuscì a rimettersi in piedi grazie soprattutto agli aiuti forniti dagli Stati Uniti – in cambio della rinuncia alla sovranità politica da parte degli Stati del “vecchio continente” – nell’ambito dell’ormai celeberrimo Piano Marshall, il quale impedì che le prospettive di ricostruzione si infrangessero sui vincoli della bilancia dei pagamenti di ogni singolo Paese. Eppure, dal punto di vista strettamente economico, la linea operativa portata avanti da Washington produsse ricadute molto più positive sull’Europa e sul Giappone che sugli stessi Stati Uniti, i quali, fungendo anche da mercato di sbocco per le merci prodotte in Europa, cominciarono a fare fatica a realizzare tassi di crescita analoghi a quelli conseguiti dalla Comunità Economica Europea (il cui export, nel 1960, fu per la prima volta superiore a quello statunitense) e si videro costretti a far leva sull’enorme spazio di manovra garantito dal ruolo di valuta di riferimento di cui era titolare il dollaro per emettere moneta in misura tale da finanziare il proprio deficit, che stava cominciando a crescere in maniera preoccupante.

 

Convertibilità di "facciata"

Il consigliere economico del presidente Charles De Gaulle, Jacques Rueff, si era accorto di come la convertibilità tra dollaro ed oro fosse divenuta ormai soltanto “di facciata”, in quanto il dollaro aveva ormai acquisito lo status di moneta fiduciaria solo formalmente ancorata ad un valore fisico reale. Rueff fece quindi notare a De Gaulle come questo stato di cose fosse garante di pesanti squilibri valutari e consentisse agli Stati Uniti di accumulare deficit crescenti nella bilancia commerciale senza pagarne il prezzo corrispettivo.

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cumpanis

Stalin 5 marzo 1953- 5 marzo 2023: nel 70°della morte

di Fosco Giannini

Nella ricorrenza del 70° anniversario della morte del leader che fu segretario generale del PCUS dal 1922 al 1953, riproponiamo la recensione di Fosco Giannini del saggio dello storico Ruggero Giacomini “Il processo Stalin”, un’opera particolarmente indicata ad affrontare “la questione Stalin” senza acritiche apologie né le pregiudiziali demonizzazioni occidentali

71W2s9c4Y LNel 1897 lo scrittore irlandese Bram Stoker pubblica un romanzo, “Dracula”, dal carattere gotico e romantico, che avrebbe segnato di sé tanta parte della futura letteratura europea e mondiale e tanta parte dell’arte e del cinema, sino ai nostri giorni. Segnando di sé anche il senso comune, la cultura, di centinaia di milioni di uomini e donne, non solo in Europa ma nel mondo.

Il grande successo del romanzo convince intere generazioni che Dracula sia stato davvero, storicamente, un vampiro assetato di sangue, un terrificante demone della notte. Ma l’opera di Stoker è di una totale falsità, che attraverso l’immensa popolarità a cui giunge, produce uno dei più grandi inganni di massa che mai la letteratura, l’arte, la filosofia abbiamo prodotto. Il Dracula storico, infatti, quello che tuttora tutti i giovani liceali della Romania studiano, è stato un grande rivoluzionario rumeno, un liberatore dalle qualità intellettuali di un Machiavelli e dalle capacità militari di un Garibaldi, un condottiero che nella seconda metà del 1.400 caccia gli ottomani invasori liberando e unificando la Romania. È difficile capire il motivo per cui Stoker mette in campo una così grande menzogna, peraltro per lui fruttifera. Un dato può forse aiutarci: Stoker è uno scrittore di lingua inglese, un intellettuale dell’occidente che vede i Carpazi, la terra di Dracula, con lo sguardo dell’imperialista, del colonialista, attraverso il quale i Carpazi son già di per sé la terra dell’orrore e del sangue, l’anti occidente.

Chi scrive è convinto che scientemente, con gli stessi strumenti della menzogna totale ed organizzata, della manipolazione, anche Stalin abbia subito, da parte dell’intero apparato ideologico, culturale, politico dell’occidente (con l’aiuto decisivo di Chruščëv, come vedremo) lo stesso processo di demonizzazione che Dracula subì ad opera di Stoker e della cultura occidentale dominante.

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lantidiplomatico

26 gennaio, Nikolaevka: il sacrificio di tanti giovani per le mire colonialiste fasciste

di Fabrizio Poggi

720x410c50iuygsDunque, a cominciare dal prossimo 26 gennaio, si dovrà assistere annualmente a una nuova, ennesima, parata di nazionalismo e di esaltazione delle italiche “gesta” che portarono la “civiltà” mussoliniana al di là dei confini patrii: dall'Africa ai Balcani, dalla Spagna all'Europa meridionale e orientale.

Il 26 gennaio è la data decisa dal Parlamento italiano per l'istituzione della "Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini". Ancora una Giornata della memoria, oltretutto a ridosso di quella del 27 gennaio per la liberazione di Auschwitz a opera dell'Esercito Rosso. Perché il 26 gennaio? Perché in quella data, nel 1943, gli alpini combatterono a Nikolaevka (il testo della legge scrive “Nikolajewka”, alla maniera tedesca: d'altra parte, il regime fascista aveva spedito gli alpini in quelle terre per rispondere proprio alla chiamata dell'alleato nazista) e così, ricordare oggi quella battaglia, serve sia a «conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino», sia a «promuovere i valori della difesa della sovranita' e dell’interesse nazionale». Proprio così; nero su bianco: sovranità e interesse nazionale si promuovono rievocando l'invasione dell'Unione Sovietica, al servizio delle armate hitleriane, insieme a fascisti ungheresi, rumeni, finlandesi, ecc.

L'art. 2 della legge istitutiva della “solennità” dice che le autorità locali sono invitate a patrocinare eventi con «testimonianze sull’importanza della difesa della sovranità nazionale, delle identità culturali e storiche, della tradizione e dei valori etici di solidarieta' e di partecipazione civile». Ecco: le identità culturali e storiche che, per esempio, prima ancora degli alpini, hanno visto i bersaglieri, «espressione purissima delle virtù guerriere dell’Italica stirpe», prima dar man forte ai franco-turchi sul fiume ?ërnaja, inquadrati nell'armi piemontesi, e poi spingersi in Africa, «sotto il soffocante ed accecante alito del ghibli», quasi un secolo più tardi, a conquistare il “bel suol d'amore” libico.

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Da Reagan a Clinton: i percorsi del neoliberismo

di  Bruno Cartosio

0e99dc 2d92e6fe83bc4a5e84093d10620ef8fbmv2Nella nostra «cartografia dei decenni smarriti», è di fondamentale importanza mettere a fuoco l’affermazione di quella fase definita «neoliberista» a partire dal luogo centrale in cui essa si è affermata, ossia gli Stati Uniti. «Avevamo in mente di cambiare un paese, abbiamo invece cambiato il mondo» diceva Reagan all’inizio del 1989. Per ripercorrere il «presente come storia», pubblichiamo l’estratto di un libro importante di Bruno Cartosio, L’autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton (Shake, 1998). Il titolo fa riferimento all’ipotesi di Giovanni Arrighi e più in generale degli studiosi della World-systems theory, secondo cui gli Stati Uniti – a dispetto di quello che poteva sembrare – avevano imboccato la strada di un lungo e tutt’altro che lineare declino. Ad alcuni decenni di distanza, dentro una crisi globale che pare infinita, quella ipotesi e gli interrogativi che essa contiene, qui impostati e sviluppati da Cartosio, mostrano la loro lungimirante pregnanza.

* * * *

L’abbiamo visto crescere nelle cose, quel fenomeno che sarebbe stato chiamato neoliberismo reaganiano, prima ancora che l’uomo di Hollywood venisse chiamato a interpretare il ruolo di presidente degli Stati Uniti. Le teorie liberiste, da Friedrich August von Hayek a Milton Friedman, erano tutte disponibili da tempo. In periferia, il generale Pinochet a partire dal 1973 e Margaret Thatcher nel 1979 avevano già aperto la strada mettendole brutalmente in pratica. Al centro dell’impero, invece, il neoliberismo è cresciuto e si è diffuso prima nelle cose, reaganiano ante litteram nella seconda metà degli anni Settanta con il democratico Jimmy Carter alla presidenza degli Stati Uniti, per poi arrivare a imporsi come dottrina e visione generale del mondo a partire dalle presidenze Reagan negli anni Ottanta.

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machina

Senza padri né maestri. Giovani degli anni Ottanta

di Diego Giachetti

Pubblichiamo un'analisi di Diego Giachetti sugli anni Ottanta che si inserisce nel progetto della cartografia dei decenni che Machina sta portando avanti e che darà vita in primavera a due Festival, il primo a Roma sugli anni Ottanta e il secondo a Bologna sugli anni Novanta [1]

0e99dc df085f0c2cd34a6791972b677163e24amv2Delle nostre voglie e dei nostri jeans che cosa resterà
Cosa resterà di questi anni Ottanta
Afferrati e già scivolati via
Anni vuoti come lattine abbandonate
Anni rampanti dei miti sorridenti da wind-surf
(Raf, Cosa resterà degli anni ’80, 1989)

Negli anni Ottanta due giovani generazioni s’intersecavano, si combinavano e si scompaginavano. Una, più attempata, aveva per protagonisti gli attori sociali e politici dei movimenti degli anni Settanta. L’altra, infante e adolescente nel decennio precedente, si accingeva a diventare giovane negli anni Ottanta. Il primo e più «anziano» spezzone generazionale stava abbandonando il campo dell’impegno politico, travolto dal riflusso, come si diceva, dopo la sconfitta dei movimenti e delle possibili rivoluzioni, politiche e personali, allora possibili. Una ritirata spesso costretta, rabbiosa, rancorosa, incapace di produrre adattamento e inserimento nella vita quotidiana, ancora in grado di organizzare resistenze sociali, culturali e politiche, minoritarie e sempre più relegate in determinati e specifici ambiti. Parallelamente maturava una generazione «vacua», secondo la definizione del filosofo ex operaista Massimo Cacciari, che aveva evitato il «massacro» della repressione poliziesca e mass-mediologica subito dai giovani estremisti degli anni Settanta, ma che non sfuggì alla rivincita della politica negli anni Ottanta [2]. Una rivincita all’insegna del rampantismo craxiano, della politica come investimento, carriera, affare e accaparramento delle risorse, che preparava il suo fallimento nei confronti della società civile, dei partiti e delle istituzioni, camminando, senza saperlo, verso «tangentopoli», termine usato dal 1992 per definire un sistema diffuso di corruzione politica

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carmilla

I comunisti della capitale…

di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Bandiera Rossa 3Come è noto, la letteratura sulla Resistenza italiana al nazi-fascismo negli anni 1943-1945 è pressoché sterminata. Di certo molto più ampia della letteratura sulla coeva rinascita del movimento operaio organizzato. Sono rare, invece, le opere che indagano in profondità il nesso tra questi due processi. E addirittura rarissime sono quelle che svolgono questo tipo di indagine occupandosi dei comunisti dissidenti rispetto alla politica del “partito nuovo” di Togliatti. Lo scritto di David Broder appartiene a questo piccolo campo di studi. E si segnala per la sua particolare lucidità di giudizio, e per il modo con cui tiene assieme la dimensione sociale e quella politica del fenomeno studiato – i “comunisti dissidenti” di Roma organizzati nel Movimento comunista d’Italia o Bandiera rossa -, il “locale”, il nazionale e il contesto internazionale.

Il triennio 1943-1945 è stato un momento particolarmente tumultuoso per l’intera società italiana. Crolla il fascismo. La classe capitalistica e la monarchia manovrano con grande abilità per non restare sepolte sotto le macerie del regime mussoliniano, che hanno per un ventennio supportato. L’Italia è spaccata in due. L’esercito italiano si va disfacendo dentro una “nazione allo sbando”. Tutto il territorio è occupato da eserciti stranieri: l’esercito tedesco in ritirata verso nord al di là della linea gotica, gli eserciti alleati in avanzata dal Sud. Sul piano politico-amministrativo, al centro-nord c’è la repubblica “sociale” di Salò sotto tutela dell’occupante nazista, che mescola una brutale ferocia con la demagogia “anti-capitalista” del fascismo delle origini. Nel Sud la monarchia dei Savoia ormai al tramonto cerca disperatamente di realizzare il passaggio più possibile indolore al campo anti-nazista, tenendo sotto stretto controllo il risveglio della vita sociale e politica a lungo compresse dal fascismo e disinnescando, anche con gli eccidi, il “pericolo comunista”.

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machina

Eric Hobsbawm. Marxismo, scienza e politica negli studi di uno storico militante

di Alberto Pantaloni

Pubblichiamo un ritratto di Eric Hobsbawm, storico e militante marxista, autore della grande tetralogia di storia generale – L'età della rivoluzione 1789-1848, Il trionfo della borghesia 1848-1875, L'età degli imperi 1875-1914 e Il secolo breve 1914-1991

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Il 2 ottobre del 2012 si spegneva a Londra Eric Hobsbawm. A distanza di un decennio, sono ancora diverse le iniziative, editoriali e non solo, che ne ricordano, anche criticamente, la biografia tanto personale quanto intellettuale. Ricordandone solo le più recenti: un altro grande storico inglese, Richard J. Evans ha dato alle stampe nel 2019 una monumentale biografia dal titolo Eric Hobsbawm: A Life in History [1]; nel 2020, la storica Anna Di Qual ha pubblicato in modalità open access il volume Eric J. Hobsbawm tra marxismo britannico e comunismo italiano [2], nel 2021 la London Review of Books ha prodotto un documentario dal titolo Eric Hobsbawm: The Consolations of History, regia di Anthony Wilks, disponibile gratuitamente in rete [3].

L’autore nato ad Alessandria d’Egitto si chiese nella sua biografia del 2002:

«perché una persona come me dovrebbe scrivere un’autobiografia o, più precisamente, perché altri, senza particolari collegamenti con me, o con che potrebbero non aver saputo della mia esistenza prima di aver visto la copertina in libreria, dovrebbero pensare che valga la pena di leggerla» [4].

Parafrasando questa frase, potremmo chiederci se ha senso, dopo 10 anni, ricordare una figura come quella di Hobsbawm e cercare di farla conoscere a una platea più vasta della comunità degli addetti e delle addette ai lavori. Di primo acchito, la risposta sembrerebbe facile: ma come, l’autore de Il secolo breve, uno dei più grandi storici del Novecento! Tuttavia, se si trattasse solo di questo, sarebbe tutto relativamente facile, come si fa in occasione di anniversari che riguardano eventi storici o personalità «importanti», per i quali si preparano bei discorsi agiografici che «santificano» il personaggio.

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tempofertile

Enzo Traverso, “Rivoluzione”

di Alessandro Visalli

rivoluzioneoittfIl libro[1] del 2021 di Enzo Traverso reca come sottotitolo “1789-1989: un’altra storia”, ed è un’ampia ed interessante ricostruzione della logica e della pratica storica dell’età rivoluzionaria nel ciclo aperto dalla Rivoluzione francese e concluso (in occidente) con il crollo dell’Urss. La rivoluzione viene vista come improvvisa interruzione del continuum storico, secondo una nota formula di Walter Benjamin, ed inseguita sia nelle sue determinazioni teoriche, sia nella pratica vicenda e nei protagonisti.

 

Rivoluzione e leggi storiche

Contrariamente a molte interpretazioni il testo valorizza quell’interpretazione della rivoluzione non determinista che si può ritrovare anche in Marx, nel quale, secondo Traverso se ne trovano anzi due, a combattere una silenziosa battaglia: una determinista ed una non determinista.

La prima è esemplificata nel notissimo passo di “Per la critica dell’economia politica”:

“a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura”[2].

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materialismostorico

L’indecifrabile genealogia degli anni Settanta

di Alessandro Barile (Università “La Sapienza” di Roma)

Riflessioni a partire dal libro di Marco Morra, Fabrizio Carlino, Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano, La città del sole 2020

cd4009Anni di anniversari importanti questi. Ne ricordiamo di sfuggita alcuni, che hanno stimolato riflessioni e impegnato giornali e case editrici: la Rivoluzione russa e la nascita di Marx, di Lenin e di Engels; e poi ancora, più vicini a noi nel tempo e nello spazio, la nascita del Pci, il cinquantenario del Sessantotto, dell’Autunno caldo, i quarant’anni dal 1977 o dall’assassinio di Moro. Il Sessantotto aveva forse esaurito le parole e la carta nelle stagioni precedenti, e l’anniversario si è spento nella retorica di alcuni e nell’accanimento degli altri. Eppure, ragionare sui nostri anni Settanta sembra ancora utile, nonostante l’evidente sollievo con cui se ne parla, di qualcosa cioè di sepolto, da studiare sine ira et studio (sine ira per modo di dire). D’altronde, l’unica narrazione che resiste è quella dietrologica, che insiste a chiedersi: quale è il mistero degli “anni di piombo”? Trovando nel complotto la risposta che non riesce ad accettare nella cosa, e alimentando un mercato editoriale fondato sul retroscena. Un tentativo utile per ripensare gli anni Settanta è dato dal recente lavoro di Marco Morra e Fabrizio Carlino, due giovani ricercatori che hanno raccolto una selezione di interventi svolti ad un convegno del 2018 sui cinquant’anni dal ’68, organizzato presso l’Università di Napoli Federico II. Il libro (Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano), proprio perché espressione di più voci e sensibilità, si presta ad una lettura ragionata, sollevando una molteplicità di questioni che vanno ad incidere nel rapporto tra storia e politica, investendo la riflessione sull’ultimo grande ciclo di lotte di classe del nostro paese. Proprio questo incrocio di problemi, e di tensioni, rende difficile studiare gli anni Settanta senza implicare un inevitabile posizionamento. Il confine tra ricerca storica e valutazione politica slitta continuamente, si fa poroso, s’intrufola nei giudizi o sorprende lo storico nei suoi involontari lapsus. Dunque, una storia difficile.

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gasparenevola

Caccia alle streghe: successo di una mitologia e “razionalità” politica

Lettura sotto l’ombrellone

di Gaspare Nevola

Caccia alle streghe. Imperniata su una mitologia. Su una mitologia che ottiene grande successo. E che possiede una sua sorprendente “razionalità” politica. Una storia paradossale ed enigmatica, su cui riflettere. Tra Progresso, Medioevo e Modernità

caccia alle streghePrologo

«La natura aborre il vuoto, anche nella mente. Oggi il penoso vuoto della noia viene riempito e continuamente rinnovato dal cinema e dalla radio, dalla televisione e da giornali. Più fortunati di noi, oppure meno fortunati (chi sa?), i nostri antenati dipendevano, per il lenimento della noia, dagli spettacoli settimanali del loro parroco, completati di tanto in tanto dai discorsi dei cappuccini in visita o dai gesuiti di passaggio. La predicazione è un’arte, ed in questa, come in tutte le altre arti, i cattivi esecutori superano di gran lunga quelli buoni» (Aldus Huxley, 1952)

Oggi, settanta anni dopo, qualcosa di questo ritratto va certamente aggiornato. Rispetto agli anni ’50 dello scorso secolo, alcuni interpreti nuovi della partitura devono trovare posto. Così come è necessario tenere conto di altre arti del sapere e del dire che riempiono il vuoto della mente.

Negli scorsi giorni, sempre al riparo del sacro ombrellone, per distrarmi da una campagna elettorale tirata fino al grottesco da politici e giornalisti e compagnia cantando, ottimi interpreti della “teoria dei campi” ereditata da Bourdieu, ho letto-riletto un vecchio saggio dello storico inglese Hugh Trevor-Roper (1914-2003), La caccia alle streghe in Europa nel Cinquecento e nel Seicento, ripescata nella memoria e nella libreria. Ero studente quando lessi per la prima volta questo denso saggio, e ricordo che ne avevo scritto sul quaderno delle letture (chissà dove finito). Procederò con una certa libertà, inseguendo sfide interpretative del passato che si accompagnano a interrogativi sul presente. Cosa pretendere di più da una lettura sotto l’ombrellone e l’orizzonte oltre le onde?

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iltascabile

Lo spettro del conflitto termonucleare globale durante la Guerra fredda

di Roberto Paura*

Una rassegna storica e tecnica delle previsioni, le strategie e le minacce degli anni in cui l’impensabile è stato pensato

B279865C 6C4D 4367 969E BD17338EF6B8Nel luglio 1985, in risposta a un colpo di stato promosso dai sovietici a Belgrado, le forze americane invadono la Jugoslavia. In Unione Sovietica il Politburo – che vede la sua sfera d’influenza scricchiolare dopo che la Corea del Nord e il Vietnam hanno intrapreso processi di liberalizzazione e i paesi del Patto di Varsavia sono squassati da movimenti di protesta – decide di rispondere mobilitando l’Armata Rossa e invadendo l’Europa attraverso la Germania ovest, la Norvegia e la Turchia. Ben presto, tuttavia, la forza d’invasione convenzionale si scontra con una dura opposizione e i sovietici non riescono a spingersi oltre l’occupazione dei Paesi Bassi. Frustrata dallo stallo, Mosca lancia un attacco nucleare su Birmingham, a cui gli americani rispondono distruggendo Minsk. Poco dopo, un colpo di stato da parte dei nazionalisti ucraini rovescia il governo sovietico e mette fine alla guerra.

Nel 1988 invece, per prevenire il dispiegamento di una rete intelligenti di satelliti anti-missili balistici in orbita da parte degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica fa esplodere sei bombe atomiche sopra i cieli americani, mettendone a tappeto le apparecchiature elettroniche. Prima che il suo aereo precipiti, il presidente statunitense riesce a dare l’ordine di una rappresaglia massiccia che distrugge le principali città sovietiche, inclusa Mosca. L’URSS reagisce con un altro lancio di missili balistici che spazza via le principali città della costa est, tra cui Washington e New York. Al termine di questo devastante scambio, durato appena 36 minuti, le vittime si contano in decine di milioni, mentre i paesi europei decidono di dichiarare la neutralità sulla base di un accordo segreto precedentemente siglato da Francia, Regno Unito e Germania ovest: la loro scelta mette fine all’escalation nucleare.

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laboratorio

La cecchina dell'Armata Rossa

Autobiografia di una soldatessa

di Domenico Moro

Pavlichenko in a trenchLa cecchina dell’Armata Rossa (Odoya, 2021, euro 22) è un libro interessante e da leggere, non solo perché ci descrive alcuni episodi della Seconda guerra mondiale poco conosciuti in Italia, come le vicende dell’assedio di Odessa e Sebastopoli. Il libro ci restituisce anche uno spaccato della vita sociale, non solo militare, dell’Urss degli anni ’40 del XX secolo, immediatamente prima dello scoppio della guerra e durante i primi due anni di combattimento.

Il libro si ricollega a un sotto-settore del genere dei libri di guerra, quello delle autobiografie dei cecchini, cioè dei tiratori scelti o sniper, parola inglese che negli ultimi anni è sempre più utilizzata per definire questa specialità militare. Il cecchino si presta ad essere il protagonista di libri o film d’azione perché, nell’epoca del dominio delle macchine e degli eserciti di massa, rappresenta il combattente individuale che, utilizzando un fucile di precisione e combattendo spesso in modo solitario, infligge perdite pesanti al nemico. Non a caso, negli anni recenti sono usciti diversi film sui questi soldati, spesso ispirati a autobiografie di cecchini del passato e del presente. Tra questi ci sono American sniper (2014) di Clint Eastwood, sul cecchino statunitense Chris Kile, operativo durante la seconda invasione dell’Iraq, e il Nemico alle porte (2001) di Jean Jacques Annaud, sul cecchino sovietico Vasilij Zajcev, che combatté a Stalingrado.

Anche sulla protagonista di La cecchina dell’Armata Rossa, Ljudmila Pavličenko, è stato girato un film, Resistance. La battaglia di Sebastopoli (2015). Si tratta di una produzione russo-ucraina, fatto notevole, a fronte del solco che, a partire dal 2014, si è scavato tra le due nazioni sorelle e che ha condotto alla guerra attualmente in corso.

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gasparenevola

Tradizione e rivoluzione, dall’oscurità della storia

Una lettura sotto l’ombrellone

di Gaspare Nevola

corpus 9 927x6401. Una comunità che arriva dall’oscurità della storia

Kalasha (o Kalash) è una comunità che arriva dall’oscurità della storia umana. Da secoli vive sulle pendici dell’Hindikush, ai confini tra Pakistan e Afghanistan. Vive nelle valli che le sue genti, secondo immemore tradizione, chiamano “Il Tetto del Mondo”. Sotto il profilo politico-amministrativo, la comunità fa parte del multietnico Pakistan a dominanza musulmana, di cui costituisce la comunità più piccola (circa 5 mila persone) e una minoranza religiosa che continua a seguire un culto “pagano”, politeista. I suoi abitanti sono geneticamente ritenuti euro-asiatici, e forse con geni europei; hanno in prevalenza una carnagione rosea, capelli biondi e occhi chiari, non di rado azzurri; si ritengono discendenti dei soldati di Alessandro Magno, che ebbe a governare quelle terre con le sue milizie. Nel corso del tempo la comunità ha abbandonato i territori più bassi, sempre più islamizzati, e si è ritirata in tre remote valli di alta montagna, nel distretto di Chitral. Questo, tuttavia, non le ha permesso di restare al riparo dagli aspri conflitti armati che hanno via via pervaso l’Afghanistan e lo stesso Pakistan, dato che l’area – proprio perché impervia – è diventata luogo di guerriglia e di manovre militari di portata strategica in un confine caldo della conflittualità internazionale

Con ogni probabilità, gli attuali Kalasha rappresentano l’ultima discendenza di una popolazione antichissima ora in via di estinzione. La loro è un’economia di sussistenza, basata sulla coltivazione del grano e della vite e sull’allevamento di ovini e bovini.