Negli anni Settanta e Ottanta «Primo Maggio» è stata una rivista importante per tante persone impegnate nelle lotte sociali e civili.Fai una donazione
Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________
- Details
- Hits: 1172
La scissione di Livorno e i tempi della storia
di Sebastiano Usai*
Proprio oggi ricorre il centenario della fondazione dell’organizzazione che più di ogni altra, almeno fino al secondo dopoguerra, ha determinato le sorti del movimento rivoluzionario in Italia. Il 21 gennaio 1921 si determinava con la scissione di Livorno la prima organizzazione operaia comunista in Italia. La storia della fondazione del P.c.d’I, e più in generale quella del Partito comunista italiano, è una storia talmente densa e stratificata, così rilevante per le sorti del paese in cui si è andati più vicino e allo stesso tempo più lontano dal successo della rivoluzione che, nonostante il fiume storiografico che ha letteralmente investito questa vicenda, finisce irrimediabilmente per essere irrisolta. La ragione principale risiede nei nodi politici che dalla parabola del Pci scaturiscono e che relegano ancora l’eredità storica di quest’organizzazione nel campo dell’incertezza, certamente della contraddittorietà.
Sarebbe dunque impossibile provare a “tirare le somme” come in troppi hanno tentato di fare, in pochi sono riusciti, anche se parzialmente, e nessuno definitivamente a compiere. E questo perché, anche a distanza di trent’anni dal certificato di morte dell’organizzazione che si dichiarava erede del partito della Resistenza, ancora rimane irrisolta la ragione complessiva che può spiegare come si passò dalla gloriosa storia del partito clandestino e della Liberazione, poi del partito della classe operaia nello Stato a quella del partito Stato nella classe operaia. Una parabola che appunto, rimane irrisolta, proprio perché pone al presente, nella sua straordinaria eccezionalità storica di esempio più alto e allo stesso tempo più basso, una lunga serie di questioni.
- Details
- Hits: 1416
Genetica della Rivoluzione sovietica e crollo dell’URSS
di Salvatore A. Bravo
Pubblichiamo questo interessante articolo del nostro collaboratore Salvatore A. Bravo che personalmente condivido solo parzialmente. In particolare dissento radicalmente sulla parte finale dove l’autore – riprendendo e citando un passo di un libro di Costanzo Preve – individua nella classe media il possibile nuovo soggetto se non rivoluzionario, comunque resistente al capitalismo.
Non c’è dubbio che alcuni settori di piccola-media borghesia impoveriti o “proletarizzati” dalla crisi e dal processo di globalizzazione capitalista, potrebbero in linea teorica essere spinti ad allearsi con i ceti popolari e subalterni e con la grande massa del lavoro dipendente, stabile o precario, ma solo se quest’ultimo è in grado di essere un punto di riferimento per quei ceti, di costituirsi come un blocco sociale, cioè come classe, provvista di coscienza e autonomia politica. Viceversa, in assenza di tale blocco sociale, quella piccola-media borghesia è inevitabilmente destinata ad essere preda delle forze reazionarie di destra (cosa che sta avvenendo e in buona parte già avvenuta) la cui funzione è proprio quella di disinnescare quel che di potenzialmente sovversivo potrebbe esserci in quel ceto sociale, indirizzandolo verso falsi obiettivi (autoctoni contro immigrati) o addirittura rivolgendolo contro gli stessi lavoratori e ceti subalterni; penso ad esempio all’ostilità nei confronti dei lavoratori pubblici o alla retorica interclassista del mondo dei “produttori” (che vorrebbe unire i lavoratori e i datori di lavoro) contro quello dei “parassiti” (cioè di tutto il comparto del pubblico impiego) e del “capitalismo buono”, cioè quello produttivo” contro il “capitalismo cattivo”, cioè quello finanziario.
- Details
- Hits: 1428
Fattori internazionali e nazionali nella fondazione del PCd’I
di Guido Ricci
Il “fattore internazionale”, cioè l’insieme di eventi e relazioni internazionali che si sviluppano nel tempo, ha largamente influenzato il processo di raggruppamento delle tendenze comuniste all’interno del movimento operaio italiano, l’evoluzione della linea comunista e la formazione del Partito Comunista d’Italia. Un approccio che considerasse il processo che porta alla fondazione del PCdI o solo come prodotto dello sviluppo di condizioni interne, o solo come conseguenza di sollecitazioni e suggestioni esterne sarebbe parziale e sbagliato, poiché non terrebbe conto di come, tra le une e le altre, vi sia stato sempre un rapporto, praticamente indistricabile, di reciproca influenza e interazione che, solo, può farci capire la sintesi che storicamente ne è scaturita. Si tratta di un vastissimo argomento che non può certo esaurirsi in questo articolo. Ci limiteremo, quindi, ad esaminare solo gli aspetti più direttamente correlati alla formazione del PCdI nel periodo dalla I Guerra Mondiale alla scissione di Livorno (1914-1921), rimandando il seguito dell’analisi a un approfondimento successivo, con l’intento di stimolare la riflessione sulle importanti lezioni che ci giungono da quell’esperienza per trarne un insegnamento che possa essere valido e attuale anche oggi.
La guerra imperialista e la II Internazionale
Il 1914 segna la definitiva bancarotta politica della II Internazionale. La frattura, creatasi nel periodo precedente, tra revisionisti e riformisti, da un lato, “marxisti ortodossi” e marxisti rivoluzionari (questi ultimi talvolta confusi nell’area degli “ortodossi”), dall’altro, diventa definitiva e insanabile proprio in relazione al tema della guerra e dell’atteggiamento che i partiti operai nazionali devono assumere in relazione ad essa.
- Details
- Hits: 2863
Bordiga, il leader dimenticato
David Broder intervista Pietro Basso*
Nell’agosto scorso la casa editrice Brill ha pubblicato, nella sua collana «Historical Materialism», la prima Antologia di scritti di Amadeo Bordiga in lingua inglese: The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965). L’ha curata Pietro Basso, un marxista militante da lungo tempo, oggi redattore della rivista Il cuneo rosso. Nelle prossime settimane la sua Introduzione all’Antologia sarà pubblicata in Italia dalle Edizioni Punto Rosso.
* * * *
Bordiga è un comunista quasi sconosciuto nel mondo anglofono ma, in gran parte, lo è anche in Italia, nonostante sia stato per almeno tre anni il leader indiscusso del Partito comunista nato a Livorno il 21 gennaio 1921, esattamente un secolo fa. La storiografia del Pci lo ha addirittura tacciato di collaborazione con il fascismo, per poi condannarlo al silenzio nel secondo dopoguerra. Come mai un tale destino?
Negli anni Trenta la denigrazione di Bordiga è stata tutt’uno con la «lotta al trotskismo». La sua espulsione dal partito, nel marzo 1930, avviene per aver «sostenuto, difeso e fatte proprie le posizioni dell’opposizione trotskista». Negli anni Quaranta, in particolare dopo la fine della guerra, il gruppo dirigente del Pci era preoccupato che Bordiga riprendesse l’attività politica, conoscendo il forte ascendente che aveva esercitato sugli iscritti al partito. La rigidissima consegna fu: creare un fossato fisico, psicologico, ideologico, «morale» tra i quadri e i militanti del Pci, e Bordiga e la sua aspra critica della linea di collaborazione nazionale con i partiti borghesi e la classe capitalistica sposata dal Pci – una prospettiva che, a dispetto del nome di «via italiana al socialismo», conteneva proprio la rinuncia all’obiettivo storico del socialismo.
- Details
- Hits: 1866
Abbozzo di riflessione sul PCI e sulla sua crisi
di Roberto Fineschi
Con molte riserve e ritrosie vergo queste note per il centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano, non essendo io uno storico e tanto meno un esperto di questo tema specifico. Quanto segue sono riflessioni sviluppate soprattutto nella prospettiva di un conoscitore della teoria di Marx come teoria della processualità storica. Si tratta di commenti provvisori, schematici e quanto mai aperti a essere discussi. Sono riflessioni che hanno inevitabilmente sullo sfondo il presente e le sue problematiche. Il tema abbozzato è quello dello snodo degli anni settanta, la figura di Berlinguer e i cambiamenti storici allora intervenuti e probabilmente ancora irrisolti.
1. Gli anni settanta e Berlinguer come figura di un momento di svolta
Gli anni settanta sono segnati dalla strategia del “compromesso storico” che, nella mente dei suoi promotori, si reggeva su due fondamentali premesse teoriche, strategiche e di fatto:
1) la crisi del comunismo sovietico come modello di socialismo praticabile in occidente (in realtà iniziava a delinearsi l’idea della sua impraticabilità in generale): esso non funzionava in quanto autoritario (i freschi fatti cecoslovacchi del ‘68 lo avevano dimostrato) e in quanto non-europeo (impossibile realizzarlo nell’Europa occidentale con la sua complessa stratificazione sociale e le sue diffuse libertà formali);
2) il colpo di stato in Cile: una via parlamentare al socialismo non era possibile perché, anche in caso di vittoria elettorale, le forze dell’imperialismo mondiale avrebbero messo fine in forma violenta a tale esperienza.
- Details
- Hits: 1762
La storia del Pci, fra processi di apprendimento e strategia egemonica
di Alexander Höbel
1. Una storia organica, una strategia di lunga durata
La storia del Partito comunista italiano, di cui nel gennaio 2021 si celebrerà il centenario della fondazione, è stata da sempre oggetto, oltre che di una storiografia spesso straordinaria (si pensi a Paolo Spriano ed Ernesto Ragionieri), anche di molte letture deformanti, viziate dal pregiudizio ideologico quando non dalla vera e propria incomprensione. Tale tipo di revisionismo storico applicato a una vicenda grande e complessa come quella del Pci ha conosciuto ovviamente una nuova fioritura dopo il 1989-91, trovando nuovi adepti a destra ma anche a sinistra.
La fine non esaltante del Pci, avviata dalla svolta occhettiana della Bolognina, a indotto molti a rileggere in negativo tutta quella storia, oppure a individuare questo o quel “peccato originale”, da cui sarebbe iniziata – come un processo inevitabile – la dissoluzione del partito: la “svolta di Salerno” del 1944, il “compromesso storico” ecc. La conseguenza è che la vicenda del Pci viene “fatta a pezzi”, assumendone solo alcune parti e liquidando il resto.
Non si tratta, a mio parere, di un metodo adeguato alla conoscenza storica e nemmeno al giudizio politico. Non perché, ovviamente, nell’esperienza del Pci non vi siano stati errori, debolezze, passaggi discutibili, o non si possa criticare questa o quella scelta; ma perché utilizzando tale metodo si rischia di smarrire un elemento fondamentale, che è quello della organicità dell’esperienza del comunismo italiano e di quell’italo-marxismo che ha in Gramsci e in Togliatti i suoi pilastri, ma segna di sé tutta la cultura politica e la strategia di lunga durata del Pci.
- Details
- Hits: 1173
Il contesto socio-economico della nascita del PCd’I
di Domenico Moro
La nascita di una nuova organizzazione dipende non solo dalla volontà soggettiva di chi la fonda ma anche dal contesto socio-economico. Lo stesso avvenne per la nascita del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) nel gennaio di cento anni fa e per questa ragione è utile descrivere, sia pure per sommi capi, il contesto nel quale il partito fu fondato. La nascita del Pcd’I non sarebbe pienamente comprensibile al di fuori della tendenza imperialista dell’Italia, della guerra mondiale, della crisi economica e sociale successiva e del biennio rosso.
L’Italia imperialismo fragile ma aggressivo
L’Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento assunse una fisionomia da Paese imperialista, in contemporanea al diffondersi dell’industria pesante e alla formazione di grandi concentrazioni di potere industriali-finanziarie. La svolta decisiva per il “decollo” dell’industria italiana avvenne tra il 1899 e il 1915, nel periodo cosiddetto giolittiano, dal nome del politico, Giovanni Giolitti, che fu egemone in quel periodo storico. Momento importante di questo periodo fu la guerra contro la Turchia (1911-1912), che, oltre a portare l’annessione come colonia della Libia, aprì le porte ad una rapida penetrazione italiana nei Balcani e persino in Asia Minore.
- Details
- Hits: 1621

Cento anni fa nasceva a Livorno il partito rivoluzionario della classe operaia italiana
di Eros Barone
Dedicato ad Antonio Montessoro 1
1. Una crisi postbellica oscillante tra rivoluzione e reazione
L’Italia venne a trovarsi, negli anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale, in una posizione intermedia tra la relativa stabilità delle potenze vincitrici (Francia e Gran Bretagna) e la totale disgregazione degli imperi centrali. In effetti, la guerra aveva impoverito i popoli e ridotto la loro capacità di acquisto, il che si constatava in Italia anche meglio che altrove. La scena politica italiana vide pertanto un lungo succedersi di agitazioni sociali, che assunsero a volte un carattere prerivoluzionario. Le basi stesse dello Stato liberale furono colpite da un processo di erosione, che compromise la legittimità della vecchia classe dirigente sottoposta, da un lato, alla spinta rivoluzionaria delle masse proletarie radicalizzate e, dall’altro, alla mobilitazione nazionalista dei ceti medi e degli ex-combattenti. Di fronte all’esplodere del conflitto sociale sull’intero territorio nazionale (il numero degli scioperi nel 1919 fu superiore del 112% rispetto a quello del 1914, ma quello degli scioperanti risultò addirittura cresciuto del 500%), il padronato non riuscì a costruire una linea di resistenza e preferì cedere sul piano delle rivendicazioni salariali al fine di evitare una radicalizzazione politica dello scontro. La spina dorsale di questo possente movimento di massa era costituita dai settori della classe operaia maggiormente coinvolti nella ristrutturazione bellica: i metallurgici e i tessili. In questi settori, dove più radicate erano le avanguardie storiche del movimento sindacale, ma dove, nel contempo, maggiore era stata l’immissione di forza-lavoro nuova, proveniente dalle campagne, si compiva quel processo di unificazione della classe operaia che imprimeva il suo sigillo alla fase ascendente del ciclo.
- Details
- Hits: 4428
Brigate Rosse, la parte dannata della storia
di Geraldina Colotti
Durante il secolo scorso, l’Italia non ha avuto soltanto il più grande Partito comunista d’Europa e il più grande sindacato d’Europa, ma, per quasi un ventennio, anche l’estrema sinistra più forte d’Europa. Un fermento esploso con il ’68, ma incubato nell’insofferenza crescente verso la linea dell’accomodamento nel recinto delle compatibilità “democratiche” portata avanti dal Pci.
Un processo che, per strappi e rotture, ha prodotto una critica a 360° della società borghese, presente nei diversi tentativi politici di costruire un’alternativa alla linea del “compromesso storico” e dell’“eurocomunismo”: la “stagione dei gruppi extraparlamentari”, un tentativo di costruzione di un partito di massa (Lotta Continua), e anche la formazione di un’opposizione armata.
Quello della nascita e dello sviluppo di una lotta armata durata quasi vent’anni, è un “rompicapo” che non si spiega attingendo meccanicamente ai “classici” del marxismo, ma neanche abbandonandosi all’interpretazione dietrologica di chi, facendo spallucce alla storia, cerca in questo modo di evitare l’analisi materialistica di quell’insorgenza, e quella della sconfitta di tutte le ipotesi scese in campo nel grande Novecento.
Occorre invece guardare in faccia la realtà delle cose: quando i comunisti non hanno più alcuna capacità di incidere nella realtà del paese, quando concetti che un tempo univano, oggi appaiono motivi surreali di divisioni interne, quando persino la proposta di un riformismo conseguente è scomparsa dall’orizzonte politico concreto, non è possibile “cavarsela” con le teorie dei tradimenti dei capi, o con quelle delle dietrologie e dei complotti.
- Details
- Hits: 1529
Pci: le lezioni di una storia
di Adriana Bernardeschi e Ascanio Bernardeschi
L’abbandono dei principi fondativi del partito di Gramsci è alla radice della fine del Pci. Come superare l’attuale frammentazione dei comunisti e rilanciare il loro protagonismo nella società italiana
Come premessa a questo contributo in occasione del centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano, c’è un aneddoto personale che ci fa piacere condividere e che ci pare sia significativo per comprendere, pur nella complessità di quell’esperienza e nelle sue contraddizioni, la sua grandezza. Durante l’ultimo congresso, quello di scioglimento del partito, nostra madre/nonna, in un momento di attesa durante lo svolgimento dei lavori e delle votazioni nella sezione locale della nostra piccola città, in piedi, irrequieta, l’aria tetra e mesta, disse queste parole: “Stiamo facendo la veglia al morto”.
Non dimenticheremo mai quell’immagine e quelle parole, ricche di significato nella loro tragica semplicità. Perché quella semplice frase restituisce la misura di cosa abbia rappresentato quel partito per la generazione dei partigiani, di chi spendendo la propria gioventù per sconfiggere il fascismo, con indicibili sacrifici, ha considerato l’attività politica per la liberazione dell’uomo, per il comunismo, come qualcosa di inscindibile dal proprio scopo di vita.
Quel partito per loro era una famiglia. I compagni e le compagne di partito un’umanità di cui fidarsi per lo scopo – e il tipo di morale che guidava la loro vita – che li accomunava. Era la possibilità di agire concretamente dal basso in vista di un orizzonte altissimo, di un mondo nuovo da costruire per gli uomini e le donne di domani. Era in definitiva il senso del proprio operare. La militanza politica in quel partito e le speranze che questa alimentava erano per gli uomini e le donne di quella generazione di comunisti assolutamente sovrapposti al senso stesso della propria esistenza.
- Details
- Hits: 1305
10 giorni che sconvolsero il Mondo
di Eugenio Donnici
Era il 17 ottobre del 1920, quando il giornalista e scrittore J. Reed, dopo aver partecipato al Congresso dei popoli orientali, a Baku, si ammalò di tifo e lasciò la vita terrena, interrompendo le sue attività di ricerca su uno dei più grandi esperimenti sociale, al quale ebbe il privilegio di partecipare attivamente e di decantare le gesta e le trame di quegli avvenimenti, con una memoria visiva che somigliava ad una moderna macchina da presa e con una penna sagace che analizzava in profondità i movimenti conflittuali che scaturivano dalle dinamiche in corso.
Il suo libro sulla Rivoluzione russa è un’opera avvincente e di un elevato spessore narrativo, che ha ispirato, tra l’altro, in un contesto meno entusiasmante, il film Ottobre di Sergej Mikhajlovič Ejzenštejn, nel 1927. Dopo circa un secolo dalla sua pubblicazione riesce ancora a rompere la piatta noia quotidiana e ci sottrae alle mille sirene che ci orientano verso le chiacchiere frivole e vuote che alimentano, per la stragrande maggioranza, il dibattito politico attuale.
Sullo sfondo tre grandi avvenimenti che s’intrecciano tra di loro: la Grande guerra, la Rivoluzione politica e la Rivoluzione sociale. Sulla scena principale il proletariato che insorge e tanti protagonisti con le loro sfaccettature, le loro passioni, spesso, guidate dall’intelligenza. Userei le parole dell’autore per dire che il suo libro «è un brano di storia, per come lui stesso l’ha vissuta». Potremmo dire: un racconto del proprio vissuto o un racconto di cui si vive l’esperienza personale e interpersonale, le forti emozioni, la fredda logica e le situazioni paradossali che dissolvono i ragionamenti lineari e unidirezionali.
- Details
- Hits: 2441
Perché rileggere «Primo Maggio»
di Santo Peli
Negli anni Settanta e Ottanta «Primo Maggio» è stata una rivista importante per tante persone impegnate nelle lotte sociali e civili.È stata una scuola di formazione, una sede di dibattito e riflessione in un periodo storico convulso, ma pieno di passioni e di generosità.
È stata una fabbrica di prototipi mentali. Ideata da Sergio Bologna, storico del movimento operaio ed esponente dell’«operaismo italiano», ha vissuto i primi anni sotto la sua direzione per poi passare, dal 1981 al 1989, a Cesare Bermani, affiancato da Bruno Cartosio. Il suo editore fu Primo Moroni, libraio della Calusca di Milano inventore di un modo nuovo di fare cultura. La sua grafica, originale e rigorosa, fu opera di Giancarlo Buonfino.
Una rivista di «storia militante» che ha affrontato con intuito e preveggenza argomenti complessi come la gestione capitalistica della moneta, il declino della grande industria fordista, l’emergere di nuove figure sociali, la trasmissione della memoria, l’avvento della logistica. Attraverso la riscoperta di pagine straordinarie di storia del proletariato migrante fu capace di creare immaginari e modelli di comportamento, di dare una diversa rappresentazione dell’America, di influenzare gli orientamenti di gruppi politici e correnti di ricerca storiografica in Germania.
Pubblichiamo di seguito, come introduzione alla raccolta completa della rivista, un intervento di Santo Peli che compare nel libro La rivista «Primo Maggio» (1973-1989) edito da DeriveApprodi.
In fondo a questa pagina, è possibile scaricare la raccolta completa in Pdf.
- Details
- Hits: 1658
Hosea Jaffe e il socialismo cinese bucharinista
di A. Vinco
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
I lettori di Sollevazione conoscono sicuramente H. Jaffe, tra i più brillanti e dotati economisti marxisti degli ultimi decenni, tradotto in italiano da Jaca Book. Jaffe, trotzkista e terzomondista, teorico raffinato della rivoluzione permanente e ininterrotta, morì nella più totale solitudine e nel dignitoso silenzio nel dicembre 2014, in Italia, a San Martino Valle Caudina nei pressi di Avellino. La sinistra marxista italiana, occidentalista e subimperialista, ha ignorato, passandolo sotto silenzio, il lascito di Jaffe. Jaffe ci potrebbe aiutare a dirimere una delle più controverse questioni di questi tempi, ossia la questione sulla natura sostanziale della Cina di Xi Jinping? Non lo sappiamo con certezza, possiamo avanzare ipotesi di lavoro, ma ci sembra comunque importante far conoscere ai lettori il suo pensiero in materia. Questo scritto vuole soprattutto essere un ricordo dell’economista sudafricano scomparso da sei anni.
Non siamo sinceramente in grado di definire per ora il carattere di classe e la natura del sistema cinese. Lo stesso Deng, poco prima della morte, disse di aver messo in moto una sperimentazione “neo-socialista” (almeno a suo avviso) che non si trovava nei libri di Marx e Engels e che nemmeno la Nep di Lenin, a cui si era originariamente ispirato, gli poteva esser più d’aiuto per la sua evoluzione. La chiave di volta per la comprensione della Cina odierna è forse, sia questa una ipotesi di lavoro, nella teoria di Bucharin sull’economia nel periodo di trasformazione. Se così fosse il “socialismo con caratteristiche cinesi” di Deng si invera nella storia come una nuova forma di marxismo, riletto quest’ultimo paradigma alla luce della militanza teorica e pratica di Bucharin. Il miglior studio sul pensiero economico-politico di Bucharin rimane quello di Stephen Cohen. Casomai ci torneremo su in futuro.
- Details
- Hits: 2845

Il prometeismo rosso da Weishaupt a Stalin
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Capitolo 10 tratto dal libro Il prometeismo sdoppiato: Nietzsche o Marx?
Dopo Campanella, Adam Weishaupt (1748-1830) diede nuovo vigore sul piano teorico al titanismo di matrice cooperativa.
Attorno al 1776 il giovane Weishaupt, infatti, formò, nello stato clericale della Baviera la setta segreta degli “Illuminati di Baviera”; al pari delle organizzazioni massoniche, essa aveva una rigida gerarchia interna mediante la creazione di diversi livelli di adesione, sotto la guida indiscussa di Weishaupt, ma a differenza di quasi tutte le altre associazioni laiche e anticlericali di quel periodo il suo principale promotore espresse inequivocabili tendenze allo stesso tempo prometeiche e comuniste, formando la matrice per una dinamica di sviluppo degli Illuminati che rimase invariata per quasi un decennio, prima della stretta repressiva contro l’organizzazione avviata nel 1787 da parte degli apparati di repressione bavarese.
Il creativo Weishaupt, che non a caso all’interno dell’organizzazione aveva preso l’eroica denominazione glorioso di Spartacus, manifestò chiaramente ai seguaci più stretti le due finalità principali degli Illuminati.
Se all’inizio il leader si limitò solo ad avviare un’azione capillare di diffusione delle opere e libri dell’illuminismo, visto che la Baviera proibiva gran parte di tali scritti, in realtà il pensiero panteista di Adam Weishaupt era molto più profondo e sosteneva che “ogni uomo capace di trovare in se stesso la Luce interiore… diventa uguale a Gesù, ossia Uomo-Re…”. Infatti l’insegnamento segreto che veniva impartito agli adepti asseriva che “… tutte le religioni si fondano sull’impostura e le chimere, che tutte finiscono per rendere l’uomo debole, strisciante e superstizioso, che tutto, nel mondo, è materia e che Dio e il mondo non sono che un’unica cosa”.
- Details
- Hits: 1488
La lezione della Prima Internazionale
di Marcello Musto
Dalla prima associazione dei lavoratori di tutti i paesi abbiamo imparato che gli sfruttati vengono sconfitti se non organizzano un fronte comune. Senza alleanze oltre i confini, l'unico orizzonte è la concorrenza sfrenata tra individui
Dopo la sua prima riunione, il 28 settembre 1864, l’Associazione internazionale dei lavoratori (più nota come la «Prima Internazionale») animò rapidamente passioni in tutta Europa. Trasformò la solidarietà di classe in un ideale condiviso e spinse un gran numero di donne e uomini a lottare contro lo sfruttamento. Grazie alla sua attività, i lavoratori furono in grado di avere una comprensione più chiara dei meccanismi del modo di produzione capitalistico, diventare più consapevoli delle proprie forze e sviluppare nuove e più avanzate forme di lotta per i propri diritti.
All’inizio, l’Internazionale era un’organizzazione contenente tradizioni politiche diverse, la maggior parte delle quali riformiste piuttosto che rivoluzionarie. In origine, la forza trainante centrale era il sindacalismo britannico, i cui leader erano interessati soprattutto alle questioni economiche. Lottavano per migliorare le condizioni dei lavoratori, ma senza mettere in discussione il capitalismo. Quindi, concepirono l’Internazionale essenzialmente come strumento per impedire l’importazione di lavoratori dall’estero in caso di sciopero.
Il secondo gruppo più importante erano i mutualisti, a lungo prevalenti in Francia. In linea con le teorie di Proudhon, si opposero a ogni forma di impegno politico della classe operaia e all’uso dello sciopero come forma di lotta.
Poi c’erano i comunisti che si opponevano al sistema stesso di produzione capitalista e sostenevano la necessità di rovesciarlo. Alla sua fondazione, le file dell’Internazionale includevano anche un certo numero di lavoratori ispirati a teorie utopistiche ed esiliati con idee vagamente democratiche e concezioni trasversali alle classi che consideravano l’Internazionale uno strumento per l’emissione di appelli generali per la liberazione dei popoli oppressi.
Page 8 of 23













































