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voxpopuli

A 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino

Una riflessione marxista

di Compagno Pier

berlin mauerEsattamente trent’anni fa, il 9 Novembre 1989, accadde un evento di fondamentale importanza: la caduta del Muro di Berlino. Tale data simbolica, nonostante essa si riferisca prevalentemente agli eventi che portarono all’estinzione della Repubblica Democratica Tedesca e all’unificazione della nazione teutonica, contiene e rappresenta un significato molto più ampio, i cui esiti si ripercuotono nella società ancora oggi. Questo giorno viene celebrato ed accolto con gaudio dai media nostrani, i quali identificano questa data come «la fine della dittatura totalitaria comunista» e come «la prova oggettiva del fallimento socialista e della vittoria del capitalismo, unico sistema economico sostenibile». «La libertà ha vinto» esclamano in coro le principali testate occidentali, ben consapevoli che con questa data non si celebra solamente una mera riacquisizione da parte dei popoli orientali di questa famosa “libertà”, parola millantata e falsificata dai liberali , bensì viene soprattutto celebrata la libertà dell’occidente capitalista, che non aveva più sistemi economici con i quali competere (ora invece lo spauracchio degli americani è la Cina), di portare avanti quel processo di deregulation, costante finanziarizzazione dell’economia che ha causato l’evoluzione di una nuova forma di capitalismo, molto più aggressiva e feroce rispetto a quelle precedenti.

Il 9 Novembre del 1989 costituisce quindi uno spartiacque nella storia contemporanea: mediante la legittimazione fornita dai presunti insuccessi del cosiddetto socialismo reale applicato in Unione Sovietica e nelle democrazie popolari dell’Europa orientale, l’élite capitalista mondiale ha sfruttato la debolezza del movimento socialista e proletario per poter accelerare la transizione ad uno spinto ordoliberismo.

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contropiano2

Berlino, 30 anni dopo

di Claudio Conti

In calce l'editoriale di Guido Salerno Aletta

nb m mlmclv nklxcnklnjkSe i maestri sono in crisi, proprio mentre celebrano la storica vittoria sull’avversario numero uno (il socialismo, seppure nella sua versione più grigia, quella “reale”), è bene guardare con occhio clinico alle ragioni della sua crisi.

Che sono poi, nell’insieme, il suo normale modo di funzionare.

Ancora una volta vi proponiamo un fulminante editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza, che impietosamente affonda il bisturi nel modello mercantilista tedesco. Un dispositivo di rapina all’interno (verso i propri lavoratori) e all’esterno (verso i paesi-partner dell’Unione Europea, e ovviamente verso i loro lavoratori) che va in crisi per aver avuto troppo successo.

Che non vuol dire aver avuto ragione, ma semplicemente di essersi potuto “finalmente” sviluppare senza avversari; né come classe contrapposta (i lavoratori, appunto), né come “sistema economico e di valori” (il socialismo).

Chi mastica di dialettica capisce senza sforzi che il momento migliore dell’economia tedesca ed europea – perché di questo sostanzialmente si parla – coincida con il periodo pre-caduta del Muro. Quando, insomma, welfare e salari furono elargiti con generosità, magari anche a scapito dei profitti, che “furono ridotti, sì, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma solo per paura del Comunismo”.

Il capitalismo, insomma, rende meglio quando è sottoposto a una non volontaria “cura dimagrante”, a una condivisione degli utili che è poi diventata bestemmia dopo l’89. Ma anche in quelle condizioni non funzionava benissimo…

Dopo l’Anschluss della Ddr e la facile imposizione a tutta l’Unione Europea delle regole più vantaggiose per sé, non troppo paradossalmente, quel meccanismo si è inceppato.

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lantidiplomatico

A 30 anni dalla caduta del muro

di Antonio Di Siena

w01 0RTRPVM2Mancano due giorni alle solenni celebrazioni per il trentennale della caduta del Muro di Berlino, e siamo già tutti pronti a sentirci raccontare come gli eventi che presero il via il 9 novembre 1989 cambiarono per sempre la storia del continente europeo.

Ma la narrazione dell'informazione dominante ci racconterà del crollo non di un semplice muro, ma di un intero Paese comunista con un sistema economicamente al collasso, la Repubblica democratica tedesca (DDR - meglio conosciuta come Germania Est), che fu magnanimamente soccorso da un altro Paese, generoso e democratico.

Di come un popolo oppresso e affamato da un sistema totalitario, che scappava a gambe levate in direzione ovest, sia stato liberato dal giogo del socialismo reale e accolto nella moderna, florida e democratica Repubblica federale tedesca. Quella Germania Ovest che, con grande generosità, tese la mano ai suoi fratelli più sfortunati e, grazie ad una imponente politica di investimenti pubblici, riuscì a ricostruire e integrare un paese distrutto da mezzo secolo di economia socialista, portando a compimento il processo di riunificazione delle due Germanie.

Ma dopo trent'anni è passata abbastanza acqua sotto i ponti della storia per poter guardare a quell'evento epocale con uno sguardo lucido e disincantato, potendosi rendere facilmente conto che le cose non sono andate proprio così. E soprattutto che fra la vicende dei tedeschi dell'est e la moderna storia dell'Unione europea si possono tracciare importanti parallelismi.

Nel 1989 la Germania Est era sicuramente un Paese in crisi, politica ed economica, come altri del blocco socialista. I suoi cittadini chiedevano profonde riforme del sistema politico, più libertà e soprattutto la democratizzazione dello Stato. Non di certo una svolta capitalista.

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marxismoggi

La riscrittura dei fatti e la realtà della storia

A proposito della mozione votata a Bruxelles

di Alexander Höbel

La Battaglia di Berlino min1. La mozione “sull’importanza della memoria” (un titolo davvero beffardo!) approvata dal Parlamento europeo coi voti di gran parte dell’emiciclo (compresi quasi tutti i rappresentanti del Pd, tra cui quel Giuliano Pisapia che come "criminali" comunisti contribuimmo a eleggere alla Camera nelle liste del Prc) costituisce un documento di estrema gravità, il cui significato non può essere sottovalutato.

Di fatto, nell’anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale, nella quale la barbarie nazifascista fu battuta anche e soprattutto grazie al contributo decisivo dell’Unione Sovietica, coi suoi circa 25 milioni di caduti e pagine epiche come la resistenza dei leningradesi a 900 giorni di assedio o la vittoria di Stalingrado, si anticipa la data di inizio del conflitto, che viene fissata al patto Molotov-Ribbentrop anziché all'aggressione tedesca contro la Polonia, il 1° settembre 1939 (solo dopo 16 giorni, l’Urss penetrò a sua volta in territorio polacco, evidentemente a scopo difensivo, ossia in reazione all’attacco hitleriano, che imponeva – può essere duro dirlo, ma è la concreta realtà storica – di non lasciare che le truppe tedesche dilagassero in tutta la Polonia giungendo ai confini dell’Urss, il che peraltro aveva costituito uno dei motivi del patto Molotov-Ribbentrop). Questa modifica della data di inizio del conflitto costituisce ovviamente un atto del tutto arbitrario, una vera e propria riscrittura della realtà di stampo orwelliano.

Ma se proprio dovessimo anticipare l’inizio della guerra a prima dell’avvio delle operazioni militari, allora perché non fissarne l'inizio alla Conferenza di Monaco del 1938 dove Gran Bretagna e Francia lasciarono mano libera a Hitler? O magari farla coincidere con l'Anschluss tedesco dell'Austria? O con l’annessione hitleriana dei Sudeti?

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sinistra

Dall'URSS alla Russia

di Fabrizio Poggi

Se almeno un solo elemento della immensa lezione leniniana ho potuto assimilare (e tentare sempre di applicare) è quello della necessaria e costante analisi dei rapporti tra le classi nell'esame di ogni fenomeno reale. Così che, invogliato dal commento al pezzo di Alexander Höbel - “Inefficienze e difetti dell’economia sovietica” - fatto da Eros Barone, che giustamente mette in rilievo la doverosa analisi dei rapporti di classe nell’analisi della storia sovietica e della sua involuzione a partire dalla degenerazione khruščëviana, propongo questo pezzo, uscito su nuova unità nel 2017 (n. 4), qua e là rivisitato per l'occasione, ma non aggiornato, sperando di dare un piccolo contributo alla discussione

2ebb60473cd67e8167083273a3863e75Dietro le quinte di una cosiddetta “formazione dei militanti” sul tema della storia dell'URSS, si contrabbandano spesso trotskismo, khruščëvismo e gorbačëvismo. Presentando la storia sovietica come un percorso “Dal capitalismo al socialismo e viceversa”, da posizioni idealistiche si attribuisce l'evoluzione e la successiva involuzione dell'esperienza socialista in URSS a soli fattori soggettivi, secondo la vulgata di una presunta “bontà innata” di chiunque si sia opposto a quelle che vengono definite le “criminali” scelte politiche ed economiche della leadership sovietica durante il trentennio in cui Stalin fu alla testa del VKP(b).

Di contro, si è tentato di illustrare sommariamente come quelle scelte riflettessero reali rapporti tra le classi sociali, così come si evince da alcune fonti sovietiche. Delimitazione cronologica e schematizzazione tematica sono soggettive e solo indicative del tema.

* * * *

Nel 1932, sul numero 1-2 della rivista “Pod znamenem marksizma” (“Sotto la bandiera del marxismo”), compare l'articolo di M. Korneev Il secondo Piano quinquennale e l'eliminazione delle classi, che illustra la politica di trasformazione delle campagne in URSS, basata sulla collettivizzazione delle piccole aziende individuali e la definitiva eliminazione dell'ultima classe sfruttatrice rimasta, quella del kulak, i contadini ricchi.

Tra il 1973 e il 1979, intrattenendosi con lo storico Felix Čuev, l'ex membro del Politbjuro, ex presidente del Consiglio dei commissari del popolo ed ex Ministro degli esteri sovietico Vjačeslav Molotov afferma: “contrappongono Stalin a Bukharin e a Dubček. Sono i destri che lo fanno – i residui di kulak non liquidati. Tra Bukharin e Dubček c'è molto in comune”. E poi: “Khruščëv non è stato casuale. Il paese è contadino e la deviazione di destra è ancora forte.

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ilcomunista

Inefficienze e difetti dell’economia sovietica

di Alexander Höbel

29062617 1863373277067169 7761528854794993664 nLa crisi e il crollo dell’URSS sono stati in buona misura la crisi e il crollo dell’economia sovietica. I successi di quest’ultima erano stati notevoli: anche dopo il “grande balzo” dell’industrializzazione staliniana (che portò l’URSS a diventare già nel 1937 la seconda potenza del mondo per produzione industriale)1, i progressi sono stati costanti, almeno fino agli anni ’602. L’economia sovietica era caratterizzata dal predominio dell’industria sull’agricoltura, e dal predominio dell’industria pesante, produttrice di macchine, su quella leggera, produttrice di beni di consumo. Questa “sproporzione” finì per costituire uno dei suoi maggiori problemi3.

L’attenzione degli studiosi peraltro si è focalizzata sul funzionamento interno del sistema pianificato, nel quale – a partire dagli anni ’60 – emergono sempre di più frammentazione e forze centrifughe, interessi settoriali e aziendali: insomma il “dipartimentalismo” e i “localismi”. Di fatto, esistevano “conflittualità tra organi e incompatibilità tra obiettivi e strumenti di piano”: i “ministeri della produzione”, intermediari tra i settori produttivi e l’organo di pianificazione (Gosplan), agivano come “gruppi di interesse”, inducendo il Gosplan ad “apportare correzioni, cioè tagli alle forniture richieste”; queste infatti erano sempre in eccesso rispetto alle esigenze di imprese e settori produttivi, che le gonfiavano in modo da premunirsi da “irregolarità delle consegne, strozzature e tagli delle forniture”. Dunque le informazioni dal basso verso l’alto, essenziali per una corretta pianificazione, erano falsate, oltre che “imprecise, saltuarie e insufficienti”; gli organismi pianificatori, che conoscevano queste tendenze, a loro volta imponevano piani di produzione eccessivi rispetto a risorse e capacità produttive denunciate; e questo induceva i ministeri a sviluppare una rete di forniture parallela, al di fuori del piano e spesso della legge, basata su scambi, favori, corruzione, ecc.4.

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sinistra

Carlo Cafiero, il figlio del sole

di Salvatore Bravo

Carlo CafieroCarlo Cafiero (Barletta, 1º settembre 1846– Nocera inferiore 1892) ha vissuto con pienezza lo spirito di scissione, non è mai stato parte di nessun movimento in toto, ha sempre mantenuto distanza critica rispetto ad ogni appartenenza, si sentiva legato piuttosto all’umanità, ha messo la sua cultura, il suo impegno al servizio degli esseri umani. E’ la testimonianza viva, su cui si dovrebbe riflettere, che l’essere umano non è l’effetto del modo di produzione, ma vi è un’eccedenza, una resistenza al potere ed ai condizionamenti che permette la libertà critica.

Di famiglia agiata, i Cafiero erano una delle famiglie più rilevanti di Barletta e di Puglia, già avviato alla carriera diplomatica, ha il coraggio della scissione, abbandona le certezze e le agiatezze per impegnarsi politicamente a favore degli ultimi, di coloro che non hanno le parole per testimoniare e denunciare la violenza dello sfruttamento. La sua vita è stata tragica, termina i suoi giorni in manicomio, ciò malgrado la sua breve parabola vitale dimostra che la natura umana è capace di vivere l’universale fino alle estreme conseguenze. In un pianeta che è ormai un immenso mercato, in cui le istituzioni formano il consumatore e non la persona, Cafiero è un esempio vivo che vi sono possibilità imprevedibili nell’essere umano. Conobbe direttamente, forse Marx, sicuramente Engels con cui partecipò all’organizzazione dell’internazionale, ma il potere, in qualsiasi forma era per Cafiero il male del mondo, per cui si schierò con gli anarchici avvicinandoci a Bakunin conosciuto nel 1872. Lo divise dall’Internazionale e da Engels il modello di organizzazione che secondo Cafiero non doveva essere accentrato, ma libertario. Al collettivismo comunista, allo stato erogatore dei servizi predilesse il federalismo di società produttive: la libertà prima di tutto.

Nel 1877 a San Lupo nel Matese organizza un moto anarchico che non ha successo, ma sperimenta la propaganda del fatto, ovvero non si incoraggia l’insurrezione con verbosi proclami, ma con azioni effettive: gli archivi comunali furono bruciati, in quanto in essi vi erano documenti e dati che permettevano l’ingiusta tassazione. In carcere legge il Capitale di Marx, ne fa un compendio pubblicato da La Plebe, compendio che ha avuto una ventina di edizioni.

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marxismoggi

“Il processo Stalin”. L’ultimo libro di Ruggero Giacomini

di Fosco Giannini

stalin8764Nel 1897 lo scrittore irlandese Bram Stoker pubblica un romanzo, “Dracula”, dal carattere gotico e romantico, che avrebbe segnato di sé tanta parte della futura letteratura europea e mondiale e tanta parte dell’arte e del cinema, sino ai nostri giorni. Segnando di sé anche il senso comune, la cultura, di centinaia di milioni di uomini e donne, non solo in Europa ma nel mondo.

Il grande successo del romanzo convince intere generazioni che Dracula sia stato davvero, storicamente, un vampiro assetato di sangue, un terrificante demone della notte. Ma l’opera di Stoker è di una totale falsità, che attraverso l’immensa popolarità a cui giunge, produce uno dei più grandi inganni di massa che mai la letteratura, l’arte, la filosofia abbiamo prodotto. Il Dracula storico, infatti, quello che tuttora tutti i giovani liceali della Romania studiano, è stato un grande rivoluzionario rumeno, un liberatore dalle qualità intellettuali di un Machiavelli e dalle capacità militari di un Garibaldi, un condottiero che nella seconda metà del 1.400 caccia gli ottomani invasori liberando e unificando la Romania. È difficile capire il motivo per cui Stoker mette in campo una così grande menzogna, peraltro per lui fruttifera. Un dato può forse aiutarci: Stoker è uno scrittore di lingua inglese, un intellettuale dell’occidente che vede i Carpazi, la terra di Dracula, con lo sguardo dell’imperialista, del colonialista, attraverso il quale i Carpazi son già di per sé la terra dell’orrore e del sangue, l’anti occidente.

Chi scrive è convinto che scientemente, con gli stessi strumenti della menzogna totale ed organizzata, della manipolazione, anche Stalin abbia subito, da parte dell’intero apparato ideologico, culturale, politico dell’occidente (con l’aiuto decisivo di Chruščëv, come vedremo) lo stesso processo di demonizzazione che Dracula subì ad opera di Stoker e della cultura occidentale dominante. Sino al punto che ancora oggi è difficilissimo misurarsi con quel senso comune, disseminato in profondità dal pensiero americano ed europeo, secondo il quale Stalin sarebbe stato quel dittatore sanguinario raccontato dal Rapporto Chruščëv e poi sapientemente divulgato dai mille Stoker al servizio, sin dagli anni ’50, dell’anticomunismo e dall’antisovietismo.

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micromega

Quando la Socialdemocrazia tedesca tradì se stessa

Bad Godesberg e il ripudio della democrazia economica

di Alessandro Somma

spd bad godesberg 510Nel 2019 ricorrono due importanti anniversari tondi che i tedeschi stanno celebrando con una certa enfasi: cento anni fa veniva promulgata la Costituzione di Weimar, la prima in Europa a parlare di diritti sociali e di democrazia economica, mentre settant’anni fa vedeva la luce la Costituzione di Bonn, l’unica nata dalla sconfitta del fascismo a non menzionare i diritti sociali e la democrazia economica.

Un altro anniversario tondo è stato invece tenuto un poco in sordina. Sessant’anni or sono il Partito socialdemocratico tedesco (Spd) varava il Programma di Bad Godesberg che formalizzava l’accettazione dell’economia di mercato e con ciò il ripudio della democrazia economica come suo orizzonte programmatico.

 

Democrazia economica

La democrazia economica è stata a lungo un cavallo di battaglia dei Socialdemocratici tedeschi, che coniarono l’espressione ai tempi della Repubblica di Weimar nell’ambito del movimento sindacale[1], per indicare una forma di risocializzazione dell’economia non ridotta alla mera richiesta di un primato della politica. Quel primato era per molti aspetti una realtà: all’epoca i Paesi capitalisti avevano in massima parte riconosciuto la pianificazione come ineludibile[2], motivo per cui occorreva impegnarsi per renderla un’attività frutto di decisioni partecipate. Di qui il primo fondamento della democrazia economica: l’individuazione attraverso il circuito democratico delle scelte produttive complessive e di lungo periodo (Gesamtwirtschaftsplan)[3].

Non si trattava di superare il capitalismo. La pianificazione comportava il coinvolgimento del Parlamento nelle scelte complessive circa il «cosa produrre», per realizzare l’interazione tra meccanismo concorrenziale e meccanismo democratico. Il «come produrre» restava invece ancorato ai fondamenti che contraddistinguono il capitalismo: esso «può e deve essere affidato all’economia di mercato, che presumibilmente si muoverà in modo sensato e proficuo fondandosi sulla libera concorrenza»[4].

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laboratorio

A cento anni dal biennio rosso

I moti per il caro-viveri

di Domenico Moro

1920 Guardie rosseLo studio della storia del movimento operaio e rivoluzionario è importante non solo per ricordare le proprie radici e affermare la propria identità ma anche e soprattutto come ammaestramento per le scelte politiche tattiche e strategiche per l’oggi e per il futuro.

Proprio in questo inizio di estate 2019 cade il centenario dell’inizio del biennio rosso (1919-1920), che rappresenta uno dei momenti di più alta tensione rivoluzionaria delle classi subalterne italiane degli ultimi cento anni, sia per la profondità sia per la diffusione delle lotte sul territorio nazionale. Per certi aspetti, molto probabilmente il biennio rosso rimane superiore anche rispetto agli altri due altri grandi movimenti delle classi subalterne, sia quello sviluppatosi durante la Resistenza, che fu limitato al Centro-Nord e con caratteristiche anche di lotta di liberazione nazionale oltre che di lotta di classe, sia quello che ebbe luogo tra il 1969 e il 1977-80, cioè tra l’Autunno caldo e l’occupazione della Fiat.

Il biennio rosso si articola in una serie di eventi, che hanno inizio nel giugno-luglio 1919 con i moti per il caro-viveri e proseguono con la lotta per la terra, con l’ammutinamento dell’Esercito e culminano con l’occupazione delle fabbriche nel 1920. Dedichiamo questo primo articolo ai moti per il caro-viveri, ma prima è necessario chiarire i precedenti e il contesto in cui nasce il biennio rosso.

 

Il contesto generale e la Prima guerra mondiale

Così come in Russia la rivoluzione del 1917 fu preceduta dalla sua “prova generale” del 1905, anche in Italia i sommovimenti del biennio rosso furono preceduti, prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, da un importante moto insurrezionale, la cosiddetta settimana rossa (1914). La stessa entrata in guerra dell’Italia fu contrassegnata da una importante opposizione da parte popolare, in cui la lotta alla guerra si unì alla lotta per il pane. Di particolare importanza furono gli avvenimenti accaduti durante la guerra, nel 1917.

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carmilla

Rosa Luxemburg e la rivoluzione impossibile

di Fabio Ciabatti

luxemburg sfondo gialloIn un periodo come quello attuale in cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo può essere utile riprendere le parole di Rosa Luxemburg a proposito della rivoluzione:

“non esiste nulla di più inverosimile, di più impossibile, di più fantasioso di una rivoluzione un’ora prima che scoppi. Non esiste nulla di più semplice, di più naturale e di più evidente di una rivoluzione nel momento in cui ha sferrato la sua prima offensiva e ha riportato la sua prima vittoria”.

A partire da queste righe dedicate agli avvenimenti russi del 19171 si potrebbe dire, utilizzando un linguaggio che non appartiene alla Luxemburg, che la rivoluzione si configura come evento. Cos’è un evento? Seguiamo Badiou. Si tratta di un immanente rovesciamento delle leggi dell’apparire che ha come conseguenza di far esistere in una data situazione un termine prima inesistente. Si tratta, in altri termini dell’imprevedibile inizio di una rottura che si impone su tutti gli elementi che contribuiscono a creare la sua esistenza.2 Detto in modo ancora diverso, un evento è ciò che porta alla luce nuove possibilità che prima erano invisibili e addirittura impensabili. Non è in sé stesso la creazione di una nuova realtà, ma soltanto la creazione di una imprevista possibilità, ponendo in essere nuove soggettività e dando il via ad una serie di avvenimenti che aprono una nuova sequenza storica.3

Come noto il pensiero della Luxemburg è stato spesso accusato di spontaneismo. Però, se si può applicare, almeno in parte, la categoria di evento alla sua opera, allora parlare di spontaneismo non è la cosa più appropriata. Certo l’autrice contrappone spesso l’attività spontanea delle masse e la loro capacità di innovare la prassi politica all’inerzia e alla funzione frenante del partito e del sindacato. Ma se volessimo parlare in senso proprio di spontaneità dovremmo presupporre un tipo di comportamento che appartiene ad un soggetto come suo necessario attributo. Nel mettere in atto questo modo di agire il soggetto dovrebbe rimane identico sé stesso. Quello che compare nello sciopero di massa e nella rivoluzione si configura, invece, nello spirito della Luxemburg, come un vero e proprio “termine nuovo”.

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iltascabile

Analisi di una sconfitta

di Alessio Giacometti*

Il fallimento del comunismo in Italia in un dialogo inedito tra Pietro Ingrao e lo scrittore Ferdinando Camon

Italy Fortepan 20182Quando nel 1991 il PCI rinuncia a ogni legame con le sue origini sovietico-marxiste e cambia nome, i telegiornali di tutto il mondo trasmettono l’immagine di Pietro Ingrao in lacrime, il volto coperto con una mano. In quel pianto si consumava il residuo ideologico del più forte partito comunista d’Occidente. È allora che Ferdinando Camon, scrittore cattolico e contadino, decide di incontrarlo. Ingrao accetta il confronto, come peraltro aveva già fatto nel 1990, quando nel resoconto autobiografico Le cose impossibili prova a dirimere quell’ “intreccio di vicenda personale, di confronto di idee, di riflessione storica” che era stato per lui il comunismo.

Tra il dicembre del 1993 e il maggio del 1994 i due si scambiano otto lettere e si incontrano per tre volte nella villa romana di Ingrao, in via Ugo Balzani, a ridosso della borgata di Pietralta. Questo scontro ha un peso: le domande di Camon sono impetuose, serrate, assillanti. Da un incontro all’altro Ingrao ha dei ripensamenti, il numero di note alle trascrizioni che gli arrivano da Padova scema rapidamente. Al termine degli incontri, l’insoddisfazione lo spinge addirittura a chiedere che quei dattiloscritti non vengano pubblicati. Camon resta sgomento, ma decide di accontentarlo.

Passa un quarto di secolo, Ingrao muore centenario nel 2015 e Alberto Olivetti, amministratore dell’archivio eponimo alla Fondazione Centro di studi e iniziative per la Riforma dello Stato, ritrova quei carteggi ancora inediti nel faldone B 42. Scrive subito a Camon e ottiene l’assenso a pubblicarli in un libriccino essenziale, Tentativo di dialogo sul comunismo (Ediesse, 2019), offerto oggi “alla comprensione e alla sofferenza di chi vuol condividerlo”.

 

Liberare l’animale

“Lei parla di ‘morte’ definitiva”, accusa Ingrao già nel primo incontro, “e vuol ragionare su questa morte: il nostro discorso sarebbe [così] un’epigrafe”. Meglio parlare di “crisi”, che è una morte passeggera, uno sfogo cutaneo sulla pelle della storia.

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marxismoggi

Il PCI e la democrazia industriale

Consigli di fabbrica e partecipazione conflittuale

di Mattia Gambilonghi*

5000089469030 0 0 0 768 75Introduzione: autogoverno dei produttori e governo dell’economia nella strategia del comunismo italiano

L'ipotesi di riforma dello Stato che muove il PCI e il suo progetto riformatore, così come la sua concezione di democrazia mista – che vede la dimensione generale e rappresentativa rapportarsi alla base con una ricca articolazione di momenti ed istituti democratici (dai consigli di quartiere ai consigli di fabbrica, passando per le nuove forme di rappresentanza all'interno del mondo della scuola ottenute agli inizi dei Settanta) – delineano un preciso modo di essere della programmazione economica e del governo dell'economia che ha il suo fulcro nel concetto di autogoverno dei produttori.

I lavoratori e la classe operaia sono cioè chiamati ad incidere e (co)determinare la politica economica e i processi produttivi tanto sul livello nazionale, attraverso l'azione svolta dai partiti di riferimento nell'ambito della rappresentanza politica generale, quanto su quello aziendale, attraverso l'azione di pressione e contrattazione e successivo controllo esercitata dai consigli di fabbrica e dalle organizzazioni sindacali nei confronti delle dirigenze d'azienda, riguardo quelle tematiche relative all'organizzazione del lavoro e alla localizzazione e composizione degli investimenti. Nonostante le caratteristiche e le specificità della strategia di riforma e trasformazione sociale delineatasi a livello teorico nel comunismo italiano, quest'ultima risulta accomunata alle altre e differenti realtà della sinistra europea (includendo perlopiù all'interno di questa categoria le esperienze di governo socialdemocratiche) dall'ispirazione e dall'idea di fondo. Ossia, la convinzione che attraverso questo doppio movimento (“dall'alto” e “dal basso”, “statale” e “sociale”) di intervento e di governo delle dinamiche economiche, attraverso l'immissione nel circuito sotteso al processo di circolazione e valorizzazione capitalistica di «soggetti e finalità antagonistiche alla pura logica di mercato», fosse possibile non solo «sottrarre spazio al calcolo puramente economico», ma soprattutto «reagire alla condizione di merce della forza lavoro e agli effetti negativi […] della gestione privata dell'accumulazione»[1].

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trad.marxiste

‘Tutto il potere ai Soviet!’. Parte terza

Lettera da lontano, correzioni da vicino: censura o rimaneggiamento?

di Lars T. Lih

Pubblichiamo la parte terza di questo scritto di Lih, l'unica che mancava dei sette che il sito Traduzioni marxiste ha meritoriamente messo in rete e che a suo tempo non eravamo riusciti a reperire. In ogni caso in fondo all'articolo abbiamo inserito l'elenco completo con i link

kollontai as linkL’interpretazione corrente del bolscevismo nel 1917 basata sul concetto di “riarmo del partito” è una narrazione avvincente e altamente drammatica, che può essere riassunta, grosso modo, nel modo seguente: il vecchio bolscevismo era stato reso irrilevante dalla Rivoluzione di febbraio, i bolscevichi in Russia si trovarono in affanno sino al ritorno di Lenin, il quale provvedette al riarmo del partito, e quest’ultimo, successivamente, si divise riguardo a questioni fondamentali nel corso di tutto quell’anno. L’unità del partito venne infine restaurata – quantomeno in una certa misura – dopo che gli altri principali esponenti bolscevichi cedettero alla superiore forza di volontà di Lenin. Solo in tal modo il partito intraprese quel riarmo che lo dotò di una nuova strategia, una strategia che proclamava il carattere socialista della rivoluzione – una condizione essenziale della vittoria bolscevica in ottobre.

Osservatori con punti di vista politici significativamente contrastanti avevano tutti le loro ragioni per sostenere una qualche versione della narrazione del riarmo [1]. Questa sembrò trovare duplice conferma quando, negli anni Cinquanta, divenne noto che la versione della prima lettera da lontano di Lenin, pubblicata dalla Pravda nel marzo 1917, era stata pesantemente emendata, con la rimozione di circa un quarto del testo. Fatto divenuto la base di un vivido e persuasivo aneddoto su come i bolscevichi di Pietrogrado, esterrefatti e impauriti, avrebbero censurato Lenin, il loro stesso vozhd [guida, leader, n.d.t.].

Ecco come viene generalmente raccontata questa storia: ai primi del marzo 1917, subito dopo la caduta dello zar, Lenin esponeva la propria reazione agli sconvolgimenti russi in quattro cosiddette Lettere da lontano, servendosi delle succinte notizie di cui disponeva in Svizzera. Ma i bolscevichi di Pietrogrado si mostrarono assai scandalizzati da quanto espresso nelle Lettere di Lenin, e questo a causa di audaci innovazioni in fondamentale rottura col vecchio bolscevismo. Il turbamento suscitato dall’audacia di Lenin nei redattori della Pravda fu tale che questi rifiutarono di pubblicare tre delle Lettere da lontano, e anche la sola che venne effettivamente diffusa subì pesanti censure, con tagli che ne sfiguravano l’essenza del messaggio.

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volerelaluna

Alle radici di una storiografia militante

1 maggio 1945 – 1 maggio 2019

di Sergio Bologna

Yugoslav Army entering Trieste May 1945 Source http wwwstarerazglednice74 anni. Prendo spavento a pensare che c’ero, anzi, che me lo ricordo quel 1 maggio del 1945. E che i testimoni di quegli avvenimenti non sono rimasti tanti. Non dico in generale, dico quelli che hanno visto ciò che ho visto io, a Trieste, in una casa da dove si vedeva la sagoma del Castello, ultima roccaforte della resistenza tedesca all’avanzata dell’esercito di liberazione yugoslavo. I maschi della mia famiglia, tranne mio padre, erano tutti sotto le armi. Mio nonno era prigioniero in Africa, ad Asmara, ma non se la passava male, mi raccontò qualche anno dopo. Ci era andato volontario nel ’36 con le truppe italiane. S’era arruolato per ottenere l’amnistia, aveva una condanna per diserzione. Allora abbandonare una nave commerciale era considerato diserzione, come fosse una nave militare. Lui, elettricista di bordo, toccato un porto degli Stati Uniti, se l’era svignata per inseguire il sogno americano. Aveva sbagliato data, era il 1929. A Trieste s’era lasciato alle spalle una moglie e quattro figli: mia madre, la prima, una donna sensibile, bella, sportiva, s’era ammalata di tubercolosi a 15 anni e avrebbe passato la vita tra sanatori e ospedali. Poi tre figli maschi, uno alto, ben piantato, calciatore semiprofessionista, arruolato nei granatieri, era prigioniero in Germania, “internato militare”, per la precisione, preso dai tedeschi l’8 settembre ad Atene e ficcato in un vagone piombato. Un altro più giovane, Giorgio, dolce e tenero ragazzo, era caduto a 21 anni a El Ghennadi in Tunisia, pochi giorni prima della resa delle truppe italiane, nel maggio del ‘42. L’ultimo, di cui non ricordo il nome, era morto di meningite a 4 anni.

Non so qual è stato il tributo di sangue che i partigiani di Tito hanno versato per conquistare Trieste prima che ci mettessero su le mani gli Alleati. Ma qualche fonte parla di migliaia di caduti sul Carso. Me li ricordo ancora, gli elmi nei boschi. Erano elmi tedeschi, molti foderati di pelle, li raccoglievo e me li ficcavo in testa, subito redarguito da mio padre, potevano averci i pidocchi. I partigiani portavano bustine, copricapi di stoffa, erano un po’ scalcagnati.