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sinistra

Il mito antifascista degli Arditi del Popolo e del settarismo «bordighista»

Considerazioni in/attuali

di F. B.

Schermata del 2024 10 07 19 33 15.png«Ogni volta che al posto di "proletariato" leggo "popolo", mi domando quale brutto tiro si stia preparando ai danni del proletariato.»

(G. D.)

La «leggenda» degli Arditi del Popolo nasce all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, allorché – dopo che per quasi cinquant’anni quell’esperienza di opposizione armata al fascismo in ascesa era caduta nell’oblio – un fiorire di studi ad opera di giovani storici «militanti» la riportò improvvisamente in auge. Questo rinnovato interesse per una vicenda lontana e ormai da tempo dimenticata, come sempre accade, non fu casuale: esso rispondeva, infatti, all’esigenza di dotare la pratica dell’«antifascismo militante» delle formazioni della sinistra extraparlamentare di un proprio mito fondativo, da affiancare a quello ormai sbiadito e sin troppo «istituzionale» della Resistenza. L’antifascismo militante era nato per contrastare il neo-squadrismo di fascisti vecchi e nuovi, che lo stato democratico utilizzava come manovalanza cui delegare il «lavoro sporco» nella repressione delle lotte operaie e studentesche, oltre che nel quadro della cosiddetta strategia della tensione. Ma i suoi riferimenti storici, nonché l’appellativo stesso di «antifascismo», rivelano come la sua funzione, sul piano tanto pratico che ideologico, andasse oltre il terreno della semplice «difesa proletaria», e si collocasse su un piano politico ben preciso: quello della difesa della democrazia (democrazia che peraltro in quegli anni, in Italia, non fu mai seriamente in pericolo). Inoltre, esso assolse a una funzione di polizia interna al movimento, volgendosi soprattutto contro le sue correnti più radicali (i cui aderenti erano invariabilmente bollati come «provocatori fascisti» e spesso oggetto di aggressioni fisiche da parte dei «servizi d’ordine» gauchiste). Ciò non stupisce se si pensa che, seppure con sfumature diverse, la matrice di pressoché tutti i gruppi della sinistra extraparlamentare era più o meno apertamente marxista-leninista.

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ospite ingrato

Luca Mozzachiodi, Preparando il Sessantotto

di Giuseppe Muraca

Luca Mozzachiodi, Preparando il Sessantotto: saggisti e scrittori nelle riviste della nuova sinistra (1956-1967), Pisa, Pacini Editore, 2024

a1968q.jpgLa crisi del marxismo e della sinistra avvenuta a partire dalla fine degli anni settanta hanno reso ormai lontana la stagione della Nuova sinistra, che dopo le opere di Giovanni Bechelloni (a c. di), Cultura e ideologia della nuova sinistra (1973), e di Attilio Mangano, Le culture del ’68 (1989) e L’altra linea (1992) negli ultimi trent’anni nella sua totalità e complessità raramente è stata oggetto dell’indagine storiografica. A rompere questo lungo silenzio ci ha pensato il giovane studioso Luca Mozzachiodi che ad essa ha da poco dedicato un libro molto importante, frutto di anni di lavoro, Preparando il Sessantotto: saggisti e scrittori nelle riviste della nuova sinistra (1956-1967). Le speranze, i drammi e le delusioni del 1956, «Ragionamenti» e la crisi dello stalinismo, «Officina» una rivista di transizione, il boom economico e le prime lotte operaie, Franco Fortini da Dieci inverni a Verifica dei poteri, Raniero Panzieri organizzatore politico e culturale e teorico marxista, il rinnovamento del marxismo e la nascita e il percorso delle riviste «Quaderni Rossi» e «Classe operaia», la fase pre-sessantottina dei «Quaderni piacentini», Cesare Cases allievo di Lukács, Renato Solmi studioso della Scuola di Francoforte e della nuova sinistra americana, Mario Tronti e l’operaismo, Alberto Asor Rosa e la critica al populismo: questi sono alcuni dei principali argomenti del libro, e tanto altro ancora. Un libro compatto, ricco di spunti e di riflessioni e rigoroso come pochi, che ricostruisce l’attività di quei piccoli gruppi di intellettuali militanti e organizzatori politici e culturali che dagli anni più duri dello stalinismo e della guerra fredda fino all’avvento del neocapitalismo e nel corso degli anni sessanta hanno speso le loro energie per affermare una linea politica e culturale diversa da quella della sinistra ufficiale, e che alla critica dello stalinismo, dello zdanovismo, del togliattismo e del marxismo nazional-popolare hanno unito l’impegno per una nuova cultura e un nuovo pensiero marxista basato sull’unità tra teoria e prassi, tra politica e cultura.

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Il caso del caso Moro, parte 4: Steve Pieczènik

di Davide Carrozza

whatsapp image 2024 08 28 at 13.01.26Ennesima puntata dell’approfondimento sulla saga più avvincente e al contempo più triste della nostra storia repubblicana: il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro avvenuto a Roma fra il 16 Marzo e il 9 Maggio 1978 ad opera delle Brigate rosse. Questa volta lo stimolo per scrivere una quarta puntata mi viene dato non tanto dai soliti lettori/detrattori che, forti della corazza complottista forgiata da decenni di saggistica spazzatura, argomentano su noti servizi, spie della NATO e della CIA, sicari della mala e altre sceneggiature da serie crime di basso livello. Questa volta, finalmente, la critica sorprendentemente costruttiva arriva da un collega, Dario Ventura, che avendo letto le 3 puntate precedenti mi muove un appunto che proverò a riassumere così: premesso che ti definisci oppositore di ogni tesi non sufficientemente argomentata e suffragata da comprovata documentazione, specie se mai confluita in alcuno dei 5 processi; premesso che difendi (senza ovviamente sposarne la causa e soprattutto senza sposarne i mezzi) l’autenticità della lotta armata e del tentativo rivoluzionario in Italia; premesso che critichi e ti opponi aspramente a ogni tesi che sostenga l’etero-direzione delle brigate rosse…premesso tutto quanto detto, allora perché sostieni che non si può negare che i servizi segreti abbiano avuto un ruolo nella vicenda? Non lo dice, ma leggo nei suoi occhi una velata accusa di mancanza coerenza. Il rilievo del mio collega arriva all’improvviso nel bel mezzo di una tranquilla colazione in cui si parlava di consigli di classe e dei nuovi schemi di gioco del Milan e della Roma…con non poco stupore e colto impreparato, capisco che c’è bisogno di una quarta puntata.

Il riferimento di Dario è al primo articolo della serie, quello in risposta ad alcune argomentazioni sostenute da Report di Rai 3 dove scrivo testualmente: alla luce della storia recente del nostro paese è impossibile pensare che i servizi italiani e/o americani siano rimasti completamente fuori dalla vicenda del rapimento e dell’uccisione dell’Onorevole Moro.

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marxismoggi

Palmiro Togliatti, a 60 anni dalla scomparsa

di Gianmarco Pisa

Screenshot 2024 08 22 alle 02.04.08.pngPer l’impegno e la lotta dei comunisti e delle comuniste in Italia, così come per alimentare e arricchire la riserva di forza teorica e di esperienza concreta del movimento comunista internazionale, la vicenda, teorica e politica, della direzione di Palmiro Togliatti, nella lunga stagione storica dal 1927 al 1964, resta un’eredità prospettica, di grande spessore e di vasta portata.

Per i comunisti e le comuniste italiane la lunga vicenda storica e la vasta eredità politica di Palmiro Togliatti (1893-1964) rappresentano un punto di riferimento ineludibile e un terreno di elaborazione, anche critica, indispensabile per irrorare di senso le «frontiere del presente». Si tratta di un lascito che muove in entrambe le direzioni, facendo eco proprio al motto togliattiano in base al quale, come comunisti e comuniste, «veniamo da lontano e andiamo lontano». Secondo la prima direzione, di carattere retrospettivo, il contributo più promettente dell’eredità di Togliatti, che riprende da Gramsci e sviluppa sino alle sue più compiute realizzazioni, consiste nell’aver fatto del marxismo e, in particolare, del leninismo, una vicenda anche, coerentemente, italiana, nell’aver «tradotto in italiano» la lezione dei precursori, a partire da Marx e passando per Antonio Labriola, nonché gli apprendimenti del pensiero di Lenin e degli sviluppi dell’Ottobre, e nell’aver innestato il marxismo e il leninismo dentro il percorso storico della vicenda nazionale nella sua «lunga durata». Il leninismo viene portato dentro la vicenda storica italiana e finisce per alimentare di senso l’impegno di comunisti e comuniste nel nostro Paese.

Secondo l’altra direzione, Togliatti fornisce un contributo preziosissimo nel proiettare la vicenda politica dei comunisti e delle comuniste verso il futuro, ponendo le basi per una elaborazione di vasto respiro e gettando le fondamenta di questioni, dalla democrazia alle prospettive della guerra e della pace, dal mondo diviso in blocchi all’orizzonte del multilateralismo e del policentrismo, che continuano a porre questioni all’agire dei comunisti nel tempo presente.

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sinistra 

Il tassello mancante

La collaborazione tra sionismo e nazismo

di Pietro Terzan

lfdklghkvtEsistono innumerevoli studi sul nazismo, sulla ricerca imperialista del suo spazio vitale e sulle teorie razziste che hanno portato come estrema conseguenza alla soluzione finale del “problema” ebraico. Molti di questi studi tendono a semplificare la realtà storica, utilizzando categorie della psicopatologia per spiegare le atrocità del nazifascismo, mettendo così in luce arbitrarie convergenze e affinità elettive con chi la croce uncinata l’ha sconfitta e spezzata, con chi era il vero nemico del nazionalsocialismo sin dai tempi del Mein Kampf. La storia viene dunque utilizzata e plasmata dall’attuale potere politico capitalista e neoliberista, viene revisionata, oscurando il profondo legame del nazismo con le insanguinate radici colonialiste europee, con l’imperialismo inglese, con le pratiche genocide e schiaviste della white supremacy nordamericana sui neri e i nativi americani. Non solo: le democrazie occidentali, con una serie di colpi di spugna e riscritture fantascientifiche, diventano le uniche paladine della libertà e della giustizia; contro ogni dittatura, hanno vinto la Seconda guerra mondiale e liberato da sole i campi di concentramento.1

In questa narrazione dominante, che di postmoderno ha veramente poco, a un vaglio critico preciso e a un’analisi dettagliata delle fonti, spuntano un po’ ovunque una serie di cortocircuiti, dubbi e ragionamenti che non tornano. In questo ennesimo periodo di barbarie guerrafondaia torna nuovamente attuale l’interrogativo comune: com’è possibile che gli eredi della Shoah, le vittime del più grande crimine contro l’umanità, compiano un vero e proprio genocidio manifesto? Come è possibile un rovesciamento così plateale dei ruoli? Nonostante tutto quello che ci hanno insegnato a scuola sulla memoria, nonostante il flusso di informazioni a disposizione, di bombardamento a tappeto di spiegazioni “dell’unica democrazia del Medio Oriente”, il primo impatto per chi affronta seriamente la tragedia del popolo palestinese non può essere che di spaesamento e incertezza.

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L’eterna strage di Bologna

di This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

1600x900 1627661856893 2021.07.30 Blu notte Strage di BolognaIl 2 Agosto del 1980 il destino del nostro paese fu irrimediabilmente segnato quando una bomba contenuta in una valigetta, abbandonata nella sala d’attesa della Stazione di Bologna, esplose uccidendo 85 persone e ferendone quasi 200. La strage di Bologna è l’evento luttuoso più grave in termini di perdite umane della nostra storia repubblicana. E’ l’apice del disegno criminale della complessa “strategia della tensione”. E’ il punto più alto della crudeltà umana consumata ai fini politici di complessi e occulti giochi di potere. Le strage di Bologna è una moltitudine di corpi che saltano in aria dilaniati sull’altare di un sacrificio che serve alla destabilizzazione dell’ordine democratico. Ma è anche una città che si ricompone nella sua dignità e si mobilita usando autobus, taxi e ogni mezzo a disposizione per soccorrere i feriti e trasportarli in ospedale, in un vero e proprio scenario bellico. La strage di Bologna è lo spartiacque fra un’epoca di sangue e di lotta politica e l’inizio del consumo e della supremazia della merce. Pochi giorni fa, nel silenzio di media e social, intenti come sempre a consumare quel che resta del nostro cervello, il boato di quello scoppio si è fatto sentire a più di 40 anni di distanza in un’aula di tribunale. E’ stata emessa lo scorso 8 Luglio, infatti, la sentenza d’appello che conferma l’ergastolo come esecutore materiale a Paolo Bellini e mantiene l’impianto accusatorio parallelo per i mandanti e i finanziatori, confermando la tesi sostenuta da molti storici sulla famigerata “strategia della tensione”. A meno di sorprese in Cassazione, ora si conoscono i nomi dei 5 esecutori materiali (di cui 3 già condannati in via definitiva in altri processi), ma soprattutto si conoscono i nomi di chi ideò, organizzò e finanziò l’atto più vile, meschino e infame del quale io abbia mai conosciuto l’esistenza.

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sinistra

Nestor Makhno

di Salvatore Bravo

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Nestor Makhno è stato un eroe della storia del comunismo anarchico ucraino. Divenne il catalizzatore della rivolta dei contadini e degli ultimi durante i primi anni della Rivoluzione russa. Nell’Ucraina devastata dagli interessi economici delle potenze egemoni e divenuta campo i battaglia tra tedeschi, russi bianchi e rossi e nazionalisti, egli fondò la prima nazione anarchica, la Machnovščyna con capitale Guliai-Polé, sorta tra il 1917 e il 1921 nel sudest dell’Ucraina. Il motto della nazione era “"Il potere genera i parassiti! Lunga vita all'Anarchia!". La stroria della prima nazione anarchica non è presente nei libri di storia ed è sconosciuta a molti. L’anarchia comunista divenuta realtà ha dimostrato che l’impossibile è possibile. L’impensabile è la comunità-nazione senza autorità e proprietà privata, la quale diventa realtà in un contesto di guerra, in cui si confrontano modelli sociali differenti sostenuti da forze materiali e ideologiche assai differenti. I contadini guidati da Nestor Makhno, benchè analfabeti comprensero collettivamente che la Rivoluzione russa e la caduta degli zar erano uno spazio di possibilità nel quale “giocarsi il futuro”. La libertà prima di tutto, quindi, la Rivoluzione finisce dove inizia l’autorità. Nestor Makhno nella sua ricostruzione della storia della Machnovščyna scritta in esilio in Francia fa dell’autoderminazione il nucleo della rivolta dei contadini. Egli stesso contadino conobbe l’artiglio dell’autoritarismo e le prigioni del potere.

Con il comunismo anarchico terminava la storia caratterizzata dal dominio e iniziava il regno della libertà con la gestione diretta e comunitaria delle decisioni politiche e dell’economia. All’inizio il movimento di liberazione della nazione anarchica cercava un modello a cui ispirarsi per questa esperienza inedita. Gli anarchici ucraini speravano nel ritorno di Kropoktin in Russia con la Rivoluzione, ma il “grande vecchio” riconobbe il nuovo potere e si limitò agli appelli umanitari.

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micromega

Il coraggio di fare storia oggi. Dialogo a distanza con Adriano Prosperi

di Paolo Favilli

Cosa significa fare storia nell’epoca del presentismo del capitalismo totale. Conferenza al festival Echi di storia 2024

978880625067HIG.JPGIl degrado dell’uso pubblico della storia

Voglio cominciare questo intervento riflettendo sulle implicazioni, fattuali e di metodo, derivanti da un’affermazione che Adriano Prosperi colloca quasi alla fine di quel libro del 2021 che è un po’ il filo rosso intorno al quale si articola tanta parte di questa nostra discussione.

Dice, dunque Prosperi:

La malattia della memoria degli anni recenti (…) ha fatto calare la nebbia dell’ignoranza e della falsificazione su valori, riti e date civili. Nel senso comune è la storia stessa che è apparsa come un vecchiume da abbandonare perché dannoso. È l’economia la scienza del futuro (il grassetto è mio). Invece la storia è un ammasso di vecchiumi. (…) [Il portato principale] della cultura [del] «presentismo»[1].

In queste poche righe dove viene delineato il «momento attuale» nel cui ambito si trova ad operare chi esercita il «mestiere di storico», emerge con chiarezza la contraddizione radicale tra la logica profonda, l’essenza stessa di quel «mestiere» e la cultura del «presentismo», cioè la negazione assoluta dell’analisi del «presente come storia». Sullo sfondo gli esiti del mutamento di «paradigma», una nuova «grande trasformazione» all’incontrario rispetto a quella studiata da Karl Polanyi. Una «grande trasformazione» che ha la sua radice non nel «pensiero, ma nelle «cose», nel rapporto complesso tra il «regresso nelle cose» e il «regresso del pensiero».

L’indicazione di Prosperi sulla rappresentazione del tutto ideologica dell’«economia» come «scienza del futuro» (e del presente dunque) ci permette di affrontare uno dei punti centrali di questo rapporto.

È proprio nell’analisi del «lungo presente» che si possono cogliere i nodi intrecciati di approcci epistemologici e metodologici innovativi e, nello stesso tempo, la loro sostanziale non incidenza nei dominanti cascami di quello che si è chiamato «uso pubblico della storia».

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marxismoggi

D-Day 2024

di Diana Johnstone*

53772078622 0d5c06a331 b.jpgGiudicando in retrospettiva, diventa chiaro come la “minaccia comunista” della Guerra Fredda non sia stata che un pretesto con cui le grandi potenze dell'Occidente cercavano maggior potere.

Lo scorso fine settimana si sono tenute delle celebrazioni in ricordo dell'Operazione Overlord, lo sbarco anglo-americano sulle spiagge della Normandia del 6 giugno 1944, noto come il D-Day. I russi, ostentatamente e per la prima volta, non sono stati invitati a prendere parte alle cerimonie.

L'assenza dei russi, dal punto di vista simbolico, ha mutato il significato dei festeggiamenti. Certo, il senso della glorificazione di Overlord come primo passo nel dominio sull'Europa Occidentale del mondo anglo-sassone risulta del tutto appropriato. Senza la Russia, tuttavia, l'evento veniva in realtà slegato dall'originale contesto della Seconda Guerra Mondiale.

In quell'occasione, il presidente ucraino Volodymir Zelensky è stato invitato a rivolgere un discorso, a mezzo video, al Parlamento francese. Zelensky ha utilizzato ogni strumento retorico per demonizzare Vladimir Putin, descritto come il “comune nemico” dell'Ucraina e dell'Europa.

La Russia, ha affermato, “è un territorio in cui la vita non vale nulla ... È il contrario dell'Europa, è l'anti-Europa.”

E così, 80 anni dopo, il D-Day celebra un'alleanza differente e una guerra differente - o forse, la stessa vecchia guerra, ma con il tentativo di cambiarne il finale.

Ecco un cambio di alleanze che avrebbe potuto essere gradito almeno a una parte dell'elite britannica pre-bellica. Fin dal momento in cui prese il potere, infatti, Hitler trovò molti ammiratori nell'aristocrazia britannica. Persino nella famiglia reale. Molti erano quelli che vedevano in Hitler il necessario antidoto al “giudeo-bolscevismo” russo.

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lantidiplomatico

Nativi. Come le riserve indiane ispirarono i campi di concentramento nazisti

di Raffaella Milandri

720x410c50buyvfiLa capacità dell'America di mantenere un'aria di robusta innocenza sulla scia della morte di massa dei Nativi Americani pare che abbia colpito Hitler come un esempio da emulare. Nel 1928, Hitler osservò, con approvazione, che i coloni bianchi in America avevano “ridotto i milioni di pellerossa a poche centinaia di migliaia”.

«L'illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari», diceva Antonio Gramsci. Aveva ragione, la storia non ha scolari che acquisiscano insegnamenti positivi ma, come vedremo, sono le ispirazioni negative e tragiche, invece, che spesso vengono riprese, replicate e “implementate”. Secondo molti studiosi, è questo il caso del trattamento riservato ai Nativi Americani e, in generale, delle leggi razziali statunitensi, tra cui le Leggi Jim Crow, che avrebbero quindi influenzato il regime nazista nella formulazione delle Leggi di Norimberga del settembre 1935.

Andiamo a vedere come.

Innanzitutto, occorre accennare all’ampio movimento dell’eugenetica, iniziato alla fine del XIX secolo, emerso nel Regno Unito, per poi diffondersi in molti Paesi, tra cui gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia (paesi guarda caso in mano ai colonialisti), e la maggior parte dei Paesi europei (come Svezia e Germania). Le politiche eugenetiche, razziste, erano volte a migliorare la qualità del patrimonio genetico delle loro popolazioni e vi aderirono eminenti personaggi come Sir Winston Leonard Spencer Churchill e Dwight D. Eisenhower. La supremazia in tali politiche toccava agli Stati Uniti, come afferma James Q. Whitman, professore alla Yale Law School: “All'inizio del XX secolo, l'America era la principale giurisdizione razzista del mondo”.

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machina

Sul fascismo e le sue metamorfosi

di Alberto Burgio

Schermata del 2024 03 20 15 27 28.pngVorrei dar seguito ai miei due interventi di «scatola nera» che hanno suscitato reazioni diverse, tutte feconde di ulteriori riflessioni. Credo che la sede opportuna di questa nuova riflessione sia «spigoli» perché vorrei a questo punto ragionare prendendo maggior distanza dagli accadimenti di questi mesi e anche di questi ultimissimi decenni.

Oggi vorrei tornare sulla questione del fascismo – del suo connotato essenziale, quindi dei suoi rapporti con la modernità, il capitalismo, il dominio borghese, lo Stato di diritto, la democrazia. Non mi dispiacerebbe concentrarmi in un successivo intervento sul problema del razzismo, riservando particolare attenzione alla tragedia specificamente moderna e specificamente europea dell’antisemitismo, riemersa con tragica attualità in connessione con il nuovo capitolo dell’infinita guerra israelo-palestinese (A.B.).

* * *

Due questioni

Nell’ultimo articolo pubblicato in «scatola nera» ho scritto che, dopo i 30-40 anni di reazione alle conquiste realizzate dal movimento operaio nel trentennio post-bellico, siamo in una fase di «neo-fascistizzazione» di buona parte dei paesi occidentali; e ho suggerito che la fase attuale è probabilmente la «verità» della precedente: non un semplice, transitorio, incidente di percorso. In questo senso la regressione verso regimi autoritari, «populistici» (pongo tra virgolette per l’ambiguità del termine), sostanzialmente post- o neo-fascisti in parte dell’Europa non dev’essere ottimisticamente intesa come un inciampo più o meno accidentale ed episodico, ma come un compimento, come l’istituirsi di un assetto stabile destinato a consolidarsi nel prossimo futuro.

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resistenze1

Le cosiddette "purghe di Stalin". Mito, realtà storica e contesto

di Thanasis Spanidis | kommunistische.org

stalinismo3 1Nel 1937-38, in Unione Sovietica scoppiò un'ondata di violenza che non si vedeva dai tempi della guerra civile. In questi due anni furono giustiziate oltre 680.000 persone e il numero di detenuti dei campi penali raggiunse il massimo storico di quasi 1,9 milioni nel 1938 (Getty /Rittersporn/Zemskov 1993, p. 1023).

Ancora oggi, questi eventi forniscono all'anticomunismo un modello popolare per bollare come criminale e assassino il periodo di costruzione socialista che Stalin ha contribuito a plasmare, o addirittura l'Unione Sovietica e l'idea comunista in generale. Ma anche all'interno del movimento comunista è ancora diffusa l'interpretazione secondo cui le repressioni sarebbero state semplicemente una conseguenza della ricerca del potere da parte di Stalin, che nel migliore dei casi ha fatto riferimento al contesto della minaccia internazionale negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale. Ad esempio, il defunto Robert Steigerwald (DKP), che tende a ritenere che tutti i condannati nei processi di Mosca, nell'affare Tukhachevsky e nelle repressioni di massa fossero innocenti. Una "quinta colonna" (cioè una cospirazione controrivoluzionaria di fronte all'imminente invasione nemica) non esisteva, "esisteva nelle 'confessioni' estratte con la tortura. Non c'era altro" (Steigerwald 2018). Il giornale Junge Welt ha pubblicato il 29 luglio 2017 un articolo di Reinhard Lauterbach dello stesso tenore: suggerì inoltre che Stalin aveva sistematicamente ucciso i suoi rivali e scatenato un terrore di massa mirato contro la società. A tal fine, aveva persino emesso delle "quote" di arresti e fucilazioni che la polizia segreta doveva rispettare (Lauterbach 2017).

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materialismostorico

Le controversie di una “storia sociale” del lungo Sessantotto italiano*

di Alessandro Barile - Università "La Sapienza" di Roma

Sessantotto manifestazione.jpgNel secondo Novecento italiano gli anni Settanta occupano un posto di assoluto rilievo storico, per molteplici e ovvie ragioni. Sono gli anni dell’assalto al cielo1 o del «paese mancato»2, a seconda dei giudizi, delle sensibilità, degli obiettivi della ricerca storica che si intreccia con l’impegno civile. Sono anni, dunque, su cui si è scritto tanto. La lotta armata, che di quegli anni ne è un poco l’epitome, ha vissuto le alterne stagioni di una pubblicistica intrisa di attualità, e quindi di passioni ancora brucianti, di ferite non rimarginate nell’uno e nell’altro campo3. La ricostruzione si è avvalsa spesso della testimonianza del “reduce”, poi della testimonianza della “vittima”. Vi è poi stata la sua “funzionalizzazione” attraverso la categoria del terrorismo, e quindi della criminalità politica4. Un taglio storiografico che, insieme a una sempre più raffinata (talvolta esasperata) precisione documentaria, ha portato con sé lo sfocarsi progressivo dei motivi generali che hanno reso possibile la durata, la profondità e la radicalità del lungo Sessantotto italiano. Non vi è (più) un deficit di informazione, quanto un (nuovo) deficit di interpretazione. Lungo questa parabola ora ascendente ora discendente, si è inserita dapprima la storia sociale5, poi lo sguardo “microstorico”6 a complicare ulteriormente il quadro attraverso spiegazioni antropologiche, se non direttamente psicologiche. Il trascorrere del tempo e l’inevitabile distanziarsi dagli eventi ha comportato il paradossale indebolimento della dimensione compiutamente politica della vicenda. Un fatto che distingue non solo la storia degli anni Settanta, interpretata secondo le categorie della devianza (una devianza ora irrisa, ora intrisa di pietas), ma l’intera storia del movimento operaio organizzato. E quindi – almeno in Italia – anche la storia del Pci, che di fatto prosegue lungo la china funzionalista che la riduce, da tempo, all’interno di una “politologia delle élite” che fa aggio su ogni caratterizzazione ideologica.

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machina

La resa dei conti

di Alberto Burgio

Schermata del 2024 02 04 15 00 42.pngNell'articolo di oggi, Alberto Burgio sviluppa i ragionamenti già espressi nel suo ultimo articolo «Salute al duce!». La reazione alle conquiste delle lotte operaie e del movimento operaio che si è sostanziata negli ultimi trenta/quaranta anni, arriva a compimento oggi con una radicalizzazione delle nuove logiche di dominio che si può comprendere come processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, ci dice l'autore. L'avanzata di Alternative für Deutschland in Germania e le riforme che sta portando avanti il governo Meloni sono, in tal senso, paradigmatiche.

* * * *

Approfitto dell’ospitalità di Machina per tornare sui temi trattati nell’intervento precedente e provare a svilupparli.

Chiarisco subito il punto: sono convinto che oggi in Italia (come in larga parte dell’Europa e dell’Occidente) sia in atto un processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, e che in questo processo giunga a compimento una fase (ultra quarantennale) di reazione organica alle conquiste che il movimento operaio e i movimenti anticoloniali avevano ottenuto nei «Trenta gloriosi» (sino alla metà degli anni Settanta).

Sul piano economico la reazione alle conquiste del movimento operaio e alle lotte anticoloniali nel trentennio post-bellico (conquiste salariali e politiche; in termini di diritti, indipendenza e influenza politica) si è basata (1) sulla mondializzazione del sistema di accumulazione, che ha disarmato il lavoro salariato e (2) sull’egemonia del capitale finanziario, che ha sradicato la sovranità economica degli Stati nazionali.

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carmilla

Il feticcio del Fronte Unico, la concretezza della Rivoluzione (e della controrivoluzione)

di Sandro Moiso

Graziano Giusti, Comunisti e Fronte Unico. Il “Biennio Rosso” e gli anni della politica del “Fronte Unico” in Italia (1918-1924), Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Milano 2023, pp. 573, 18 euro

Comunisti e Fronte unico cover.jpgCome si afferma nella quarta di copertina della recente ricerca di Graziano Giusti, pubblicata dalla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, «il termine “Fronte” è forse uno dei più usati – e anche abusati – in politica. Per l’uso che ne viene fatto in campo militare, esso richiama il concetto del “fare argine” contro il nemico, del porsi su una linea di efficace difesa per raccogliere le forze e passare successivamente al contrattacco».

Pertanto il Fronte Unico di cui si parla, come è possibile espungere dalle date, è quello intorno a cui si svolse un acceso e combattuto dibattito, sia a livello internazionale che nazionale, negli anni immediatamente successivi a due degli avvenimenti fondativi per le strategie politiche del XX secolo: la prima carneficina mondiale e la rivoluzione russa.

Dibattito aperto dalla convinzione, diffusa nella Terza Internazionale appena fondata, che tale strategia fosse la migliore o la più adatta per togliere dall’impasse l’iniziativa dei partiti comunisti appena formati o in via di formazione. Una tattica che, senza dichiararlo apertamente, andava nella direzione di accelerare la Rivoluzione in Occidente. Sia per liberare dalla schiavitù capitalistica milioni di proletari e lavoratori, che per superare l’isolamento in cui la neonata Unione Socialista delle Repubbliche Sovietiche era venuta a trovarsi durante la Guerra civile, inizialmente foraggiata dalle potenze occidentali tra il 1918 e il 1919.

A questo andava ad aggiungersi la controffensiva della parte avversa che, soprattutto in Italia e in Germania, iniziava ad affidare le sue sorti alle milizie del Fascismo italiano e dei Freikorps tedeschi, in cui avrebbero poi affondato le loro radici le formazioni paramilitari naziste.