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America Latina, la lezione di Ho Chi Minh
di Geraldina Colotti
Il colpo di stato in Bolivia mobilita e fa discutere. Come mai si è verificato proprio nel paese latinoamericano più lodato per la sua stabilità economica e per la crescita del Pil? E perché ha potuto spiazzare e obbligare all’esilio un presidente di provata esperienza sindacale e un vicepresidente le cui analisi hanno ottenuto l’ammirazione dei marxisti latinoamericani e non solo? Che fase sta attraversando l’America Latina? Che riflessioni possiamo trarne?
A trent’anni dal processo di “balcanizzazione”, seguito al terremoto dell’89, possiamo guardare all’America Latina come a un brulicante laboratorio di resistenza e sperimentazione, di offensiva e controffensiva, che si proietta oltre il continente, configurando i termini della lotta di classe per come si presenta nel quadro globale. L’America Latina appare oggi come una grande trincea, una sorta di linea rossa, variamente modulata, che si è opposta al dilagare del pensiero unico imposto dal gendarme nordamericano e dai suoi cantori, fin dagli anni immediatamente successivi la caduta del campo socialista.
Due, in estrema sintesi, i poli di resistenza emersi con forza nei primi anni Novanta e che hanno innescato conseguenze diverse, sia sul piano politico, sia su quello simbolico, nel continente latinoamericano e non solo. Due punti di frattura. Il primo, la ribellione civico-militare guidata da Hugo Chavez, ha avuto luogo in Venezuela il 4 febbraio del 1992 e poi il 27 novembre dello stesso anno. Il secondo si è verificato due anni dopo in Chiapas, uno stato del Messico meridionale che confina con il Guatemala e che per essere stato teatro di una rivolta indigena ha fatto a suo modo storia.
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Il cosiddetto problema ambientale
di Carla Filosa
Trattare le questioni ambientali separatamente dal processo storico che le ha determinate impedisce l’individuazione delle azioni positive o contromisure da intraprendere
Nella misura in cui l’interessamento generale ai problemi ambientali è diventato di moda, non si può fare a meno di affrontare l’argomento mentre si è stupiti, eufemisticamente, per le variegate forme ideologiche in cui questo viene isolato da ogni altro condizionamento storico, sociale, politico, economico, ecc.
Per privilegiare gli aspetti di fondo del cambiamento climatico, e cosa si deve intendere per ambiente, si è costretti a dare per scontato, almeno parzialmente, l’innumerevole elenco delle modalità e degli effetti registrati ormai da tempo da questi scienziati di tutto il mondo. Non solo loro, infatti, in antitesi agli interessi dei negazionisti alla Trump o alla Bolsonaro, si preoccupano per l’equilibrio del pianeta a causa del riscaldamento climatico e lanciano un allarme ai paesi e alle classi più povere del pianeta, da sempre più esposti a disastri ambientali di ogni tipo (innalzamento dei mari, uragani, tsunami, ecc.).
In questo breve excursus si dà credito quindi alle numerose analisi e relazioni degli scienziati del clima e dell’ambiente in generale, non tralasciando denunce di autorevoli politici o magistrati sui danni localizzati determinati da interessi oggettivamente criminali, mentre nel contempo si verifica che l’analisi scientifica marxiana è ancora la sola in grado di individuare le cause reali e complesse del degrado crescente degli assetti sociali e territoriali, estesi ormai a livello globale. La mistificante “autonomia” delle devastazioni presenti e future relative all’“ambiente”, da parte di un dominio economico che al contrario ne determina un progressivo accadimento in forme per lo più irreversibili, dev’essere pienamente smentita unitamente a tutte le legittimazioni e palliativi ideologici, escogitati per far fronte agli effetti senza intaccarne le cause, libere così di continuare a distruggere risorse naturali e esseri umani, inquinare aria, acqua e terreni.
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L'intento dei costituenti, il rispetto della legalità e... il problema della crescita e dell'occupazione
di Quarantotto
I. Mi trovo a fare la premessa introduttiva di un post creato da un insieme di commenti di Francesco Maimone. Un discorso che rientra tra i tanti che non vanno dispersi (e talora ho mancato nel tentare queste operazioni di valorizzazione della ricchezza, cognitiva e costituzional-legalitaria, racchiusa nei migliori interventi svolti sul blog. Ma le mie forze hanno un limite...).
La prima cosa che mi viene da dire riguardo al tema che tratta Francesco, collegato al precedente, post, è questa: una delle frasi fatte che più mi colpisce, per il suo ottuso autolesionismo, e la sua mediocrità ideologica e culturale, è quella che viene spesso, anzi direi in modo quasi automatico, attaccata alla affermazione "La Costituzione italiana è la più bella del mondo" (affermazione che, a sua volta, mi ha sempre visto diffidente, per la sua sospetta enfasi che, generalmente, nasconde una totale strumentalizzazione fuorviante dell'armonia complessa della Costituzione del 1948, o, peggio, l'assoluta ignoranza al riguardo).
La frase di replica in questione, di cui francamente non se ne può più, è "Ma la "tua" Costituzione non ti ha protetto da..." (di volta in volta, può essere la disoccupazione, l'approvazione di Maastricht, l'avvento dell'euro, dell'Unione bancaria, o qualsiasi altra grande sciagura che ha afflitto la nostra Patria negli ultimi decenni). Ed infatti la frase è espressa anche nella variante "Sì ma, la Costituzione più bella del mondo non ha impedito che...".
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“Basta con la sinistra moderata, serve radicalità per battere Salvini”
Giacomo Russo Spena intervista Fabrizio Barca
Applaudito alla kermesse del Pd, l’ex ministro e portavoce del Forum disuguaglianze e diversità auspica che Zingaretti inauguri una nuova stagione: “Si è aperta una lunga strada che prova a riportare – in una sinistra da anni egemonizzata dal neoliberismo – una cultura che vede la giustizia ambientale e sociale come i veicoli dello sviluppo. Certo, sarà una battaglia”. E poi aggiunge: “Bisogna porsi il problema di rappresentare i subalterni, solo così si sconfigge la destra”.
“Non è il tempo di essere moderati: bisogna affermare una radicalità positiva in contrapposizione alla radicalità della peggior destra. E per radicale non intendo la redistribuzione dei fondi ma di poteri, qui è la sfida”. Fabrizio Barca, da mesi, sta lavorando con il suo Forum disuguaglianze e diversità per strutturarsi sui territori e costruire ponti tra culture differenti che si ritrovano nell'articolo 3 della Costituzione: “Dietro il nostro progetto c'è una certa trasversalità dell'agire politico, siamo mettendo insieme le conoscenze dei mondi della ricerca e della cittadinanza attiva”. Da ActionAid alla Caritas, da Legambiente a varie fondazioni passando per l'associazionismo diffuso, si stanno sviluppando campagne per contrastare le enormi diseguaglianze presenti nel Paese. Un grande lavoro di accumulazione sociale che stride con la crisi, a sinistra, della rappresentanza. Su questo Barca non ha dubbi: “Chi non si pone il problema della rappresentanza dei subalterni, è il vero irresponsabile perché non fa altro che continuare a regalare consensi a Salvini”.
* * * *
I numeri ci consegnano un Paese in depressione e attanagliato da diversi mali: dall'emergenza disuguaglianze all'aumento della disparità Nord/Sud, dall'immobilismo dell'ascensore sociale alla precarietà diffusa e il working poor. Intanto la crescita economica va a rilento e l'Europa ci sta con il fiato sul collo. Caro Barca, siamo pagando le conseguenze dell'assenza di politiche industriali?
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Aspettando Di Battista (o Godot?) Di Maio colpito e affondato? Sardine?
Un antipasto
di Fulvio Grimaldi
Sardine: hors-d'oeuvre indigesto
Diceva Joseph Goebbels, il più grande propagandista della Storia dopo Paolo di Tarso, uno a cui gli indebitamente celebrati piazzisti italiani, Salvini e Renzi, stanno come Gianni Riotta a Pulitzer, “Quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola”. Frase infelice e si sa dove ha portato. A me viene quel prurito alle mani quando sento i media italiani, a tastiere e microfoni unificati, celebrare, come tutti copiassero lo stesso testo dal primo della classe, tipo il New York Times, o la CNN, tutti gli eventi che vedono rumoreggiare in piazza più di venti bambini e adolescenti. In tempi recenti, il fenomeno è andato accelerandosi e non c’è più fine al tripudio. Dai bravi giovani di Greta si è passati ai bravissimi di Fridays For Future e poi di Exctinction Rebellion, per tripudiare ora sulle ultrabravissime “sardine”. Chissà perchè a noi non succedeva, qualche decennio fa, ma erano invece mazzate, rodei di camionette e blindati. Vai a sape’. Ce la prendiamo con queste sardine colorate nel prossimo articolo, fra qualche giorno. Nel frattempo godetevi questa sublime espressione di arroganza, odio, intimidazione, violenza, totalitarismo, in linguaggio da bulli di seconda media, che è il “manifesto” ufficiale delle “sardine”. https://www.agi.it/politica/sardine-6596346/news/2019-11-21/
Buttare il bambino, tenere l’acqua
Qualche pensierino sul maxicasino dei Cinquestelle. Quanto è accaduto con le ripulsa dei cliccanti del MoVimento alla desistenza di Di Maio in Emilia Romagna e Calabria, rafforza l’impressione che ho avuto alla kermesse nazionale di Napoli.
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Lavoro di massa senza valore
di Norbert Trenkle e Ernst Lohoff
A prima vista, potrebbe sembrare che l'industrializzazione su larga scale dei paesi emergenti nel mercato mondiale - innanzitutto la Cina, l'India ed il Brasile, ma anche quella di altre regioni dell'Asia e dell'America Latina - fornisca le prove concrete che a livello mondiale non si può più parlare di una contrazione della sostanza del lavoro e del valore [*1]. Ma guardando la cosa più da vicino, tutto questo si rivela una mera finzione. Da un lato, se vista alla luce delle numerose perdite di posti di lavoro industriali nei paesi capitalisti del centro, ed ancor più nei paesi del defunto «socialismo reale», la crescita del lavoro di massa può essere relativizzata. Perfino in Cina, il paese del boom, a partire dagli anni '90 si registra un saldo negativo di quelli che sono i posti di lavoro industriali, fra l'altro perché il settore pubblico sottoproduttivo ha perduto più posti di lavoro di quanti ne siano stati creati nel settore privato [*2]. Questo fenomeno viene deliberatamente nascosto, dal momento che le imprese industriali pubbliche appaiono, viste attraverso gli occhiali ideologici del neoliberismo e quelli della sinistra tradizionale, come se facessero parte di un sistema differente, sebbene non rappresentino altro che è un'altra forma di valorizzazione nazionale capitalista. In realtà, in primo luogo, si tratta solamente dell'estromissione di queste imprese da parte di un capitale maggiormente produttivo.
Dall'altro lato - ed è questo il punto essenziale - il lavoro di massa nelle fabbriche del mercato mondiale, nelle imprese di subappalto, nelle fabbriche al nero dei paesi emergenti e nei luoghi di produzione a basso salario non rappresenta affatto in alcun modo una quantità di valore e di plusvalore così tanto elevata come si potrebbe credere a prima vista.
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Mes, il fondo salva-banche tedesche
di Claudio Conti
E’ il problema politico centrale, di dimensioni incommensurabilmente più grandi di quelli che la nostra “classe politica” è in grado di concepire (e stendiamo un velo pietoso sulla sedicente “sinistra radicale”…). Più passano i giorni, più la natura del Meccanismo europeo di stabilità si precisa come come “argine” a difesa di interessi nazionali e di classe molto precisi.
Niente a che vedere, insomma, con la pretesa di stabilire “regole uguali per tutti”. A punto che, come abbiano segnalato nei giorni scorsi, anche “europeisti” senza se e senza ma sono stati costretti a spiegare che il “nuovo Mes” è una trappola per alcuni paesi e una ciambella di salvataggio per altri. In dettaglio: va bene per Germania, Francia, Olanda, Finlandia e pochi altri, è una ghigliottina per l’Italia e gli altri Piigs (ma non solo per loro).
Ogni ora che passa c’è un altro “europeista” storico che se ne accorge. Tra gli altri, e questa è veramente una “sorpresa”, arriva persino Repubblica, che affida la sua critica ad Alessandro Penati (un “esterno”, per delimitare in qualche modo la portata della propria “conversione” in itinere).
Il meccanismo è complesso, sul piano regolamentare, ma per di più è comprensibile nella sua “strategia” soltanto se si riesce a tener presente le normali dinamiche “di mercato”. Le quali essendo presupposte come “naturali” non entrano mai nella definizione delle “regole” dei rapporti tra Stati. Ma esistono eccome; anzi, sono determinanti.
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Il funzionamento del Mes e le sue prospettive di riforma
di Vladimiro Giacchè
Audizione informale del dott. Vladimiro Giacchè, presidente del Centro Europa Ricerche presso le commissioni riunite V e XIV della Camera dei Deputati
“Con buona probabilità il combinato disposto delle modifiche in discussione sul Mes ingenererà una forte pressione al ribasso sui titoli di Stato italiani”. L’audizione parlamentare di Vladimiro Giacché, presidente del Cer (Centro Europa Ricerche).
Nel commentare la proposta di riforma del Mes, è utile premettere che l’Italia, secondo il noto studio di Reinhart e Rogoff, appartiene al novero dei Paesi che non sono mai incorsi in un default del debito pubblico in tempi di pace. Non altrettanto può dirsi di altre economie dell’Eurozona, quali in primis la Germania, ma anche l’Austria, il Portogallo, la Spagna e la Grecia. Il medesimo studio permette inoltre di constatare come il default del debito di Paesi economicamente avanzati sia un fenomeno estremamente raro e anzi mai verificatosi, con la sola eccezione della Grecia, negli ultimi 65 anni.
È importante tenere a mente questi dati di base, perché nella proposta di riforma del Mes l’attenzione appare concentrata soprattutto sull’eventualità di un rischio sistemico generato, all’interno dell’Eurozona, dal default del debito pubblico di uno dei Paesi membri.
Da questo punto di vista, il Mes costituisce un ulteriore rafforzamento delle regole che disciplinano la politica di bilancio dei paesi dell’Eurozona, muovendosi in perfetta linea di continuità con le modifiche apportate al Patto di stabilità nel 2012.
Alla luce di simile impostazione, e prima di scendere nella valutazione dei dettagli più tecnici, sui quali posso anticipare sin d’ora di condividere le argomentate perplessità già espresse in questa sede dal prof. Giampaolo Galli, occorre porsi due domande di fondo:
il Mes
1. è utile all’Eurozona?
2. è utile all’Italia?
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Le lotte operaie degli anni Settanta
di Sergio Bologna
Sabato 23 novembre, ore 11.00, al Macro Sergio Bologna terrà una lectio magistralis dal titolo Da Mirafiori alle Happy Hours. Il declino del conflitto e la sua necessità. A seguire una assemblea di discussione (con Peppe Allegri, Giso Amendola, Ilaria Bussoni, Papi Bronzini, Amedeo Ciaccheri, Ilenia Caleo, Roberto Ciccarelli, Elena Doria, Giovanna Ferrara, Dario Gentili, Roberto Giuliani, Gianfranco Guidi, Maria Rosaria Marella, Andrea Masala, Nicolas Martino, Cosimo D. Matteucci, Enrico Parisio, Rachele Serino, Stefano Simoncini, Serena Soccio, Giulio Stumpo, Lorenzo Teodonio, Viviana Vacca, Elvira Vannini). Per l’occasione pubblichiamo un estratto dal libro Il lungo autunno caldo, pubblicato dalla Fondazione Feltrinelli, gratuitamente scaricabile in versione e-book dal sito della Fondazione stessa
Dopo l’autunno caldo: le condizioni di lavoro in fabbrica
È opportuno seguire il filone della soggettività operaia, per capire meglio quel che succede in fabbrica dopo l’autunno caldo, la costituzione dei Consigli e l’elezione dei delegati. Con tutti i suoi limiti, era in atto una rivoluzione nella mentalità della massa operaia, che seguiva un suo percorso indipendente dalle strategie sindacali. Coglierne le caratteristiche richiede un’indagine a livello di base. Nel 1972 la Fiom lancia un’inchiesta tra i delegati, pubblicata nel ’74 con prefazione di Bruno Trentin. Che bilancio traggono i delegati dei primi due anni successivi all’autunno caldo?
Nella Prefazione, Trentin non usa mezzi termini: “Non siamo quindi solo di fronte alla crisi del padronato e dell’imprenditorialità italiani, ma a tutta una crisi politica, alla volontà o all’incapacità politiche di non tentare almeno un confronto [il corsivo è mio, N.d.A.] e un rapporto nuovo, che non sia quello subordinato, coi lavoratori e col movimento operaio”.
Sarà il leitmotiv del sindacato negli anni successivi: la controparte non vuole prendere atto del cambiamento dei rapporti di forza. Per gli operai intervistati l’unico cambiamento sta nel minore potere dei capi. Il punto dolente è invece rappresentato dalle condizioni ambientali.
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Perché sulla Bolivia è calato il silenzio
di Gennaro Carotenuto
Il golpe in Bolivia, con l’appoggio del sistema mediatico, ha abbattuto una dittatura che esisteva solo nelle fake news, ed è stato costruito per rappresentarsi come istituzionale e democratico, anche se “golpe democratico”, tanto più con i morti in strada e l’UNHCR che accoglie i rifugiati, è un ossimoro irricevibile.
Riassumiamo molto sinteticamente. La prima parte è stata costruita a partire dalla stigmatizzazione, distruzione dell’immagine, demonizzazione di Evo Morales, trasformato (qui la sua character assassination) in una specie di mostro for export, l’autocrate, il narcoindio (se non è razzista l’espressione “narcoindio”…). Rappresentato Evo Morales come il nuovo male assoluto, il secondo passaggio è stato far passare un governo legittimo come illegale (i presunti brogli che, nella sua preveggenza, la OEA ha denunciato da prima che accadessero e smentiti da fonti ben più autorevoli) e liberarsene con la violenza. Era il golpe che non c’è, almeno per i grandi media.
Ora siamo alla terza fase, quella della normalizzazione che implica la rappresentazione dell’ex-opposizione, trasformatasi in “governo di fatto”, come espressione pulcra e senza ombre di quella liberaldemocrazia occidentale così incapace di autocritica, quanto capace di gettare la croce addosso a chiunque le faccia ombra, come è accaduto in Bolivia e in America latina nel XXI secolo. Finora è andata loro bene. Hanno convinto tutti o quasi che non fosse un golpe e che tutte le responsabilità fossero esclusivamente dell’indio disubbidiente. Parliamoci chiaro: si sono allineati più o meno tutti. A parte Bernie Sanders, a quale politico conviene nel 2019 sprecare un tweet per difendere gli indigeni boliviani?
Ma la realtà può essere travisata solo fino a un certo punto. Il problema è che la loro “rivoluzione colorata”, quella per giustificare la quale la quale la OEA aveva messo nero su bianco che vi fossero imprecisati brogli gravissimi senza neanche aspettare metà scrutinio, si sia ben presto trasformata in un incubo di ex abrupto.
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Sei lezioni di economia
Intervista a Sergio Cesaratto
Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne)
Prof. Sergio Cesaratto, Lei è autore del libro Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne) edito da Diarkos: in che modo la teoria economica può aiutarci a spiegare la crisi europea e dell’euro, e il declino del nostro Paese?
La prima edizione delle Sei lezioni ha avuto un buon successo perché mostra come esistano diverse teorie economiche le quali ci portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni del libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si rifà ai grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla lezione di John Maynard Keynes (1883-1946), il grande economista inglese dello scorso secolo, e quella “marginalista” (o “neoclassica”) che domina il pensiero economico dalla fine del XIX° secolo. Tale dominio è stato in taluni periodi indebolito dalla critica Keynesiana, ma anche da quella del grande economista italiano Piero Sraffa (1898-1983) che ha riscoperto la visione degli economisti classici. La figura di Sraffa è ignota alla maggioranza degli italiani, persino da quelli colti. Eppure è una figura essenziale per il percorso intellettuale di studiosi come Wittgenstein e Antonio Gramsci. Keynes offrì rifugio a Sraffa, personalmente inviso a Mussolini, accogliendolo nel suo circolo più ristretto a Cambridge. Ed a Sraffa dobbiamo l’innesto di una clamorosa controversia che negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo scosse le fondamenta della teoria dominante. Sraffa dimostrò infatti i gravi errori concettuali del marginalismo che lo rendono una teoria analiticamente sbagliata. La controversia è nota come la “controversia fra le due Cambridge”, quella inglese e quella americana (sede del celebre MIT vicino a Boston). Ma protagonisti della Cambridge inglese erano dei giovani italiani, in particolare Pierangelo Garegnani (1930-2011) e Luigi Pasinetti.
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David Harvey, “Geografia del dominio”
di Alessandro Visalli
Questo piccolo libro di David Harvey raccoglie estratti di “Space of capital: towards a critical geography” del 2001 e contiene un efficace riepilogo di un modello interpretativo del capitalismo unito ad un interessante tentativo di sistematica estensione di questo alle determinanti spaziali. Lo sfondo principale nel quale il libro si colloca è una riflessione sulle meccaniche e le conseguenze del passaggio dal “fordismo” (ovvero catena di montaggio, organizzazione politica di massa e intervento dello stato sociale) alla “accumulazione flessibile” (definita come insieme del perseguimento di mercati di nicchia, del decentramento combinato con la dispersione spaziale della produzione, del ritiro dello Stato-nazione da politiche interventiste, insieme a deregolazione e privatizzazioni). Una transizione alla quale è connessa, come sostiene nella prima parte del testo, quella alle forme postmoderne di pensiero. Ovvero al culto dei frammenti, la perdita della ricerca della verità, e via dicendo.
Questa transizione riguarda l’ampliamento della normale tendenza del capitalismo all’accelerazione e alla riduzione delle barriere spaziali, ovvero a quella che chiama “compressione spazio-temporale” (telecomunicazioni, trasporto con i cargo, containerizzazione, mercati finanziari, information technology, …). Il punto centrale dell’esposizione è che questa accelerazione pone in particolare rilevanza le “rendite di monopolio”[1], ovvero quel valore che può essere estratto dal possesso di caratteristiche distintive e speciali. Tutti quei flussi di reddito che possono essere ottenuti grazie ad un controllo esclusivo su un oggetto negoziabile che, però, non sia per qualche ragione replicabile (almeno facilmente). Oppure (effetto indiretto), per le caratteristiche uniche di qualcosa che non viene direttamente commercializzato (ad esempio, il paesaggio senese).
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Bolivia: anatomia di un colpo di Stato
di Alessandro Peregalli
La Bolivia è sprofondata in una crisi devastante lo scorso 20 ottobre, data delle elezioni presidenziali e legislative. Si è chiuso così il periodo di maggior stabilità politica della sua intera storia indipendente; le mobilitazioni e proteste in tutto il paese mostrano uno scenario ancora aperto che ha portato, il 10 novembre, alle dimissioni e del presidente Evo Morales e del vice-presidente Álvaro García Linera, e al loro esilio in Messico. Immediatamente, due narrative opposte si sono affermate per leggere gli eventi, tanto in Bolivia come a livello internazionale: da un lato, la sinistra, legata al “primo presidente indio” Morales, o riconducibile ai suoi alleati internazionali (di sinistra o meno, dal Messico al presidente in pectore argentino Alberto Fernández, dalla Cina alla Russia), ha affermato che si sia trattato di un classico golpe de Estado, che ha fatto fuori un presidente legittimo e legalmente rieletto e che è stato orchestrato dal Dipartimento di Stato americano, dalla CIA e dall’oligarchia boliviana. Dall’altra, la destra, tanto interna come internazionale (da Trump a Bolsonaro, e con la complicità dei “sinceri democratici” dell’Unione Europea e del partito democratico americano, con l’eccezione di Bernie Sanders), hanno sostenuto che si sia trattato della rimozione legittima di un “dittatore” che aveva falsato le ultime elezioni per farsi rieleggere.
In realtà, ciò che ha reso più complicato questo tipo di polarizzazione è stato l’emergere, nella sinistra libertaria e di matrice autonomista, di uno spettro di posizioni critiche allo stesso tempo tanto del governo di Evo come delle pulsioni classiste, misogine e coloniali emerse all’interno del movimento di protesta contro di lui.
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L'”ammazza stati” bussa alla nostra porta
di Redazione Contropiano
In calce un articolo di Guido Salerno Aletta
Mettiamo da parte rapidamente la sceneggiata politica tra vecchi e nuovi complici sulla “scoperta” che l’Unione Europea sta per varare una “riforma del Mes” (il Meccanismo europeo di stabilità) che certamente impatterà in modo devastante l’economia nazionale, il risparmio dei cittadini e il sistema bancario. Tutto in un colpo solo.
Ha aperto i fuochi Salvini, ha fatto sponda l’imbarazzante Di Maio, li ha stanati Giuseppe Conte con una velenosa “chiamata di correo” (“Oggi abbiamo scoperto che c’è un negoziato che è da un anno in corso: il delirio collettivo sul Mes è stato suscitato dal leader dell’opposizione, lo stesso che qualche mese fa partecipava ai tavoli discutendo di Mes, perché abbiamo avuto vertici di maggioranza con i massimi esponenti della Lega – quattro incontri – e ora c’è chi scopre che era al tavolo ‘a sua insaputa’).
In sintesi: l’Italia ha dato il suo consenso di massima a questa “riforma” già a giugno (governo gialloverde) e l’ha confermata pochi giorni fa (governo giallorosa). Tutti d’accordo e al servizio dell’Unione Europea quando siedono al governo, tutti all’oscuro e contrari quando fingono di fare l’opposizione, come patetici leoni da tastiera.
Chiusa la parentesi ridicola, occupiamoci ancora un volta del merito di questa “riforma”, visto che ieri è stata oggetto sia di un illuminante editoriale di Guido Salerno Aletta – pubblicato dall’Agenzia TeleBorsa, non da un oscuro blog nazionalista – sia dell’audizione di Vladimiro Giacché presso la Commissione Finanze del Senato.
Il primo esamina da par suo le conseguenze finanziarie immediate dell’adozione della nuova normativa: “perdite astronomiche ai risparmiatori ed agli investitori sui titoli di Stato, ed un guadagno certo e sicuro agli speculatori”. Come altre volte, ripubblichiamo il suo editoriale qui di seguito.
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Trump contro tutti: la lunga marcia verso le presidenziali
Intervista a Stefano Graziosi
La corsa alle presidenziali statunitensi del prossimo anno deve ancora entrare nella sua parte più calda ma è già duramente combattuta tra il fronte democratico in cerca di una sintesi tra le sue diverse anime e quello repubblicano oramai completamente identificato col Presidente Donald J. Trump. Quali sono le principali dinamiche da tenere in considerazione nella marcia di avvicinamento al 2020 elettorale americano? Ne abbiamo parlato con un attento osservatore degli States, Stefano Graziosi. Nato a Roma nel 1990 Graziosi si è formato studiando Filosofia tra Pisa e l’Università Cattolica di Milano e collabora con diverse testate tra cui Lettera 43, Panorama e La Verità. Nel 2018 ha pubblicato con le Edizioni Ares il saggio Apocalypse Trump, con prefazione dell’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli.
* * * *
Ciao Stefano e grazie della tua disponibilità. Il 2020 non è ancora iniziato ma la corsa alle presidenziali statunitensi è già aperta. Rispetto al 2016, Donald Trump parte con ben altri pronostici, forte della presenza alla Casa Bianca. I tre predecessori di Trump sono stati rieletti, è possibile per lui confermarsi? In prospettiva, ritieni che i trend politici riescano a far presagire dei temi elettorali che saranno dominanti nel 2020? Trump non rischia un contraccolpo nel caso in cui i successi economici degli Usa, suo principale cavallo di battaglia, calassero vistosamente nei prossimi mesi?
Grazie a voi. La storia americana insegna che, fermandoci almeno agli ultimi quarant’anni, i presidenti che non vengono riconfermati sono quelli che riscontrano seri problemi in termini di politica economica.
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Elena Ferrante. La vita bugiarda degli adulti
di Stefano Jossa e Viviana Scarinci
Ferrante mon amour
di Stefano Jossa
È possibile confrontarsi con la Ferrante (con l’articolo al femminile perché è un brand: come la Lego e la Coca Cola) senza risultare invidioso se la si critica, gregario se la si celebra e vigliacco se la si ignora? Per provarci, ho indossato simultaneamente i panni del critico, che guarda sospettoso, e del lettore, che s’immerge appassionato, fondendo due identità in una. Comincerò quindi da quella del critico, che crede di aver individuato la chiave per leggere La vita bugiarda degli adulti, passando subito dopo a una dichiarazione di amore sviscerato per la sua scrittura, che mi ha fatto leggere il suo nuovo romanzo, come i quattro precedenti, tutto d’un fiato.
Nel romanzo c’è due volte, alle pagine 132 e 142-3, una sequenza di un triplice io, che rivela la natura del libro: una lunga confessione intimistica, in presa diretta, dell’esperienza di crescita di un’adolescente, che si trova ad affrontare il cambiamento del suo corpo, la fine della sua famiglia e la scoperta del sesso. Non diventerà adulta se non simbolicamente, alla fine del libro, che già sembra preludere a un successivo. Al centro c’è lei e solo lei, come si addice a un’adolescente, ma soprattutto con l’occhiolino rivolto al lettore, che si sente voyeristicamente abilitato a farlo anche lui, un racconto simile della propria vita, in prima persona e al passato. Nell’era del narcisismo di massa, quale strategia più vincente per raggiungere il numero più alto possibile di lettori? Chi non ha mai scritto un diario, o desiderato di farlo?
Lei è Giovanna, Giannì, come la chiamano tutti, ma soprattutto è Elena Ferrante, un nome di cui non si può che essere invidiosi, per il successo che ha e il mistero che l’avvolge, che le consentono di essere libera: libera da vincoli di appartenenza, libera dai ricatti del mercato, libera dai condizionamenti del chiacchiericcio intellettuale.
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Sardine
di Alessandro Visalli
E’ bello quando molte migliaia di persone escono di casa, spinte dall’urgenza di esprimere un sentimento ed esprimere se stesse. È in sé un gesto politico? Potrebbe esserlo, ma cosa designa come nemico? Questa mi pare una delle domande più importanti da porre al fenomeno in corso.
Provare a rispondere richiede, però, un piccolo percorso.
La prima domanda che ci dovremmo fare è: che cosa fondamentalmente sta succedendo? Ci sono molti modi di provare a rispondere, si sta ovunque disintegrando il consenso che dal dopoguerra reggeva un sistema sociale prima che politico, gerarchico, fondato su una promessa di crescita e protezione. La traccia più evidente di questa disgregazione è la perdita di legittimità verso tutte quelle élite che rendono leggibile e coerente l’ordine sociale liberale, e consentono il posizionamento in esso. Tra queste (insieme agli scienziati, i giornalisti, i professori tutti) le classi politiche sono in primo piano. La ragione probabilmente principale di questa enorme ondata di discredito, che il movimento nascente delle “sardine” conferma, più che contrastare, come lo confermava quello dei “gretini”, e, qualche anno fa “i girotondi”, è il tradimento della promessa di benessere, e con essa della promessa di eguaglianza di riconoscimento.
Ma proprio qui c’è una linea di fattura, perché non proprio tutti sono stati traditi, e non nello stesso modo. Ci sono almeno due gradienti rilevanti, la densità relazionale che circonda ognuno di noi e la disponibilità di risorse. Chi è povero di entrambe è respinto da questo assetto sociale al margine invisibile, chi ricco di entrambe non è stato tradito, ma è beneficiario dell’ordine sociale liberale.
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Marx circuìto da Bellofiore
di Leo Essen
Più delle teorie della crisi, più dei temi della reificazione e dell’alienazione, dopo un secolo e mezzo di polemiche, di esegesi e confutazioni, l’argomento della discordia è ancora il Plusvalore. Il vero luogo della tempesta, dice Bellofiore (Marx rivisitato), è il Terzo libro del Capitale, con la sua trasformazione dei valori in prezzi. Se questo argomento è ancora al centro di un grande interesse, e se il capitale cerca con ogni mezzo di confutarlo è perché, dice, vuole nascondere la propria origine nel lavoro.
Il capitale non è un dato che può essere presupposto, ma è un risultato. Dunque, la sua origine deve essere spiegata. Il capitale non è un fattore della produzione, non è una cosa, non è un’entità intelligibile o una costante. Il capitale ha una storia, ha un inizio e avrà una fine. Ma, soprattutto, il capitale ha un inizio che si reitera ad ogni ciclo. Si tratta di un inizio che non è dato una volta per tutte in una certa epoca determinata, ma è un inizio che si impone e ritorna a ogni ciclo di valorizzazione del capitale. Il denaro non si trasforma in capitale una tantum, ma ha bisogno di alienarsi per l’acquisto di forza-lavoro, ad ogni ciclo, perché solo il capitale variabile ha la potenza di valorizzarlo. Di più, solo il capitale variabile lo vivifica, lo attualizza, lo mette in circolazione, lo fa essere qui o là, in questo o quest'altro investimento effettivo.
Questa sola circostanza – la reiterazione – dovrebbe mettere a tacere ogni pretesa che vorrebbe far ricadere sul genio, sul merito, sulla fortuna, sulla furbizia, eccetera, la causa dei piccoli e grandi patrimoni accumulati da alcuni.
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Il clown senza padre
di Sergio Benvenuto
Intervento tenuto al convegno Il padre oggi, 26-27 ottobre 2019, presso la Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma. Il convegno è stato organizzato dall’IPRS (Istituto Psicoanalitico per la Ricerca Sociale) e dall’IREP
1.
Il film Joker di Todd Phillips, che circola attualmente in Italia, è tratto dai fumetti di Batman, ma in realtà è ispirato sia al romanzo di Victor Hugo L’uomo che ride, sia al film V for Vendetta di James McTeigue.
Il protagonista di Joker, Arthur, è un giovane comico fallito, con ricoveri psichiatrici nel suo pedigree, che si adatta a fare il clown di strada. Questo quasi-psicotico vive da sempre con la madre stramba, non ha mai conosciuto suo padre. A un certo punto Arthur si convince, credendo a rivelazioni della madre, di essere il figlio di un grande magnate, Thomas Wayne (questo è il nome del padre di Bruce Wayne, alias Batman, nei famosi fumetti; un padre assassinato). Wayne si candida a sindaco di Gotham, alias fumettistica di New York. La madre sostiene di essere stata l’amante di Wayne da giovane e di aver avuto da lui Arthur, figlio che il padre non ha riconosciuto. Ma secondo un’altra versione, Arthur sarebbe stato adottato dalla madre, che da piccolo avrebbe abusato di lui, fino a finire lei in manicomio. Non sapremo mai, fino alla fine del film, se Wayne è davvero il padre di Arthur o no. Arthur è marcato come figlio di NN.
Arthur, una sera, spara a tre yuppies che lo aggrediscono in metropolitana e li uccide. Si diffonde la voce in tutta l’America che uno mascherato da clown è l’assassino dei tre brokers. Ben presto questo clown giustiziere diventa un eroe per la massa dei diseredati di Gotham, che protestano contro il potere indossando tutti una maschera da clown che ride. È interessante che tutti i mascherati da clowns siano uomini. L’intera città è messa a ferro e fuoco da migliaia di clowns. Arthur, che nel frattempo ha ucciso la madre e varie altre persone, viene riconosciuto come l’assassino dei tre yuppies e glorificato dai clown ribelli. Nel frattempo un uomo, anch’egli mascherato da clown, uccide Wayne. Non dico il finale.
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Contro natura! Il valore e la distruzione ambientale
Una prima proposta per un’ecologia politica critica e radicale
di Riccardo Frola e Dario Padovan
Questo testo è apparso per la prima volta come postfazione al libro “Le avventure della merce”, di Anselm Jappe, ed.Aracne, 2019
Le Avventure della merce, il libro che viene qui presentato modestamente dall’autore come un tentativo di «riassumere l’essenziale della critica del valore», è in realtà molto più. Circolato anche in Italia, nella sua versione francese acquistata più o meno avventurosamente in Francia dai lettori più attenti, il libro è stato effettivamente per anni (ed è ancora) l’unico riferimento per chi volesse avere un quadro completo della più radicale delle teorie critiche. Ma proprio questo “quadro completo” è in realtà la rappresentazione di qualcosa che, nella sua fisionomia integrale, non esisteva prima del libro. È un contributo originale e inedito dell’autore. Jappe ammette che, prima delle Avventure, nessun testo presentasse «la critica del valore nella sua integrità». Noi aggiungiamo che questa integrità, basata su un metodo che parte «dall’analisi più semplice […] per arrivare in seguito, andando per gradi dall’astratto al concreto, fino all’attualità e alle tematiche storiche, letterarie o antropologiche», è in buona parte il frutto di quell’«eccellente livello teorico di pensiero» che già Guy Debord (Debord, 2008) aveva riconosciuto precocemente all’autore delle Avventure.
Ma il libro non è soltanto la premessa necessaria ad ogni studio serio della critica del valore. Anselm Jappe (Jappe, 2019, p. 20), infatti, invita il lettore ad «entrare nella stanza in cui sono custoditi i segreti più importanti della vita sociale», soprattutto per mettere la critica del valore di fronte alla prova della contemporaneità e ai suoi problemi più urgenti. Il messaggio più importante del libro è forse proprio quello racchiuso nella convinzione che questi problemi, anche quello più legato alla quotidianità, non possono essere risolti senza attraversare il “deserto” (Jappe, 2019, p. 16) della teoria, in tutti i suoi aspetti, anche quelli apparentemente più aridi.
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‘La nostra vita all’ombra delle stelle e strisce’
A. Aresu e L. Caracciolo intervistano Pietro Craveri
LIMES La Prima Repubblica nasce e muore con la guerra fredda. In quella fase, l’Italia è un semiprotettorato americano. Condivide questo giudizio?
CRAVERI Francesco Cossiga è stato il primo a formulare il giudizio di un’Italia «semiservente». Un giudizio radicale giunto alla fine della guerra fredda come contraccolpo alla situazione interna, politicamente sempre più debole. È difficile non condividerlo. Nel corso della Prima Repubblica, dal 1946 al 1992 l’Italia è parte integrante della sfera d’influenza americana, cercando tuttavia di ritagliarsi i suoi spazi, di difendere i suoi interessi. Talvolta con successo.
LIMES L’Italia esce dalla seconda guerra mondiale sconfitta e umiliata. La sua costituzione geopolitica è il trattato di pace del 1947, che sancisce la catastrofe, malgrado la retorica pubblica che ci vorrebbe riscattati agli occhi dei vincitori dalla Resistenza.
CRAVERI Infatti il problema di Alcide De Gasperi e del suo ministro degli Esteri Carlo Sforza è mitigare le conseguenze del trattato di pace, che segna la condizione geopolitica di partenza della Prima Repubblica. Al Congresso di Parigi del 1946, De Gasperi riesce a chiudere solo la questione altoatesina, perché aiutato dal ministro degli Esteri sovietico Molotov. I sovietici avevano problemi in Austria, dove si trovavano di fronte un governo filo-occidentale. Su tutti gli altri fronti, nel dopoguerra immediato l’Italia è isolata: dagli inglesi filo-jugoslavi sull’Istria, ai francesi che non ci aiutano affatto, anzi cercano di sottrarci dei territori.
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A 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino
Una riflessione marxista
di Compagno Pier
Esattamente trent’anni fa, il 9 Novembre 1989, accadde un evento di fondamentale importanza: la caduta del Muro di Berlino. Tale data simbolica, nonostante essa si riferisca prevalentemente agli eventi che portarono all’estinzione della Repubblica Democratica Tedesca e all’unificazione della nazione teutonica, contiene e rappresenta un significato molto più ampio, i cui esiti si ripercuotono nella società ancora oggi. Questo giorno viene celebrato ed accolto con gaudio dai media nostrani, i quali identificano questa data come «la fine della dittatura totalitaria comunista» e come «la prova oggettiva del fallimento socialista e della vittoria del capitalismo, unico sistema economico sostenibile». «La libertà ha vinto» esclamano in coro le principali testate occidentali, ben consapevoli che con questa data non si celebra solamente una mera riacquisizione da parte dei popoli orientali di questa famosa “libertà”, parola millantata e falsificata dai liberali , bensì viene soprattutto celebrata la libertà dell’occidente capitalista, che non aveva più sistemi economici con i quali competere (ora invece lo spauracchio degli americani è la Cina), di portare avanti quel processo di deregulation, costante finanziarizzazione dell’economia che ha causato l’evoluzione di una nuova forma di capitalismo, molto più aggressiva e feroce rispetto a quelle precedenti.
Il 9 Novembre del 1989 costituisce quindi uno spartiacque nella storia contemporanea: mediante la legittimazione fornita dai presunti insuccessi del cosiddetto socialismo reale applicato in Unione Sovietica e nelle democrazie popolari dell’Europa orientale, l’élite capitalista mondiale ha sfruttato la debolezza del movimento socialista e proletario per poter accelerare la transizione ad uno spinto ordoliberismo.
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ESM (2): la volontà del popolo italiano? Tabula rasa
Un popolo di "pagatori" per il moral hazard altrui
di Quarantotto
1. Per capire, senza essere trascinati nel gorgo delle grandiose costruzioni inerziali della propaganda orwelliana (adeguatamente testabile ogni giorno), abbiamo bisogno di punti di riferimenti.
Cioè di chiare enunciazioni circa i fondamenti istituzionali, cioè i contenuti normativi fondamentali, la cui "interpretazione autentica" fornisce l'indicazione della volontà politica e degli interessi economici che caratterizzano il dover essere della società in cui ci si trova assoggettati. Sudditi, non cittadini dotati della benché minima capacità giuridica di esercitare diritti politici, il primo dei quali è l'elettorato attivo e passivo, che possano in qualche modo determinare l'indirizzo politico fondamentale e quindi l'esistenza di un'autorità di governo che ne risponda secondo le regole della democrazia.
E il primo di questi riferimenti, parlando di sostenibilità, "rischio" e ristrutturazione del debito pubblico, non è ciò che potremmo pensare noi, - che, per definizione non conta nulla, essendo ridotti a vuota forma i diritti politici - ma quello che dicono loro, €SSI, senza alcuna remora.
2. Ci riportiamo all'intervento di Benoît Cœuré(sul sito BCE, datato 3 novembre 2016) già riportato qui, p.6.1. (Keynote address by Benoît Cœuré, Member of the Executive Board of the ECB, at Harvard University's Minda de Gunzburg Center for European Studies in Cambridge, MA, 3 November 2016). Sempre negli USA si manifesta il "meglio" di certe dottrine economiche...):
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Le lunghe radici di un tramonto*
Intervista a Gian Mario Cazzaniga1
Oggi, in particolar modo nei paesi anglosassoni (con Corbyn e Sanders2), stiamo assistendo a un rinnovato interesse nei confronti dell’idea di socialismo. All’interno di tale processo, attivisti e intellettuali di diverse provenienze politiche e nazionali manifestano fascinazione, ma al tempo stesso sconcerto, rispetto alla tradizione della sinistra italiana, in particolar modo alla storia del Partito comunista italiano. Può quindi immaginarsi fin da subito quale possa essere la prima domanda che venga in mente a un interessato interlocutore straniero.
Com’è che voi, che eravate così bravi, siete finiti così male? (risata). Esattamente. Proviamo a specificare. Cosa rimane del Gramsci politico e della sua creatura, il Pci? Quali sono i principali motivi della sua caduta in disgrazia? Possono essi spiegare la timida ascesa e il rapido declino di Rfondazione comunista, nonché l’attuale deserto politico nella sinistra italiana3?
Partiamo dall’episodio cruciale dello scioglimento. Quando, a seguito della proposta di Occhetto, iniziò una discussione all’interno del Pci sullo scioglimento del partito e sulla sua trasformazione in un nuovo soggetto politico, le resistenze rispetto a tale prospettiva furono abbastanza forti, e pur tuttavia difendevano un’idea di partito che certamente era esistito in passato, ma che non corrispondeva più alla sua configurazione del momento. D’altra parte, vi fu sicuramente qualche ragione se una larga maggioranza del suo gruppo dirigente perseguì un certo tipo di scelte, anche con una certa coerenza. Occorre quindi rivedere la storia del partito nelle sue diverse fasi, a partire dalla riforma togliattiana del 1944-45, per capire che cosa abbia fatto la grandezza del Pci e che cosa motivi anche la sua evoluzione successiva. Una parabola che, sebbene possa risultare più chiara agli storici, certamente non è stata compresa dal corpo centrale dei suoi iscritti e militanti.
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La trappola delle clausole di salvaguardia
L’austerità si fa ma non si dice
di coniarerivolta
La stagione della manovra ha un linguaggio tutto suo. Puntualmente, verso l’inizio di ottobre, si inizia a parlare di obiettivi di deficit e debito, di “manovre da tot miliardi”, di “sterilizzazione delle clausole IVA”. Un cittadino interessato potrebbe trovarsi disorientato dalla massa di informazioni che viene riversata sulle pagine internet e amplificata dagli studi televisivi, ma soprattutto dal lessico degli “addetti ai lavori”, che spesso nasconde vere e proprie trappole, volte a nascondere l’essenza, ormai stabilmente recessiva e antipopolare, delle diverse manovre che si succedono nel tempo. Cerchiamo, dunque, di fare ordine e di capire il significato che si nasconde dietro il gergo, per nulla innocente, degli amministratori dell’austerità.
Partiamo dal principio. Di cosa parliamo quando discutiamo la manovra economica? La Legge di stabilità – la nuova denominazione che nel 2009 fu attribuita alla legge finanziaria – era la legge ordinaria che regolava la politica economica nazionale per il triennio successivo, coerentemente con gli obiettivi programmatici fissati nel Documento di Economia e Finanza (DEF). Insieme alla legge di bilancio, la legge di stabilità costituiva il principale strumento dell’intervento pubblico nell’economia. Parliamo al passato perché dal 2016 queste due componenti – la legge di stabilità e la legge di bilancio – sono confluite in un unico testo legislativo, la nuova legge di bilancio (!). Tanto per rendere le cose più semplici ai non addetti ai lavori, ancora oggi questo documento unico viene semplicemente chiamato finanziaria o manovra economica.
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