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Il diritto al futuro contro il capitalismo della sorveglianza
di Roberto Ciccarelli
Il plusvalore estratto dalla forza lavoro nel capitalismo delle piattaforme ha meccanismi che arrivano a condizionare l’identità personale. Analisi critica del libro, ancora non tradotto, di Shoshana Zuboff: “The Age of Surveillance Capitalism. The fight for a human future at the new frontier of power”.
Shoshana Zuboff ha scritto un libro importante di filosofia politica e critica dell’economia politica digitale: The Age of Surveillance Capitalism. The fight for a human future at the new frontier of power (Profile Books. pp. 691; L’epoca del capitalismo di sorveglianza: la lotta per un futuro umano sulla nuova frontiera del potere). È un libro necessario che racconta la storia terribile e urgente di cui siamo protagonisti e offre strumenti contro il nuovo potere. Considerato il fatto che non è stato ancora tradotto in italiano, propongo una guida al libro e una lettura critica delle cinque tesi principali.
0. Che cos’è il capitalismo della sorveglianza
1. Un nuovo ordine economico che configura l’esperienza umana come una materia prima gratuita per pratiche commerciali nascoste di estrazione, predizione e vendita;
2. una logica economica parassita nella quale la produzione delle merci e dei servizi è subordinata a una nuova architettura globale della trasformazione comportamentale degli individui e delle masse;
3. una minaccia significativa alla natura umana nel XXI secolo così come il capitalismo industriale è stato per il mondo naturale nel XIX e XX secolo;
4. una violenta mutazione del capitalismo caratterizzata da una concentrazione della ricchezza, conoscenza e potere senza precedenti nella storia umana; (…);
5. l’origine di un nuovo potere strumentale che afferma il dominio sulla società e presenta una sfida impegnativa alla democrazia di mercato (corsivo mio); (…)”. (p.1).
1. Il capitalismo della sorveglianza è un nuovo ordine economico che configura l’esperienza umana come una materia prima gratuita per pratiche commerciali nascoste di estrazione, predizione e vendita.
Il capitalismo di sorveglianza trasforma l’esperienza in “materiale grezzo gratuito”. Tale materiale è estratto da un corpo, descritto come una “carcassa”, è raffinato, reso intelligente e trasformato in dati comportamentali.
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Il populismo socialsciovinista bianco, l’Europa e la ricolonizzazione del mondo
L’emergere di una democrazia bonapartista postmoderna e plebiscitaria e la rivolta “sovranista” contro la Grande Convergenza
di Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)
Presento qui la postfazione a un’antologia di testi di Domenico Losurdo dal titolo Imperialismo e questione europea, curata da Emiliano Alessandroni e in uscita presso La scuola di Pitagora. Ringrazio “Dialettica e Filosofia” per avermi consentito di anticiparlo e diffonderlo in Open Access
Abstract
Il mito transpolitico di un superamento epocale delle categorie di destra e sinistra copre in realtà l’esito ultimo di un gigantesco processo decennale di concentrazione del potere che ha determinato la fine della democrazia moderna e l’avvio di una fase di sperimentazioni di forme postmoderne di democrazia. Analogamente, la rivolta populista dei ceti medi e della piccola borghesia, che risponde a una crisi di legittimazione delle “caste” politiche, economiche e culturali europee, è in primo luogo la copertura di una furibonda guerra interna alle classi tra élites stabilite liberoscambiste e élites outsider protezioniste, le quali ultime contestano il consensus universalista e liberaldemocratico imponendo un nuovo consensus particolarista e riconducendo il liberalismo alle proprie origini conservatrici. Questa rivolta è però anche la reazione alla Grande Convergenza del mondo ex coloniale e a quel catastrofico management della crisi (l’Austerity per i poveri) attraverso il quale il capitalismo in Occidente ha scaricato sulle classi subalterne i costi della redistribuzione globale del potere e della ricchezza, scatenando risposte xenofobe indotte e un socialsciovinismo di massa che sta finendo per erodere quanto rimaneva della sinistra novecentesca.
* * * *
1. Una gigantesca concentrazione di potere neoliberale nel solco del bonapartismo postmoderno
È stato notato come l’Italia abbia spesso svolto il ruolo di un laboratorio capace di anticipare tendenze che si sarebbero manifestate in seguito anche in altri paesi, segnando a volte un’intera epoca storica.
Lo è stata e forse lo è ancora sul piano intellettuale, come ha rivendicato Roberto Esposito già negli anni Ottanta e di nuovo più di recente, rinviando ai nomi di Machiavelli e Vico e a una costante spinta di mondanizzazione resasi infine esplicita nel concetto di biopolitica1. Ma possiamo dire che lo sia stata e lo sia anche sul piano politico in senso stretto e cioè su quello delle forme della governance e, ancor prima, delle forme del conflitto.
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Immigrazione: una navigazione tra bassa criminalità, calcolato cinismo, falsità e ipocrisia
di Michele Castaldo
Un nuovo fatto di ordinaria criminalità compiuto nei confronti degli immigrati, quello di utilizzare l’episodio della “forzatura del blocco navale” da parte di Carole Rachete con la Sea Watch 3, per attaccare gli immigrati con una violenza pari alle forze politiche di destra, che Salvini ben sintetizza.
Nessuna meraviglia, ci mancherebbe, se una Meloni invoca l’affondamento della nave incriminata; quando si dice che l’animo femminile è più sensibile, più umano, perché materno, ovvero la quota rosa della carognata. Non che ci voglia molto per provare disprezzo per Salvini, Meloni et similia. Qualche domanda andrebbe posta anche al M5S, ma è tempo perso, sono troppo stretti nella morsa che il potere, quello vero, dell’economia del paese, gli ha stretta al collo.
È perfettamente inutile disquisire sulle leggi dei mari e dei porti, sui diritti territoriali o umani, non è mestiere di chi è di parte, da entrambe le parti: tra chi difende comunque il diritto dei più deboli contro chi si affanna a sputare su di essi, a vivere della loro miseria, del loro sfruttamento, del loro lavoro.
Trafficanti di esseri umani?
Si. Ha ragione Salvini: c’è un traffico di esseri umani. Cui prodest? A chi giova l’immigrazione, non certamente agli operai, che si ritrovano un concorrente in casa; non giova ai disoccupati per la stessa ragione. Giova al capitalismo nel suo insieme e ai capitalisti italiani di tutta la scala piramidale: piccoli, medi e grandi di tutti i settori in modo particolare di quelli in crisi. Questa semplice verità non viene mai messa in luce perché è troppo complicato spiegare che molti paesi africani sono stati invasi per decenni e rapinati delle loro risorse e oggi si cerca di scaricare la crisi, che l’Occidente sta attraversando, ancora su di essi alimentando, come in Libia, guerre fratricide con lo scopo di continuare, da un lato, a rapinare il petrolio e, dall’altro lato, favorire l’emigrazione in massa verso i lidi europei in cerca di fortuna. Lungo il cammino di loro vita, per raggiungere il sospirato Occidente, l’Europa o gli Usa, incrociano quelli che si prestano al lavoro sporco di caricarli su barconi di fortuna e arrivare sulle coste più vicine all’”Eldorado” e una parte di essi trova la morte senza mai raggiungere una riva.
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Rosa Luxemburg e la sinistra
di Salvatore Bravo
Destra e Sinistra
La differenza tra destra e sinistra di governo si assottiglia fino a renderle perfettamente speculare, per cui la sinistra annaspa e si lascia strumentalizzare dalla destra in una pericolosa e complice relazione biunivoca. Porre il problema della differenza significa rendere palese la paralisi programmatica e politica, ed il congelamento nella storia attuale. La sinistra è flatus vocis, siamo in pieno nominalismo, la sinistra di governo risponde alla funzione del capitale, anzi lo blandisce, non è solo dimentica di sé, si lascia colonizzare, diviene parte attivo del dispositivo anonimo del capitalismo assoluto.
La presenza puramente formale della sinistra, nella storia occidentale attuale, ha la sua causa “principale-immediata” nella caduta del muro di Berlino (1989), dopo la caduta dei paesi a socialismo reale non vi è stato che un lungo frammentarsi per adattarsi al capitale, per rendersi visibile e spendibile sul mercato del voto. La sconfitta storica ha palesato un’altra verità: il progressivo emergere del nichilismo economicistico delle sinistre. La sconfitta è l’effetto della verità profonda della sinistra, ovvero il progressivo svuotarsi di un progetto, dell’umanesimo per un accomodarsi curvato sull’economia della sola quantità, per cui l’avanzamento della cultura liberista ha trovato un mondo simbolico già disposto all’economicismo, al verticismo del potere, all’antiumanesimo. Il capitalismo di stato dei paesi a socialismo reale non è stato antitetico, ma competitivo al capitalismo liberista, le destre del capitale sono avanzate su un terreno già arato, pronto a prediligere la quantità sulla qualità, la propaganda all’attività soggettiva consapevole.
Non tutta l’esperienza è stata nefasta, ma il “tradimento culturale” rispetto ai grandi propositi teoretici ed ideologici ha indotto gli elettori a scegliere l’autentico (capitalismo liberista) rispetto all’imitazione (capitalismo di stato).
Per poter riaffermare la differenza tra destra e sinistra mediata dalla condizione storica attuale, non è sufficiente affermare che destra e sinistra sono categorie vetuste, dovrebbero essere riformulate con nuovi contenuti, è necessario l’esodo dagli steccati ideologici. Ricostruire le posizioni ideologiche è operazione lenta e faticosa nella quale lo strato teoretico incontra la prassi.
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Vorrei poter chiedere a Pasolini
di Norberto Natali
La mancanza di Pasolini mi pesa sempre di più quando sento, per esempio, parlare Saviano. Due figure opposte.
Il grande poeta friulano sapeva farci misurare con i nostri punti di vista con l’abilità -direi da grande artista- di ricorrere alla provocazione graffiante, mai banale né fuorviante, con un sapiente uso del paradosso e dell’iperbole. Riusciva sempre a non lasciarci assopire sugli stereotipi accomodanti verso cui voleva indirizzarci il moderno potere borghese, riusciva a farci domandare cosa ci fosse veramente dietro le apparenze superficiali (e che futuro preparassero).
Come dimenticare l’imprevedibile difesa dei poliziotti figli dei contadini meridionali (quindi della disoccupazione e della povertà provocate dal fascismo e non risolte dalla DC) o certi discorsi “corsari” i quali, apparentemente, sembravano snobbare l’antifascismo ma in realtà servivano ad evitare che questo divenisse un comodo alibi per il potere.
Soprattutto non posso dimenticare la lezione di “Petrolio” e quando diceva (dovremmo ricordarcene tutti, oggi) di sapere che i criminali fossero al potere pur senza averne le prove.
Ovviamente, bisogna utilizzare questa sua eredità sapendo che si tratta degli interventi rapidi ed “educativi” di colui che era, in primo luogo, un grande poeta e come tale ci parlava della realtà. Sarebbe un errore interpretare alla lettera quelle sue incursioni morali, come fossero una posizione o, peggio, un programma politico: è evidente che egli fosse contro la repressione e la sua violenza, così come era un antifascista degno fratello di un partigiano ed un sostenitore convinto e fermo -lo è sempre stato- del PCI.
Lui scrisse una toccante cronaca -da par suo- dei funerali di Di Vittorio che era, in realtà, un tributo alla grande folla di lavoratori, di poveri ed emarginati che si erano radunati per l’ultimo saluto al “capo” della CGIL, in un certo senso un loro eroe.
Chissà se Pasolini confermerebbe (come vuole oggi parte importante della stampa e degli intellettuali, anche della politica) che la “capitana” tedesca protagonista delle cronache di queste settimane, là nella terra di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, può essere considerata una specie di eroina della causa dei poveri e degli oppressi, della lotta contro la prepotenza e la corruzione degli sfruttatori.
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Ragioni e migrazioni
di Miguel Martinez
La polarizzazione comporta il rifiuto di immaginarsi che l’altro possa avere delle ragioni.
Eppure a volte mi sembra che abbiano tutti delle ragioni; o comunque accettare questa possibilità è l’unico modo possibile per iniziare una riflessione su cosa fare: io sono convinto che stiamo vivendo il momento più importante della storia dall’estinzione dei dinosauri, e perdere tempo a litigare è suicida e criminale, insieme.
Quando dico tutti, intendo innanzitutto i migranti stessi, cui di solito nessuno pensa; poi quelli che tifano per il Capitano Salvini che ci salva dagli immigrati e quelli che invece tifano per la Capitana Rackete che salva gli immigrati.
Cito un episodio di cronaca di cui nessuno si ricorderà tra qualche mese, ma che ha diviso gli italiani in due schieramenti urlanti e totalmente incapaci di ascoltarsi a vicenda (i migranti non li ascolta nessuno per principio).
Partiamo dalle ragioni dei migranti.
Quello che una volta chiamavano “Terzo Mondo” è un po’ a chiazze: in Nigeria c’è chi ordina la pizza in aereo da Londra.
Ma per non rendere troppo lungo il discorso, chiamerò Terzo Mondo quella parte del mondo da cui la gente tende a emigrare di corsa, se solo può.
E perché tende a farlo?
Dodici anni fa (mi sento un po’ Cassandra, pensando a cosa è successo poi nel 2011) scrissi qui:
Quando il sole arde forte sull’Egitto e fa salire verso il cielo l’odore onnipresente dei rifiuti, i giovani – ragazzi spesso di una straordinaria ma sprecata autodisciplina, curiosità e intelligenza – si trovano a milioni nei caffè, con un’unica certezza: ma fish mustaqbal, “non c’è futuro“. E hanno, ovviamente, ragione.
Esiste però una magra consolazione: tutti sanno che c’è un Egitto degli egiziani, un posto ancora più caldo, devastato, afflitto dalla miseria e ancora più privo di qualunque speranza.
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Partito e classe dopo la fine della sinistra
di Alessandro Visalli
Questa, relazione, firmata da Carlo Formenti e Alessandro Visalli, è stata presentata all’Assemblea: “Oltre la sinistra. Lavoro, sovranità, autodeterminazione”, tenutasi a Roma il 15 giugno presso il Circolo dei Socialisti alla Garbatella.
Il testo di lancio dell’Assemblea recitava:
Dopo il lancio, a marzo, del Manifesto per la Sovranità Costituzionale il campo in formazione del neo-socialismo patriottico ha subito le tensioni della fase in corso. La frattura tra coloro che sono connessi al sistema-mondo capitalista (mondo finanziario, reti industriali transanzionali, segmenti superiori dell’economia della conoscenza), e coloro che restano ai suoi margini, respinti nelle tante periferie del nostro paese, è stata rimossa da alcuni in favore di un’immaginaria frattura tutta morale tra destra e sinistra. Per altri la ricerca del consenso, e la fretta di intercettarlo, ha prodotto un’interpretazione del ‘populismo di sinistra’ come mera tecnica, priva di un’analisi all’altezza della durezza dello scontro in essere.
Noi crediamo che il conflitto sia tra i ‘centri integrati’ nel mercato mondiale, organizzati gerarchicamente, e le ‘periferie’ che sono nella posizione di essere sfruttate da questi. E crediamo che questo conflitto apra una frattura insanabile che attraversa diagonalmente l’intero campo del capitalismo. Esso crea fenomeni interconnessi come l’estendersi della precarietà, l’erosione della capacità di sostenere una vita decente, il degrado fisico delle nostre città, periferie e campagne, l’abbandono dell’ambiente e il saccheggio indiscriminato, di risorse e uomini del mondo.
Noi crediamo che non si possa assumere una posizione politica all’altezza del presente guardando ai fenomeni separatamente. Vanno visti come una configurazione unitaria fenomeni come il violento ordine europeo, lo svuotamento sistematico delle capacità dello Stato di proteggere i cittadini, la gara per attrarre - spesso in posizione subalterna – capitali privati, attività e lavoratori nelle aree forti, la tragedia dell’emigrazione ed immigrazione che squilibra sistematicamente le nostre società.
Noi crediamo che assumendo una lettura moralista e solo culturale di ciascun singolo fenomeno, nascondendone il carattere sistemico, le soluzioni vengano allontanate.
Per questo crediamo che sia venuto il momento di abbandonare le stantie abitudini di quella sinistra che, uscita sconfitta alla chiusa del XX secolo, abbandonata dal suo popolo (dopo avergli voltato le spalle), si è rifugiata dal nemico, o si è rinchiusa in una critica di tipo moralistico o libertario (perdendo la dimensione di emancipazione collettiva e retrocedendo su vaghe istanze di liberazione individuale). Questo atteggiamento è parte importante della sconfitta del 26 maggio.
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Carola e Matteo: il teatro sul mare
di Piotr
Una nave della ONG Sea Watch recupera al largo della Libia poche decine di immigrati. Rifiuta l'invito della guardia costiera libica (quella del traballante - e pure fantoccio - Governo di Unità Nazionale di al-Sarraj) a dirigersi verso il porto di Tripoli. E' il più vicino, ma va da sé che non è il più sicuro (almeno da un punto di vista politico-militare). E qui iniziano le interpretazioni. Già, perché che cosa significa “più sicuro”?
Non so se vi ricordate, ma il governo spagnolo affermò ai tempi del caso Aquarius che “la Spagna non è il porto più sicuro, perché non è il più vicino, come dovrebbe essere secondo la legge internazionale”. Quindi la qualifica “sicuro” in quel caso era interpretata come un corollario di “più vicino”.
Il capitano tedesco della Sea Watch 3, Carola Rackete, non accetta per via della sua (ovvia e condivisibile) interpretazione del termine “più sicuro”, ma non va nemmeno verso il porto “più vicino” di Tunisi. Punta invece dritta a Lampedusa.
La Sea Watch, come la Sea Eye e poche altre ONG hanno navi che vanno su e giù davanti alla costa libica e sembra che tengano aggiornata la loro posizione su Facebook (non sono riuscito a verificare), che così sarebbe conosciuta dai trafficanti d'uomini che là inviano le loro carrette negriere. Fatto sta che la Sea Watch 3 non ha raccolto “naufraghi”, ma persone che dall'Africa “vogliono” venire in Europa. Non necessariamente in Italia. Ci faremo raccontare da un africano cosa bisogna intendere con quel “vogliono”.
La reazione dell'Europa, in base ai vecchi accordi, è che questi immigrati li deve gestire il porto di prima accoglienza. Ovvero: l'Italia quelli che arrivano via mare (a causa del “più vicino-più sicuro”) e la Grecia per quelli che arrivano via terra. Sì, proprio quella Grecia martoriata dalla Troika a maggior beneficio delle banche tedesche e francesi, che mentre vede il tasso di bambini indigenti salire inesorabilmente deve anche accollarsi masse di immigrati che nessun altro in Europa vuole.
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Podemos torni a fare opposizione
Eoghan Gilmartin e Tommy Greene intervistano Manolo Monereo
Nelle elezioni generali di aprile, Unidos Podemos era andata sopra le aspettative, pur avendo perso circa un terzo dei parlamentari rispetto alla tornata elettorale precedente. Ma alle europee ha riportato sconfitte significative su tutti i fronti. Nelle «Città senza paura», ad eccezione di Cadice e con difficoltà Barcellona, la sinistra spagnola ha subito un ulteriore colpo, non è riuscita riconquistare città come Madrid, Santiago de Compostela e Saragozza.
* * * *
Nel 2015 abbiamo assistito alla vittoria di una serie di coalizioni locali radicali in diversi municipi in tutto il paese, mentre a livello nazionale Podemos minacciava di soffiare l’egemonia a sinistra al Psoe. Dopo la perdita di consensi di Podemos nelle elezioni politiche, la sconfitta di maggio subita dalle coalizioni radicali in molti municipi è sembrata una conferma della fine del momento post-Indignados nella politica spagnola. Come spiegheresti la fase di risacca di questo movimento?
Per spiegarlo dobbiamo considerare gli sviluppi di due movimenti differenti. Il primo copre un ciclo più lungo, ed è legato alla reazione democratica della società spagnola alla rottura del contratto sociale dopo la crisi del 2008. Il movimento degli Indignados aveva richieste simili a quelle di Occupy Wall Street, ma [a differenza del movimento americano] riuscì a mobilitare milioni di persone, dando vita a un vero e proprio movimento di massa fondato sull’alleanza tra una gioventù precaria e una generazione più vecchia, politicizzatasi durante il passaggio alla democrazia negli anni Settanta. La generazione di mezzo fu meno attiva.
Grazie soprattutto all’intelligenza e all’audacia di Pablo Iglesias, così come a quella di Ada Colau, questa indignazione è riuscita a esprimersi in maniera politicamente organizzata. Nel 2014, l’ingresso di Podemos nella vita politica ha portato, a sua volta, all’apertura di un secondo ciclo, più piccolo, nel quale le élite hanno provato a neutralizzare la minaccia al regime esistente.
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La riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità: come si perfeziona l’austerità
di coniarerivolta
La crisi che ha messo in ginocchio l’Italia insieme all’intera periferia d’Europa si sviluppa su due livelli. Un primo livello è quello della lotta senza quartiere contro i diritti e i salari dei lavoratori, una battaglia che ogni giorno erode pezzi di stato sociale sotto la scure dell’austerità, retribuzioni e tutele del lavoro date in pasto all’accumulazione del profitto, tempi e ritmi di vita sacrificati sotto il ricatto della precarietà. Questo è l’aspetto del problema di immediata percezione, quello che molti di noi sperimentano sulla propria pelle, che incide direttamente sulle nostre vite. Il secondo livello è caratterizzato dal fatto che questa lotta di classe contro i lavoratori non è improvvisata ma si articola in una strategia. E le strategie, come ben sappiamo, si disegnano a tavolino e poi si traducono in azioni coordinate. Esiste, dunque, un piano della crisi in cui lo sfruttamento viene organizzato, in cui il dominio esercitato dai mercati sulle nostre vite definisce le istituzioni necessarie alla sua realizzazione, un piano che in questa parte del mondo assume la forma storica dell’Unione Europea, dei suoi trattati, delle sue regole e dei suoi strumenti operativi. Vale la pena, ogni tanto, sollevare lo sguardo dalle nostre battaglie quotidiane e provare ad anticipare le mosse del nemico; provare a decifrare i piani di chi lo sfruttamento lo impone dall’alto per essere in grado di opporre al sistema basato su povertà, precarietà e disoccupazione una strategia politica altrettanto solida e articolata – per passare, al momento giusto, al contrattacco.
Per questo è utile analizzare il disegno di riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) discusso nei giorni scorsi dall’Eurogruppo (l’organo che riunisce i Ministri delle finanze dei 19 Stati che adottano l’euro) e destinato a perfezionare ulteriormente il dominio dei cosiddetti mercati sulla politica, e dunque sull’organizzazione della nostra società, attraverso un più capillare e pervasivo sistema di controllo delle economie nazionali da parte delle istituzioni europee. Il MES è la versione più recente del ‘fondo salva Stati’ istituito in varie successive configurazioni per gestire la crisi del debito pubblico, a partire dalla Grecia nel 2010.
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La natura delle contraddizioni in seno al governo
di Domenico Moro
Come era facile aspettarsi, dopo le elezioni europee le contraddizioni all’interno del governo si stanno divaricando. Infatti, il ribaltamento dei rapporti di forza tra i due partner, M5S e Lega, sta dando luogo a un confronto senza esclusione di colpi su molte tematiche centrali. Ma va precisato che le forze in campo sono tre, perché, oltre a M5s e Lega, gioca un ruolo di rilevo anche l’altra componente del governo, quella che, sotto la supervisione del Presidente Mattarella, comprende il ministro degli esteri Moavero e soprattutto quello decisivo dell’economia e delle finanze, Giovanni Tria.
Rispetto alle elezioni politiche, i Cinque stelle hanno quasi dimezzando la loro quota percentuale, mentre la Lega l’ha raddoppiata, passando da terzo a primo partito nazionale. Quindi, è naturale che il leader del M5s, Luigi Di Maio, cerchi di riprendersi l’iniziativa politica che gli era stata sottratta da Salvini su due temi, l’Europa e soprattutto l’immigrazione. Dall’altro lato, Salvini si trova nella situazione di chi ha accumulato un enorme vantaggio e si chiede come e quando capitalizzarlo. Del resto, l’elemento dominante nella fase politica attuale è la mobilità dei consensi con milioni di voti che si spostano con grande facilità. La situazione è ingarbugliata, perché, se i Cinque stelle devono andare all’attacco per recuperare le loro posizioni, tirare troppo la corda può condurre alle elezioni, che molto probabilmente sancirebbero il loro arretramento, anche se non bisogna dimenticare che le elezioni politiche sono competizioni elettorali diverse da quelle europee. La Lega potrebbe volere nuove elezioni, ma per far cadere il governo deve trovare la motivazione giusta agli occhi degli elettori, senza contare che, svanita ogni possibilità di coalizione con il M5s, si porrebbe il problema di come e con chi formare una nuova coalizione, con il possibile rientro in gioco di Berlusconi. Inoltre, a complicare la situazione c’è la perdurante debolezza del Pd che non sarebbe ancora in grado di costituire una alternativa né all’attuale governo né al centro-destra.
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La "Questione nazionale" nel XXI secolo
di Alessandro Pascale
«L'emancipazione della classe operaia deve essere l'opera della classe operaia stessa» (Karl Marx) [1]
Da quando esiste il socialismo scientifico i comunisti sanno che l'obiettivo primo della loro azione pratica deve essere la conquista del potere politico. Per giungere a tale obiettivo tutti gli autori fondamentali (da Marx a Gramsci, da Lenin a Mao, ecc.) concordano sul fatto che il partito comunista debba saper coniugare patriottismo ed internazionalismo.
Anche se è più nota l'affermazione che «gli operai non hanno patria», Marx ed Engels precisano nel Manifesto del Partito Comunista:
«ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale [nell'edizione inglese del 1888 si precisa “classe dirigente della nazione”, nota di Luciano Gruppi], costituirsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch'esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia». [2]
Inoltre «sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all'inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia». [3]
Non è un caso infatti, come sottolinea Domenico Losurdo nel suo monumentale La lotta di classe [4], che tutte le rivoluzioni socialiste siano nate dalla capacità di coniugare la salvezza della nazione in rovina con un programma radicale di trasformazioni sociali. E che già Marx ed Engels perseguissero «non solo la liberazione/emancipazione della classe oppressa (il proletariato), ma anche la liberazione/emancipazione delle nazioni oppresse» [5], ricordando l'appoggio che diedero alle oppressioni subite dai polacchi e dagli irlandesi. Il sostegno ai movimenti nazionali locali viene dato nonostante vi partecipino anche esponenti della nobiltà. Ciò perché «se il proletariato è il protagonista del processo di liberazione/emancipazione che spezza le catene del dominio capitalista, più largo è lo schieramento chiamato a infrangere le catene dell'oppressione nazionale» [6]; nel caso irlandese, Marx fa coincidere la “questione sociale” con la “questione nazionale” [7].
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Immigrazione, gingoismo ed “esercito industriale di riserva”
di Eros Barone
Generalmente, il caos è il disordine esistente tra l’ultimo ordine di cui si è a conoscenza e l’ordine futuro ancora da realizzarsi. E’ una fase pericolosa e incerta, nella quale ogni elemento di solidità sembra sgretolarsi…Sebbene il caos sia in genere una fase difficile e faticosa, è anche dinamica, una fase di grande creatività e sviluppo.
Sun Tzu, L’arte della guerra.
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Immigrazione: dati reali e percezione
Com’è possibile che l’immigrazione, a dispetto della sua modesta consistenza e relativa incidenza se paragonata ad altri paesi europei come la Francia, l’Inghilterra e la Spagna, abbia assunto un rilievo così sproporzionato nell’agenda politica del governo, dei ‘mass media’ e, a partire da qui, nella percezione e nella sensibilità della maggioranza della popolazione italiana?
Il primo dato da considerare è l’entità del fenomeno: tra regolari e irregolari, gli immigrati presenti nel Bel Paese sono (dati ISTAT), all’incirca, 6 milioni, ossia il 10% sul totale della popolazione, quindi una percentuale e un dato assoluto che, in un paese moderno che è la sesta o settima potenza mondiale, non dovrebbe giustificare la sindrome da ‘invasione’ paventata e/o indotta ad opera di determinate forze politiche e sociali.
Sennonché, stando ai sondaggi demoscopici che sono stati effettuati, 1 l’Italia è il paese europeo dove lo scarto tra i dati reali poc’anzi citati e la percezione soggettiva espressa dagli intervistati è in assoluto il più ampio. Basti pensare che i cittadini intervistati percepiscono l’esistenza di una percentuale di immigrati che assomma a più del doppio (esattamente il 25%) di quelli risultanti dai dati reali. Orbene, di fronte alle dimensioni (sia reali che immaginarie) di questo fenomeno sono possibili e concretamente osservabili due tipi di reazione: la prima è quella di chi, attenendosi al dato numerico della consistenza e incidenza tutto sommato modeste del fenomeno, arriva tranquillamente a negare che tale fenomeno costituisca un problema; il secondo tipo di reazione è quello di chi, riflettendo sullo scarto tra i dati e la percezione, ritiene corretto supporre che il problema relativo all’immigrazione sia molto più ampio e profondo di quanto appaia dalle sue dimensioni statistiche.
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Discussioni sull’Italia: lotta nazionale e/o lotta di classe?
di Alessandro Visalli
Moreno Pasquinelli ha deciso di replicare al mio pezzo sulla politica della Lega nel contesto dell’attuale crisi europea, ovvero a “Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega”. Lo ha fatto con un articolo sul blog di P101, “L’Italia non può farcela (da sola)”.
Potremmo anche chiudere la discussione basandoci sul titolo: certo che l’Italia non può farcela (da sola). Ma non è così semplice, perché la vera domanda è: a fare cosa? E questa domanda si muove su molteplici piani di una discussione necessaria e dirimente, che quindi merita di essere fatta.
Quindi partiamo dai due articoli, bisognerà riassumerli brevemente:
1- Il mio tentava una valutazione della situazione politica con particolare riferimento alle contraddizioni entro l'attuale governo ed alla posizione della Lega rispetto all'Europa. L’idea fondamentale era di provare a partire dalla focalizzazione delle contraddizioni per inquadrare le forze, poco visibili, che si muovono nel campo e le tensioni che manifestano. Infatti anche per pensare in termini di ‘amico e nemico’[1], e/o di ‘nemico principale’ e ‘secondario’[2], bisogna capire che ogni tensione attraversa diagonalmente tutti i campi. Altrimenti dimentichiamo le nostre radici, ed il livello di analisi che comportano, e rischiamo di riprodurre anche inconsapevolmente schemi nazionalisti. Parlare di “Italia”, in ogni contesto politico è una probabilmente necessaria abbreviazione, ma occorre sempre avere cura di pensare nella sua concretezza lo scarto delle forze che si connettono e lottano attraverso i confini politici. La mia analisi partiva quindi dal risultato del 4 marzo, nello schema interpretativo della lotta centro/periferia divenuta prevalente su quella destra/sinistra (anche se questa resta come chiave subordinata, come si vede). Quindi dallo spiazzamento delle sinistre, tutte, nel contesto dello smottamento sociale del secondo decennio.
Questo smottamento ha separato qualcosa di profondo nel paese, e la sinistra non ha trovato di meglio che reagire al suo riflesso elitista condannando i toni popolari come ‘razzisti’ e ‘nuovo fascismo’.
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Sea Watch & Sea Reality
di Igor Giussani
Ci sono due tipi di sbarchi: gli sbarchi fantasma di cui nessuno parla, poi arrivano le ONG e si scatena il finimondo, si accendono i riflettori e tutti parlano di 43 persone non vedendo che nei giorni scorsi sono sbarcate 200 persone… se sbarcano altri non capisco perché non debbano sbarcare questi
Nel loro ingenuo candore, le parole del sindaco di Lampedusa Totò Martello risultano molto illuminanti, se si è capaci di andare al di là della vicenda della Sea Watch 3 e del solito tritacarne mediatico dove si mescolano rabbiose minacce proferite da Salvini, interviste soporifere a Saviano, esternazioni omicide di Giorgia Meloni, reazioni sdegnate delle opposizioni, inviti della Chiesa all’accoglienza, tweet impazziti di VIP, tempeste di indignazione pro-contro ONG sui social network ecc.
In estrema sintesi, infatti, esse forniscono due informazioni preziose:
- in barba alla narrazione dei migranti ‘deboli, sradicati e post-identitari’ in balia del mare su barchini improvvisati e/o vittime di loschi trafficanti di uomini, molti di essi dimostrano capacità e intraprendenza non inferiore a quella dei giovani europei che, depressi dalla crisi economica, cercano miglior sorte in nuovi lidi. Persone quindi che non necessitano di ONG o particolari tutori, per i quali la cosiddetta ‘macchina dell’accoglienza’ probabilmente risulta solo un’inutile palla al piede;
- alla faccia dei proclami governativi inneggianti alla drastica riduzione degli sbarchi, il fenomeno prosegue senza interruzioni nel silenzio generale.
Una forma mentis complottista in tale contesto intravederebbe sicuramente una gigantesca pantomima per portare acqua ai diversi mulini coinvolti: le ONG intercettano le tipologie di migranti confacenti alla loro mission, offrendole sul piatto d’argento della retorica sovranista della Destra e di quella umanitaria della Sinistra, in uno scambio di accuse incrociato tra le parti che ne consolida il prestigio presso i rispettivi seguaci. Così, mentre la gente eleva a icone Carola Rackete o Matteo Salvini a seconda dei gusti personali, i migranti restano anonimi sullo sfondo, avvolti in quel mix di integrazione ed esclusione perfetto per lo sfruttamento economico capitalistico (ci pagano le pensioni, svolgono lavori sottopagati, sono ottime armi di distrazione di massa, per giunta assicurano un consistente pacchetto di voti a Destra e Sinistra mossi da odio o simpatia – cosa desiderare di più?).
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Tra cronaca e Storia: perchè scricchiola l’asse franco-tedesco
di Guido Salerno Aletta
Distrarre “gli itagliani” dai problemi veri è facilissimo, basta scegliersi un diversivo facile facile. Farli appassionare alle vicende internazionali, invece, è difficilissimo; anche se sono queste, quasi sempre, le vere cause di problemi che poi ci si affanna a scaricare sui più deboli.
Il conflitto attuale nell’Unione Europea per rinnovare tutte le cariche istituzionali principali è accuratamente tenuto lontano dai riflettori. Intanto perché mostra con enorme evidenza il fatto che questo governo, a Bruxelles, conta quanto il due coppe quando regna denari. E molto perché – dal tourbillon delle cariche di rilievo – questo governo è di fatto escluso. Sarebbe difficilissimo anche per dei mentitori professionali come loro, infatti, far passare come “vittoria” la perdita di ben tre poltrone importanti (presidente del Parlamento europeo, pesidente della Bce, “ministro degli esteri” europeo) senza alcuna compensazione.
Ma c’è molto di più in ballo, e determinerà il corso dei prossimi anni.
Questa analisi dell’attento Guido Salerno Aletta smonta molta retorica “europeista”, indicando interessi, esigenze, rapporti di forza che si tende invece a nascondere sotto la maschera dell’”Europa unita”. Cugini coltelli, nel migliore dei casi. Perché nella logica del capitale multinazionale non ci sono valori né leggi, solo occasioni di business oppure perdite.
Buona lettura [redaz.].
*****
Un passato senza futuro: era il 19 giugno 2018, appena un anno fa, quando Francia e Germania firmarono congiuntamente la Dichiarazione di Mesenberg, un testo dal titolo promettente e dai contenuti ancor più accattivanti: “Rinnovare gli impegni europei di sicurezza e prosperità”. Era già un compromesso rispetto alle ambizioni francesi, ma almeno sembrava una via di uscita dalla morta gora in cui l’Unione si era trascinata per anni.
Parole incise sul marmo, un epitaffio verrebbe da dire oggi: già dalle prime parole, infatti, si capiva che il vento del neo-liberismo, quello delle riforme strutturali a tutti i costi, non era affatto calato. Enfasi assoluta:
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Contro Zeffirelli: la necessità del dissenso
di Tomaso Montanari
Pubblichiamo un testo che ancora solo pochi anni fa sarebbe sicuramente stato pubblicato come editoriale di prima pagina da qualche grande quotidiano italiano o sarebbe stato al centro dei principali talk show. Quantum mutatus ab illo! Ormai il conformismo culturale e politico ha talmente saturato la vita del paese, che un articolo esemplare nella valutazione di meriti e mediocrità culturali e nella semplicità di adesione ai valori della nostra Costituzione, trova spazio solo in testate minoritarie di resistenza eretica democratica. (pfd'a)
Vorrei provare a tracciare un provvisorio bilancio della vicenda (sgradevole, ma in fondo assai istruttiva) provocata dal cortocircuito tra una mia frase iconoclasta contro il defunto Zeffirelli e l’uscita di un mio testo tra le tracce della maturità. Una vicenda sfociata nel dubbio privilegio di un attacco personale contro di me da parte del ministro Salvini, e dunque nell’immancabile pestaggio mediatico da parte dell’ormai larghissima corte di boia, capre e ballerine che circonda (più o meno consapevolmente) il Ministro della Paura.
Il fulcro su cui ruota tutta questa vicenda ha un nome: dissenso. L’orizzonte che essa dischiude è, invece, quello del conflitto.
1. Necessità del dissenso
Come ho spiegato altrove tutto parte da un mio tweet.
Si può avere naturalmente un’opinione assai critica verso l’uso dei social media. Io stesso mi sono chiesto se sia giusto usare un mezzo che per sua natura impedisce riflessioni articolate, e produce una buona dose di fraintendimenti ed equivoci. Ma alla fine penso che sì, che sia giusto starci. Da papa Francesco a Salvini, è anche lì che si combatte una battaglia di opinione e di pensiero.
Ed è del resto la dinamica stessa di questa vicenda a dimostrare che anche un tweet può essere uno strumento utile, se il fine è la ricostruzione di un qualche pensiero critico diffuso.
L’aspetto più clamoroso della vicenda è proprio l’esiguità di quelle due mie righe di fronte alle centinaia di pagine e di spazio mediatico dedicati all’esaltazione di Franco Zeffirelli.
La morale è che il sistema non è disposto a tollerare nemmeno quelle due righe: nemmeno un atomo di dissenso. Il senso comune su cui poggia il consenso al potere è così fragile, sul piano razionale e argomentativo, che non si può permettere che qualcuno dica che il re è nudo.
Il dissenso è dunque pericoloso: e diventa pericolosissimo quando chi lo esprime rischia di acquistare autorevolezza mediatica, per esempio attraverso la sua inclusione nel ‘canone’ della maturità (tanto più insopportabile perché fatta da ‘burocrati’ ministeriali di un ministero controllato dalla Lega!). Ed è proprio allora che scatta il pestaggio.
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Pianificabilità, pianificazione, piano
di Ivan Mikhajlovič Syroežin
II parte – Pianificazione
Capitolo 4. L’autoregolamentazione nei sistemi economici (parte I)
Introduzione di Paolo Selmi
Cari compagni,
non potevo non iniziare questa seconda parte di lavoro con la foto di questo nonnino, dall’aria simpatica, ritratto con la sia nipotina. Il suo nome non dirà nulla a nessuno ma, siccome proprio nessuno non fu, è il caso che cominci a dire qualcosa a qualcuno, specialmente a chi come noi è ormai da un anno in parete e, moschettone dopo moschettone, sta puntando alla stessa cima da lui scalata più e più volte.
Si chiamava Nikolaj Konstantinovič Bajbakov (7 marzo 1911, Sabunçu, Impero Russo, attuale Azerbaigian, 31 marzo 2008, Mosca), uno che dal 1963 poteva permettersi di girare con, appuntata sulla giacca, una delle massime onorificenze dell’URSS, il premio Lenin (Лeнинская прeмия) e, dal 1981, la massima onorificenza sovietica in assoluto: Eroe del lavoro socialista (Герой Социалистического Труда), al netto di tutte le altre onorificenze conferitegli nella sua lunga vita.
La foto che segue lo ritrae nel lontano 26 giugno 1972, sul posto di lavoro. È il secondo da sinistra attorniato, oltre che dall’interprete e dalle immancabili alte cariche, anche da un ospite straniero che non ha bisogno di presentazioni.
Ebbene si: quel giorno Fidel Alejandro Castro Ruiz (1926-2016) stava visitando il Centro principale di calcolo del Gosplan dell’URSS (Главный вычислительный центр Госплана СССР1) e, a fianco, aveva il Presidente del Gosplan stesso, vicepresidente del Consiglio dei ministri dell’URSS, Nikolaj Bajbakov. Di quell’incontro è lo stesso Bajbakov, nelle sue memorie, a fornirci dettagli concreti, come la sua raccomandazione a Fidel, per esempio, di non puntare sulla monocoltura o di differenziare i salari operai in base al merito. È un libro prezioso, come tutte le autobiografie di personaggi di un certo spessore, scritto nel 1998, negli anni più neri della neonata Federazione Russa2.
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La rete intrappola la democrazia
di Antonio Cecere
Paolo Ercolani è tornato, in Figli di un io minore (Marsilio 2019), a riesaminare, da una prospettiva alternativa a quella popperiana, il rapporto fra democrazia e conoscenza. Vi si collega una proposta di costruzione di una nuova società della conoscenza che merita di essere attentamente valutata
A distanza di sette anni da L’ultimo di Dio (Dedalo 2012), Paolo Ercolani torna ad approfondire un tema essenziale per il dibattito intellettuale e politico dei nostri giorni: la democrazia intrappolata nella rete. Il filosofo romano è impegnato da anni nello studio e nell’analisi dei processi politici e dei cambiamenti in seno alle democrazie occidentali in virtù dell’impatto dei nuovi media.
In questo saggio l’analisi si allarga a tematiche antropologiche e pedagogiche, frutto di anni di confronti con studenti e di una propria esperienza diretta nel mondo virtuale dei social networks.
Il libro è suddiviso essenzialmente in due parti: una prima è costituita da un’importante prefazione di Luciano Canfora e dai sei capitoli che l’autore ha strutturato in modo che siano leggibili anche da un pubblico non specialista; nella seconda parte, pensata per un circuito di studiosi, l’autore elabora un impianto di note molto consistente e soprattutto una bibliografia aggiornatissima e di grande respiro internazionale.
Nella prefazione (pp. 7-9) Luciano Canfora mette in evidenza l’argomento più radicale e corrosivo del saggio di Ercolani, ovvero l’idea che il suffragio universale, vero totemdelle democrazie moderne, abbia mostrato tutta la sua natura superflua, confermando la teoria secondo la quale la rete, il massimo strumento di comunicazione di massa, non produca maggioranze rivoluzionarie, ma, al contrario, sia un veicolo di consolidamento per le élite più reazionarie.
Nel primo capitolo (pp. 27-84), L’uomo senza pensiero, Ercolani fa i conti con la vulgata popperiana che tanto aveva contribuito a fomentare illusioni circa l’avvento di una società aperta, quando il web cominciò a mostrare la propria vocazione di strumento di massa. L’autore, grazie a una scrittura agile e comprensibile, ma allo stesso tempo tagliente, riesce a cogliere con precisione tutte le più evidenti contraddizioni fra le speranze dei primi osservatori del fenomeno web negli anni ottanta e la realtà dei giorni nostri. L’aver puntato sulla difficoltà del libero pensiero nella società attuale pone l’analisi del testo all’interno della già consistente letteratura sociologica di un maestro come Edgar Morin, il quale aveva già notato come lo «Tsunami di informazioni», che piovono ogni giorno sui nostri dispositivi tecnologici, invece che favorire riflessioni e partecipazione al dibattito pubblico, favorisce una passiva acquisizione di slogan buoni per un atteggiamento da sostenitore di idee altrui.
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Contraddizioni in seno al populismo
di Fabio Ciabatti
Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso (a cura di), Popolo chi?, Ediesse, Roma 2019, pp. 214, € 13,39
Dagli anni ’80 del secolo scorso le classi popolari sono scomparse dal discorso pubblico mainstream come soggetto autonomo, capace di parlare con una propria voce. Eppure, come ogni rimosso, il popolo riemerge come fantasma cui attribuire tutti i mali del presente: l’elezione di Trump, la vittoria della Brexit, l’affermazione elettorale di Lega, la crescita del razzismo e chi più ne ha più ne metta. “Popolo sei ‘na monnezza!” verrebbe da dire insieme all’ingenuo fraticello interpretato da Alberto Sordi nel film Nell’anno del Signore.
Ma è proprio così? Gli autori del libro Popolo chi?sostengono che si tratta di una rappresentazione decisamente unilaterale. E lo fanno dopo aver ascoltato la voce di quelle classi popolari in nome delle quali molti si sentono autorizzati a sproloquiare. Il testo, curato da Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso, rappresenta il risultato di una ricerca basata su 60 interviste in profondità realizzate in quartieri e aree popolari di Milano, Firenze, Roma e Cosenza. Secondo gli autori non esiste un popolo pronto a consegnarsi nelle mani del populismo di destra. Piuttosto, il quadro che emerge viene riassunto con una parola: “contraddizione”. Vediamo brevemente perché.
L’inchiesta rimarca l’importanza della sfera lavorativa nella vita delle persone. “Sfruttato, precarizzato o intermittente, il lavoro (e la sua mancanza) costituisce una parte centrale nella realtà quotidiana di tutti gli intervistati, rappresentando … la fonte principale della loro sofferenza”.1 Di fronte a questa situazione, però, prevale la rassegnazione e la paura. Non si pensa che un’azione collettiva possa cambiarla. La maggioranza delle persone, infatti, non vive questi problemi come immediatamente sociali o, in senso lato, politici. Le sofferenze esperite nel luogo di lavoro sono considerate come mali privati sconnessi dal vissuto e dalle sofferenze delle altre persone che condividono le stesse condizioni. In breve il lavoro è centrale, ma non produce identità sociale e mobilitazione.
Ma dovendo pensare ad un conflitto chi dovrebbe essere la vera controparte? Chi comanda davvero, secondo gli intervistati, non sono i politici, ma i grandi imprenditori, i banchieri e i finanzieri. Eppure nei loro confronti non vengono pronunciate parole di disapprovazione.
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Note sulla fase politica
di Mimmo Porcaro
1.
Nonostante sia numericamente ben possibile assicurare la continuità di gestione dell’Ue (magari peggiorandola, grazie ai liberali), i risultati elettorali (in particolare quelli francesi, italiani ed inglesi) indicano il persistere di una seria crisi di consenso. Per quel che conta, il parlamento di Strasburgo deciderà quel che vuole, ma i “fuochi” di crisi restano accesi in tutte le più grandi nazioni del continente, anche nella sempre più frammentata Germania. Purtroppo questa crisi non è gestita dalle forze neosocialiste. Le elezioni hanno meritatamente punito Tsipras, ma hanno anche duramente colpito, o ulteriormente indebolito, le posizioni oscillanti ed incerte di Corbyn, di France Insoumise e di Podemos. Se è positiva la conferma della protesta popolare contro l’Unione, questa considerazione viene bilanciata dal fatto che tale protesta è ormai stabilmente egemonizzata dalla destra. Destra che peraltro non pare avere al momento né la volontà né la possibilità di usare la propria influenza per fini diversi da quelli di una rinegoziazione intra-Ue. Questo è il significato immediato (e negativo) delle elezioni europee.
2.
Sarebbe peraltro sbagliato leggere la situazione attuale semplicemente come scontro tra (grande) capitalismo globalista e (piccolo) capitalismo sovranista. E’ ormai iniziata da tempo l’inversione della globalizzazione, per cui si può dire che tutti i gruppi capitalistici, pur giocando ancora, in modi diversi, sull’apertura dei mercati, per tutelare i propri interessi fanno ricorso in maniera crescente alla logica territoriale. Ciò non vale solo per Trump. Vale anche per l’Unione: qui i due stati leader, da sempre gelosi della propria sovranità, disegnano un progetto di cooperazione economica che prevede la parziale chiusura del territorio dell’Unione stessa ad iniziative “straniere”, e la tutela di campioni nazional-continentali.
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Per un salario minimo dignitoso, contro lavoro povero e sfruttamento
di coniarerivolta
Al Senato è in discussione un disegno di legge, di iniziativa del Movimento 5 Stelle e a prima firma della senatrice Nunzia Catalfo, che mira ad introdurre un salario minimo orario in Italia, uno dei pochi paesi europei ancora sprovvisti di una legge che fissi una soglia minima alle retribuzioni. Secondo i promotori, il disegno di legge darebbe piena attuazione all’articolo 36 della Costituzione, che stabilisce che ciascun lavoratore ha diritto a una «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
Il disegno di legge è suscettibile di essere modificato anche radicalmente attraverso gli emendamenti che già sono stati o saranno proposti dai parlamentari. Nonostante ciò, è interessante analizzare la discussione nata attorno alla proposta Catalfo, i vantaggi che potrebbero derivare dall’introduzione di un simile istituto nel nostro Paese e le eventuali insidie per i lavoratori che questo disegno di legge nasconde.
Ma cosa prevede questa proposta? In estrema sintesi, in base al dettato del disegno di legge (articolo 2), affinché si possa parlare di retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente, il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non deve essere inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni, il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali.
Questa definizione, così come i rimanenti articoli del disegno di legge, presenta dei punti discutibili. Da un lato, la proposta depositata al Senato sembra offrire preziose sponde che potrebbero rivelarsi utili per conquistare maggiori tutele per i lavoratori, in particolare con riferimento ai cosiddetti ‘lavoratori poveri’, ossia quelli caratterizzati dai salari più bassi.
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La disoccupazione giovanile e la proposta di Stato innovatore di prima istanza
di Guglielmo Forges Davanzati
L’aumento della disoccupazione giovanile, secondo la visione dominante, è da imputarsi al mancato incontro fra la domanda di lavoro espressa dalle imprese e l’offerta di lavoro proveniente dai lavoratori. Questi ultimi – si sostiene – ricevono da scuola e Università una formazione generalista, eccessivamente calibrata sull’acquisizione di conoscenze e poco attenta alla trasmissione di competenze. Le competenze – il saper fare – sono (o sarebbero) quelle di cui le imprese, in un’ottica di breve periodo, hanno bisogno. La linea di politica economica che ne discende fa riferimento alla necessità di riformare i sistemi formativi per renderli funzionali alla produzione di forza-lavoro ‘occupabile’.
Il fatto che alcune imprese, in alcuni particolari segmenti del mercato del lavoro, trovino (o denuncino) difficoltà nel reperire manodopera con il livello e la qualità della formazione richiesta non implica che l’intera disoccupazione giovanile in Italia (superiore al 60% in alcune regioni del Sud) dipenda dal mismatch fra competenze offerte e competenze richieste. Per smentire questa tesi, può essere sufficiente considerare che oltre il 40% delle imprese italiane dichiara di non occupare – o non intendere assumere – laureati, a fronte del 18% della Spagna e del 20% della Germania.
La disoccupazione giovanile italiana – da molti anni superiore alla media europea – dipende essenzialmente dal combinato di un calo di lungo periodo della domanda aggregata (calo si è manifestato con la massima intensità a seguito dello scoppio della prima crisi, nel 2007-2008, e che ha avuto impatti anche sulla disoccupazione di individui in età adulta e anche sulla disoccupazione di lungo periodo) e dalla crescente fragilità della nostra struttura produttiva, particolarmente nel Mezzogiorno. La disoccupazione giovanile è aumentata sia perché le imprese hanno trovato conveniente, in una fase recessiva, non licenziare lavoratori altamente qualificati per non dover sostenere i costi della formazione dei neo-assunti, sia per il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego.
La teoria del mismatch fa propria una visione della formazione economicistica, funzionalista e di breve periodo: il sistema formativo – stando a questa visione – deve essere sottostare a vincoli propriamente economici.
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Umanità, tecnica e natura (ricordando lo sbarco sulla luna)
di Alessandro Della Corte, Stefano Isola e Lucio Russo
Ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, e lo ricordiamo formulando una domanda i cui legami con quell’evento speriamo appariranno più chiari nel seguito.
Perché l’ideale platonico di un potere legittimato soltanto dalle superiori conoscenze dei suoi detentori sembra oggi tornato così seducente?
Alcune ragioni ci sembrano abbastanza ovvie. Il crollo del livello culturale medio della classe politica dà origine per reazione a una fisiologica ribellione contro “l’ignoranza al potere”, che facilmente può generare o alimentare l’ideale platonico.
Un tale ideale diviene particolarmente comprensibile, anche se non necessariamente condivisibile, ammettendo di vivere in un mondo che soltanto gli “scienziati” possono comprendere e modificare. Ciò darebbe loro il diritto, si potrebbe sostenere, di decidere anche per i non-scienziati, ovvero per coloro che per ignoranza non sono in grado di discernere la verità dietro le apparenze e conseguentemente agiscono come gli incatenati nella caverna platonica.
Un mondo di questo tipo è stato immaginato molte volte nella storia. Ad esempio da Francesco Bacone, il quale vedeva negli scienziati i soli esseri dotati di un sapere in grado di trasformare la realtà e di assicurare una vita migliore all’intera umanità. Idee di questo tipo, per altro, hanno avuto largo spazio tra la fine del XVII e il XVIII secolo, grazie alle società scientifiche impegnate, tra le altre cose, ad applicare la scienza a problemi che interessavano gli Stati nazionali, nonché alla stessa visione strategica tipica del dispotismo illuminato.
D’altra parte, al tempo in cui viveva Platone, e ancora in quello di Bacone, gli esseri umani si muovevano con una certa fiducia in un mondo regolato da una molteplicità di fattori: la cultura, il linguaggio, la politica, le istituzioni, le arti, le attività pratiche, etc., e anche chi non riteneva desiderabile l’ideale platonico, difficilmente poteva crederlo una reale minaccia per la libertà e la dignità umane. E questo anche perché quell’ideale, e il mondo che lo avrebbe potuto legittimare, non poteva stabilirsi se non come una proiezione dell’immaginazione, poiché l’insieme delle possibilità d’intervento tecnico sul mondo era incommensurabile con la varietà dell’esperienza umana, per orientarsi nella quale si continuava ad avvalersi perlopiù del senso comune e del linguaggio quotidiano.
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Potere al Popolo: sintesi, analisi e proposte della 6° Assemblea Nazionale
di Potere Al Popolo!
Domenica scorsa Potere al Popolo ha convocato a Roma la sua sesta Assemblea Nazionale per fare il punto su quanto fatto finora e sulle sfide che ci attendono. L’Assemblea è riuscita ogni oltre previsione: più di 500 persone sono venute da tutta Italia e anche dai nodi esteri a portare, in quasi 50 interventi, un patrimonio di idee, proposte, esperienze e umanità, hanno condiviso rabbia e gioia, ingiustizie e lotte vincenti, con spirito positivo e con il sentimento di stare costruendo una comunità e uno strumento utile per tutti gli sfruttati. Insieme abbiamo rinnovato quell’impegno a “fare tutto al contrario” rispetto a quello che abbiamo visto nella politica italiana di questi anni.
Dopo un anno e mezzo, infatti, non ci è passata la voglia – e anzi pensiamo sia sempre più necessario – essere diversi da quella politica fatta di molte chiacchiere e pochi fatti, molto verticismo e poca partecipazione, molto opportunismo e poco spirito di servizio, molti personalismi e poco senso del collettivo, molta ideologia e poca concretezza, molta immagine e propaganda e poca sostanza, molti litigi e poca voglia di pratiche comuni…
In quest’anno e mezzo di vita abbiamo toccato con mano che “fare tutto al contrario” è davvero possibile, che è possibile costruire un nuovo tipo di organizzazione, far partecipare le persone e anche ottenere vittorie. Certo, ci siamo sempre più convinti che occorra essere onesti sulle tante difficoltà che un progetto come il nostro deve affrontare, ma anche che bisogna cercare sempre l’aspetto che possa volgerle al positivo.
Stiamo facendo ed accumulando esperienze sul campo, spesso in modo diversificato, stiamo aggregando nuove persone, molte delle quali giovani o nuove alla politica, stiamo cercando di radicarci sui territori aprendo Case del Popolo, ricomponendo settori della società lì dove le classi dominanti hanno lavorato a dividere, disgregare, contrapporre. Stiamo cercando di migliorare il nostro programma attraverso 13 tavoli di lavoro nazionali e, dopo le ultime elezioni amministrative in cui abbiamo eletto consiglieri, abbiamo iniziato a sperimentare anche il lavoro nelle istituzioni di prossimità. Ma siamo perfettamente consapevoli che tantissimo resta ancora da fare per diventare un’opzione credibile agli occhi delle classi popolari.
Le pagine che seguono sintetizzano appunto le analisi e le proposte emerse dall’Assemblea Nazionale per riuscire a crescere, organizzarsi meglio, risultare più incisivi.
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