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Tornare al welfare, ma non siamo negli anni '50
Enzo Modugno
C'è una questione teorica dietro l'esperienza della sinistra al governo che riguarda il passaggio dal welfare al neoliberismo. Il '68-'77 aveva capito che il declino della fabbrica fordista aveva ampliato il numero dei lavoratori non-garantiti rendendo il welfare un'istituzione impraticabile, e che perciò il valore della forza-lavoro si doveva difendere con lo scontro sociale.
La sinistra invece - quella di allora pensò solo alla difesa istituzionale dei garantiti superstiti scaricando gli altri - è andata ora al governo pensando non solo che si potesse tornare al welfare come se ci fosse ancora la fabbrica fordista, ma che lo si potesse fare ancora per via istituzionale, interpretando il neoliberismo come un attacco politico che poteva essere battuto sul suo stesso terreno, politicamente.
Secondo Bertinotti - si riveda ora la sua prefazione al libro di Serge Halimi, Il grande balzo all'indietro, pubblicata agli inizi dell'esperienza governativa - il neoliberismo è stato un'operazione eminentemente politica, dovuta al «potente apparato ideologico» dei pensatori neoliberisti sostenuto da un «poderoso sistema di controllo politico». E pertanto, così come era stato costruito, il neoliberismo poteva essere demolito con un'azione politica uguale e contraria che coinvolgesse i governi di sinistra per riportare al welfare il capitalismo.
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Davanti alla crisi, rovesciare i dogmi sulla spesa pubblica
Riccardo Bellofiore
L'articolo di Halevi (20/3), che inquadra l'evoluzione più recente della crisi finanziaria, induce a qualche chiosa su come Europa e Italia entrino nel quadro. Che il discorso di Halevi riguardi anche il vecchio continente è evidente. Gli Stati Uniti sono stati assunti come modello per quel che riguarda precarizzazione del lavoro, capitalismo dei fondi pensione, liberalizzazione dei mercati. Gli Usa sono stati l'acquirente di ultima istanza, non solo per Asia e Cina, ma anche per i neomercantilismi europei. L'euro è stato residuale rispetto alla dinamica del dollaro.
Non ci vuol molto a capire che l'Europa va vista nella sua articolazione interna. Con almeno cinque aree cruciali, su cui si articolano le varie periferie, e l'Est. Un polo manifatturiero di qualità, tedesco e in parte francese, con i suoi satelliti. Un polo scandinavo di produzioni di nicchia di alta tecnologia.
Il centro finanziario: Inghilterra, ma anche Lussemburgo e Olanda. Le produzioni tradizionali, i distretti e le piccole imprese dell'Italia. Infine Spagna e Grecia: la prima con una crescita trainata dalle costruzioni, entrambe con disavanzi con l'estero enormi.
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Prepararsi a un anno nero
di Nouriel Roubini
Gli Stati Uniti sono entrati decisamente in una fase recessiva fra la fine dell'anno scorso e l'inizio del 2008, e questo lo consacreranno senza alcun dubbio i dati ufficiali sul primo trimestre, e con ogni probabilità anche quelli del secondo. A questo punto è una questione aperta la durata della recessione stessa. Si è formato una sorta di consensus fra gli economisti che la crisi sarà relativamente leggera e di breve durata, probabilmente non più di sei mesi: Ma io sono di opinione profondamente diversa.
Come vivere al tempo della recessione? Ormai dobbiamo abituarci alla dura realtà dei fatti. Questa è la domanda che il mondo deve cominciare a porsi, e alla quale i governi devono cercare di fornire una risposta.
Ritengo infatti che la recessione sarà più lunga e pesante: andrà avanti almeno per dodici mesi, cioè per tutto quest'anno, e forse anche per 18 mesi, cioè fino a metà del 2009.
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La guerra si fa globale
di Danilo Zolo
La guerra di aggressione scatenata il 20 marzo 2003 contro l'Iraq dalle armate statunitensi e britanniche ha segnato il culmine di una deriva bellicista che ha preso avvio nell'ultimo decennio del secolo scorso, dopo la fine della guerra fredda. Si tratta di un fenomeno che ha investito il mondo intero e che è ben lontano dall'essersi esaurito, come ha provato la guerra contro il Libano dell'estate scorsa e come provano i preparativi di guerra contro l'Iran. Sia il fenomeno della guerra, sia gli apparati retorici della sua giustificazione sono rapidamente cambiati. E questo cambiamento può essere adeguatamente interpretato solo nel quadro dei processi di trasformazione economico-finanziaria, informatica e politica che vanno sotto il nome di «globalizzazione». In questi anni, in altre parole, si è sviluppato un processo di transizione alla «guerra globale», con al centro l'adozione da parte delle potenze occidentali della nozione di «guerra preventiva», concepita e praticata dagli Stati uniti contro i cosiddetti «Stati canaglia» e le organizzazioni del global terrorism.
Questa transizione non ha riguardato soltanto la morfologia della «nuova guerra», e cioè la sua dimensione strategica e la sua potenzialità distruttiva. Strettamente connessa è una vera e propria eversione del diritto internazionale, dovuta all'incompatibilità radicale della «guerra preventiva« con la Carta delle Nazioni unite e al diritto internazionale generale. A questo si aggiunge la regressione alle retoriche antiche di giustificazione della guerra, inclusa la dottrina «imperiale» della «guerra giusta« e del suo nocciolo di ascendenza biblica: la «guerra santa» contro i barbari e gli infedeli. Queste retoriche sono diventate oggi, nel contesto della globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa, uno strumento bellico di eccezionale rilievo.
La guerra di aggressione contro l'Iraq è stata una guerra «globale» perché è stata condotta all'insegna di una strategia imperiale che il suo attore principale - gli Stati uniti d'America - ha orientato verso obiettivi universali come la sicurezza globale ( global security ) e l'ordine mondiale ( new world order ). La finalità non è stata la conquista di spazi territoriali secondo il modello delle guerre coloniali. La «guerra globale» è stata combattuta per decidere chi avrebbe dovuto assumere la funzione di leadership entro il sistema mondiale, chi avrebbe imposto le regole della competizione fra le grandi potenze, chi avrebbe avuto il potere di modellare i processi di allocazione delle risorse e far prevalere la propria visione del mondo.
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Geoeconomia? Piuttosto imperialismo
di Giorgio Gattei
Per tenere a bada i “competitori geopolitici” (vedi i tre Avvisi precedenti) George Bush “il piccolo” ha dovuto portare le spese militari dai 370 miliardi di dollari del 2000 ai 621 miliardi del 2006, «un aumento degno di un Presidente di guerra» (M. Nobile, Armamenti e accumulazione nel capitalismo sviluppato, “Giano”, 2007, n. 56, p. 19). Non è però soltanto con la forza che gli Stati Uniti cercano di mantenere la supremazia planetaria guadagnata senza colpo ferire al termine della seconda guerra mondiale per l’esaurimento materiale dell’imperialismo britannico. C’è infatti un’altra modalità geopolitica più “morbida”, che Edward Luttwak ha denominato geoeconomia, a contenuto prevalentemente commerciale e finanziario.
Essendo finita la grande contrapposizione in due “blocchi” della Guerra Fredda, il mondo si è ritrovato “uno”, con perfino la Cina (comunista o meno che sia) coinvolta nella logica generale degli affari. Si è ricostituito quel mercato mondiale che era già stato all’opera prima della rottura del 1917, quale conseguenza migliore del “lungo Ottocento” della borghesia.
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Un monarca, per favore
di Rossana Rossanda
Quaranta anni fa, dopo il 1968, c'era a ogni assemblea una discussione su chi potesse aprirla, presiederla e chiuderla, nella generale presa di parola che dilagò in Italia e in gran parte d'Europa. Ognuno sentì che poteva e doveva parlare, esporsi, assumersi delle responsabilità, partecipare a una decisione rifiutando di delegarla ad altri, perché ogni mandato rappresentativo portava in sé il verme della gerarchia e della burocratizzazione.
Adesso, quegli ardenti giovani sono almeno cinquantenni e assieme alla loro prole non sembrano desiderare altro che dare una delega al più presto e a un leader che presenti un'immagine attraente, capace di decidere per tutti, perlopiù autocandidato dopo un vasto lavorio, sul quale discutere fra pochi e per un poco, e mandare al voto popolare affidandoglisi per cinque anni senza essere più seccati. In capo a quella scadenza si giudicherà se confermarlo o no, nel mandato. Questo è il sugo della democrazia moderna e, come dice Veltroni, semplificata e non si rompano ulteriormente le scatole.
Nel giro di una generazione s'è dissolta l'acerba critica che, nel nome di un bisogno e diritto assoluto di partecipazione di tutti e di ciascuno, investì la «forma partito» e ogni struttura organizzata.
Verso di essi la sfiducia era duplice: qualsiasi organizzazione cristallizza livelli di comando che depotenziano l'assemblea.
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La Chiesa al suo posto
Rossana Rossanda
Che campagna elettorale! Poche idee, bassezze, graffi, scuse, perfino Vespa si annoia. Nel Popolo della Liberta gli slogan di sempre sono pieni di disprezzo per l'avversario. Berlusconi aggiunge una prudente allusione ai tempi difficili che verranno - recessione, euro troppo alto, petrolio alle stelle - per cui (ma non lo dice) si stringerà la cinghia. Invece Veltroni gioca la carte delle buone maniere anche se ieri gli è sfuggito un «chi vince comanda», a prova che della democrazia hanno la stessa idea.
Lui però non mette in guardia dalle imminenti vacche magre: macché pericoli provenienti dall'esterno, sono state la sinistra e i centro-sinistra a sbagliare tutto, facendosi legare le mani dalla nefasta ideologia che contrapponeva padroni e operai, proprietari e spossessati, beni privati e beni pubblici. Usciamo da questa paralizzante menzogna! Lo pensa anche Galli della Loggia. Passate le redini in mani più giovani e refrattarie alle fantasie sociali l'Italia rifiorirà.
Bankitalia e l'Ocse informano che abbiamo in Italia i salari più bassi dell'Europa, neanche la Grecia, ma solo Bertinotti raccoglie. Gli altri tacciono perché la Banca Centrale Europea comanda: guai ad alzarli, i salari, sarebbe l'inflazione. I salariati non hanno da fare che una cura dimagrante in attesa di tempi migliori.
Eppure all'aeroporto mi hanno avvicinato due giovani, due facce pulite: Questo Veltroni, quale speranza per noi! E lei che ne pensa? Rispondo ridendo: Il peggio possibile.
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"Eppur si muore”
di Sergio Bologna
Io non credo che interventi legislativi o misure organizzative (come ad es. la creazione di un pool di magistrati specializzato) possano produrre effetti di una qualche rilevanza nella lotta agli incidenti mortali sul lavoro. Com’è possibile prescrivere una terapia quando non si conoscono le condizioni del paziente? Posso peccare di presunzione, ma sono quasi certo che le istituzioni non hanno presente la mappa del mercato del lavoro in Italia, nemmeno a grandi linee. E quindi non hanno la più pallida idea della mappa del rischio. Cominciamo da un dato: il differenziale di circa 2,4 punti percentuali tra l’incidenza dei morti sul lavoro in Italia rispetto al resto dell’Europa è dovuto al fatto che da noi si muore “in itinere”, cioè mentre ci si sposta per lavoro o per andare o tornare dal luogo di lavoro. Quindi “il luogo” di lavoro di per sé, concepito come luogo fisico, non sarebbe più rischioso in Italia di quanto sia quello di altri Paesi europei. E’ lo spazio della mobilità quello più rischioso. Perché?
La rivoluzione postfordista ha agito in due direzioni: 1) ha man mano “dissolto” il luogo di lavoro come spazio fisico separato mischiandolo sempre più al luogo di vita privata e lo ha dilatato nello spazio (despazializzazione del rischio), 2) ha – come in nessun altro Paese d’Europa – affidato la gestione del rischio a un’entità particolarissima, quella che forma la caratteristica più tipica dell’Italia, cioè la microimpresa. E quando intendo microimpresa intendo un’entità talmente piccola che stento a riconoscere in quella le caratteristiche istituzionali di un’impresa – cioè di qualcosa che ha bisogno almeno di tre ruoli sociali, il capitale, il manager e l’operaio.
Io vorrei prendere per mano il Ministro Damiano, il dottor Epifani e il dottor Guariniello e metterli di fronte a quella semplice tabella ISTAT che sono solito riprodurre in tutte le mie presentazioni. Da cui risulta che più di 6 milioni di persone – su un totale di 24 - lavora in unità impropriamente chiamate “imprese” la cui dimensione media è 2,7 addetti. Ma c’è qualcosa di più recente. Il 29 ottobre 2007 l’ISTAT pubblicava una nuova serie di dati, cito: “Nelle microimprese (meno di 10 addetti), che rappresentano il 94,9 per cento del totale, si concentra il 48,0 per cento degli addetti, il 25,2 per cento dei dipendenti, il 28,3 per cento del fatturato ed il 32,8 per cento del valore aggiunto. In esse il 65,1 per cento dell’occupazione è costituito da lavoro indipendente”.
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Onore a Vanity fair
Paola Caridi
La rivista patinata fa uno scoop di tutto rispetto, e trova i documenti che provano quello che i reporter aveva già capito: gli USA sostenevano un coup contro Hamas, e si sono ritrovati che Hamas ha fatto un coup contro Fatah
GERUSALEMME – “Niente è più inedito dell’edito”, diceva Mario Missiroli. Lo hanno ripetuto, poi, generazioni di giornalisti italiani. Per dimostrare che il mestiere lo conoscevano. O meglio, conoscevano almeno il catalogo dei miti del cronista. Il vecchio direttore del Corriere della Sera era comunque una persona seria e un grande giornalista. E quella frase, di fondo, voleva dire una cosa semplice: che non serve andare a cercare le carte segrete per comprendere la realtà.
L’insegnamento di Missiroli dev’essere tornato in mente, ieri, a molti dei reporter che seguono il conflitto israelo-palestinese, e soprattutto a quelli che si sono trovati tra Tel Aviv e Ramallah negli anni della transizione dall’autorità di Yasser Arafat all’ANP di Mahmoud Abbas.
In pochi, però, si sarebbero immaginati che a confermare la citazione celebre sarebbe stato un pezzo su Vanity Fair. Che accusa senza peli sulla lingua George W. Bush, Condoleeza Rice ed Elliott Abrams di aver concertato un “piano B” per armare Fatah, detronizzare il governo democraticamente eletto di Hamas e far ritornare il potere all’ANP vecchia maniera. Col risultato, paradossale, di rafforzare Hamas, sconfiggere Fatah almeno a Gaza, e ritrovarsi in un vicolo cieco.
Non perché la rivista patinata della Condè Nast si occupi solo di amenità, VIP e tutto ciò che è decisamente, pervicacemente, incredibilmente snobbish.
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Dodici tappe verso la crisi più grave
di Nouriel Roubini
SUL FATTO che gli Stati Uniti siano ormai entrati in recessione non sussistono più dubbi; resta da vedere soltanto se la recessione sarà breve e leggera (due trimestri fino alla metà dell'anno) o più lunga, più profonda e più dolorosa. Ma i rischi ora appaiono quelli di una recessione profonda e di una crisi finanziaria sistemica grave. Anzi, per comprendere le recenti mosse della Banca Centrale degli Stati Uniti - una riduzione molto aggressiva del tasso di rifinanziamento - occorre rendersi conto della possibilità sempre maggiore che si vada verso una evoluzione catastrofica della finanza e dell'economia - un circolo vizioso dove una profonda recessione aggrava le perdite finanziarie e dove, a loro volta, le perdite finanziarie ingenti e in aumento e il tracollo del settore finanziario rendono la recessione ancora più grave.
Una tale crisi sistemica finanziaria potrebbe svolgersi secondo uno scenario che prevede dodici fasi:
1. A questo punto è chiaro che questa è la peggiore recessione del settore immobiliare dalla grande depressione e che i prezzi delle case negli Stati Uniti crolleranno tra il 20 e il 30 per cento rispetto al picco della bolla.
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La lunga marcia alla società di mercato
Sandro Mezzadra
È un libro importante, quello di Giovanni Arrighi. Ed è un libro che spiazza, fin dal titolo: Adam Smith a Pechino (Feltrinelli, pp. 464, euro 38). Chi lo prendesse in mano reduce dalla lettura di Shock Economy, di Naomi Klein (Rizzoli editore), potrebbe in verità trovarlo perfino banale: l'Adam Smith che compare nel titolo, penserebbe probabilmente quel lettore, sarà certo il mandante morale di Milton Friedman, il genio del male che, invitato da Deng Xiaoping in Cina nel 1980 e nel 1988, piantò pure lì il seme della malapianta del neoliberismo, germogliato in Cile nel 1973 e destinato negli anni successivi a fiorire un po' ovunque sul pianeta.
Ma certo quel lettore strabuzzerebbe gli occhi di fronte alle tesi presentate in particolare nel secondo capitolo del libro di Arrighi, dedicato alla «sociologia storica di Adam Smith»: l'autore della Ricchezza delle nazioni non gioca qui la parte del «cattivo» della storia, ma addirittura quella del «buono», del teorico di una via «naturale» nello sviluppo dell'economia di mercato che sarebbe stata radicalmente negata nei decenni successivi dalla traiettoria seguita dall'Europa, e in primo luogo dalla Gran Bretagna. Di più: quest'ultima traiettoria sarebbe stata quella analizzata e criticata come capitalistica da Marx, mentre la via «naturale» nello sviluppo dell'economia di mercato teorizzata da Smith sarebbe stata una via «non capitalistica».
Ancora di più: questa via «non capitalistica» era quella che stava dipanandosi in Asia orientale nel XVIII secolo, all'insegna di una «rivoluzione industriosa» dai caratteri del tutto diversi dalla «rivoluzione industriale» inglese. E infine: la Cina di oggi, proprio quella che ha le sue origini nelle «riforme» di Deng Xiao Ping, potrebbe ricollegarsi a quel modello «virtuoso» e far coincidere la fine dell'egemonia statunitense nel sistema-mondo del capitalismo storico nientemeno che con la fine del capitalismo stesso.
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Acque torbide
Rossana Rossanda
Siamo tutti adulti e vaccinati, non facciamo finta che queste siano elezioni come le altre. In ballo non è solo un cambio di governo, ma la cancellazione dalla scena politica di ogni sinistra di ispirazione sociale. Questa è la novità, reclamata ormai non più solo dalla destra ma dall'ex Pci, poi Pds poi Ds e ora confluito, assieme alla cattolica Margherita, nel Partito democratico. E' l'approdo della «svolta» del 1989 e il suo vero senso: non si trattava di condannare le derive del comunismo o dei «socialismi reali», ma di stabilire che il capitalismo è l'unico modo di produzione possibile.
Ci sono voluti diversi anni di manfrina ma ora Veltroni dichiara tutti i giorni che la sola società possibile è quella di «mercato», e a governarla «democraticamente» bastano due partiti come nel modello anglosassone, uno più «compassionevole» e l'altro più feroce. Che ci sia un conflitto di classe fra proprietari e non, che i primi possano sfruttare, usare e gettare i secondi, che questi siano riusciti a conquistarsi dei diritti extramercato è stata una favola cattiva, che ha seminato l'odio e spezzato l'armonia del paese.
Operai e padroni sono egualmente lavoratori, hanno un interesse comune che è l'azienda, anzi il padrone, detto più benevolmente l'imprenditore, vi rischia di più il suo capitale, mentre l'operaio solo il suo salario. Veltroni ha così liquidato due secoli di lotte sociali e ridotto la democrazia secondo il modello americano a sistema elettorale e poco più.
Il suo «riformismo» non mira, come quello delle socialdemocrazie, a correggere il capitale: ma a «riformare i diritti del lavoro» fino a farne, com'era all'inizio del XIX secolo, una merce come le altre, abolirne ogni regolamentazione a cominciare dalla durata.
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Quel movimento che aprì la via alla globalizzazione
Marco Revelli
Il Sessantotto si diffuse nel pianeta cambiando radicalmente il mondo anche se fu sconfitto. E può essere considerato come l'avvio di una rottura antropologica che vent'anni dopo è emersa con forza alla superficie
Valle Giulia. Era il primo marzo del 1968. La rivolta degli studenti arrivava per la prima volta sulle prime pagine dei giornali e dei telegiornali. Per la verità il Sessantotto italiano era incominciato qualche mese prima, già dalla fine del '67, quando erano state occupate prima la Cattolica di Milano - un vero e proprio sacrilegio -, poi Palazzo Campana a Torino. Ma le notizie erano rimaste confinate nelle pagine locali. C'erano volute le cariche della polizia in assetto da combattimento, le camionette rovesciate, il fuoco e le pietre, gli arresti e i feriti, perché il sistema dei media si accorgesse della cosa. C'era voluta, insomma, la violenza perché il Sessantotto diventasse un evento mediatico.
Le riflessioni sofferte dei cristiani ribelli di Milano, i controcorsi di Torino, più di un mese di studio collettivo e autogestito da parte di centinaia di giovani in rivolta mentale, le «tesi della sapienza» di Pisa, non avevano ricevuto nessuna attenzione al di fuori degli ambienti universitari in sommovimento, né da parte della politica, né da parte dell'informazione. Le immagini (ancora in bianco e nero, allora) delle scalinate di architettura di Roma, invece, esplosero sugli schermi televisivi con la forza di un terremoto.
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Note introduttive per il convegno
Associazione "Politica e classe"
Il capitale percepisce ogni limite come ostacolo e lo supera idealmente se non l’ha superato nella realtà:
dato che ognuno di questi limiti è in opposizione alla dismisura inerente al capitale, la sua produzione si muove attraverso
contraddizioni costantemente superate, ma altrettanto costantemente ricreate.
Karl Marx “Grundrisse”
Una premessa
Come appare ormai a tutti evidente la questione ambientale, complessivamente intesa dai problemi del clima fino al vivere quotidiano delle popolazioni, ha assunto da alcuni decenni un carattere strategico rispetto alle possibilità di sviluppo dell’umanità, mentre i sempre più accentuati ed accelerati processi di valorizzazione del capitale amplificano una situazione che sfugge di mano alle classi dirigenti che dovrebbero guidare l’attuale sistema sociale e le relazioni economiche e produttive internazionali.
E’, infatti, palese che la contraddizione che si manifesta tra crescita economica ed ambiente naturale riveste un ruolo centrale, ma un’ analisi strutturale di questa dinamica non può avere esclusivamente una lettura che si astrae da un sistema di relazioni sociali determinato storicamente e concretamente agente cercando la motivazione dell’attuale situazione in cause antropologiche per cui una generica natura umana tende ad essere “nemica” dell’ambiente ed ad esso estranea. Il rischio che corrono queste interpretazioni è quello di dare una visione parziale e, pensando di contrastare il degrado ambientale, di occultare le cause sociali del problema assolvendo dalle responsabilità chi invece ne è la causa.
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Quando la Cgil era autonoma da partiti e governo
di Dino Greco
La svolta nel sindacato che piace a Pd e Pdl
Il documento di Cgil Cisl Uil sulla riforma del modello contrattuale rappresenta uno spartiacque nella storia del sindacato italiano. Non si può far finta di non capire che quello che ci viene presentato non è un progetto qualsiasi, del quale si possa discutere in termini di maggiore o minore moderazione. Ciò con cui abbiamo a che fare è un vero salto di paradigma, un mutamento di indirizzo strategico che cambia - con un taglio netto - insieme al sistema delle relazioni industriali e alle regole della contrattazione la natura stessa del sindacato, mettendo radicalmente in discussione la sua originale, autonoma collocazione nell'assetto istituzionale del paese.
Vediamo di dare un fondamento ad un giudizio così perentorio. Quel testo si mette definitivamente alle spalle tanto le deliberazioni del XV congresso della Cgil, quanto lo stesso accordo del 23 luglio del '93 che - quale che sia il giudizio complessivo su di esso - ancora riconosceva al contratto nazionale una funzione redistributiva della ricchezza prodotta dal lavoro. La sola funzione che ora gli si attribuisce è quella della "difesa" del potere d'acquisto delle retribuzioni. Nessun aumento retributivo reale è più ammesso a quel livello. Nei contratti si dovrà semplicemente recuperare quanto l'aumento del costo della vita ha eroso nel corso del tempo.
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"Il porto delle nebbie"
Potere contemporaneo, sinistra e 11 settembre
di Franco Soldani
Pubblichiamo in anteprima la Prefazione del nuovo libro di Franco Soldani "Il porto delle nebbie", casa editrice Faremondo Edizioni. Questa casa editrice appena nata fa riferimento alla associazione culturale Faremondo, che da tempo si distingue, tra le altre cose, per le sue inziative in favore della diffusione della verità sull'11 Settembre
La convinzione che il mondo sia profondamente cambiato dopo l’11 settembre 2001, è ormai "conventional wisdom", come amano dire gli economisti, presso l’opinione pubblica internazionale e persino per la comunità accademica dell’intero Occidente. Nondimeno, come tutte le "saggezze convenzionali" anche quella in causa è invece sostanzialmente falsa nella specifica accezione in cui è largamente diffusa e viene ritenuta fondamentalmente vera. Tuttavia, diversamente da altre verità fabbricate ad arte, la convinzione in oggetto è illusoria non perché non sia reale, bensì perché non è quello che si vorrebbe far credere. Il mondo odierno, in altre parole, è in effetti intimamente mutato rispetto al passato, ma per ragioni altrettanto essenzialmente differenti da quelle di solito additate.
Quella data, in effetti, non è affatto uno spartiacque tra epoche diplomatiche differenti della storia più recente del pianeta, né una sorta di segnavia politico tra diversi orientamenti dell’ amministrazione statunitense rispetto alle relazioni internazionali, come se l’apparente multilateralismo e il fittizio approccio cooperativo dei democratici ai problemi fossero stati sostituiti dall’aggressivo decisionismo militare e politico – illegale e sovversivo, si noti la cosa, dal punto di vista della stessa Costituzione statunitense e dell’ordinamento giuridico internazionale (duplice violazione che del resto comincia sin dagli anni ’50 del Novecento) – dell’attuale governo Bush.
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Dodici anni fa, Marco Revelli pubblicò un libro intitolato "Le due destre"
Luigi Cavallaro
Dodici anni fa, Marco Revelli pubblicò un libro intitolato "Le due destre". Vi si sosteneva che lo scenario politico italiano vedeva contrapporsi non una destra e una sinistra, bensì due destre, una tecnocratica ed elitaria, l'altra populista e plebiscitaria. Che entrambe avevano l'obiettivo di offrire una sponda al processo di ristrutturazione in corso nel mondo produttivo, smantellando le regole e le garanzie su cui si era costruito il compromesso socialdemocratico della seconda metà del '900. Che entrambe rimettevano al centro del discorso politico l'impresa, in pro della quale si prefiggevano privatizzazioni del patrimonio industriale pubblico, flessibilizzazione del mercato del lavoro e tagli delle prestazioni sociali (dalle pensioni alla sanità alla scuola). E che, unite nei fini, esse si distinguevano nei mezzi, la destra tecnocratica ed elitaria puntando essenzialmente alla mobilitazione dei ceti medi riflessivi in un progetto di società individualizzata e competitiva, la destra populista e plebiscitaria rivolgendo invece la propria offerta politica alle fasce sociali che più avrebbero sofferto del crollo della domanda indotto dalla dissoluzione del precedente patto sociale, vale a dire la piccola e media impresa, i disoccupati, i precari, i sommersi (e mai salvati).
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Il sogno del nomade. Appunti dalla terra estrema.
di Francesca Matteoni
“In una certa stagione della nostra vita, noi siamo soliti considerare ogni pezzo di terra come possibile luogo
di dimora”.
HENRY D. THOREAU
“Per quale diavolo di motivo volete tornare là? Non è che un vecchio autobus”.
BUTCH KILLIAN, uno dei cacciatori d’alce che trovò il
corpo di Chris McCandless a Stampede Trail, in Alaska nel
Settembre 1992
Ricordare la propria ignoranza
Quando tra il 1845 ed il 1847 il filosofo americano Henry David Thoreau si trasferì a vivere in una capanna nei boschi presso il lago Walden nel Massachussetts, non lontano dalla sua città natale, non compiva una fuga dalla civiltà moderna, ma, parafrasandolo, “recuperava la sua ignoranza” - seguiva un’attitudine primigenia nell’uomo di scoperta e indagine del mondo, che viene inesorabilmente repressa dall’aderenza a modelli prestabiliti (il lavoro, la famiglia, la reputazione) con l’età adulta.
Era il suo un atto profondamente etico, teso a dimostrare che conformandosi senza riserve al modello sociale consolidato si finisce spesso con il disobbedire alla nostra indole più intima, azzittendo quel particolare “genio” che dà all’individuo la sua singolarità.
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La sinistra fuori dalla morsa tra «neo» e social-liberisti
Riccardo Bellofiore
Su queste colonne A. Burgio ha rinvenuto le radici della crisi di governo in una dualità delle culture politiche nell'Unione: i «moderati», con una impostazione neoliberista, versione aggiornata del buon vecchio laisser faire: i «radicali», attenti alle ingiustizie e all'intervento dello Stato. Più che un programma vago, si richiedeva un «compromesso tassativo». Uno scambio, tra quanta «privatizzazione» e quanto «intervento pubblico». Una impostazione del genere affida alla sinistra una missione impossibile. Aver pensato ad un accordo di governo tra «neoliberisti» e «sinistra» mi pare sfuggire a qualsiasi intelligibilità politica. Anche se chiarirebbe non poco sia le sabbie mobili in cui si è finiti, sia perché il confronto nella coalizione è stato condotto alzando quotidianamente alte grida prive di qualsiasi efficacia. Il limite fondamentale è che una tesi del genere dà una rappresentazione falsa di come stanno le cose, e immiserisce la cultura del centro-sinistra. Per capire dove siamo approdati è meglio partire da una, sia pur rozza, dicotomia tra «neo-liberismo» e «social-liberismo».
Il neoliberismo è irriducibile al «lasciar fare». Ha l'ossessione dei «fallimenti dello Stato». Vuole deregolamentare, ridurre il peso dello Stato.
Ma il «libero mercato» va bene solo per il mercato del lavoro, la spesa statale la si falcidia solo nel suo versante sociale.
Al di là di questo perimetro, che include la massima precarizzazione possibile, il neoliberismo tutto è meno che autenticamente liberista. Non attacca le posizioni di monopolio (basta citare Bush e Berlusconi per capirlo). Si disinteressa dei disavanzi statali e del debito pubblico: vuole la riduzione delle imposte, e invade politicamente l'economia (lo chiama «neocolbertismo»).
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Intervista a Emiliano Brancaccio
Docente di macroeconomia presso l’Università del Sannio (di G. Repaci).
1. Professor Brancaccio, ormai è quasi certo che la recessione dell'economia statunitense durerà per almeno tutto il 2008, e mentre Bernake continua a tagliare i tassi d'interesse, Trichet sembra sordo dinanzi alle richieste dei governi di diminuire il costo del denaro. Secondo lei la già debole economia italiana soffrirà per la crisi? Pensa che questa crisi possa cambiare l'indirizzo economico dominante oppure crede che le Banche Centrali continueranno sulla strada del neoliberismo e le sue politiche deflazionistiche?
Da anni ci interroghiamo sulla tenuta di un sistema mondiale sempre più asimmetrico, fondato sulla espansione e sul relativo deficit commerciale americano, sul finanziamento di questo deficit tramite dollari, e sulla corrispondente politica deflazionista e votata all’esportazione di tutti gli altri. Questo sistema scricchiola da tempo, per vari motivi, di classe oltre che internazionali.
Basti pensare al fatto che siamo probabilmente giunti al limite delle capacità di indebitamento privato e di spesa di milioni di lavoratori, americani e non solo. A ciò si aggiunga che i rapporti di credito e debito sono divenuti sempre più articolati e fragili anche tra le stesse istituzioni finanziarie: in questi anni pochi istituti in attivo hanno erogato crediti a tanti istituti in passivo, creando pertanto le condizioni ideali per una propagazione dei fallimenti. E’ dunque possibile che una crisi dei consumi della classe lavoratrice americana, associata a una crisi di fiducia sul dollaro, possa innescare un effetto a catena sull’economia mondiale. Una eventuale recessione generalizzata non agirebbe tuttavia in modo uniforme sull’economia globale. Pensiamo ad esempio a quel che potrebbe avvenire in Europa.
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La crisi finanziaria globale spiazza le visioni ideologiche
Riccardo Bellofiore
La questione di come inquadrare la crisi dei subprime dentro la dinamica capitalistica di lungo periodo è importante. Andrea Fumagalli ha provato a impostarla in un articolo di qualche giorno fa. L'asse del ragionamento è presto detto. I mercati finanziari valorizzerebbero la produttività «immateriale» del lavoro «cognitivo», realizzerebbero una redistribuzione indiretta dal capitale al lavoro, metterebbero in moto un moltiplicatore reale dell'economia. La novità della crisi attuale starebbe nella messa in questione degli assetti gerarchici del comando sui mercati finanziari, sempre più instabili, mentre l'entrata in scena dei fondi sovrani sancirebbe l'abbandono dell'interesse nazionale.
Da qualche anno ho provato a impostare una risposta diversa. Attorno alla metà degli anni '90 si instaura un «nuovo» capitalismo incentrato su una «nuova» politica monetaria e un paradossale keynesismo «finanziario» La domanda finale negli Stati Uniti si incarna sempre più in consumi finanziati con l'indebitamento bancario, grazie all'aumento continuo dei prezzi delle «attività» (azioni, immobili) spinti all'insù da bolle speculative che la Federal Reserve ha non solo sostenuto ma provocato. Il modello si regge su un attivismo statuale molto accentuato. Dietro ci sta un attacco senza requie alla classe dei lavoratori, frantumata nelle figure del lavoratore traumatizzato, del risparmiatore affetto da sindrome maniacale-depressiva, del consumatore indebitato.
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Legare i salari alla produttività è pericoloso e poco economico
di Felice Roberto Pizzuti
L'indagine della Banca d'Italia sui redditi delle famiglie conferma la necessità di aumentare i salari, che non è solo sociale, ma anche economica; stupisce invece che sulla stampa se ne parli come fosse una novità. E' dall'inizio degli anni '90 che i salari sono pressoché esclusi dagli incrementi di produttività e a malapena hanno recuperato sull'aumento dei prezzi; nel frattempo i profitti hanno aumentato la loro quota sul reddito di oltre dieci punti.
Per aumentare i salari, oramai tra i più bassi in Europa, il governo Prodi e le parti sociali stavano ragionando sulla possibilità di utilizzare la leva fiscale; è uno strumento che certamente può concorrere all'obiettivo, ma evitando due rischi. Il primo è che l'ipotizzata riduzione delle imposte sui salari possa essere compensata da tagli alle prestazioni sociali (già proposti da più parti) cosicché la loro sostituzione con acquisti sul mercato vanificherebbe l'aumento della busta paga.
Il secondo rischio è che anche le imprese (come già hanno chiesto) partecipino agli sgravi fiscali, sia direttamente (riducendo i loro contributi) sia indirettamente (contando sugli aumenti in busta paga derivanti dalla decontribuzione dei salari per contenere gli aumenti contrattuali a loro carico).
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Torture su torture
di Christian Elia
Hrw denuncia gli abusi subiti dai detenuti politici nelle carceri del Bahrain
Una manifestazione contro la tortura nelle carceri che finisce con l'arresto indiscriminato dei dimostranti, che vengono a loro volta torturati. Un tragico circolo vizioso in Bahrain, denunciato oggi in un rapporto dall'organizzazione non governativa Human Rights Watch.
Ancora torture. Gli implacabili persecutori di coloro che si macchiano di violazioni dei diritti umani, con sedi a Londra e New York, hanno denunciato alla stampa la brutale repressione attuata dal governo del Bahrain nei confronti dei dimostranti arrestati a metà del mese scorso durante una manifestazione per chiedere giustizia per i detenuti politici vittime di trattamenti inumani nelle carceri della ricca monarchia del Golfo Persico.
“Chiediamo al Bahrain un'immediata inchiesta indipendente per fare chiarezza sugli abusi perpetrati ai danni dei detenuti politici nelle carceri”, ha denunciato Joe Stork, vice direttore di Hrw per il Medio Oriente e il Nord Africa. Secondo l'ong, infatti, a tutti coloro che vennero arrestati il mese scorso in piazza, mentre chiedevano giustizia per gli arresti di massa degli oppositori negli anni Novanta, in carcere sono state garantite botte e torture, e in un caso anche abusi sessuali.
“Chiediamo che i detenuti vengano visitati da un medico indipendente”, ha continuato Stork, “che possa chiarire la reale entità delle denunce giunte fino a noi”.
Un portavoce del ministero degli Interni del Bahrain ha già fatto sapere che tutte le accuse di Hrw sono infondate e che nessun detenuto ha subito trattamenti inumani.
Un Capodanno tragico. Non la pensano così i genitori di Maytham Badr al-Shaykh, un'attivista arrestata il 17 dicembre in piazza a Manama, la capitale del Bahrain. “Quando siamo riusciti ad andarla a trovare in carcere, nel centro di detenzione di Adliyeh, a Manama, ci ha detto che la notte di Capodanno i carcerieri hanno abusato di lei”, hanno testimoniato i genitori della ragazza a Hrw, “violentandola a turno e poi abusandone con oggetti di ogni tipo”. Hani, il fratello di Maytham, ha testimoniato che “mia sorella era in stato confusionale e ha pianto per tutto il tempo della visita. Quando se ne sono accorti, i carcerieri l'hanno trascinata via, ignorando le nostre proteste”.
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Borse, perché gli Usa si giocano il tutto per tutto
Joseph Halevi
L'espressione è «going for broke», giocarsi il tutto per tutto. Via la regola monetaria della banca centrale, via la preoccupazione concernente l'inflazione che viaggia a circa il doppio di quella programmata. Cestinate le anodine spiegazioni riguardo la credibilità della politica monetaria, la Federal Reserve si è lanciata al salvataggio del sistema finanziario riducendo a sorpresa il tasso di interesse dello 0,75%. Non solo: in maniera tipicamente americana, dove i dogmi teorici vengono immediatamente accantonati quando è in gioco il sistema stesso - e di questo adesso si tratta - il governatore della Fed, Ben Bernanke, si è trasformato nel protagonista diretto del rilancio espansivo sul piano fiscale. Tuttavia la reazione del mercato di Wall Street non appare incoraggiante se, di fronte al drastico taglio dei tassi operato dalla Fed, i corsi non riescono a stabilizzarsi.
In questo contesto i mercati finanziari nella loro ottica di brevissimo periodo (si noti che, pur esistendo per scommettere sul futuro, i mercati operano sull'immediato: oggi scommettono sul valore di un titolo fra dieci anni, pronti però a cambiarne radicalmente la valutazione il giorno dopo) si comportano in un modo che ci illumina sulle contraddizioni dell'attuale fase economica.
Le società finanziarie vogliono tanto una politica fiscale espansiva quanto una politica monetaria fondata su bassi tassi di interesse; un vero nirvana keynesiano insomma.
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Neanche l'osso del cane
di Fisher
L’esperienza di un anno e mezzo di governo Prodi e l’atteggiamento tenuto in questo periodo dai due partiti rc e pdci
Questo documento vuole costituire una base di riflessione per tutti i compagni dei due partiti che – almeno ad oggi – hanno la falce-e-martello nel proprio simbolo e che hanno partecipato all’esperienza parlamentare votando ripetutamente la fiducia al governo Prodi. Vi si elencano fatti, ma anche considerazioni politiche, certo non tenere nei confronti delle due dirigenze dei due partiti. Tali considerazioni sono certamente discutibili, ma l’intento è di indirizzare la discussione sui fatti, perché da comunisti non possiamo che basarci sulla loro realtà e non su chiacchiere fatue.
1. Antefatti
1.1. La campagna elettorale e i brogli
Non si può parlare dell’esperienza Prodi se prima non si torna alla campagna elettorale e alle elezioni che segnarono la striminzita vittoria del centrosinistra.
La campagna fu come al solito molto aspra, caratterizzata però da alcuni veleni nuovi che Berlusconi in persona aveva pensato bene di inoculare prima del voto.
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