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Uscire dalle catacombe, contro l’apocalisse culturale
di Geminello Preterossi
Questo sasso nello stagno è una rivendicazione del sapere contro lo scientismo e l’ideologia tecnocratica (che si dissimula come neutrale e oggettiva), delle guglie della bellezza contro il suo appiattimento, della polis come luogo dell’anima contro le caricature impolitiche della soggettività, dell’accettazione consapevole e onerosa delle sfide aspre che ci pone la questione antropologica, tornata al centro del nostro tempo, contro il finto sorriso mostruosamente accomodante del Sistema dell’Iniquità, che produce solo distruzione dell’umano e totalizzazione dell’ostilità. A Gaza abbiamo una rappresentazione paradigmatica della banalizzazione del Male, reso quotidiano e normale dal governo di Netanyahu, che ha portato Israele ormai ben oltre la politica di potenza e la durezza repressiva del passato, quando pure aveva perpetrato orrori, come la strage di Sabra e Shatila, ma nascondendosi dietro la complicità con altri attori, velando le proprie responsabilità, per un residuo di pudore o per calcolo, perché assumerle apertamente avrebbe causato contraccolpi e reazioni in termini di consenso interno e credibilità internazionale. Oggi ogni maschera è caduta, e il Male sistematico (un vero e proprio disegno eliminazionista) viene compiuto direttamente, rivendicandolo.
Eppure, si sente dire, siamo entrati nell’epoca delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Intelligenza Artificiale. Ammesso che lo sia (certo non “creativamente”), quello che manca è l’Intelligenza Collettiva (a dispetto di tutte le elucubrazioni sul General Intellect e sul capitalismo della conoscenza). È il tempo della “scienza” (non del sapere) come riduzione, efficace nel suo perimetro. Efficace esattamente come, dal punto di vista antropologico, lo era la magia nel suo ambito. Ma l’attuale uso della tecnoscienza è efficace anche antropologicamente? Il suo riduzionismo quali implicazioni ha per l’esperienza umana, quali prezzi fa pagare? Siamo sicuri che quella riduzione assicuri una comprensione profonda della complessità della realtà e della nostra stessa soggettività?
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Il corpo a singhiozzo
Femminismo e Smart City
di Elisabetta Teghil
[…] per costringere le persone a lavorare al servizio di altri, che si trattasse di lavoro pagato o meno, il capitalismo ha sempre dovuto ristrutturare l’intero processo della riproduzione sociale, rimodellando il nostro rapporto con il lavoro oltre al nostro senso d’identità, di spazio e tempo, e della nostra vita sociale e sessuale […] S. Federici, Oltre la periferia della pelle, D. Editore p.135
Ma quale Stato, ma quale Dio,Sul mio corpo decido io! (slogan gridato dal femminismo nelle piazze)
Il corpo è mio, dello Stato o del mercato? (striscione della coordinamenta, 25 novembre 2022)
<È tempo di passare dalla pianificazione urbanistica alla pianificazione della vita urbana.> Manifesto della Città dei 15 minuti di Carlos Moreno
La questione del corpo è sempre stata al centro delle teorizzazioni e delle pratiche femministe perché la nostra storia, la nostra memoria e la nostra esperienza ci hanno fatto comprendere l’importanza che la gestione dei corpi riveste per il potere.
Ogni volta che il capitalismo ha avuto la necessità di ristrutturare il processo produttivo ha messo le mani sui corpi direttamente e indirettamente. Ha chiuso i corpi fuori dai terreni comuni con le enclosures, ha bruciato direttamente i corpi refrattari con la caccia alle streghe, li ha marchiati come schiavi, li ha costretti ad accettare la ridefinizione del tempo e dello spazio, gli orari della fabbrica e della scuola ma anche quelli del tempo di lavoro e del tempo libero, ma anche quelli di quando è opportuno sposarsi e non sposarsi, fare figli o non farli…l’arco della giornata, l’arco dell’anno e l’arco della vita scanditi da tempi, modi, spazi definiti per noi dal capitale a seconda delle sue necessità. Ha diviso i corpi delle sante da quelli delle puttane a seconda degli obiettivi che voleva ottenere dalle donne messe al lavoro sessuale, riproduttivo e di cura. Le puttane le ha chiuse nei bordelli, le sante le ha chiuse in casa con leggi, norme, stigmi adeguati e sempre pronti all’uso.
E’ per questo che quando abbiamo letto nel Manifesto della Città dei 15 minuti di Carlos Moreno
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I referendum dell’8-9 giugno: strumenti di riscossa o boomerang?
di TIR
Da lunghi decenni, ormai, la classe operaia e i salariati in generale stanno arretrando fino a vedere messi in discussione anche i diritti più elementari. Sicché la necessità di invertire la tendenza, e cominciare a riconquistare posizioni anziché perderne ancora altre, è oggettiva. Tanto più perché incombe in modo sempre più minaccioso una corsa alla guerra e all’economia di guerra che comporterà un salto di quantità e di qualità nei sacrifici imposti a quanti/e vivono del proprio lavoro, e nella repressione statale. Ne sono stati due assaggi la decisione di portare subito al 2% del bilancio statale le spese per la guerra e il colpo di mano con cui è stato approvato il decreto-sicurezza (ex-DDL 1660).
In questo contesto che cosa rappresenta la prossima tornata referendaria dell’8-9 giugno: uno strumento utile per cominciare a risalire la china o un’iniziativa che agirà come un boomerang?
I suoi promotori – la CGIL e un ventaglio di forze politiche e sociali gravitanti nell’orbita del centrosinistra – chiamano alle urne il “popolo elettore” su 5 quesiti, che riguardano nell’ordine:
1) l’abolizione del dispositivo del Jobs Act di Renzi col quale è stata spazzata via la possibilità del reintegro in Tribunale per i lavoratori licenziati senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti;
2) l’eliminazione dei limiti massimi del risarcimento economico per licenziamento illegittimo nelle aziende sotto i 16 dipendenti;
3) l’abolizione dei contratti a termine privi di causale;
4) il ripristino della responsabilità del committente nel caso di infortunio di un lavoratore dipendente di ditte in appalto;
5) il dimezzamento da 10 a 5 anni di residenza legale quale requisito per acquisire la cittadinanza italiana.
Sulla carta, visto il contenuto di tali quesiti, per chi come noi è da sempre schierato incondizionatamente al fianco dei lavoratori e delle loro lotte, non dovrebbe esserci alcun dubbio nel prendere posizione a sostegno del “sì” a questi referendum.
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Non perdetevi la prossima guerra tra Germania e Polonia
di comidad
Il filo-americanismo ha sempre avuto molti sportelli a cui rivolgersi. Se non sei soddisfatto degli USA in versione ufficiale, c’è sempre “un’altra America” alla quale andare a bussare per sperare di ricevere aiuto e protezione. Si è arrivati al punto che molti nostrani avversari dell’imperialismo americano rivolgessero le proprie aspettative di liberazione ad un presidente USA come Donald Trump. Dal canto suo l’Europetta sembra oggi contrapporsi a Trump, ma solo in nome della nostalgia della cara vecchia America dei neocon; i quali neocon sono tutt’altro che in ritirata, visto che ancora sono preponderanti nella CIA e sono presenti persino nell’amministrazione Trump.
Pare adesso che il filo-americanismo abbia aperto un nuovo sportello addirittura in Vaticano, con sede nel Palazzo Apostolico e vista panoramica su Piazza San Pietro. Purtroppo non ci si risparmia nessun dolore e nessuna privazione; infatti, da quando i papi non sono più italiani, ci si è guastato il gusto dell’anticlericalismo, dato che non si sa più se la merce sia autentica o contraffatta. In Italia la Chiesa Cattolica non ha mai appoggiato il nazionalismo italiano, semmai il contrario; infatti l’unità italiana è stata fatta contro il papato ed a spese dei suoi territori. E poi c’era la tradizione politologica machiavelliana, che ha sempre individuato nella Chiesa di Roma un avversario dell’indipendenza italiana. Quando invece si ha a che fare con cattolici e prelati di altri paesi, non si può essere mai certi che non stiano usando il cattolicesimo come strumento di grandeur nazionale.
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Digitale: abbondanza o sobrietà?
di Francesco Fullone
Ho appena terminato Inferno digitale. Perché internet, smartphone e social network stanno distruggendo il nostro pianeta (titolo originale The Dark Cloud: How the Digital World Is Costing the Earth) di Guillaume Pitron (Luiss 2022) con quel misto di curiosità intellettuale e preoccupazione che caratterizza la lettura di opere capaci di svelare meccanismi nascosti dei nostri sistemi. Pitron – già noto per La guerra dei metalli rari, Feltrinelli 2019 – compie un’operazione illuminante: rivelare l’insostenibile pesantezza di ciò che consideriamo immateriale. Il paradosso della nostra epoca digitale si manifesta proprio qui: abbiamo abbracciato il digitale come via di fuga dalla materialità solo per scoprire che stiamo costruendo la più grande infrastruttura materiale della storia umana.
La materialità nascosta: il peso invisibile del virtuale
Il concetto di MIPS (Material Input Per Service unit), come illustrato da Pitron, rappresenta un cambio radicale di prospettiva: anziché considerare solo il prodotto finale, abbraccia l’intero ecosistema materiale che lo ha generato. I numeri che emergono sono sbalorditivi: uno smartphone di 200 grammi incorpora un peso ecologico reale di 70 chilogrammi (rapporto 350:1), un microchip di 2 grammi nasconde 32 chilogrammi di materiali (rapporto 16.000:1) e un anello d’oro di 5 grammi porta con sé l’impressionante cifra di 3.000 chilogrammi di impronta materiale (rapporto 600.000:1).
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Draghi rilancia il manifesto per un imperialismo europeo
di Sergio Cararo
Mario Draghi ha messo in fila, uno dietro l’altro, i punti di crisi e i parametri fondamentali per un imperialismo europeo, inseguito da anni ma ancora rallentato dalle proprie contraddizioni interne.
Lo ha fatto intervenendo a Coimbra lo scorso 14 maggio alla conferenza del Cotec (una fondazione privata per la competitività creata da Confindustria, ndr), al suo fianco, emblematicamente per un evento privato, c’era anche il Presidente della Repubblica Mattarella. Di questo evento abbiamo già dato conto nei giorni scorsi sul nostro giornale. Riteniamo però utile tornarci sopra perché l’intervento di Draghi va ben compreso.
L’obiettivo principale dell’evento – stando a quanto riporta il sito dedicato – è stato quello di definire azioni concrete per rafforzare la posizione dell’Europa nello scenario globale, promuovendo una cooperazione più stretta tra Portogallo, Spagna e Italia come modello di integrazione. “Un’attenzione particolare è stata dedicata alla creazione di partnership industriali nei settori strategici di Aerospazio e Difesa, Scienze della Vita e Salute, Microelettronica, High Performance Computing (HPC) e Intelligenza Artificiale“.
“Si dice spesso che “l’Europa avanza solo in caso di crisi”. Ma a dire la verità la nostra crisi è iniziata quasi vent’anni fa”, ha affermato Draghi nel suo intervento a Coimbra.
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Bye bye, Occidente… Il futuro energetico passa altrove
di Claudio Conti
Sta succedendo qualcosa di enorme, ma si continua a cianciare come se tutto scorresse sempre uguale. Neanche le guerre e i genocidi emergono più come momenti rilevanti del presente. Son considerati “normali”, magari disdicevoli e di cattivo gusto, ma in fondo “un lavoro sporco che qualcuno deve pur fare”.
Una ottusità generale gravissima, che impedisce persino di vedere e quindi concettualizzare i passaggi decisivi della Storia. En passant, si è smesso – qui nell’Occidente neoliberista – di parlare della transizione energetica, e soprattutto dei giganteschi piani di riconversione industriale che sarebbero dovuti partire per realizzarla praticamente.
Persino le decisioni che sembravano già prese in via definitiva – come il divieto di immatricolazione per le auto diesel e benzina a partire dal 2035, nell’Unione Europea – sono tornate nel cono d’ombra del “vedremo”. Anche se è chiarissimo che, per cambiare radicalmente la produzione automobilistica del Vecchio Continente, quella data è già fin troppo vicina. Se non si parte ora, non si arriverà mai in tempo. E quindi si rinuncerà a quel pur minimo obiettivo…
Negli Stati Uniti in versione Trump la parola d’ordine è stata “drill, drill, drill”, un incitamento operativo a lasciar perdere la corsa all’energia pulita e concentrarsi invece sui giacimenti (residui) di petrolio e gas. Anche se negli Usa si estrae ormai quasi soltanto dai giacimenti di scisto o dalle sabbie bituminose, a costi altissimi – sia economici che ambientali – tanto che se il prezzo del barile scende sotto i 60 dollari si produce in perdita.
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Note preliminari sul «sistema degli Stati»
di Raffaele Sciortino e Robert Ferro
Pubblicato originariamente sulla rivista britannica «endnotes.org.uk» con il titolo di «Prologomena on the "System of States"», il saggio di Raffaele Sciortino e Robert Ferro, di cui qui presentiamo la traduzione a cura di Kamo Modena rivista dagli autori, offre alcune coordinate teoriche, a partire dai testi marxiani e da alcuni dibattiti successivi, per comprendere che cosa sono gli Stati e come funziona la loro articolazione in un sistema all’interno del «mercato mondiale», altra importante categoria marxiana. In tempi di sconquasso dell’ordine globale, il dibattito su questi nodi e il possesso di una griglia interpretativa teorica sono requisiti indispensabili se si vogliono comprendere e afferrare politicamente le trasformazioni in atto.
* * * *
Introduzione
È generalmente noto che Karl Marx, nel piano del Capitale, prevedesse una sezione dedicata allo Stato – sezione di cui non scrisse nemmeno una bozza. Dopo di lui, numerosi autori hanno insistito sull’incompletezza della teoria marxiana a questo riguardo, e benché nessuno di essi si sia prefissato il compito esplicito di portare a compimento il progetto originario di Marx, vi sono stati alcuni tentativi di colmare almeno parzialmente questa lacuna. Prendendo le distanze dall’opinione prevalente, in questo saggio si sostiene che lo Stato in quanto tale non presenta particolari ostacoli alla teoria marxista, e che il suo armamentario concettuale è sufficiente per condurne un’analisi esaustiva. L'articolazione a partire dalla quale la faccenda diventa più delicata risiede nel passaggio dall’astratto al concreto, che nell’opera di Marx coincide con la transizione dal concetto di capitale in generale alla molteplicità dei singoli capitali in concorrenza fra loro.
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Ucraina: senza un bagno di realismo il negoziato resta al palo
di Gianandrea Gaiani
Il negoziato per la pace in Ucraina dopo i colloqui tra le delegazioni russa e ucraina in Turchia e la conversazione telefonica tra Donald Trump e Vladimir Putin, sembra arenarsi sugli scogli di sempre: da un lato la pretesa russa che Kiev e l’Europa tengono conto della situazione sul campo di battaglia, dall’altro la pretesa di ucraini ed europei che Mosca accetti di sospendere le operazioni militari per un mese per negoziare.
“Russia e Ucraina inizieranno immediatamente i negoziati per un cessate il fuoco” ha detto Trump dopo la conversazione con Putin definita “molto positiva. Russia e Ucraina avvieranno immediatamente i negoziati per un cessate il fuoco e, cosa ancora più importante, per la fine della guerra”, ha scritto Trump. Secondo il presidente americano, le condizioni dell’accordo saranno stabilite dalle due parti, perché “solo loro conoscono i dettagli” necessari a raggiungere un’intesa autentica.
Dettagli a dire il vero sostanziali sulla cui definizione Trump sembra volersi sottrarre preferendo sottolineare che la Russia sarebbe pronta ad avviare un commercio su larga scala con gli Stati Uniti una volta raggiunta la pace: “C’è un’enorme opportunità per la Russia di creare posti di lavoro e ricchezza. Il suo potenziale è illimitato”. Allo stesso modo il presidente ha evidenziato le prospettive economiche future per l’Ucraina, parlando di grandi benefici nel contesto della ricostruzione del Paese dopo la fine del conflitto.
Trump come sempre esalta le prospettive economiche determinate dalla fine del conflitto e ha posto l’enfasi sul ruolo che potrà avere il Vaticano con Papa Leone XIV nel guidare i negoziati ma in termini di sostanza dal faccia a faccia telefonico è emersa la conferma che USA e Russia marciano verso il ristabilimento di importanti relazioni bilaterali, non certo l’imminenza di un accordo per il cessate il fuoco e la pace in Ucraina.
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Warfare... E’ tempo di darsi una mossa!
di Carlo Lucchesi
In politica è buona regola agire sulle contraddizioni dell’avversario. Per farlo, però, occorre un’analisi chiara della situazione, e quella presente la rende particolarmente difficile perché le variabili da decifrare sono veramente tante. Quello cui si dovrebbero dedicare quanti stanno nel campo opposto all’imperialismo USA, alla Nato e a questa Europa russofoba e del riarmo è tentare un’interpretazione più vicina possibile alla complicatissima realtà delle cose.
1. Fino all’arrivo di Trump la situazione era abbastanza chiara. La guerra in Ucraina era stata programmata da tempo dagli USA e provocata col rifiuto di ascoltare le sacrosante ragioni della Russia. L’obiettivo era duplice: destabilizzare la Russia fino al collasso e riportare l’Europa sotto il tallone degli USA annullandone l’ambizione a essere la terza grande potenza del pianeta. L’amministrazione democratica ha fallito il primo (ma probabilmente i suoi strateghi non l’hanno abbandonato), mentre ha raggiunto pienamente il secondo, almeno fino a quando è stata in carica. Nel percorso compiuto, dal punto di vista degli USA le varie tappe sono state linearmente coerenti con i propositi. Accanto all’ininterrotta escalation nella consegna all’Ucraina di armamenti sempre più offensivi, le sanzioni, il sabotaggio del gasdotto Nord Stream e la partita degli approvvigionamenti energetici sono stati i passaggi più emblematici. Se guardiamo le cose dal versante dell’Europa, invece, non si può fare a meno di chiedersi perché ha deciso di farsi tanto male sottomettendosi incondizionatamente alla volontà degli USA. Si possono abbozzare solo supposizioni ripercorrendo gli avvenimenti. Poche ore dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, Macron e Scholz hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche nelle quali dicevano che era possibile e auspicabile ricercare una composizione del conflitto. Dopo altre pochissime ore hanno assunto una posizione opposta, quella che hanno mantenuto e confermato da allora in avanti lasciando di fatto la linea politica dell’Europa nelle mani dell’UK, che dell’UE non faceva più parte.
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L’Italia “sovranista” serva di Netanyahu
di Alessio Mannino
Cari sovranisti all’italiana, la domanda non è se, ma quanto vi piace che i dati sul vostro telefonino o computer siano controllabili dal Mossad, il servizio segreto estero d’Israele? Due anni fa, più esattamente il 10 marzo 2023, il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu si incontrò a Roma con Giorgia Meloni e con alcuni rappresentanti dell’economia del nostro Paese, ai quali dichiarò il proprio auspicio per “un salto significativo nella cooperazione tra Italia e Israele”, dicendosi pronto ad “aumentare le relazioni tecnologiche ed economiche”. Fra quelle tecnologiche, c’era l’ingresso di aziende di Tel Aviv nella sicurezza informatica italiana, come poi ha confermato il ddl sulla cybersecurity, approvato in via definita nel giugno 2024 con un testo che, dopo una prima versione che circoscriveva il perimetro a tecnologie esclusivamente Ue o Nato, ha poi incluso anche quelle israeliane. Ora, non è un mistero che gli apparati d’Israele, i più avanzati al mondo nel comparto spionaggio, siano contigui alle proprie imprese nel settore. È stato ampiamente scritto a proposito del caso Pegasus, lo spyware del gruppo NSO utilizzato da governi, democratici e non, per spiare imprenditori, attivisti e giornalisti scomodi (fra cui Jamal Kashoggi, assassinato dai sauditi). E, fra le varie, si può citare la quasi concomitanza, in quello stesso mese di marzo del 2023, di un memorandum firmato tra la fondazione Med-Or (finanziata dall’industria militare Leonardo e presieduta dall’ex ministro piddino Marco Minniti) e l’Institute for National Security Studies (INSS) guidato da Manuel Trajtenberg, più volte consulente della difesa di Tel Aviv.
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Economia neoclassica: una rete che non prende pesci
di Luca Cangianti
Francesco Schettino, Socializzare i profitti. Le leggi generali dell’economia politica nell’era dell’Antropocene, pref. Clara E. Mattei, Meltemi, 2025, pp. 262, € 20,00
Alcune parti del pensiero di Karl Popper sono sicuramente discutibili, specialmente in ambito politico. Però la metafora delle teorie scientifiche che sarebbero reti gettate sul mare della realtà per afferrare i «fatti» mi sembra suggestiva. Certo, è stato detto che a ben vedere i «pesci» stessi sarebbero prodotti (piuttosto che pescati) da tali reti, e che, a seconda della rilevanza del pesce, i pescatori sarebbero indotti a mutar metodo di pesca. Fatto sta che intorno al 1870 gli economisti hanno cambiato le loro attrezzature di pesca e oggi si insegna quasi esclusivamente il paradigma neoclassico. Tutto il resto è relegato nei pressi dello sgabuzzino delle scope e dileggiato come «eterodossia». Gli eretici però esistono e ciclicamente tornano all’attacco, perché il pesce portato a tavola è piuttosto insipido. In tale contesto, Socializzare i profitti di Francesco Schettino è una scialuppa di salvataggio per tutti i lettori curiosi di capire meglio cosa c’è dietro i manuali patinati che si studiano nelle facoltà di economia di tutto il mondo.
Il libro si prefigge di smontare il paradigma ortodosso e mostrare cosa non va. L’oggetto dell’economia neoclassica è costituito dall’efficienza, ovvero dall’allocazione ottima di risorse scarse.
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Ma è corretto dire che Putin è un “dittatore”? Non proprio
di Emanuele Maggio
Chiariamo il linguaggio per chiarire il pensiero
Ma è corretto dire che Putin è un dittatore? Al netto di torti e ragioni, il conflitto ucraino vede davvero uno scontro fra democrazia europea e dittatura russa? Risposta breve per entrambe le domande: NO.
Le parole sono importanti, e siccome Wittgenstein diceva che compito della filosofia è chiarire il linguaggio, proverò a chiarire la questione attingendo dalla letteratura scientifica. Avviso che sarò estremamente sintetico (data la vastità dell’argomento).
Innanzitutto è importante partire dalla distinzione tra democrazia formale (quella scritta “sulla carta”) e democrazia reale (quella che realmente c’è). Dobbiamo al Marx della “Questione ebraica” la prima formulazione esplicita di questa distinzione, che poi è entrata nel linguaggio politologico e giuridico, anche “borghese”.
La democrazia FORMALE (nella sua versione moderna) è un sistema costituzionale e parlamentare che garantisce diritti politici individuali e universali, uguaglianza giuridica e giudiziaria, separazione e pluralismo dei poteri. In essa, le minoranze responsabili delle decisioni pubbliche non seguono il proprio arbitrio ma sono emanazione legittima e rappresentativa di maggioranze popolari, che a loro volta hanno strumenti per controllare, criticare e sostituire quelle minoranze, affinché siano sempre rappresentative e mai autoreferenziali.
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Dopo la fine del comunismo storico novecentesco
di Diego Giachetti
Il libro, André Tosel, Sulla crisi storica del marxismo. Saggi, note e scritti italiani, a cura di Sergio Dalmasso, pubblicato da Mimesis (2025), è il compimento di un debito personale verso l’autore, che il curatore ha avuto la fortuna di conoscere. Omaggio a un pensiero complesso, un interrogarsi che ha percorso l’intera vita di questo intellettuale e attivista politico. Partecipe, per sua stessa ammissione, al travaglio di una generazione che ha vissuto sia le speranze della rivolta operaia e studentesca del 1968, sia la convinzione che la strategia comunista del passaggio democratico al socialismo potesse introdurre importanti riforme nella struttura sociale. Una generazione che ha vissuto in breve tempo l’affermazione e lo scacco di quella strategia.
André Tosel (Nizza 1941 - 2017) ha insegnato presso le università di Parigi, Digione e Nizza. I suoi studi e interessi spaziano da Kant a Spinoza a Marx e Gramsci di cui è stato il maggior conoscitore e traduttore in Francia e sulla filosofia italiana (Vico, Labriola, Gentile). Di formazione cattolica, studente alla Scuola Normale Superiore, subisce l’influenza di Louis Althusser. L’indignazione contro la guerra francese in Algeria lo indirizza verso il marxismo, con le dovute cautele derivanti dallo choc prodotto dal rapporto Kruscev sui crimini di Stalin del 1956, il culto della personalità, l’intervento sovietico in Cecoslovacchia nel 1968.
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Europa: il tramonto di una civiltà
di Alberto Bradanini
I meno sprovveduti tra gli abitanti del Vecchio Continente dovrebbero convenire che la rappresentazione dell’Europa – regione geografica, l’insieme disordinato di stati nazionali (sovrani solo sulla carta) o la cosiddetta Unione (Ue) – si colloca decisamente sopra le righe, in buona sostanza non risponde al vero. Coloro che sono persuasi del contrario, possono interrompere qui la lettura di un testo che troverebbero inutilmente corrosivo nei riguardi dei loro convincimenti.
Tale riflessione d’esordio presume un rispecchiamento dell’Ue che potremmo riscontrare tra le liane della giungla amazzonica, dal momento che la comprensione della sua identità legale e istituzionale, così come della sua essenza teleologica richiede un dispendio di energie di norma superiore a quanta se ne ha a disposizione. In assenza del sottostante, un popolo europeo – che solo la storia avrebbe potuto costruire, ma non lo ha fatto – il livello di coesione delle sue cosiddette classi dirigenti, simile a quello delle onde in modulazione di frequenza, cambia orientamento a seconda del punto cardinale da cui sorge la luna.
È sufficiente uno sguardo distratto, o qualche pagina web, per comprendere che il tempo presente è quello in cui l’Europa – la cui storia millenaria, tragica e arruffata come poche, resta peraltro sconosciuta ai più – vede dileguare quei lineamenti che un tempo le avevano meritato la qualifica di civiltà. Il continente è oggi null’altro che una regione-bersaglio guidata a meri fini estrattivi da entità solfuree ma brutali, vale a dire dai detentori del capitale globale, quelli che smittianamente decidono sullo stato di emergenza, una sofisticata terminologia questa per significare che sulle questioni che contano davvero son loro a decidere. Costoro ponderano l’Europa in una forma diversa rispetto ai cittadini europei (in larga parte frastornati dal rumore di fondo della Grande Menzogna) o extra-europei, questi distanti e ancor più indifferenti. E la democrazia? Beh, quella serve per riempire il nulla che nulleggia delle marionette che occupano le poltrone del potere. Vediamo.
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Ursula e Al Jolani: destini paralleli. Terrorismo: Il Re è nudo, ma regna
di Fulvio Grimaldi
Torno su due eventi della settimana scorsa che, nel ritmo con cui si susseguono di questi tempi accadimenti importanti, strategici, quasi sempre sconvolgenti, rischiano di finire nel cassone cerebrale di casa. Mi riferisco a due eventi epocali relativi a protagonisti di questa fase sullo spicchio di pianeta nel quale abbiamo la non felice sorte di vivere noi. Eventi che strappano veli su fatti, meglio malefatte, del recente passato, e che minacciano di incidere pesantemente sui livelli di legalità, democrazia e verità.
Iniziamo con il caso che sembrerebbe riguardarci più da vicino, sebbene l’altro comporti senz’altro conseguenze più rilevanti e globali. E’ il caso della governatrice del continente europeo (Russia e componenti minori escluse). Il tribunale europeo la marchia di illegalità, cioè ce la restituisce da fuorilegge, malfattrice per aver fatto dell’industria farmaceutica USA, ma non solo, la temporaneamente massima potenza profittatrice delle nostre vite e dei nostri soldi. E ciò a forza di miliardi probabilmente indebiti, sicuramente in eccesso e all’insaputa di tutti noi che saremmo titolati a sapere. Seppure nei limiti di quanto impongono le democrazie occidentali nell’era perenne del marchese del Grillo: io so’ io e voi (parlamento e cittadini) nun siete un cazzo.
La cosa è significativa anche perché ribadisce, appunto, un metodo. Difatti in questi giorni si sta ripetendo, non tanto nella forma della dazione di denari all’insaputa di coloro che ne dovranno fare a meno, quanto in quella della costruzione, via legge che i denari li estrae dai singoli paesi, del nuovo pilastro dell’ultracapitalismo europeo: il militare. Il militare nelle due configurazioni che ne costituiscono anima e corpo: le industrie produttrici di armi e coloro che ne fanno poi uso.
Ursula, già lobbista e ministra– alla pari di Crosetto – di quel settore politico-economico in Germania, è oggi giunta felicemente al potere assoluto con un premier Blackrock (azionista delle maggiori industrie belliche del mondo e non solo), trascorre di illegalità in illegalità.
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La Spy-Op artica della Nato
di Giuseppe Masala
Una asfissiante campagna di stampa occidentale racconta l'aggressività russa in Scandinavia. Ma la realtà è esattamente opposta
Uno dei concetti chiave della dottrina militare della Nato e degli Stati Uniti è conosciuto con il nome di Full Spectrum Dominance, “dominio a pieno spettro”. Questo nome indica il principio che la Nato e gli USA per vincere una guerra non devono usare solo lo strumento militare ma una combinazione di strumenti che possa ottenere l'obiettivo politico che si vuole raggiungere. Tra gli strumenti vi è certamente l'utilizzo delle sanzioni o l'attacco finanziario posto in essere con le enormi entità finanziarie americane e occidentali così da ottenere – in definitiva – il collasso economico della nazione che si vuole colpire. Oppure l'utilizzo di strumenti diplomatici, magari anche attraverso istituzioni sovranazionali di cui si ha il dominio politico di fatto, come ad esempio la Corte Penale Internazionale, che immancabilmente incrimina e condanna gli esponenti politici dei paesi avversari dell'Occidente: ultima ipotesi in ordine di tempo è stata l'incriminazione di Vladimir Putin. Oppure ancora uno strumento può essere considerato anche l'ecosistema delle ONG occidentali che in moltissimi casi operano per destabilizzare i paesi che gli USA, la Nato o la UE vogliono colpire.
Quindi come si vede, nel concetto di guerra elaborato dai pianificatori occidentali vanno inclusi strumenti non propriamente bellici ma che possono essere utili per raggiungere l'obbiettivo, sperabilmente rendendo non necessario l'intervento militare diretto.
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La nuova “soluzione finale” è in diretta
di Lavinia Marchetti
Ieri Israele ha inaugurato la fase più spaventosa di ciò che, secondo ogni parametro del diritto internazionale, può essere definito genocidio: l’invasione via terra dell’intera Striscia di Gaza.
Non si parla più di operazioni militari mirate, ma di una distruzione sistematica, finalizzata, ideologica.
Un massacro terminale.
Le testimonianze che arrivano, poche, sempre meno, perché i giornalisti sono stati fisicamente eliminati o tecnicamente silenziati, raccontano una ferocia che non conosce precedenti.
Colonne di carri armati avanzano sulle rovine delle zone già designate come “sicure”, radendole al suolo con colpi d’artiglieria nel mucchio.
L’aviazione colpisce senza tregua. Le bombe si susseguono come un metronomo dell’annientamento. Ogni notte una sinfonia mortuaria.
Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, nelle ultime quarantotto ore almeno centocinquantatré persone sono state uccise e oltre quattrocentocinquanta ferite nei bombardamenti israeliani, con attacchi continui e concentrici su Rafah, Khan Younis e i corridoi dell’evacuazione umanitaria.
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I pronostici di Arestovic: un futuro funesto per l'Ucraina nazi-banderista
di Fabrizio Poggi
Al momento di scrivere, l'unica cosa che è dato sapere a proposito della telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin (a quanto pare, tuttora in corso) è quanto dichiarato dal portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov, e cioè che non si prevede ancora un incontro diretto tra i due presidenti.
In compenso, pare si sprechino i pronostici su colloqui russo-ucraini a Istanbul e su prospettive del conflitto. Per parte russa l'osservatore Maksim Ševcenko ritiene che il conflitto possa durare fino al 2029, con una UE che oscilla ancora tra i punti di vista di Washington e Mosca e «cesserà di essere indecisa quando andranno al potere forze che la Washington trumpista identificherà come alleate», come Viktor Orbán, Robert Fitso, l'austriaca “Libertà”, AfD” in Germania e Rassemblement National in Francia, col romeno George Simion, che si oppone alle forniture di armi all'Ucraina, quale segnale importante della vittoria dei trumpisti in Europa: «questo è un passo avanti verso la fine della guerra anche senza un cessate il fuoco», afferma Ševcenko.
Putin e Trump soffocheranno l'Unione Europea, dice: la «UE non ha molte possibilità. Il conflitto ucraino è una trappola in cui è caduta la Russia, ma ne sta uscendo con l'aiuto di Trump. La UE ci è però finita molto più a fondo. Non è ancora certo che possa ottenere qualcosa in caso di pace sull'attuale linea del fronte, perché Trump sta mettendo le mani su centrali nucleari, porti e giacimenti di uranio, finora rivendicati dalla Francia».
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Non legitur
di Davide Miccione
Qualcuno ogni tanto dovrà pur dire ciò che, per quanto sia imbarazzante, è evidente. Ci sarà un limite alle “cose opportune”, alle pietose bugie, alle flaubertiane idee correnti, alle ipocrisie, ai moniti solenni, alle retoriche parole che possono essere dette e che una società può reggere. Un limite di non-parresia oltre il quale si soccombe, un limite di dissimulazione, onesta o disonesta che sia, oltre il quale la realtà non la becchi proprio più.
È un limite questo che non riguarda solo le grandi questioni: la geopolitica, l’economia, la virologia, la guerra e la pace ma anche quelle apparentemente meno grandiose. In teoria la verità la dovrebbero inseguire quei pochissimi filosofi che sono disposti a pagarne il prezzo ma a volte, forse più spesso, scappa dalla penna degli scrittori veri (per non citare sempre Pasolini si pensi a Bianciardi, ad esempio). Ne è scappata una piuttosto importante a un ottimo scrittore e saggista, Giuseppe Montesano sul non sempre interessante Robinson, inserto letterario di la Repubblica. Montesano afferma, nel numero del 2 febbraio 2025, con dolore, con imbarazzo, con perplessità, una cosa che ci dobbiamo decidere a dire: non si legge più, e se si legge si legge poco, male, con sofferenza e senso di colpa. Intorno a noi la gente (quella che leggeva e amava i libri) non legge più. Vorrebbe, forse ne ha nostalgia, si ripropone di farlo, magari compra anche dei libri, ma non legge più, non ci riesce.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Quinta parte. Il controllo operaio della produzione
L’illustrazione qui sotto ritrae il capolavoro di Ivan Dmitrievič Šadr (1887-1941): “La pietra è l’arma del proletariato” (Булыжник - оружие пролетариата, 1927): inizialmente gesso, trasformato poi in bronzo, nello stile a noi familiare, “classico”, appreso dall’Autore a Parigi e a Roma, un po’ Discobolo e un po’ David, questo operaio compie un gesto magnifico, nel vero senso etimologico del termine.
A gran parte degli osservatori sfuggono le dimensioni di questa roccia, piegata, staccata dalla nuda terra e pronta per essere scagliata contro gli oppressori. Vale, quindi, la pena guardare la scultura anche da un’altra angolatura, decisamente più rivelatrice: da un lato, il macigno strappato dalla nuda terra costringe il corpo a torcersi all’indietro, le braccia a tendersi oltremisura nell’immane raccolta, tutti i muscoli a contrarsi nello sforzo; dall’altro lo sguardo, non più armonicamente piegato nel senso del movimento di torsione, come nel Discobolo, si alza, meglio, “si solleva” come la classe operaia oppressa, punta dritto davanti a sè, sicuro, senza paura, determinato a scagliare quel macigno addosso al nemico di classe. Siamo già oltre il Discobolo: il macigno si sta staccando, il vincolo che teneva la molla in tensione è stato tolto e la scarpaccia ferma, puntata in avanti, non solo fa da puntello all’operaio nel suo immane compito, ma già proietta, come una molla, per l’appunto, l’intera figura oltre la barricata nemica. Non importa che quel macigno l’abbia a malapena staccato da terra; io, con la testa, son già là dove deve andare! Da qui l’idea, la filosofia di fondo alla base di questa scelta autoriale: non più la potenza fine a sé stessa, raccolta, massimizzata nella torsione, ma che PRELUDE all’atto, come nel Discobolo classico, ma la potenza che DIVENTA GIÀ atto, insurrezione, Rivoluzione.
Col senno di poi, esiste anche un’altra lettura, ex post per l’appunto. La sproporzione fra l’operaio minuto, “tutto nervetti e muscoletti”, come un mio amico amava definire il fisico à la Bruce Lee, e quel mastodontico sampietrino che pare già un’impresa staccare da terra, oggi ci suggerisce anche la sproporzione fra compito da svolgere dalla classe operaia russa e risorse a essa a disposizione, ovvero l’immane problema che quegli operai erano chiamati a risolvere.
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La concezione dialettica dell’errore e degli opposti: una via verso la conoscenza della verità
di Eros Barone
La verità e il mattino si rischiarano a poco a poco.
Proverbio tedesco
1. Il concetto di errore in un contesto marxista e la tradizione occidentale
Il concetto di errore può essere discusso con maggiore chiarezza in un contesto marxista, in quanto il marxismo è un sistema teorico esplicitamente finalizzato – si pensi alla definizione engelsiana del marxismo come “guida per l’azione”, ripresa da tutti gli altri classici del socialismo scientifico - in cui ci si propone sia di operare dal punto di vista del proletariato, che esprime l’interesse generale di tutta l’umanità, sia di acquisire la comprensione del mondo per modificarlo. In questo senso, il marxismo, inserendo i fenomeni in un contesto complessivo, dispone di una base esplicita per decidere scientificamente quale tipo e grado di conoscenza siano necessari per attuare i cambiamenti verso cui tende.
D’altronde, vi sono certi aspetti dell’epistemologia occidentale attualmente dominante che vanno criticati in quanto agiscono come veri e propri ‘ostacoli epistemologici’, ossia come fallacie che generano errori. Una di queste fallacie, che qui non è possibile discutere, è, ad esempio, la definizione di conoscenza ‘oggettiva’ come conoscenza indipendente dal contesto e disinteressata, laddove la scissione tra conoscenza ‘pura’ e applicazioni pratiche trova riscontro nella scissione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, così come tra concezione ed esecuzione, che sempre più caratterizza ogni sorta di attività. Anche se le radici di tale scissione si possono individuare nella Grecia classica e altrove, non è necessario spingersi così lontano nel tempo giacché la forma oggi dominante risale all’Europa del Seicento. Si pensi a Descartes, il quale fa immediatamente seguire alla dimostrazione della sua stessa esistenza – ‘cogito, ergo sum’ – una prova dell’esistenza di Dio, cioè dell’Altro, laddove l’opposizione ‘sé/Altro’ diviene il modello per tutta una serie di polarità dualistiche: ‘anima/corpo’, ‘mente/materia’, ‘uomo/natura’, ‘individuo/società’, ‘soggettività/oggettività’, ‘organismo/ambiente’, ‘noi/loro’ ecc.
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«La Nato è un’auto fuori strada, con centralina in avaria e autista ubriaco»
di Fabio Mini
Il generale denuncia l’inadeguatezza strategica dell’Alleanza atlantica, incapace di adattarsi al nuovo scenario globale
Mentre l’Unione europea insiste nel sostenere una guerra già persa, l’America di Trump tratta con Mosca e prepara l’uscita di scena. Intanto l’Alleanza atlantica, fra leadership compromesse, assenza di visione e derive belliciste, rischia di implodere. In questo brano tratto dal suo ultimo libro, l’ex comandante Nato in Kosovo analizza il tramonto dell’Alleanza. E mette in luce l’irresponsabilità strategica di Bruxelles, incapace di immaginare la pace e ancora meno di combattere una guerra che non è più la sua.
* * * *
Donald Trump non attribuisce alla Nato alcun valore geopolitico. Come i suoi predecessori, la vede come un proprio strumento per impedire all’Unione europea di raggiungere un minimo grado di autonomia in materia di sicurezza e tenerla in pugno con la politica e l’economia. Tale posizione si oppone in modo decisivo all’idea di sviluppare una difesa europea autonoma separata dagli Stati Uniti.
Fino a una decina di anni fa la cosa poteva dare fastidio a tutti gli europeisti convinti, ma alla luce dell’atteggiamento ostile a qualsiasi forma di dialogo con i potenziali avversari e competitori dimostrato dai funzionari dell’Unione europea in tutte le crisi, oggi è quasi una fortuna che l’Europa non abbia uno strumento militare da brandire.
L’intera classe politica europea si è dimostrata pericolosamente immatura nella gestione degli strumenti militari. Non solo sono stati ignorati i rischi e le conseguenze di un conflitto, ma la guerra è stata invocata e sostenuta per costringere ad accelerare dei processi intrinsecamente complessi come la transizione energetica, la transizione ecologica, la transizione tecnologica. Ogni transizione è necessaria ed è uno stadio che richiede più risorse e soprattutto maggiore stabilità.
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Il Grande Gioco di Trump
di Luca Serafini
Vogliamo continuare ad approfondire il tema dei veri obiettivi della politica economica di Trump che, come abbiamo già visto, non è puramente economica, ma persegue ben precisi fini geopolitici, con un’ampia veduta strategica.
Mentre in Europa il dibattito pubblico politico e nei media si focalizza sulla sterile sceneggiata di minacce su dazi e controdazi, riteniamo più utile condividere studi e riflessioni che offrono diversi significativi spunti di analisi.
Sono interessanti in questo senso alcune delle considerazioni dell’economista James K. Galbraith1 che, nel numero di febbraio 2025 della rivista, di tendenza democratica fondata nel 1865, The Nation, ha pubblicato nell’articolo-intervista The Political Economy of Trumpism.
Lo scorso autunno, Donald Trump ha minacciato di imporre nuovi e severi dazi su Messico, Canada e Cina. Recentemente ha aggiunto alla lista dei bersagli anche l’Unione Europea, a meno che le nazioni che ne fanno parte non «compensino il loro tremendo deficit con gli Stati Uniti acquistando su larga scala il nostro petrolio e il nostro gas».
Gli economisti tendono a valutare i dazi come buoni o (per lo più) cattivi in base ai precetti generali della teoria economica. Ma, come Trump sicuramente sa, nel mondo reale servono anche a obiettivi politici.
(…)
Il perno della politica tariffaria di Trump, tuttavia, non è il Messico, il Canada o la Cina, ma l’Europa.
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La nuova era oscura
di Chris Hedges per scheerpost.com del 18 maggio
IL CAIRO, Egitto — Ci sono 320 chilometri da dove mi trovo al Cairo al valico di frontiera di Rafah per Gaza. Parcheggiati nelle aride sabbie del Sinai settentrionale, in Egitto, ci sono 2.000 camion carichi di sacchi di farina, cisterne d’acqua, cibo in scatola, forniture mediche, teloni e carburante. I camion sono fermi sotto il sole cocente, con temperature che raggiungono i 36 gradi.
A pochi chilometri di distanza, a Gaza, decine di uomini, donne e bambini, che vivono in tende rudimentali o in edifici danneggiati tra le macerie, vengono massacrati quotidianamente da proiettili, bombe, attacchi missilistici, proiettili di carri armati, malattie infettive e dalla più antica arma di guerra d’assedio: la fame. Una persona su cinque rischia la fame dopo quasi tre mesi di blocco israeliano di cibo e aiuti umanitari.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha lanciato una nuova offensiva che sta uccidendo più di 100 persone al giorno, ha dichiarato che nulla impedirà questo assalto finale, denominato Operazione Carri di Gedeone.
Non ci sarà “alcun modo” per Israele di fermare la guerra, ha annunciato, anche se i restanti ostaggi israeliani venissero restituiti. Israele sta “distruggendo sempre più case” a Gaza. I palestinesi “non hanno un posto dove tornare”.
“L’unico risultato inevitabile sarà la volontà dei cittadini di Gaza di emigrare fuori dalla Striscia di Gaza”, ha detto ai deputati durante una riunione a porte chiuse trapelata. “Ma il nostro problema principale è trovare paesi che li accolgano”.
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