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Un capitalismo di sorveglianza?
di lundimatin#311
Pubblichiamo una recensione, uscita il 1 novembre 2021, del volume The Age of surveillance di Shoshana Zuboff (Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press, Roma, ottobre 2019). La riprendiamo e traduciamo da lundimatin#311, [1]. L’autrice, nata nel 1951, è un’accademica statunitense che dal 1981 insegna stabilmente presso Harvard Business School. Si tratta di una delle prime donne a essere entrata in ruolo in tale contesto. La testata lundimatin, attiva dal 2014, si schiera nell’ambito della sinistra radicale francese. Questa recensione costituisce un commento redazionale, come conclusione di un dibattito interno alla struttura
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Quando uscì, due anni or sono, L’età del capitalismo di sorveglianza fu quasi unanimemente salutato dalla sinistra occidentale come il manuale di riferimento per comprendere l’evoluzione capitalistica degli ultimi venti anni. Diverse critiche le sono state tuttavia rivolte per via di una posizione riformista in fondo piuttosto ingenua (NT: ciò è frequente fra gli accademici statunitensi): c’era stato un capitalismo buono, sino agli anni ‘90, ma fu pervertito da un mostro, il capitalismo della sorveglianza che impera da due decenni. Queste critiche sono certamente giuste, ma ciò non toglie che l’inchiesta di Zuboff è forte, coerente; per questo le dedichiamo una discussione approfondita nella rubrica cyber-filo-tecnica (https://lundi.am/cybernetique).
Sulla copertina dell’edizione francese (ripresa pure nell’edizione italiana), in basso a sinistra, spicca un elogio di Naomi Klein, che non esita ad affermare il libro è un atto digitale di autodifesa. In basso a destra della stessa copertina si legge anche un “Acclamato dal New York Times, dal Financial Times, dal Guardian e da Barack Obama”.
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La CGIL di Landini esclude lo sciopero generale. E l’opposizione in CGIL che fa?
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Il virtuosismo dei burocrati sindacali è illimitato. Per cui sono anche capaci di proclamare uno sciopero pro forma allo scopo di dimostrarne l’inutilità, o proclamarlo per lavarsi la coscienza (che resta tuttavia sporchissima), come nel caso delle tre ore di sciopero contro la famigerata legge Fornero nel 2012, che colpì sui denti – con un solo colpo di mazza – gli operai e i proletari sulla via della pensione e i giovani in attesa di un posto di lavoro.
Bene. Il governo Draghi ha deliberato di ripristinare appieno la legge Fornero, dopo i 3 anni di “quota 100”, il formidabile rimedio escogitato da Salvini che è stato in realtà un bluff ed anche una beffa perché, visto il basso assegno pensionistico che comportava, è servito più ai funzionari statali di medio-alto livello, a quanti potevano vantare una continuità di lavoro e contribuzione elevata, ai professionisti che hanno incassato la pensione da insegnanti, a artigiani e commercianti, che agli/alle operai/e usurati/e dal lavoro di fabbrica, sulle cui spalle è ricaduto il costo della misura. Appena arrivato l’annuncio del ritorno alla Fornero, fuoco e fiamme verbali da Landini&Co., che hanno ventilato l’ipotesi (estrema) di uno sciopero generale, o comunque di una iniziativa di lotta; mentre l’opposizione in CGIL si è mossa subito per reclamare lo sciopero generale, definendo un “suicidio” l’eventuale immobilità delle centrali sindacali. Ed in effetti, rispetto a quota 100 (62 anni d’età e 38 di contributi), la penalizzazione è di ben 5 anni (67 anni di età o 42 e 10 mesi di contributi), il che significa in media 8.500 ore di lavoro in più.
In pochi giorni il fuoco landiniano si è rivelato – come ci aspettavamo – un fuoco fatuo. È naufragata subito, così, l’illusione ottica creatasi in alcuni (gli incalliti illusionisti del manifesto, ad esempio) sul rilancio della CGIL come sindacato conflittuale contro una Confindustria in pieno assetto di guerra, con addirittura la speranzella che dopo il sabato 16 ottobre di piazza san Giovanni almeno la CGIL potesse arrivare al rifiuto del patto sociale strangolatorio proposto da Draghi.
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Appello: Unità per il Partito Comunista in Italia
Siamo comuniste e comunisti.
Il possente vento reazionario, conservatore, nichilista che si è levato in questi ultimi decenni in Italia non ha mutato la nostra coscienza politica, non ci ha sospinti nella passività e nell’individualismo.
Non ci siamo arrese, non ci siamo arresi.
I grandi valori della lotta contro la guerra, dell’uguaglianza, della solidarietà, l’orrore dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna, tutto ciò che filosoficamente e politicamente è sintetizzabile nella gloriosa parola “comunismo”, segnano e segneranno per il domani la nostra vita, il nostro pensiero, il nostro impegno.
Siamo compagne e compagni italiani.
Non ci siamo mai pentiti della nostra scelta di vita.
Siamo convinti sostenitori della Rivoluzione d’Ottobre, della sua vittoria sul nazifascismo, di tutti i grandi moti rivoluzionari, antimperialisti e anticolonialisti che dall’Ottobre sono scaturiti; il movimento anti-colonialista in Africa e in Asia, la Rivoluzione Cinese, la Rivoluzione Cubana, la lotta per l’indipendenza del popolo coreano, le conquiste sociali e civili in Occidente su spinta del movimento operaio, la vittoria del popolo e del Partito Comunista del Vietnam, il grande e decisivo ruolo del Partito Comunista del Sud Africa nella lotta vincente contro l’apartheid, di ogni grande lotta di liberazione che il movimento comunista mondiale, nel suo insieme, ha condotto e tuttora, con grande energia, conduce su scala planetaria.
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La cultura della cancellazione: atto finale
di Andrea Zhok
Accade alle volte che, parlando con amici, taluni si rammarichino del tempo e delle energie che vengono consumate nel seguire l’attuale vicenda gravitante intorno alla certificazione verde. A loro avviso chi se ne occupa starebbe cadendo in un’operazione di distrazione di massa, mentre il governo metterebbe mano alle questioni che contano.
Ora, questa tesi ha dei meriti. In particolare ricorda che il nucleo degli interessi delle élite economiche, che ci guidano per interposto governo, non sta né nella questione sanitaria, né nell’implementazione della certificazione in questione. Questi sono mezzi, non fini.
Tuttavia credo anche che questa tesi sia in ultima istanza profondamente erronea.
Queste obiezioni ripercorrono reiterate discussioni avute negli anni, nei lustri, scorsi, in cui simile rammarico andava invece ad altre questioni, che parimenti incontravano il loro sostanziale disinteresse: le questioni relative al cosiddetto “politicamente corretto”.
Anche lì l’idea era che prendere quei temi troppo sul serio fosse una perdita di tempo, una distrazione, una caduta nel sovrastrutturale, laddove la sostanza dell’analisi economica andava perduta di vista.
Ciò che – certamente per limiti personali – non riuscivo a far intendere allora è che il cuore problematico nell’espansione di quell’orientamento culturale (il “politically correct” con i suoi addentellati) doveva essere inteso come una questione di metodo, a prescindere dalle specifiche questioni in oggetto, dalle specifiche richieste, dagli specifici divieti.
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La necessità come spettro del possibile
di levboban
Dal saggio La scienza probabilistica della rivoluzione, in appendice al testo di Roman Rosdolsky. Il ruolo del caso e dei «grandi uomini» nella storia
Come scriveva Robert Havemann, al di là delle interpretazioni idealistiche che se ne danno
la meccanica quantistica non contesta che tutti i fatti, anche se il loro attuarsi non è completamente determinato da fatti precedenti, hanno pur sempre una causa dimostrabile. Nulla avviene in mancanza assoluta di cause. Nei fatti si può sempre dimostrare una catena causale. Non si tratta di chiedersi se questa catena può essere dimostrata, ma se la catena causale già accertata sia l’unico nesso possibile. [1]
Havemann, sulla scorta di Hegel, ci fornisce una interessantissima spiegazione del concetto di necessità, che crediamo trovi conferma nelle moderne scoperte della fisica
Ciò che è reale deve essere possibile. La cosa sembra ovvia. Ma Hegel [dice]: se un fatto è possibile, possiamo definirlo possibile solo se può accadere o può anche non accadere. La parola “possibile” ha in sé un singolare grado d’incertezza, dovendo significare che questa cosa può bene accadere, ma non deve accadere. Hegel conclude: i fatti reali sono caratterizzati dal fatto che, in quanto possibili, essi sono solamente fatti che possono accadere o anche non accadere, e al loro posto possono subentrare altri fatti, ugualmente possibili. Hegel dice poi: le possibilità realmente esistenti nella natura non sono casuali. Ciò che è possibile, è determinato per necessità. Le leggi del mondo e dei fenomeni stanno nel possibile. L’impossibile è distinto dal possibile per necessità assoluta, senza alcuna casualità. [2]
Ciò significa che il necessario è lo spettro del possibile; e il caso? Qual è il suo ruolo?
Havemann prosegue:
Hegel dice: il possibile è determinato per necessità. Esso è stabilito secondo leggi. Scoprire le leggi che determinano il reale significa conoscere ciò che è possibile. Hegel ne conclude: ma se una cosa è determinata secondo legge e per necessità soltanto come una cosa possibile, allora essa nella realtà può apparire solo casualmente. Poiché, come semplice possibile, può accadere o non accadere, essa, se accade, non accade per necessità ma solo casualmente. [3]
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Gramsci globale
di Marzia Maccaferri*
L'autore italiano più citato al mondo ha violato l'ortodossia marxista e problematizzato il rapporto tra cultura e potere, tra politica ed economia, tra rivoluzione e restaurazione. Ecco come il suo pensiero si è diffuso in tutto il pianeta
Antonio Gramsci non ha bisogno di presentazioni. Il pensatore politico antifascista è uno degli autori italiani più citati – sicuramente il marxista italiano più citato di sempre – e uno dei filosofi marxisti più celebrati del Novecento.
Gran parte del fascino di Gramsci risiede nella storia della sua vita e della sua morte prematura, divisa tra lotta politica e impegno intellettuale, tra la prigione di Benito Mussolini e le occupazioni di fabbrica, e nel suo status unico all’interno della tradizione marxista. Gramsci ci ha lasciato trentatré quaderni, scritti a mano in carcere e pieni di oltre duemila riflessioni, annotazioni, allusioni e traduzioni. Alla sua leggenda duratura contribuiscono anche la natura frammentaria delle sue opere e il destino avventuroso, persino misterioso, del recupero e della pubblicazione dei taccuini da parte del Partito comunista italiano all’inizio della Guerra fredda.
Gramsci è stato il primo marxista a sostenere che la cultura non è semplicemente espressione delle relazioni economiche sottostanti ma, soprattutto, uno degli elementi dell’egemonia, che ha descritto come il processo di costante rinegoziazione del potere e dell’ideologia mutevole che definisce la politica moderna e le società capitalistiche. La sua analisi raffinata del potere sociale come elemento più complesso di una semplice questione di dominio e subordinazione, in cui le istituzioni e la produzione culturale di massa popolare e letteraria giocano un ruolo sottile, ha potuto funzionare in tutto il mondo, dall’India all’Argentina, dalla Spagna e al continente africano e dagli Stati uniti alla Gran Bretagna.
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La speranza possibile: riflessioni rapsodiche sulle Tesi di Benjamin
di Franco Romanò
Le tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano: il biennio 1939-40 offrì al filosofo l’occasione propizia per renderle pubbliche. Perché riprenderle oggi? Anche noi ci troviamo in un passaggio epocale e da questa considerazione è nata l’idea di una riflessione su di esse, cercando di leggerle per così dire contropelo, cioè dal lato che sembra più improbabile per uno scritto così estremo e disperato: il lato della speranza1.
Benjamin parte da una critica radicale dello storicismo.
Dalla Tesi settima. Traduzione da L’ospite ingrato. Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medioevo era il fondamento della tristezza. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. … L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno … Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominato ridi oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato … Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei.
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Crisi del Covid-19, finanza, oligarchia: appunti per una battaglia antiegemonica
di Matteo Bortolon
La necessità di individuare la traiettoria strategica del sistema dominante in relazione agli sviluppi della crisi del COVID-19 è una urgenza improrogabile. La misura delle mutazioni in atto è tale da far parlare di una Grande Trasformazione quale fu individuata da Polanyi negli anni Quaranta. Anche se tale valutazione fosse esagerata, per comprenderne la reale portata occorre una visione critica rigorosa e razionale, capace di costruire un posizionamento forte contro le manovre dell’oligarchia al comando.
Ci sono pochi dubbi che il mondo della finanza e dell’economia siano al centro di esse. Ovviamente la gestione della pandemia poteva essere assai diversa, sia in termini di scelta nelle misure di contenimento che di preferenza rispetto agli interessi da tutelare. In effetti, se le modalità differiscono grandemente da Stato a Stato, il tentativo di salvare gli interessi dominanti è generale, lasciando sul campo un amplificazione della diseguaglianza, come riporta senza eufemismi la stessa Banca dei Regolamenti Internazionali. Tale generalità tuttavia va tenuta assieme alla forte rivalità geopolitica, commerciale e militare fra le maggiori potenze – senza esclusione di colpi, fra cui golpe, dislocazioni di truppe e vere e proprie operazioni belliche – il che rende abbastanza improbabile una strategia unitaria che possa sussumere e bypassare i differenti interessi nazionali. Ma allora quali sono i tratti comuni?
Il peso della finanza
Da diversi anni una pubblicistica militante denuncia la “dittatura della finanza”, ed i guasti da essa provocati. Si tratta di una ampia letteratura che spazia da complottismi abbastanza arditi ad analisi sociologiche più sottili, generalmente incentrati sulle figure apicali delle dinamiche di accumulazione finanziaria che intascano fantastici guadagni acquisendo un potere fuori da controlli democratici: hedge fund, equity, fondi pensione, fondi-avvoltoio, investitori internazionali e banche di investimento.
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Introduzione all’edizione in lingua inglese di Nietzsche: il ribelle aristocratico, di Domenico Losurdo*
di Harrison Fluss (St. John’s University and Manhattan College)
Dopo aver descritto la lunga ricezione di Nietzsche da Emma Goldman a Stanley Cavell, Jennifer Ratner-Rosenhagen conclude il suo American Nietzsche in sintonia con una lettura pragmatica dell’opera del filosofo: non esiste un’unica comprensione corretta di Nietzsche, non più di quanto vi sia un autentico approccio filosofico. Ciò che definisce Nietzsche – se mai qualcosa può definirlo – è la fondamentale «indeterminatezza, il prospettivismo e l’eterogeneità» che sono al centro della sua filosofia e che lo rendono decisamente congeniale alle tradizioni americane del liberalismo e del pluralismo1. Nietzsche, quindi, sarebbe americano quanto la apple pie.
Ciò che Ratner-Rosenhagen ignora, tuttavia, sono le altre dimensioni del pensiero di Nietzsche; dimensioni piuttosto rilevanti per la storia di un Nietzsche americano. I giudizi del filosofo tedesco sulla razza, la schiavitù e l’abolizionismo non sono tenuti in considerazione, dal momento che anche l’americanismo che Ratner-Rosenhagen ci presenta risulta completamente decontestualizzato. Si tratta di un americanismo dal quale sono state espunte tutte le incongruenze e i paradossi più evidenti e che è incarnato, ad esempio, dal precursore americano di Nietzsche, il liberale Ralph Waldo Emerson. RatnerRosenhagen inizia la sua narrazione proprio con l’amore di Nietzsche per Emerson ma a questo proposito andrebbe notato come Nietzsche non leggesse soltanto l’Emerson individualista ma anche l’Emerson elitista e adoratore degli eroi2. Nietzsche si definiva a volte «un liberale» ma era anche un teorico che promuoveva la gerarchia e l’ordine castale [rank-ordering]3. Come possono convivere, allora, i valori in apparenza progressisti del liberalismo e del pluralismo con la politica elitista promossa da Nietzsche? In effetti, come possono questi valori autoritari essere ritenuti compatibili con quell’immagine di un Nietzsche anti-fondazionalista che conclude il libro di Ratner-Rosenhagen?
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Gli strange days di Trieste contro il green pass. Il racconto di una lotta sbalorditiva
Prima puntata
di Andrea Olivieri*
Da settimane Andrea Olivieri, ricercatore e scrittore, cammina o si sposta in moto da un luogo all’altro della sua città, di giorno e di sera, attraversa cortei e assemblee di piazza, ascolta le persone più diverse nelle situazioni più diverse, mobilita la propria memoria di ex-lavoratore del porto e di attivista, butta giù appunti su appunti, raccoglie storie. Sta interrogando un Evento, e prima ancora un sito.
Perché Trieste? Perché proprio lì è cresciuta in modo tumultuoso una piazza anti-green pass così diversa dalle altre? Energie si sono accumulate “di nascosto” finché la città dalla «scontrosa grazia» – città poco italiota e molto mitteleurobalcanica, misconosciuta al resto del Paese – non ha prodotto una rottura nell’apparire normato di una società piegata dall’emergenza Covid. Una mobilitazione di massa dai caratteri inediti che ha sorpreso l’Italia – paese regolarmente ignaro o dimentico della “faglia” al proprio confine orientale – e che ci parla dei conflitti futuri, delle lotte post-pandemiche.
È quest’ultimo aspetto a farne un Evento, per chi lo ha vissuto in tutta la sua contraddittorietà e per chi lo ha seguito e cerca di trarne lezioni. Come scrisse di un altro Evento – si parva licet – il filosofo Alain Badiou, «non è solo l’intensità eccezionale del suo sorgere che conta – il fatto che si tratti di un episodio violento e creatore d’apparire – ma il fatto che, nella durata, questo sorgere, benché dileguato, abbia disposto come gloriose e incerte le sue conseguenze. Gli inizi sono misurati dalla loro possibilità di ricominciare».
Questa è la prima puntata del reportage di Andrea. Ce ne saranno due ma forse tre. Diciamo «reportage» perché riporta e fa rapporto (in ogni accezione del termine), non per affibbiargli un genere. È un testo ibrido: cronachistico, saggistico, lirico, psicogeografico, sociologico, teso a quel difficile esercizio che è la storia del presente. Sconsigliamo di ingurgitarlo al volo: merita attenzione, tempo dedicato.
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L’economia e l’ultimo giro di giostra*
di Paolo Cacciari
Perfino alla conferenza di Glasgow parlano di apocalisse climatica eppure non cambia nulla. Secondo Paolo Cacciari i motivi principali dell’inerzia e dell’ignavia dei principali governi del mondo sono due: «Da una parte la capacità delle lobby dell’industria dei fossili è ancora fortissima. Dall’altra la classe politica dirigente ha una paura matta di compiere scelte che potrebbero apparire “impopolari”. Preferiscono rischiare le catastrofi piuttosto che chiedere al loro elettorato di ridurre l’uso di aerei e crociere low cost, suv a diesel, il consumo di hamburger, vestiti e scarpe d’importazione, smartphone e altre cianfrusaglie inutili e dannose. Soprattutto non sanno come fare a continuare a “far girare” l’economia senza incrementare il volume e la velocità delle produzioni di merci… Ma è esattamente questa la sfida che i paesi industrializzati devono affrontare. Per farlo serve un “cambio di paradigma”, come si suol dire. Una riconsiderazione in radice delle teorie e delle pratiche economiche…»
* * * *
Siamo stati abituati a pensare che l’economia sia solo una e che sia anche l’unica modalità d’azione possibile per soddisfare i nostri bisogni. L’economia viene presentata come la disciplina (scientifica e pratica) che ci addestra ad “ottenere di più con meno”. Si dice che un sistema economico è efficiente quando massimizza i risultati con il minimo dispendio di energie fisiche. Tutto giusto, razionale e convincente. A patto però di chiarire bene e preliminarmente il contenuto dei termini dell’equazione. Quali sono i risultati che si vogliono raggiungere? Ovvero, quali sono i bisogni che si intendono soddisfare e a beneficio di chi? E poi: quali sono i mezzi che si intendono utilizzare? Quali le forze che si vogliono mobilitare?
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A margine della Cop26 di Glasgow
di Michele Castaldo
"Quel che per te hai voluto per gli altri non desiderare"
Il famoso detto « Quel che per te non vuoi per gli altri non desiderare », attribuito a Gesù dall’evangelista Matteo, un principio di corretta reciprocità, ripreso da filosofi e poeti, sta subendo una metamorfosi in questi giorni con il G20 di Roma e la Cop26 di Glasgow che possiamo parafrasare così: “ Quel che per te hai voluto per gli altri non desiderare ”.
Cerchiamo di capire di cosa si tratta esattamente e da quali necessità, innanzitutto, nasce questa volontà dell’Occidente che nasconde non poche problematiche prossime venture per l’insieme dei rapporti sociali fra gli umani e di questi con il restante di tutte le altre specie che abitano questo sfortunato pianeta.
Di recente a Roma, nell’edificio detto La Nuvola di Fuksas all’Eur si sono svolti i lavori del G20, quelli formali e apparenti, perché – come si sa – quelli veri si svolgono altrove, nelle segrete stanze, dove gli occhi indiscreti del popolo non potranno mai arrivare. Ma la forza delle contraddizioni è ben più potente della capacità di contenimento delle pareti dei palazzi e tossisce, trova il modo di rumoreggiare e arrivare all’esterno e invitare chi è disposto ad ascoltare, a riflettere.
Il recente premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi ha rilasciato una intervista al Corriere della sera all’indomani della Cop26 di Glasgow, nella quale usa parole che suonano come macigni per un sistema sociale sempre più in crisi. Come si sa il Parisi non è un rivoluzionario e men che meno comunista, ma conosce la profondità del buon senso, quel buon senso d holbachiano tanto difficile da capire da chi è abituato a inseguire le lepri delle leggi impersonali dell’accumulazione capitalistica.
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La Rivoluzione d’Ottobre, oggi
di Salvatore Tinè
Ringraziamo Salvatore Tinè per questo importante scritto sull’ottobre ’17
La Rivoluzione d’Ottobre ha segnato certamente l’inizio di una nuova epoca della storia umana. Neanche più di trent’anni dopo la fine del primo stato socialista della storia sorto da essa possiamo dire che tale epoca si sia conclusa. La vittoria del potere sovietico nell’ottobre del 1917 in Russia e poi il conseguente gigantesco tentativo di costruzione di una nuova società ,fondata non più sui principi dell’anarchia del mercato e dello sfruttamento del lavoro salariato ma su quelli di una regolazione sociale, secondo un piano, dei processi collettivi di produzione e di riproduzione sociali, che avrebbe scandito il processo di costruzione del socialismo in URSS lungo l’intero arco del cosiddetto “secolo breve”, ha mostrato all’intera umanità, sul piano della storia reale, la possibilità oggettiva, concreta, di costruire una società radicalmente diversa e alternativa al sistema capitalistico, una volta distrutto il potere politico della borghesia e conquistata la direzione politica dello stato da parte della classe operaia e della sua avanguardia, il partito comunista. Soltanto dopo la vittoria dei bolscevichi le idee del socialismo e del comunismo si sono effettivamente trasformati, da prospettive lontane e indeterminate, in un possente movimento storico reale in una forza materiale destinata a segnare una svolta nella svolta nella storia del mondo e a mutarne per sempre natura e struttura.
Non a caso, la rivoluzione d’ottobre ha rappresentato un avvenimento di enorme importanza non solo nella storia del movimento operaio e rivoluzionario dell’Europa occidentale e orientale ma anche in quella della lotta di liberazione sociale e nazionale dei popoli oppressi contro il colonialismo e l’imperialismo che ha così radicalmente trasformato la struttura del mondo nel corso del secolo scorso e segnato di fatto alcune premesse fondamentale dell’odierna fase storica.
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La sfida strategica sulla moneta digitale: le monete globali dei colossi del web e le Central Bank Digital Currencies
di Enrico Grazzini
La moneta sta conoscendo un cambiamento epocale. A parte qualche eccezione, prima o poi la moneta di carta diventerà un oggetto da collezione. La nuova moneta diventerà completamente digitale, fatta di bit immateriali e intangibili. Già ora i pagamenti per il commercio elettronico vengono effettuati on line in maniera facile e conveniente con smartphone, personal computer, tablet, carte con chip. Sul piano tecnico ed economico le monete digitali offrono numerosi e sostanziali vantaggi: meno costi di produzione e di distribuzione rispetto alle banconote, più facilità e immediatezza d’uso, possibilità di regolare istantaneamente le transazioni, minori costi per commercianti e cittadini, possibilità di tracciare tutte le transazioni (anche se questo solleva immensi problemi di privacy) e quindi di contrastare efficacemente l’evasione fiscale, la criminalità, il riciclaggio e il terrorismo.
Il passaggio inevitabile dalla moneta cartacea a quella digitale modificherà certamente gli scenari competitivi attuali: non si sa se negli anni prevarranno le società globali del web, come Facebook o Alipay, o invece le banche centrali nazionali e i sistemi bancari tradizionali su base nazionale. La competizione potrebbe essere di tutti contro tutti: non solo i grandi oligopolisti della rete contro i sistemi bancari nazionali e gli stati sovrani, ma eventualmente anche le banche centrali nei confronti delle banche commerciali nazionali.
Si apriranno nuovi scenari concorrenziali per aggiudicarsi il potere sulle nuove monete e il potere sui clienti e sui loro dati. Il passaggio dalla moneta cartacea a quella digitale potrebbe fare fare un salto di qualità decisivo verso la privatizzazione del sistema monetario internazionale: o potrebbe al contrario aprire le porte alla moneta pubblica digitale nazionale.
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Sulla nave dei folli
di Il Rovescio
Mai come in questo periodo ci sentiamo come il mozzo di cui parlava Theodore Kaczynski nel suo racconto La nave dei folli. La storia è nota. La nave – metafora della società tecno-industriale – sta procedendo verso degli iceberg su cui è destinata a frantumarsi. Il mozzo lancia l’allarme ai suoi compagni di viaggio, cercando di far capire loro che cambiare rotta è l’unica scelta che contiene tutte le altre (dove approdare e come cambiare i rapporti tra l’equipaggio; insomma quelle questioni di libertà, uguaglianza e solidarietà che si pongono agli umani fin da quando esistono il dominio, la gerarchia, lo sfruttamento). Il resto dell’equipaggio elenca i problemi a suo avviso ben più gravi e urgenti da risolvere: le differenze di salario, il razzismo, il sessismo, l’omofobia e la brutalità verso gli animali. Insistendo sul fatto che per cambiare la vita sulla nave è necessario che una nave ancora esista – e cioè che la priorità di cambiare rotta fa diventare secondarie tutte le altre giuste rivendicazioni – il mozzo diventa l’oggetto degli strali incrociati da parte dell’equipaggio: reazionario, specista, omofobo, sessista! Gli insulti risuonano ancora mentre la nave si frantuma contro gli iceberg e si inabissa.
Come nel precedente La società industriale e il suo avvenire (il cosiddetto manifesto di Unabomber, la cui paternità, a onor del vero, Kaczynski non ha né smentito né rivendicato) e nei successivi Colpisci dove più nuoce e Anti-tech revolution, la parte presa di mira è soprattutto la sinistra, rappresentata fino al parossismo dall’equipaggio della nave. Data la sua natura “sovra-socializzata”, riformista e progressista, la sinistra è condizionata secondo Kaczynski a diventare la principale stampella del tecno-capitalismo, il quale nasconde i propri programmi di disumanizzazione attraverso le sue seducenti promesse di superamento di ogni limite e di espansione dell’Io. Dire che ci siamo in pieno è oggi persino banale.
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Mark Zuckerberg nel metaverso
di Marco Montanaro
Dovremmo esser grati ogni volta che altri esseri umani ci permettono di essere altrove grazie alle loro opere. Poeti, artisti, musicisti, registi, sceneggiatori. Da qualche decennio però il nostro altrove preferito è creato anche, forse soprattutto, da ingegneri, sviluppatori, CEO di piccole aziende divenute poi gigantesche, più importanti di interi stati e continenti.
Poco meno di trent’anni fa, l’altrove digitale si presentava come un carnevale notturno in cui si indossavano maschere – i nickname – e costumi piuttosto pittoreschi – gli avatar – per ballare in feste sconosciute e sovvertire, potenzialmente, le regole della vita di ogni giorno. Era tutto lentissimo, nettamente separato dalla nostra esperienza quotidiana da interfacce fisiche, prima ancora che virtuali, piuttosto ingombranti: modem, schermi e cassettoni di computer fissi, mouse, tastiere e tanti, tantissimi cavi.
Sul finire degli anni ’90 abbandonai i videogiochi, la mia primissima esperienza d’altrove digitale, per gettarmi a capofitto in quella prima internet di siti, forum, chat d’ogni sorta. Online potevi conoscere un sacco di gente, per quanto in incognito, che non avresti mai potuto incontrare nella vita reale. Persone verso cui, a parte rarissimi casi, non avevi alcuna responsabilità – proprio come in un videogioco.
Quella internet era molto utile in provincia, dove tutto sembrava distante dai centri della vita contemporanea, per sentirsi vivi. Per sentirsi vivi era fondamentale – nonché meraviglioso – smettere di essere sé stessi con la propria forma fisica, la propria faccia, i propri pensieri, la pesantezza della vita d’ogni giorno.
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Storia dell'utopia neoliberale
Con qualche considerazione finale sulle sinistre hayekiane
di Carlo Formenti
Quinn Slobodian è autore di un libro (Globalists. La fine dell’impero e la nascita del neoliberalismo, Meltemi editore) che mi è parso la più esaustiva e intrigante analisi che mi sia capitato di leggere sull’evoluzione delle teorie neoliberali nei sessant’anni che vanno dalla fine della Prima guerra mondiale alla riforma del GATT e alla successiva nascita del WTO. Slobodian ricostruisce le principali varianti teoriche di questa corrente di pensiero, i loro rapporti reciproci, l’influenza che hanno esercitato su governi nazionali e istituzioni economiche e accademiche internazionali; infine cerca di spiegare i motivi che ne hanno favorito il trionfo sul keynesismo e altre scuole di pensiero a partire dalla crisi degli anni Settanta.
Dalla lettura di questo lavoro si esce liberati da alcuni luoghi comuni. Come quello secondo cui il neoliberalismo sarebbe un paradigma socioeconomico relativamente recente, che avrebbe fatto il proprio esordio in occasione del colloquio Lippmann tenutosi a Parigi nel 1938, per poi consolidarsi con la fondazione della Mont Pelerin Society, avvenuta nel 1947. È vero che il termine neoliberalismo fu adottato per la prima volta nel 1938, tuttavia un gruppo organizzato di individui che condividevano un preciso insieme di principi, valori e idee all’interno di un comune quadro di riferimento intellettuale esisteva già da almeno vent’anni, per la precisione a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, allorché nacque quella Scuola di Vienna che perfezionerà poi la propria visione attraverso la Scuola di Ginevra. Queste persone – Fra gli esponenti più noti figurano i nomi di von Mises, von Hayek, Ropke, Robbins, Haberler, Heilperin, Petersmann – condividevano un punto di vista preciso sulle linee generali da seguire per dare vita a un nuovo ordine mondiale, a partire dalla necessità di difendere l’economia globale dagli “eccessi” di una democrazia che rischiava di metterla in crisi, lanciando una sfida che il liberalismo classico non era in grado di gestire.
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Il Covid lungo dei banchieri centrali
di Fabio Vighi
Per tutta la vita le pecore hanno paura del lupo, ma poi vengono mangiate dal pastore.
Proverbio africano
La gestione sanitaria del COVID-19 ci appare oggi, essenzialmente, come sintomo della degenerazione del capitale finanziario. Più in generale, è il sintomo di un mondo che, non essendo più in grado di riprodursi estraendo profitto dal lavoro umano, si affida a una logica compensativa di doping monetario perpetuo. La ‘pandemia’, in altre parole, è la leva di comando delle stampanti di denaro in mano alle banche centrali (Federal Reserve in testa). Se la contrazione strutturale dell’economia del lavoro finisce giocoforza per gonfiare il settore finanziario, la volatilità di quest’ultimo può essere contenuta solo attraverso emergenze globali, propaganda di massa, e sottomissione agli imperativi della biosicurezza. Come uscire da questo circolo vizioso?
A partire dalla terza rivoluzione industriale (microelettronica negli anni ’70), il capitalismo automatizzato (ovvero a sempre più alta ‘composizione organica’, per dirla con Marx) ha gradualmente distrutto il lavoro salariato quale sua propria sostanza. Da tempo abbiamo superato il punto di non ritorno, per cui molto più lavoro viene eliminato di quanto ne venga riassorbito. A causa dell’incremento esponenziale del progresso tecnologico, il capitale è dunque sempre più impotente rispetto alla sua missione storica di spremere plusvalore dalla forza-lavoro. Con l’arrivo dell’intelligenza artificiale (quarta rivoluzione industriale), ci troviamo di fronte a una vera e propria mission impossible – game over.
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Circa “La questione comunista”, inedito di Domenico Losurdo
di Alessandro Visalli
A giugno 2018 Domenico Losurdo ci lasciava. Sulla sua scrivania, racconta Giorgio Grimaldi, riposava un testo uscito dalla stampante ed in corso di preparazione. Nelle diverse versioni in esso troviamo due indici e le tracce di un progetto ambizioso. Si trattava nel suo complesso di una trilogia sul comunismo della quale la prima parte era uscita nel 2017, per Laterza, sotto il nome di “Il marxismo occidentale”[1], la seconda era appunto “La questione comunista”[2], e la terza, ancora nella mente dell’autore e quindi persa per sempre, doveva trovare forma in un testo sul comunismo cinese.
I sottotitoli recitavano, rispettivamente, “Come nacque, come morì, come può rinascere” (il marxismo occidentale), nel libro del 2017, e “Storia e futuro di un’idea” (comunista), in questo. I contenuti del terzo libro, indispensabile per comprendere la parabola dell’impresa tentata da Losurdo, si potrebbero intuire dal progetto del capitolo 4, presente nell’Indice 1 del secondo libro, che ne trattava[3]. Leggendolo troviamo, all’avvio del progetto di capitolo, una frase di enorme peso: niente di meno che “Pensare la Cina [significa] pensare il postcapitalismo”. Proseguendo, scopriamo che questo implica ragionare sulle nozioni di ‘capitalismo autoritario’, anziché ‘democratico’ (quale è l’uno e quale l’altro? Potrebbe non essere scontato[4]); ma anche individuare la differenza cruciale tra la ‘espropriazione politica’, e quella ‘economica’; quindi di ‘economia di mercato non capitalistica’, o di ‘socialismo riformato’; infine comprendere se si è davanti una forma di ‘capitalismo di Stato’ o dello ‘stadio iniziale del socialismo’. Ancora, ragionare sui sindacati (dei padroni i dei lavoratori); l’eguaglianza (‘più perfetta’, o ‘rozza’, anziché ‘radicale’). Infine, nei capitoli finali progettati nell’Indice 1, vediamo che pensare la Cina ed il postcapitalismo significa anche trarre conclusioni su ‘politica ed economia’ guardando a ‘la Cina e il mondo’; ovvero che si tratta di inquadrare il tema in una cornice geopolitica realista, cara al nostro.
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La pianificazione economica: storia e attualità di un dibattito
di Riccardo Evangelista*
1) Le origini della controversia
Era il 1920 quando l’economista austriaco Ludwig von Mises dava alle stampe un ambizioso articolo intitolato Il calcolo economico in un’economia socialista. Inizialmente confinato a una discussione teorica nell’area germanofona e ritenuto poco più di una voce fuori dal coro della montante insoddisfazione verso il laissez faire, il saggio godette di una rinnovata fama quando venne tradotto in inglese dal suo allievo di maggior arguzia, Friedrich von Hayek, per essere ripubblicato nel 1935 in un volume collettaneo dal titolo Collectivist Economic Planning.
L’obiettivo esplicito del testo, di cui il saggio d’apertura di Mises costituiva il principale riferimento teorico, era di mettere in guardia la società europea (in particolare gli accademici, secondo gli autori molto sensibili alle mode intellettuali) da un’illusione ritenuta deleteria: che un’economia a totale o prevalente proprietà pubblica dei mezzi di produzione potesse funzionare in maniera razionale, garantendo un utilizzo efficiente delle risorse e maggiore giustizia sociale. Gli argomenti sostanziali della critica alla pianificazione economica rimarranno gli stessi anche negli sviluppi successivi del dibattito, che vedrà come principali protagonisti Lionel Robbins e lo stesso Hayek, contrapposti a Maurice Dobb e Oskar Lange. I primi si adopereranno per riaffermare le virtù irrinunciabili del mercato, i secondi tenteranno una difesa della pianificazione scientificamente rigorosa, pur confutando le tesi liberiste austriache da riferimenti teorici opposti.
Nonostante il dibattito sia stato oggi quasi dimenticato, le ragioni che l’hanno mosso e le questioni che solleva riemergono nell’attualità tra le manifestazioni sintomatiche del neoliberismo.
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La “crescita verde” è contro la natura, un saggio di Hélène Tordjman
di Jean-Marie Harribey
Riprendiamo e traduciamo dai siti di Alternatives économiques e Alencontre un’interessantissima recensione critica di J-M. Harribey ad un’opera di H. Tordjman contro la mercificazione della natura, da poco uscita in Francia. (Avremo modo di tornare a ragionare sulle intuizioni e le contraddizioni di autori quali Illich o Ellul, ai quali Tordjman si ispira.)
La nostra collega e amica Hélène Tordjman ha appena pubblicato La croissance verde contre la nature. Critique de l’écologie marchand (Crescita verde contro la natura. Critica dell’ecologia di mercato), La Découverte, 2021. Questo libro sarà un punto di riferimento perché raccoglie una documentazione molto aggiornata sulla concettualizzazione e lo smantellamento della natura da parte di un capitalismo sull’orlo dell’asfissia planetaria, per la natura ma anche per l’uomo. Ora che la crisi ecologica è chiara, che non si discute più del riscaldamento globale e che aumentano gli allarmi sulla perdita di biodiversità, si potrebbe pensare che sia stato detto tutto. Forse, ma riunire in un volume una sintesi così dettagliata, precisa e piena di riferimenti sia sui molteplici attacchi alla natura sia sulle false soluzioni che vengono presentate, è un grande successo.
Una critica della mercificazione della natura
La questione generale di fondo che il libro mette in luce è che intraprendere la strada di una risposta di mercato alla crisi ecologica non può avere altro effetto che approfondirla. Il libro è strutturato in sei capitoli, più una densa conclusione che è, di fatto, un settimo capitolo. Su questo tornerò.
Fin dal primo capitolo, l’autrice mette alla prova il progetto di realizzare nanotecnologie, biotecnologie, scienze dell’informazione e della conoscenza (in sigla, NBIC) delle “tecnologie capaci di aumentare le prestazioni umane” (p. 21).
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La forma del valore, la reificazione e la coscienza del lavoratore collettivo
di Alan Milchman (Mac Intosh) 1940-2021
La teoria critica di Marx ha svelato un modo di produzione, una civiltà, basata sul valore, che egli ha descritto come una «forma squilibrata» o «perversa» [verrückte Form], nella quale i rapporti sociali tra le persone sono invertiti e appaiono come relazioni tra cose. A produrre e riprodurre questa forma squilibrata, è il lavoro astratto della classe operaia. Come sostiene Max Horkheimer nel 1937, in "Teoria tradizionale e teoria critica": «Attraverso il proprio lavoro, gli esseri umani riproducono [erneuern] una realtà che li rende sempre più schiavi» [*1] È stato Georg Lukács, nel suo saggio "Reificazione e coscienza del proletariato", che fa parte della collezione "Storia e coscienza di classe" (1923), a elaborare per primo una teoria della reificazione attraverso cui gli effetti della forma valore - quella forma perversa - e il feticismo della merce che ne è parte integrante, si impadroniscono della società. La conclusione cui arriva Lukács, ancora prima che fossero stati pubblicati molti dei vasti manoscritti "economici" di Marx, è una svolta teorica, su cui il marxismo, in quanto critica negativa del capitalismo, è ancora basato. Come ha sostenuto Lukács, in maniera convincente: «Come il sistema capitalistico si produce e riproduce continuamente ad un grado sempre più alto, così nel corso del suo sviluppo, la struttura della reificazione si insinua sempre più a fondo, in modo denso di conseguenze, nella coscienza degli uomini fino a diventare suo elemento costitutivo.» [*2] Tuttavia, il concetto di reificazione di Lukács implicava anche la pretesa che il proletariato, in quanto identico soggetto-oggetto, avrebbe potuto sfuggire alla schiavitù della reificazione; cosa che Horkheimer avrebbe in seguito sottolineato.
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‘Andrà tutto bene se poi facciamo il socialismo’
Alba Vastano intervista Paolo Berdini
Intervista a Paolo Berdini sulle recenti amministrative a Roma e sulle politiche nazionali. “Sono convinto che è proprio all’interno delle città che emergeranno con ancora maggior forza le disuguaglianze sociali. Le politiche di privatizzazione del governo Draghi troveranno piena applicazione nel campo dei servizi urbani che –in ossequio alle direttive europee- verranno posti in concorrenza e, di fatto, privatizzati”
Passata questa tornata elettorale delle amministrative che vede la disfatta delle liste di sinistra radicale in quasi tutte le città in cui si è votato. Roma in primis, dove si riaffaccia superbamente l’area Pd e prende il Campidoglio. La giunta Gualtieri apporterà dei cambiamenti positivi per risollevare dalle macerie strutturali la città ridotta alle ceneri, fra crateri e cinghiali erranti per le vie, fra rifiuti e bus medievali? Con l’urbanista Paolo Berdini, candidato sindaco per la lista ‘Roma ti riguarda’, sfioriamo le cause della disfatta elettorale, ma spostiamo poi l’attenzione argomentando sulle politiche nazionali e sulle prossime ‘batoste’, che dobbiamo prepararci a digerire, da parte del cosiddetto “governo dei migliori”.
* * * *
Alba Vastano: Una breve analisi sulla sconfitta elettorale. Quali le motivazioni e le responsabilità?
Paolo Berdini: Il segnale più allarmante che è venuto dalle urne riguarda l’assenza di radicamento delle idee della sinistra nelle periferie urbane e nelle aree interne del paese. Trenta anni di dominio economico e culturale del neoliberismo hanno aumentato –lo dicono tutte le inchieste sociali- le disuguaglianze sociali e le distanze tra le aree centrali e le periferie. La risposta è stata inequivocabile: le periferie non sono andate a votare. Evidentemente la nostra proposta di costruire politiche di uguaglianza non è stata giudicata credibile.
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La manovra di Draghi: l’emergenza non passa, l’austerità resta
di coniarerivolta
Il Consiglio dei Ministri del 28 ottobre scorso ha approvato il disegno di legge di bilancio (DLB) per il 2022, il più importante atto di politica economica di un Governo. Dopo mesi di elucubrazioni sulla “vera natura” di una compagine governativa che unisce praticamente tutto l’arco parlamentare, da LeU alla Lega, guidata da una equipe di cosiddetti tecnici siamo alla prova dei fatti. La legge di bilancio, infatti, ci dice, senza possibilità di equivoci, quale sarà la posizione del Governo nei principali campi dell’organizzazione sociale ed economica del Paese per il prossimo anno.
Studiare una legge di bilancio significa concentrare l’attenzione su due aspetti dell’intervento pubblico in economia: da un lato, l’ammontare delle risorse stanziate; dall’altro, come e dove queste sono allocate. Il primo aspetto si studia attraverso la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF) e il Documento Programmatico di Bilancio (DPB), che stabiliscono il perimetro della manovra – il DLB – in termini di saldi di bilancio pubblico. Il secondo aspetto, il contenuto della manovra, si evince dalla legge di bilancio, un provvedimento appena definito nei suoi aspetti salienti (con il relativo disegno di legge, per l’appunto), ma che sarà oggetto di numerose revisioni da qui alla fine dell’anno nel suo iter parlamentare.
Il primo aspetto da analizzare è dunque il suo peso specifico: a prescindere dal contenuto delle misure fiscali, il Governo decide di spendere molto o poco? Rispondendo a questa domanda, saremo in grado di valutarne, a grandi linee, l’impatto macroeconomico, cioè il suo effetto sulle grandezze aggregate dell’economia, in primis il PIL e l’occupazione.
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Il “modello” dietro la legge di bilancio del governo Draghi
di Roberto Artoni
Dall’analisi della Nadef, risulta chiara l’impostazione del governo Draghi basata sulla crescita del settore privato o meglio ispirata al modello della “supply side economics” che tanti danni ha causato in Italia fino alla pandemia
Negli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso la Relazione annuale della Banca d’Italia era oggetto di attenta analisi da parte di illustri economisti: si voleva enucleare il “modello” analitico alla base delle scelte dell’istituto di emissione. Senza pretendere di giungere allo stesso livello di approfondimento, non è forse inutile tentare di evidenziare le linee essenziali dei documenti programmatici alla base del disegno di legge di previsione del bilancio dello Stato per il triennio 2022-202.
Conviene partire dagli obiettivi dell’azione di finanza pubblica chiaramente enunciati nella premessa alla Nadef 2021 (pag. V):
la strategia di consolidamento della finanza pubblica si baserà principalmente sulla crescita del PIL stimolata dagli investimenti e dalle riforme previste dal PNRR. Nel medio temine sarà altresì necessario conseguire adeguati avanzi primari. A tal fine, si punterà a moderare la dinamica della spesa pubblica corrente e ad accrescere le entrate fiscali attraverso il contrasto all’evasione. Le risorse di bilancio verranno crescentemente indirizzate verso gli investimenti e le spese per ricerca, innovazione e istruzione.
Tutto ciò trova conferma nel quadro programmatico di finanza pubblica. All’elevato indebitamento indotto dalla pandemia (9,4% in termini di Pil nel 2021) dovrebbero seguire anni di aggiustamento che nel 2024 ridurrebbero lo squilibrio al 3,3%. Tutti i saldi di finanza pubblica migliorerebbero sensibilmente. Il saldo primario dovrebbe essere nel 2024 marginalmente negativo (-0,8) contro il 6% del 2021. Il rapporto debito prodotto dovrebbe scendere di quasi dieci punti rispetto al massimo raggiunto nel 2020 (155,6). Il riequilibrio dovrebbe poi proseguire negli anni successivi, quando si manifesteranno pienamente, nelle valutazioni del governo, gli effetti del Pnrr, sia per gli interventi diretti, sia per le riforme annunciate in molti settori della vita nazionale.
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