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Gli USA tagliano i fondi all’USAID. Panico tra i professionisti delle “rivoluzione colorate”
di Kit Klaremberg*
Tra la raffica di ordini esecutivi emessi dal presidente Donald Trump nei primi giorni della sua amministrazione, forse il più importante fino a oggi è quello intitolato “rivalutare e riallineare l’assistenza estera degli Stati Uniti”.
In base a quest’ordine è stata immediatamente imposta una pausa di 90 giorni a tutta l’assistenza allo sviluppo all’estero degli Stati Uniti in tutto il mondo, a eccezione, naturalmente, dei maggiori beneficiari degli aiuti statunitensi in Israele ed Egitto. Per ora, l’ordine vieta l’erogazione di fondi federali a qualsiasi “organizzazione non governativa, organizzazione internazionale e appaltatore” incaricato di attuare i programmi di “aiuto” degli Stati Uniti all’estero.
Nel giro di pochi giorni centinaia di “appaltatori interni” dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) sono stati messi in congedo non retribuito o licenziati a titolo definitivo come risultato diretto dell’ordine esecutivo.
Il collaboratore del Washington Post John Hudson ha riferito i funzionari dell’organizzazione definiscono le direttive di Trump sull’”assistenza allo sviluppo estero” un “approccio shock-and-awe”, che li ha lasciati barcollanti, incerti sul loro futuro.
Un membro anonimo dell’USAID gli ha detto che “hanno persino rimosso tutte le fotografie dei programmi di aiuto nei nostri uffici”, come attestano le fotografie che accompagnano l’ordine.
Mentre l’epurazione dell’amministrazione Trump ha provocato onde d’urto tra il corpo di sviluppo internazionale di Washington e i banditi di Washington che si nutrono delle sue reti, l’improvviso taglio dei fondi dell’USAID ha scatenato il panico all’estero.
Dall’America Latina all’Europa dell’Est, gli Stati Uniti hanno investito miliardi di dollari nelle ONG e nei media per spingere per le rivoluzioni colorate e varie operazioni di cambio di regime, il tutto in nome della “promozione della democrazia”.
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György Lukács, un’eresia ortodossa / 4 – Il partito e la dialettica marxiana
di Emilio Quadrelli
Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica marxiana riconosce: la lotta di classe. Non avevano forse detto Engels e Marx che l’unica scienza che riconoscevano era la scienza storica? Ma questa scienza non scientista non era forse determinata dai conflitti delle classi? Non era forse la soggettività di classe a essere l’elemento costitutivo e costituente della scienza marxiana? Ma questo, allora, non significa, senza ambiguità di sorta: la strategia alla classe, la tattica al partito? Questo il nocciolo della questione. Il partito non può chiamarsi fuori dalla dialettica storica, quindi non può rimanere separato e immune da ciò che, in maniera spontanea, la classe pone all’ordine del giorno.
Ciò che Lukács pone al centro di questo paragrafo è esattamente il legame dialettico tra partito e classe. Una relazione che, di fatto, negano tanto le concezioni riformiste e revisioniste alla Bernestein, quanto quelle rivoluzionarie alla Luxemburg, tutte incentrate sulla spontaneità. Ma cosa lega ciò che, in apparenza, appare non solo distante ma addirittura incommensurabile? Perché, andando al sodo, riformismo e spontaneismo non sono che due facce della stessa medaglia? Ciò che qui entra immediatamente in gioco, ancora prima della concezione del partito (questa alla fine ne sarà solo un semplice riflesso) è la visione del processo storico. Da un lato, quello che possiamo individuare come asse riformismo–spontaneità, vi è un’idea sostanzialmente evoluzionista del divenire storico per l’altra, quella riconducibile alla teoria leniniana, la storia è sempre frutto di conflitti di classe aperti e mai storicamente già determinati. Da un lato, quindi, il determinismo scientista, dall’altro la determinatezza della soggettività.
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Il “punto di vista di classe”, la dialettica e il partito
di Jacques Bonhomme
1. Tra passato e presente: “il punto di vista di classe”
Le locuzioni che fanno parte del vocabolario marxista novecentesco, di quel marxismo che è stato la lingua parlata e accomunante – pur con tutti i suoi dialetti – delle Rivoluzioni che vi hanno preso avvio, si usano spesso con timida circospezione, con molta esitazione e quasi chiedendo il permesso. La formula “punto di vista del proletariato” entra subito e facilmente in questo repertorio. E quindi, per poterla recuperare, per poterla incorporare in una “lingua ritrovata”, in una lingua che articoli le pratiche delle lotte sociali e politiche, serve, ineludibilmente, uno sforzo di traduzione. In prima istanza, traduzione da un libro cruciale, da Storia e coscienza di classe di György Lukács, del quale il concetto di “punto di vista del proletariato” è l’architrave filosofico. In seconda istanza, traduzione dai contesti in cui quella teoria di Lukács e importanti forze storiche si sono vicendevolmente rispecchiati e più o meno direttamente sostenuti.
Qualunque sforzo è tuttavia un prezzo sempre troppo basso in proporzione all’importanza dei problemi, dei contenuti teorici e delle prospettive pratiche che l’espressione e, inseparabilmente, il concetto di “punto di vista del proletariato” hanno seminato durante un lungo tempo storico, dalla Terza Internazionale all’emergere del cosiddetto “marxismo occidentale”, dai movimenti studenteschi a Fanon. Infatti, le traduzioni sono avvenute attraverso le pratiche, poiché le continuità hanno beneficiato delle critiche e le situazioni hanno incessantemente riconvertito le idee. Comunque, non è mai crollato il ponte filosofico tra il “punto di vista di classe”, che altro non è che il modo di conoscere il mondo sociale nella sua storicità - la coscienza di esso -, e la classe antagonistica della borghesia imperialista; per quanto quella classe non abbia più il volto del proletariato della guerra civile rivoluzionaria degli anni Venti, delle Repubbliche dei Consigli in Germania e in Ungheria e del Biennio Rosso in Italia.
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Guerra e industria della formazione. Il conflitto dentro scuola e università
di kamo
Note per approfondire la discussione
La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano. Tra questi, la scuola e l’università, punti nodali della riproduzione capitalistica e sociale.
Da una parte, come «industrie della formazione» atte a produrre e disciplinare la merce oggi più preziosa: quei soggetti che verranno chiamati a lavorare e combattere per la guerra dentro fabbriche, magazzini, laboratori, aule e uffici, o direttamente sul campo di battaglia. Dall’altra, tuttavia, come luoghi di mobilitazione giovanile e comportamenti di rifiuto che negli ultimi anni, intorno ai conflitti globali, e in special modo la Palestina, che coinvolge anche le dimensioni decoloniale e della razzializzazione interne alla composizione di classe delle nostre latitudini, hanno visto una nuova generazione politica prendere parola, tra tentativi di conflitto, spontaneità e contraddizioni.
Come si stanno trasformando scuola e università dentro la guerra? Quale funzione sono chiamate a ricoprire, da Stato, imprese e politica, nell’organizzazione, mobilitazione, e produzione bellica? Quale ruolo degli istituti tecnici e professionali, baricentrali per la formazione della forza lavoro specializzata per la fabbrica della guerra e al contempo alla formazione allo sfruttamento, con alta concentrazione di soggettività razzializzate, ma sovente esclusi o impermeabili agli interventi politici? Quali sono i soggetti coinvolti dentro i processi di trasformazione e che istanze, pulsioni e visioni materiali esprimono (o possono esprimere) nelle mobilitazioni contro la «fabbrica della guerra»?
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“Le tre regole di Trump”, o come si fa la guerra
di Francesco Piccioni
Lasciateci, per una volta, segnalare che – pur essendo un giornale solo online, senza finanziamenti né padroni, con redattori “militanti” senza paga – per una volta ci avevamo preso, anticipando di molto i professionisti del mainstream.
Deve essere colpa di quella curiosità che non può albergare nelle redazioni dove “la notizia” è quella che arriva dall’alto… Da un’agenzia di stampa internazionale, da un tweet di un potente, da un ordine della proprietà del giornale…
Però, parlando onestamente e senza alcuna intenzione ironica (per una volta), abbiamo apprezzato che il Corriere della Sera abbia ospitato un pezzo di Andrea Marinelli che prova a dar conto dello “stile comunicativo” di Donald Trump e che gli conferisce – per riconoscimento quasi unanime – il dominio sull’agenda politica: Le tre regole spregiudicate di Trump e chi è Roy Cohn, l’avvocato che gliele ha fornite: «Se vuoi vincere, si vince così».
L’attenzione e l’occasione permettono infatti di precisare quanto avevamo già scritto quasi due mesi fa, subito dopo le elezioni stravinte dal tycoon. E forse abbiamo sbagliato anche noi, allora, a inserire il ragionamento critico sulle “tre regole” all’interno di un articolo più generale, invece di dedicargli un “pezzo a parte”. Rimediamo oggi.
L’articolo di Marinelli è di qualità, ben scritto, coglie molti punti importanti del Trump style. Ma, detto con sincera tranquillità, si svolge interamente dentro i criteri della critica cinematografica, al confine tra fiction e realtà, e quindi non coglie il punto vero – tutto politico – quello che segna un “cambio d’epoca” nella visione politica dell’Occidente collettivo, e che caratterizza l’avanzare apparentemente inarrestabile della destra più reazionaria e suprematista che sia mai apparsa al mondo dalla conquista del Reichstag da parte dei sovietici, il 9 maggio del 1945.
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“Povero” Trump!
di Carla Filosa
La “verità” del broncio minaccioso di Trump è il sorriso felice e il ghigno tracotante e aggressivo di Elon Musk. È lui la vera personificazione dell’imperialismo del capitale e non il presidente della stanza ovale, un figurante prestanome qualsiasi
“Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è l’agente involontario e passivo, sostituisce all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante l’associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori”. (K. Marx, Il Capitale, I, VII, 24)
“Il capitalista non è capitalista perché dirigente industriale ma diventa comandante industriale perché è capitalista. Il comando supremo nell’industria diventa attributo del capitale, come nell’età feudale il comando supremo in guerra e in tribunale era attributo della proprietà fondiaria”. (K. Marx, Il Capitale, I, 2, 11)
Solerte nel suo nuovo incarico, Donald non ha perso tempo per il bene degli “americani” – da sempre gli statunitensi sono stati chiamati così: il “tutto per la parte”! al contrario – proprio come ormai il “loro” golfo, non più del Messico, finora così insignificante con quel nome! Ha graziato i suoi pretoriani di Capitol Hill, ha promesso di scaraventare fuori dalla fortezza a stelle e strisce gli ultimi immigrati, dato che non si sa chi si salverebbe se si chiedesse agli statunitensi di buttarsi a mare qualora avessero avuto origini migratorie. Il termine “deportation” non lascia dubbi, anche se molti traducono con “rimpatrio” o “espulsione”, al punto che anche la vescova evangelica ha chiesto “misericordia” a Trump nei confronti di chi, emigrato in ritardo con la storia, teme per la propria vita.
Dimissioni dall’Oms, e dimissioni per la seconda volta dagli accordi di Parigi sulla transizione energetica, per “Make America affordable and energy dominant again”, cioè rendere l’America accessibile e di nuovo dominante in ambito energetico! Ripresa devastatrice delle trivellazioni per ottenere petrolio e gas (stimato lo scorso novembre in 4 miliardi di tonnellate in più alle emissioni entro il 2030. D’altronde, le industrie dei combustibili fossili hanno sborsato 75 milioni di dollari per la campagna di Trump!).
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Dissociati dalla realtà
di Gianandrea Gaiani
Una valanga di provocazioni ha caratterizzato la prima settimana alla Casa Bianca di Donald Trump in politica estera, dove la foga di imporre il nuovo corso dell’America “tornata grande” sembra portare il neo presidente ai ferri corti con alleati, vicini e rivali dall’Europa al Medio Oriente, dalla Groenlandia alla Russia, dai BRICS all’America Latina.
Che si tratti di passi falsi o dell’ostentazione della forza che Washington intende utilizzare o forse solo minacciare per dirimere le contese con alleati e rivali solo il tempo potrà dirlo.
Il monito lanciato a Vladimir Putin affinché negoziare sull’Ucraina ha fatto seguito a molti segnali di distensione verso il Cremlino. Se non accetterà di negoziare per porre fine alla guerra in Ucraina, gli Stati Uniti porranno nuove ulteriori sanzioni alla Russia e ai suoi alleati ha fatto sapere Trump due giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, in un messaggio pubblicato su Truth Social.
“Ho sempre avuto un ottimo rapporto con il presidente Putin. Non voglio danneggiare la Russia. Farò alla Russia, la cui economia sta fallendo, e al presidente Putin, un grandissimo favore. Raggiungete un accordo ora e fermate questa ridicola guerra! Non potrà’ che peggiorare!”.
Mostrando aperture verso Mosca, Trump ha aggiunto che “non dobbiamo mai dimenticare che la Russia ci ha aiutato a vincere la Seconda Guerra Mondiale, perdendo quasi 60 milioni di vite umane”. Una gaffe storica non proprio edificante per il neo presidente e il suo staff.
Trump aveva definito l’Ucraina “un Paese raso al suolo dalla guerra”, sottolineando l’enorme tributo di sangue che il conflitto è costato a entrambi i belligeranti auspicando che il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, voglia porre fine quanto prima al conflitto ma, aggiungendo che per conseguire tale obiettivo è necessaria una reale apertura al dialogo da parte di Putin, benché “Zelensky non sia un angelo”, come ha ricordato Trump dando un colpo al cd4rchio e uno alla botte.
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Gli strateghi del capitale: uno stimolo pessimista per ripensare la transizione
di Collettivo LeGauche
Il libro di Gianfranco La Grassa Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin rappresenta il punto di arrivo della lunga parabola intellettuale di La Grassa e del suo personale ripensamento della teoria marxista
1. Ripensare il marxismo
Per La Grassa la scienza disantropomorfizza e per questo motivo le scienze naturali si sono dovute liberare di ogni forma di animismo. Concetti come forza o magnetismo possono portare ad alcuni errori perché fanno credere all’esistenza di qualità intrinseche alla materia di cui sono costituiti i corpi fisici. Si tratta, invece, di caratteristiche delle funzioni che esercitano in determinate condizioni di intreccio e interazione reciproca. La matematica aiuta, esattamente come il linguaggio, a sfuggire da ogni punto di vista sostanziale. Esiste una fondamentale unitarietà di metodo tra tutte le scienze, incluse quelle sociali. Concetti come formazione sociale o modo di produzione non fanno eccezione. Lo scienziato deve limitarsi alle funzioni di dati soggetti e descriverne i caratteri per costruire l’intelaiatura della società. La scienza non serve a rispondere alle domande essenziali che l’uomo si pone circa la sua esistenza o i fini ultimi della sua vita ma deve forgiare strumenti per orientare le nostre azioni in una realtà complessa come la società umana. Quindi la scienza non risponde a domande sull’essenza umana e neanche deve porsi simili questioni ma allo stesso tempo lo scienziato sociale non deve indagare la realtà per imbrigliarla in schemi teorici che orientano l’interpretazione e l’azione nella società con lo stesso spirito che guida il lavoro degli scienziati che interpretano la natura. Analizzare le forme storiche delle relazioni sociali ha bisogno di strumentazioni teoriche tanto quanto l’analisi del moto degli astri o delle reazioni chimiche ma lo spirito che muove le analisi nei vari rami delle scienze non è uguale.
In Marx è sempre stata presente una pulsione all’oggettività scientifica che nasceva dal suo essere un rivoluzionario e dal non volersi limitare ad analizzare il mondo in cui viveva ma a trasformarlo. Per conseguire un simile scopo non era sufficiente l’adesione morale ad un progetto politico ma studiare le sue condizioni di possibilità attraverso l’analisi della struttura interrelazionale e interazionale tra le varie classi.
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Filosofia e critica del capitalismo universale
di Camilla Sclocco
Su un recente volume di Finelli e Gatto contro il rigetto del pensiero dialettico. – Marxismo dell’astrazione e marxismo della contraddizione. – L’attuale dominio assoluto del capitalismo svuota la cultura di funzione critica. – Il processo ha investito anche il concetto gramsciano di egemonia, negando il suo cuore economico e riducendolo a fatto culturale. Si è aperta così la strada alla «soggettivizzazione della politica». – La scuola come sede dell’utopia possibile
Sistema, dialettica, totalità. Giudicate come estinte da buona parte degli orientamenti culturali oggi egemoni in Occidente, nonché da correnti filosofiche a vario titolo eredi di Althusser in Francia e di Della Volpe in Italia, le categorie della tradizione hegelo-marxista sono indicate da Roberto Finelli e Marco Gatto nel loro recente volume Il dominio dell’esteriore. Filosofia e critica della catastrofe (Roma, Rogas, 2024, pp. 160) come le uniche in grado di garantire una comprensione critica della società attuale. In questa fortunata unione di due delle intelligenze più innovatrici della filosofia italiana contemporanea viene proposta quale chiave interpretativa del presente della globalizzazione neoliberale quella del compiersi del processo di universalizzazione del capitale, inteso come Übergreifende Subjekt, o “soggetto dominante”, della modernità, indagandone le conseguenze sul piano antropologico e culturale.
La liquidazione del marxismo degli anni Settanta
Al volume va anzitutto riconosciuto il merito di aver fatto chiarezza sulla modalità con cui a partire dagli anni Settanta sia avvenuto in Italia il processo di liquidazione della cultura filosofica marxista e la sua sostituzione con gli autori del pensiero negativo. Concretizzandosi nel passaggio dell’anticapitalismo dai moduli del pensiero storico-sociologico a quelli di ascendenza ontologico-teologica, questa vicenda viene osservata all’interno della più ampia svolta del pensiero occidentale scaturita dal ritorno a Parmenide di Heidegger e proseguita attraverso una serie di Filosofie e teorie dell’altro mondo, secondo l’espressione che dà il titolo al terzo capitolo. Il Grand Autre di Lacan, il Vuoto-Nulla di Agamben, l’operaismo teologico di Tronti, il poter-dire di Virno, filosofie assai di moda nelle accademie italiane degli ultimi anni, sarebbero a vario titolo eredi della riproposizione ontologica della categoria di Essere compiuta dalla rivoluzione conservatrice heideggeriana. Un passaggio reazionario osservato anzitutto nella riconcettualizzazione del significato di Essere da quello di necessità a quello di possibilità, che farebbe dell’essere umano il prodotto di un riferimento al futuro estraneo alla riproduzione biologica, storica e sociale della vita.
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Europa vaso di coccio
di Enrico Tomaselli
Tradizionalmente, si tende a pensare che i paesi europei – e segnatamente Italia e Germania – siano costretti ad un ruolo subalterno, rispetto agli Stati Uniti, non solo in virtù del ruolo di superpotenza di questi ultimi, ma anche perché ciò farebbe parte dell’eredità della sconfitta subita nella seconda guerra mondiale. In realtà questa tesi è smentita non soltanto dal fatto che ci sono paesi altrettanto subalterni, benché non ascrivibili al novero dei membri dell’Asse, ma anche dal fatto che – proprio nei paesi che persero la guerra – vi sono stati personaggi come Brandt o Moro che, pur nella loro assoluta fedeltà atlantica, erano comunque capaci di una (sia pur parziale) autonomia, che garantisse anche gli interessi nazionali, e non solo quelli imperiali.Basti pensare, appunto, alla Ostpolitik tedesca oppure al posizionamento italiano sulla questione mediorientale negli anni ‘70 del novecento.
Il dato reale è invece che, soprattutto a seguito della nascita dell’Unione Europea, che si è andata strutturando in modo sempre più centralizzato e a-democratico, è via via emersa una generazione di leader post-guerra fredda, estremamente attenta a soddisfare le attese delle varie amministrazioni americane, e che – nella convinzione di potersi con ciò dedicare esclusivamente alla cura del famoso “giardino” – hanno completamente delegato a Washington la difesa dello stesso, sino a perdere del tutto la cognizione stessa che gli interessi nazionali non sempre, e non necessariamente, coincidono con quelli della potenza egemone.Ciò è divenuto particolarmente evidente (e stringente) soprattutto negli ultimi due decenni, quando la saldatura tra neocon e democratici americani ha messo gli USA su una rotta di collisione con la Russia, e conseguentemente ha reso necessario un maggior controllo statunitense sull’Europa, individuata come il principale campo di battaglia per l’egemonia globale.
Questa subalternità, profondamente interiorizzata dalle classi dirigenti europee, ha poi raggiunto, nell’ultimo decennio, livelli di completo autolesionismo, sino alla tacita accettazione di un ruolo sacrificale nel confronto tra Washington e Mosca – coronata dal silenzio tombale con cui è stata registrata la distruzione dei gasdotti North Stream.In questo contesto psico-politico, le élite europee si sono avventurate non soltanto nel sostegno all’Ucraina, ma nell’adozione acritica di una ideologia russofobica senza precedente (e senza fondamento), tanto da diventare in ciò più realisti del re.
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Una strega, due spergiuri e il Segreto di Stato su Al Masri
di Michelangelo Severgnini
Il perimetro in cui si sta giocando la partita intorno al caso Al Masri è più ampio di quel che si racconta.
Il perimetro, come sempre in questi casi, viene limitato al campo dei diritti umani e della migrazione.
Lì, in questo campo, stanno volando i fendenti in questi giorni tra destra e sinistra in Italia.
In sostanza la sinistra ha buon gioco a incolpare la presidente Meloni di incompetenza, finanche complicità con i criminali torturatori libici (evidentemente si suppone che questi siano lì per fermare i migranti e in questo fare un favore alla Meloni).
La destra si trincera dietro a vizi procedurali e a una rapida espulsione in Libia motivata da ragioni di sicurezza.
Anzi, denuncia un piano segreto per attaccare il suo governo, dal momento che Al Masri, prima di arrivare in Italia, era transitato da altri Paesi europei, ma solo il 18 gennaio, il giorno del suo ingresso in Italia, viene spiccato il mandato di cattura internazionale contro di lui.
Questo per chi crede alle coincidenze.
Però, come si diceva, il perimetro della partita è più ampio.
Ma ciò che avviene al di fuori del campo che concerne i diritti umani e la migrazione, non sarà raccontato.
Ma è quello che spiega ciò che sta succedendo in questi giorni.
In Libia non si vota dal 2014. Le nuove elezioni previste per il dicembre 2021 sono state annullate all'ultimo momento per evitare che Saif Gheddafi, figlio del colonnello, diventasse presidente della Libia.
Il governo Meloni, come tutti i suoi predecessori, riconosce come governo della Libia quello di Dabaiba, insediato a Tripoli.
Questo governo non solo è illegittimo, perché non riceve la fiducia del parlamento eletto nel 2014, ma ormai è prossimo a cadere, sotto la spinta degli ultimi eventi internazionali.
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Come DeepSeek ha riconfigurato la corsa all’intelligenza artificiale
di Antonio Dini
“È una delle innovazioni più sorprendenti e impressionanti che abbia mai visto”: le parole del venture capitalist Marc Andreessen sintetizzano alla perfezione lo stupore con cui la Silicon Valley ha assistito all’avvento di V3 e R1, i modelli di intelligenza artificiale creati da DeepSeek, la startup cinese derivata dall’hedge fund di Lian Wenfeng.
DeepSeek è riuscita a creare sistemi di AI potenti almeno quanto i principali realizzati negli Stati Uniti a una frazione del costo di training – 5,6 milioni di dollari per il suo modello V3, un LLM (modello linguistico di grandi dimensioni), contro gli oltre 100 milioni stimati per ChatGPT-4 – e utilizzando chip molto meno potenti e probabilmente in quantità inferiore (il numero di schede Nvidia utilizzate è ancora dibattuto), anche a causa dei blocchi commerciali imposti dagli Stati Uniti. DeepSeek è riuscita nell’impresa usando delle tecniche di programmazione e di funzionamento innovative e procedendo a ottimizzazioni sistematiche e su larga scala nel funzionamento dei sistemi di creazione e gestione dei modelli.
In questo ha giocato un ruolo significativo anche il fatto che DeepSeek abbia scelto un modello di sviluppo di tipo open source (pur con le differenze che questo ha nel settore dell’intelligenza artificiale rispetto all’ingegneria del software tradizionale, tanto che la definizione di open per questi modelli è contestata), da un lato potendo sfruttare l’aiuto di sviluppatori indipendenti di tutto il mondo, dall’altro aumentando la pervasività dei suoi modelli, perché possono essere scaricati da chiunque, nel repository presente su GitHub, e utilizzati in altro modo. I modelli possono quindi essere utilizzati in locale anche con computer relativamente poco potenti, mentre altre aziende possono riutilizzarli dopo averli portati nel proprio cloud. Microsoft stessa ha dichiarato di voler aggiungere i modelli di DeepSeek nell’offerta del suo cloud Azure (nonostante la partnership con OpenAI), mentre Perplexity offre R1 come opzione per il suo motore di ricerca.
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Marx, le macchine e l’IA. Le lezioni di Napoleoni
di Lelio Demichelis
La sinistra deve prendere atto del fatto che neppure i compromessi possono salvare la democrazia dal potere e dalla volontà di potenza del capitalismo e della tecnica. Rileggere Napoleoni può aiutare a trovare una via d’uscita dalla società tecnocratica
Claudio Napoleoni (1924-1988), un altro grande intellettuale e politico della sinistra oggi sostanzialmente dimenticato dalla stessa sinistra. Da una sinistra, oggi ma come scriveva Napoleoni già allora, dove “non c’è più l’abitudine a ragionare in grande, cioè per grandi problemi, per grandi prospettive, soprattutto” – una sinistra incapace (a parte lodevoli eccezioni) non solo di pensare alla rivoluzione, a una (in realtà sempre più urgente) uscita dal tecno-capitalismo, o al “progressivo abbandono delle strutture in cui oggi vive il dominio” (soprattutto la tecnica), ormai lasciandosi sopraffare e quindi solo adattandosi o facendosi solo resiliente a ciò che il capitale e il neoliberalismo impongono come dati di fatto ineluttabili e immodificabili. Una abitudine a ragionare che invece dovrebbe essere ancora più necessaria oggi – ragionare in grande, cioè per grandi problemi, per grandi prospettive, soprattutto mentre capitalismo e tecnica (il nuovo Principe del mondo, con i suoi intellettuali organici, altro che partito gramsciano ed egemonia del proletariato) stanno costruendo un nuovo tecno-fascismo (Musk & Trump e i loro emulatori in giro per il mondo), e/o una tecno-destra apparentemente libertaria e anarchica (definizione tautologica, quella di tecno-destra: per come si impone appunto come dato di fatto sulla società, l’innovazione tecnologica è sempre industrialista/positivista e di destra per sua essenza, comunque anti/a-democratica), e/o una tecno-oligarchia reazionaria a dominio e a egemonia (sempre nel senso di Gramsci) globale, risvegliando/riattivando con la tecnologia quel fascismo potenziale e quella fascinazione di massa per la personalità autoritaria di cui scrivevano settant’anni fa Adorno e la prima Scuola di Francoforte – o quell’Ur-fascismo di cui aveva scritto Umberto Eco nel 1997.
A rileggere Napoleoni – economista, filosofo, politico, intellettuale poliedrico, sempre impegnato a ragionare sull’economia (mentre oggi l’economia è chiusa nei propri modelli autoreferenziali, avalutativi e senza confronto con la realtà reale) e sulla politica, su Marx, su Sraffa, su Heidegger, con Rodano e con Del Noce, sulla religione.
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Trump e Musk: in principio è l'azione
di Alessandro Carrera
Nel film Un volto nella folla (Elia Kazan, 1957) assistiamo all’inarrestabile ascesa di Larry “Lonesome” Rhodes, ex cantante country interpretato da Andy Griffith che, scoperto dalla conduttrice di una trasmissione radio, diventa presto un idolo delle folle, un influencer (allora si diceva testimonial), nonché un aspirante politico. Ma quando Marcia, la produttrice che purtroppo si è innamorata di lui, decide di punirlo dei suoi tradimenti, non deve far altro che lasciare acceso il microfono alla fine di un programma televisivo e poi diffondere la registrazione in cui Lonesome Rhodes, il campione del popolo, dà degli idioti a coloro che lo seguono. Il suo indice di gradimento crolla e la sua carriera politica è finita.
Questo nel 1957, ma oggi non è più così. Il nuovo populista non teme affatto di far sapere al suo elettorato quello che pensa di loro. Quando Trump ha detto: “Amo gli ignoranti” (“I love the uneducated”) non ha perso voti, anzi ne ha guadagnati. Il populista che disprezza il popolo viene osannato da un popolo che a quanto pare disprezza soprattutto se stesso. Ma è proprio così?
Michael Sandel, filosofo della politica e autore di La tirannia del merito (2020), ha argomentato che i recenti movimenti populisti, negli Stati Uniti e altrove, sono una rivolta delle masse contro le élites di coloro che si ritengono, per nascita e censo, “la metà migliore” (è un’espressione che userò ancora, in un contesto più preciso). Ma non sono sicuro che questo sia ancora vero. Il 20 gennaio 2025, durante l’inaugurazione della sua seconda presidenza, accanto a Trump non c’erano gli ex minatori della Pennsylvania o gli operai del Michigan; c’erano gli amministratori delegati delle grandi tech companies, gli uomini più ricchi e potenti del pianeta, nessuno dei quali ha mai nascosto la propria politica antisindacale e l’assunto in base al quale il miglior amministratore è quello che licenzia di più. Come si è realizzata questa unholy alliance, questo matrimonio osceno di populismo, tecnocrazia e sovranismo?
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IL salvataggio di Milano
Raccontato da un economista
di Antonio Calafati
Improvvisamente, scoppia il ‘caso Milano’... La magistratura inizia a contestare all’amministrazione comunale la legittimità giuridica dell’uso fatto del dispositivo dell’urbanistica contrattata. In numerosi casi, la procedura seguita avrebbe impedito che l’interesse pubblico fosse adeguatamente rappresentato nella negoziazione. La reazione di chi governa Milano è stata disinibita tanto nel dire quanto nel fare, come si conviene nella tradizione neoliberale: chiedere al Parlamento di promulgare una legge che legittimasse ex-post la prassi negoziale seguita per autorizzare gli interventi di trasformazione urbana. Ne scrive con cura Antonio Calafati, uno dei massimi esperti in Italia di economia urbana [Stefano Lucarelli].
* * * *
In occasione del 175° anniversario della sua fondazione, nel settembre del 2018 The Economist, iconico settimanale inglese, tra i più influenti nella scena internazionale, pubblica un lungo saggio dal titolo eloquente: 1843-2018. A Manifesto for renewing liberalism. Non conteneva novità, ma codificava il progetto neoliberale nella forma che ha trionfalmente preso in Europa dopo il 1989, ancorandosi al paradigma mercatista per interpretare e governare il capitalismo.
Nel 2018, in molte democrazie europee era stata in larga parte realizzata l’agenda politica che il Manifesto illustrava, ma da alcuni anni crescevano inquietudine e instabilità politica, e cresceva il consenso elettorale di movimenti ‘anti-mercato’. Ricapitolarne i temi principali era sembrato necessario alla redazione dell’Economist, consapevole che il suo Manifesto si sarebbe rivelato uno strumento utile per sostenere le ragioni del progetto neoliberale.
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Trump vuole invertire il declino dell’America ma il risultato sarà un fallimento
di Alessandro Scassellati
Trump e i suoi sostenitori vorrebbero opporsi alla corrente della storia, ma potrebbero finire per non avere modo di fermarla ed essere travolti. Queste prime settimane della sua amministrazione potrebbero rappresentare l’apice del potere di Trump, come riconoscono alcuni sostenitori
Dopo anni di analisi, dibattiti e conflitti su cosa significhi la sua ascesa, il discorso inaugurale di Donald Trump in occasione della sua seconda assunzione della presidenza ha chiarito tutto: lui è il sintomo del declino imperiale che pretende di essere la cura. Il suo discorso inaugurale in occasione del primo mandato si era soffermato sul declino nazionale: la “carneficina americana”. L’apertura del secondo discorso inaugurale, date le pretese monarchiche di Trump, tuttavia, è iniziata con il mito della “nuova età dell’oro”, proponendo un’immagine quasi idilliaca della fine del periodo di difficoltà dell’America, con il paese che dovrà tornare a suscitare quell’invidia e rispetto di cui un tempo godeva tra le potenze della terra. E, molto più chiaramente che nel suo primo discorso inaugurale e mandato, le parole e gli stratagemmi di Trump indicano una visione non solo di competizione, ma di ritorno a un’ascesa comparativa. Vuole che l’America si crogioli al sole della sua precedente vittoria nella competizione degli imperi. Sarà una “nuova entusiasmante era di successo nazionale”.
Sappiamo che Trump è un narcisista, un bullo e un cercatore di accordi che non desidera avere obblighi verso gli altri. Sta creando una monarchia elettorale non soggetta al controllo parlamentare, un sistema in cui tutto il potere è personalizzato e tenuto nelle sue mani, una ricetta certa per flussi distorti di informazioni, corruzione, instabilità e i(nco)mpotenza amministrativa. La miscela di politica, ideologia ed escatologia megalomane è particolarmente importante perché Trump ha legato il destino degli USA alle sue fortune personali come nessun altro presidente prima di lui. Come lui sostiene, la realizzazione del programma America First (arrestare il declino imperiale statunitense) è inestricabilmente legata al suo potere personale.
Sebbene alcuni analisti e commentatori, naturalmente, si oppongono al fatto che gli Stati Uniti siano mai stati un impero, Trump non sembra dubitarne.
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Crepe profonde nel sistema economico occidentale
di Francesco Cappello
I patologici squilibri indotti dal modello economico occidentale risultano sempre più insostenibili. La finanziarizzazione estrattiva/speculativa genera e alimenta il conflitto globale
La pratica neoliberista che obbliga gli Stati a finanziarsi facendo ricorso esclusivo ai mercati finanziari, vendendo titoli a soggetti non residenti in cambio di soldi da restituire con gli interessi, è sempre meno sostenibile. I costi dei debiti sovrani crescono rapidamente, creando un potenziale rischio per l’economia globale. Il rendimento dei titoli di Stato USA a 10 anni [1], attualmente al 4,5% potrebbero crescere sino al 5% o più. Già questo singolo fattore è indice di una fragilità crescente delle economie occidentali. Non si tratta, infatti, di un fenomeno circoscritto agli Stati Uniti, ma si sta verificando anche altrove: Gran Bretagna (4,58%), Italia (3,65%) e Francia (3,29%), Ungheria (6,74), Messico (9,61%), Sud Africa (10,11%), Brasile(10,75%), Turchia (25,51%) tutti paesi con tassi in rapido aumento. Era già accaduto nel 2007, prima della crisi finanziaria del 2008, e all’alba del secolo che ha visto valori superiori al 5%.
Perché allarma l’aumento dei tassi a lunga scadenza?
Alti Rendimenti finanziari inducono i possessori di capitali a farli fruttare finanziariamente piuttosto che investirli nell’economia reale. L’aumento dei tassi d’interesse drena, infatti, capitali dall’economia produttiva, spingendo cittadini e aziende a risparmiare invece di spendere ed investire, con evidenti conseguenze negative sull’attività economica. I prestiti necessari agli investimenti costano di più, viceversa, investire finanziariamente capitali rende di più e con zero rischio di impresa.
Per i governi, la situazione è ancora più complessa: molti paesi spendono più di quanto incassano con le entrate fiscali, vedendosi costretti a tagli nello stato sociale e ad aumentare il debito per far fronte al debito tramite l’emissione di nuove obbligazioni.
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Tassazione e interesse (solo per astronomi esperti). Cronache marXZiane n. 16
di Giorgio Gattei
1. Dgiangoz, comincia tu!
Dgiangoz è il mio consulente in analisi logica marXZiana che, interpellato, così mi ha risposto:
– Sei tornato da me? Non ti fidi delle tue sole competenze? Ne prendo atto e ti vengo incontro. Rispetto ai miei interventi precedenti, adesso in quel dominio di Saggio Massimo del pianeta Marx in cui sei finito e dove, pur impiegando lavoro, non si pagano salari, le due sole merci prodotte (una “base” e una “non-base” secondo la nomenclatura introdotta da Piero Sraffa nel libro del 1960), invece di essere grano e tulipano sono diventate orzo e birra, ma questo cambia poco dato che l’orzo è una “merce-base” in quanto necessaria per produrle entrambe, mentre la birra è una “merce-non base” addirittura assoluta perché non serve nemmeno a produrre se stessa (che fai della birra se non berla?). Più interessante è invece la sostituzione, nella funzione d’intermediazione tra le due produzioni, del Palazzo al posto del Tempio, il che ti ha consentito di attribuirgli la doppia funzione di tassare il produttore d’orzo (d’ora in poi l’“orziere”) per poi prestare al produttore di birra (d’ora in poi il “birraio”) quel gettito fiscale così raccolto. Però hai strafatto nel supporre che il Palazzo prelevi l’intero profitto massimo dell’orziere per girarlo integralmente e gratuitamente al birraio. Certamente, così facendo, hai raggiunto d’assalto l’equilibrio di bilancio tra le entrate e le uscite del Palazzo:
R a11 Q1 = a12 Q2
dove a11 e a12 sono i coefficienti unitari delle due produzioni, Q1 e Q2 le quantità rispettivamente prodotte ed R è il Saggio Massimo del profitto, ma non ti parrebbe più plausibile che il Palazzo prelevi a titolo d’imposta soltanto una percentuale del profitto massimo dell’orziere secondo una aliquota fiscale (t < 1, mentre sul prestito al birraio si facesse pagare un interesse secondo un tasso i > 0? Però, così facendo, ne sarà modificato quell’equilibrio di bilancio del Palazzo da te dedotto che dovrà essere ripensato tenendo comunque conto che le tasse sono pagate soltanto dall’orziere produttore della merce-base, mentre l’interesse è pagato soltanto dal produttore della merce non-base, cioè dal birraio.
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Stato e rivoluzione. Problemi filosofico politici della trasformazione in un mondo al collasso
di Gianni Fresu (Università di Cagliari)
Introduzione
In termini di profondità e dirompenza, i drammatici avvenimenti internazionali che travolsero il mondo tra il 1914 e il 1918 esemplificano come poche altre epoche storiche cosa si intenda per «crisi organica». Ciò vale particolarmente per la Russia sconquassata dalle molteplici conseguenze di una guerra disastrosa che, acutizzando i problemi strutturali di questo immenso Paese, portò al clamoroso crollo dell’impero zarista nel febbraio 1917. Dobbiamo la conoscenza di quanto accadde nella caotica Russia post-rivoluzionaria soprattutto al talento di tre grandi scrittori che, come ha scritto Ronald W. Clark, del loro soggiorno russo non lasciarono soltanto freddi resoconti di cronaca giornalistica. Tre narratori di eccezione come M. Philips Price, Arthur Ransome e John Reed, infatti, descrissero con vividi affreschi le immagini decadenti di un vecchio mondo che moriva, volgendo al contempo la propria curiosa attenzione verso i primi vagiti di quello nuovo che tentava disperatamente di nascere. Anche grazie a loro è stato possibile ricostruire il ruolo politico di Lenin in uno scenario per molti versi grottesco, nel quale, a causa di una guerra sconsiderata, la stragrande maggioranza della popolazione viveva nella miseria più assoluta e pativa la fame, mentre per ristrette fasce di popolazione nulla era cambiato.
«A Pietrogrado, all’Hotel Europa, c’era ancora Jimmy, del Waldorf-Astoria di New York, che continuava a servire i suoi cocktail. La Karsavina danzava ancora Il lago dei cigni davanti a platee rapite e Šaljapin continuava a deliziare i suoi ascoltatori in immacolati abiti da sera. Benché le riserve di viveri si facessero sempre più scarse, la maggior parte dei ristoranti di lusso non solo era aperta, ma faceva affari d’oro. Lo stesso avveniva per i teatri e i cabaret, anche se alle loro porte si svolgevano dimostrazioni e controdimostrazioni che spesso degeneravano in tumulti»1.
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Ricerca Profonda. La rivincita dell’Open Source
di Francesco Cappello
DeepSeek è un modello di intelligenza artificiale cinese che sta sfidando con successo i colossi tecnologici americani e che rischia di bucare la bolla dell’HiTech statunitense gonfiata a dismisura dalle big three, i grandi fondi di investimento USA. Possibili vendite allo scoperto da parte di grandi player finanziari.
Il modello di IA cinese gratuito e Open Source ha raggiunto prestazioni elevate in tempi brevi e con un budget limitato, scuotendo il panorama dell’IA a livello globale
Tanto con poco
DeepSeek è stato sviluppato da un team cinese [1] con un investimento di soli 5 milioni di dollari, un importo notevolmente inferiore rispetto ai miliardi spesi da aziende come Open AI, Google e Meta. Nonostante ciò, DeepSeek ha superato modelli come GPT-4 di OpenAI e Claude 3.5 Sonnet di Antropic, specialmente in matematica e coding (in particolare, DeepSeek V3 ha raggiunto un’accuratezza del 51.6% in matematica e coding, rispetto al 23.6% di GPT-4o e il 20.3% di Claude 3.5).
Questo è stato possibile grazie a un’architettura chiamata mixture of experts – che riduce i costi computazionali – e ad altre tecniche innovative di addestramento, come il dual pipe and computation communication overlap (l’utilizzo di floating point 8 anziché 32 e la previsione di due token successivi invece di uno. Inoltre, DeepSeek è stato addestrato con sole 2000 schede video H800, mentre altri modelli hanno richiesto oltre 100.000 schede).
La rivincita dell’Open Source. Comunità cooperanti
Un aspetto fondamentale di DeepSeek è la sua natura open source (OS), che permette a chiunque di studiare, utilizzare e migliorare il modello. Questo approccio che è utile approfondire qui di seguito, si contrappone alla strategia delle grandi aziende tecnologiche che custodiscono gelosamente le loro tecnologie. La disponibilità del codice sorgente di DeepSeek sta abbassando le barriere all’innovazione e spostando il potere dai giganti dell’IA a una comunità globale di sviluppatori.
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Dizionario minimo anti-Trump, il nemico che ci voleva
di Alessio Mannino
1: dal tecno-cretinismo a Luigi Mangione
Occidente. Liberismo. Nazione. Atlantismo. Democrazia. Razzismo. Élite. Le categorie con cui abbiamo finora interpretato la realtà sono state travolte dalla valanga trumpiana. Sarebbe da riscrivere un intero vocabolario ermeneutico, dopo la conquista della Casa Bianca da parte di The Donald. I primi 100 decreti immediati – uno “tsunami”, li ha definiti il suo ex stratega Steve Bannon – danno un quadro già abbastanza chiaro dell’onda d’urto che si abbatterà non solo sugli Stati Uniti e sul mondo ma anche, più in profondità, sui nostri paradigmi.
Qui mi proverò nel tentativo di una guida minima, pubblicata in tre parti in rigoroso disordine alfabetico. Un abbozzo di critica del pregiudizio riguardante alcune verità ormai consunte. Una critica, in parte, che è anche salutare autocritica. Di seguito, la prima parte.
Democrazia (rappresentativa delle élites, fino a un certo punto)
Non è più vero, o non necessariamente, che il voto alle elezioni sia un passaggio residuale, poco incisivo e non dirimente, rispetto alle decisioni che piovono dall’alto, nelle cabine di regìa dove si fanno e si disfano i veri giochi. Il potere, beninteso, passa regolarmente di mano in mano entro ristrette cerchie che si spartiscono il controllo delle forze istituzionali, economiche, militari e culturali. La paretiana circolazione delle élites è sempre viva e prospera, in ossequio alla legge ferrea dell’oligarchia. Ma se il consenso delle urne esprime un vincitore netto, leader incontrastato della propria fazione che riflette su di sé un campo di egemonia largamente diffusa, allora il rito elettorale può fare la differenza.
È l’identikit di Trump, che tornato da trionfatore nello Studio Ovale con una legittimazione fortissima, è oggi nelle condizioni di parlare, come vedremo, da pari a pari perfino con l’uomo più ricco del pianeta, Elon Musk.
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Gli interessi economici dietro la caduta della Repubblica araba siriana
di Maurizio Brignoli*
Dietro alle vicende siriane, e non ci riferiamo solo alla recente e repentina caduta di Assad bensì alle origini della guerra nel 2011, vi sono importanti elementi strutturali che meritano di essere presi in considerazione.
Gasdotti e oleodotti
La Siria non occupa una posizione strategica solo per l’Asse della resistenza, che ha infatti subito un duro colpo dato che la caduta del (legittimo) governo siriano aumenta le difficoltà di Teheran nel rifornire di armi Hizballah, ma ha una rilevanza per i diversi progetti, prioritario su tutti quello dell’imperialismo statunitense (con collaborazione dell’imperialismo regionale israeliano) di ridisegnare il Medioriente, che hanno contribuito prima allo scoppio del conflitto nel 2011 e poi all’abbattimento della Repubblica araba siriana tredici anni dopo.
A cavallo fra il 2009 e il 2010 sono stati scoperti nel Mediterraneo orientale giacimenti di gas e petrolio in grado di garantire per 50 anni le riserve mondiali di energia fossile. La conseguente strategia delineata dall’imperialismo occidentale è stata quella di pensare a come sfruttare questi giacimenti in modo da eliminare la dipendenza energetica europea dai rifornimenti provenienti dalla Russia[1], mentre il capitale russo correva ai ripari stipulando una serie di accordi con i paesi rivieraschi (Siria, Libano, Israele, Gaza, Egitto, Turchia e Cipro) per costruire nuove infrastrutture con lo scopo di indirizzare il flusso energetico verso i mercati asiatici puntando al duplice obiettivo di conquistare nuovi clienti e mantenere la posizione egemonica nel rifornire l’Europa. Gli altri paesi interessati alla realizzazione di nuovi corridoi energetici non restavano con le mani in mano, nello specifico per quanto riguarda la Siria nel 2009 il Qatar (potendo anche contare sulla messa fuorigioco dei rifornimenti iraniani all’Europa grazie alle sanzioni) aveva progettato un gasdotto di 5.000 chilometri lungo la direttrice Qatar-Arabia Saudita-Giordania-Siria-Turchia-Ue che avrebbe permesso a Doha di raggiungere più economicamente e rapidamente il mercato europeo al posto del trasporto via nave evitando al contempo le pericolose strozzature dello stretto di Hormuz (facilmente bloccabile dagli iraniani in caso di conflitto), all’Ue di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia e alla Turchia di intascare le tasse di transito.
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L’alba di un nuovo equilibrio globale
di Alberto Bradanini
L'impero americano sarà l'ultimo della storia, ma Pechino non intende sostituirsi agli Usa quale dominus unipolare. La via cinese allo sviluppo – stabilità sociale, economia di mercato vigilata, controllo pubblico delle risorse – è un incubo per il capitalismo occidentale
I bolscevichi giungono alla vittoria persuasi di costituire il primo capitolo della rivoluzione proletaria universale, in un paese dove gli operai erano una sparuta minoranza rispetto ai contadini/schiavi dell’impero zarista.
La Cina tra Usa e Urss
Scomparso Lenin e dovendo sopravvivere come avamposto socialista sotto assedio, l’Unione Sovietica di J. Stalin accetta di convivere col mondo borghese in attesa di quella palingenesi proletaria che tuttavia si allontana sempre più. Il vanificarsi di tale speranza avrebbe portato alla russificazione del comunismo, che Mao Zedong, alla fine degli anni ’50, accuserà di esser divenuta l’avamposto dell’imperialismo russo mascherato da internazionalismo proletario.
In Cina, l’aspirazione alla palingenesi sociale si accompagna sin dagli esordi alla lotta contro colonialismo e imperialismo, prima britannico/occidentale, poi giapponese. Nel 1949, sconfitti il Kuomintang e gli americani, l’urgenza è quella di ricostruire un paese sterminato e arretrato, obiettivo che implica stabilità politica. In tali circostanze, il comunismo cinese non può certo impegnarsi in un’ipotetica rivoluzione proletaria universale. Mao era poi persuaso che entrambi, Stati Uniti e Unione Sovietica, puntassero a comprimere la sovranità della Cina, i primi per ragioni imperialistiche, la seconda per consolidare la leadership in seno alla galassia comunista. Lo strappo con l’Urss si consuma nel ‘59 con il rifiuto di Krusciov di fornire a Pechino la tecnologia per l’arma atomica, secondo Mosca perché questo avrebbe impedito la distensione con l’Occidente, in realtà perché ciò avrebbe reso la Cina ancor più svincolata dall’Unione Sovietica.
Nel 1969, con gli incidenti sull’Ussuri si giunge a un passo da un conflitto aperto. Il rischio d’isolamento e le tensioni con l’Urss, dunque, convincono Mao ad assecondare l’intento di Washington di giocare la carta cinese in funzione antisovietica, mentre a sua volta guarda all’ingresso della Cina alle N.U.[i] al posto di Taiwan (obiettivo poi raggiunto il 25 ottobre 1971).
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L'intelligenza artificiale sta diventando DeepSeek
di Michael Roberts
La maggior parte dei lettori ormai conoscerà la notizia. DeepSeek, un'azienda cinese di intelligenza artificiale, ha rilasciato un modello di intelligenza artificiale chiamato R1 che è paragonabile in termini di capacità ai migliori modelli di aziende come OpenAI, Anthropic e Meta, ma è stato preparato a un costo radicalmente inferiore e utilizzando chip GPU meno all'avanguardia. DeepSeek ha anche reso pubblici dettagli sufficienti del modello affinché altri possano eseguirlo sui propri computer senza costi.
DeepSeek è un siluro che ha colpito le magnifiche sette aziende hi-tech statunitensi sotto la linea di galleggiamento. DeepSeek non ha utilizzato i chip e il software Nvidia più recenti e migliori; non ha richiesto grandi spese per addestrare il suo modello di intelligenza artificiale a differenza dei suoi rivali americani; e offre altrettante applicazioni utili. DeepSeek ha costruito il suo R1 con i chip Nvidia più vecchi e lenti, che le sanzioni statunitensi avevano consentito di esportare in Cina. Il governo statunitense e i titani della tecnologia pensavano di avere il monopolio nello sviluppo dell'intelligenza artificiale a causa degli enormi costi coinvolti nella realizzazione di chip e modelli di intelligenza artificiale migliori. Ma ora R1 di DeepSeek suggerisce che le aziende con meno soldi possono presto gestire modelli di intelligenza artificiale competitivi. R1 può essere utilizzato con un budget limitato e con una potenza di calcolo molto inferiore. Inoltre, R1 è bravo quanto i rivali nell'inferenza, il gergo dell'intelligenza artificiale per quando gli utenti mettono in discussione il modello e ottengono risposte. E funziona su server per tutti i tipi di aziende in modo che non debbano "affittare" a prezzi enormi da aziende come OpenAI. La cosa più importante è che R1 di DeepSeek è "open source", ovvero i metodi di codifica e formazione sono aperti a tutti per essere copiati e sviluppati. Questo è un vero colpo ai segreti "proprietari" che OpenAI o Gemini di Google rinchiudono in una "scatola nera" per massimizzare i profitti. L'analogia qui è con i prodotti farmaceutici di marca e generici.
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E’ iniziato il cammino per l’unità dei comunisti e la costruzione del Partito
di Luigi Basile
Il resoconto della partecipata e riuscita assemblea che si è svolta nella Capitale
Il cantiere per la costruzione del Partito comunista si è ufficialmente aperto con l’assemblea nazionale tenuta a Roma, presso il Teatro Flavio.
L’iniziativa, che ha visto la luce dopo mesi di lavoro preparatorio, con l’allestimento di convegni tematici nelle diverse aree del Paese, ha determinato un primo visibile risultato, in controtendenza rispetto agli avvenimenti degli ultimi dieci, quindici anni e più: la convergenza nel progetto di Prospettiva Unitaria di quattro organizzazioni (Costituente Comunista, Movimento per la Rinascita Comunista, Patria Socialista, Resistenza Popolare), che meno di un anno addietro avevano avviato, attraverso un tavolo operativo, un percorso di condivisione dell’azione politica.
La sfida che adesso viene lanciata, dunque, è ancora più ambiziosa: dare forma, forza e contenuto a un partito comunista unitario, con il coinvolgimento – a partire dai territori, dove si concentreranno gli sforzi – di compagne e compagni, lavoratori, disoccupati, pensionati e studenti, il confronto con comitati, associazioni e movimenti di lotta sociale e la mobilitazione sul campo, ma anche con il contributo di altri gruppi e organizzazioni politiche che ritengono una priorità la riaggregazione delle forze comuniste.
Un nodo particolarmente avvertito dalle centinaia di militanti e simpatizzanti presenti all’appuntamento nella Capitale e dagli autorevoli ospiti che hanno deciso di portare il proprio saluto, manifestando apprezzamento per quanto si sta realizzando.
Significativi i messaggi inviati dai partititi comunisti di tutto il mondo, che seguono con attenzione l’evoluzione del percorso.
“Non cessano i tentativi delle forze dell’imperialismo – si legge nella nota del Presidium del Comitato Centrale del Partito Comunista della Federazione Russa – di dividere il movimento comunista mondiale, di disunire le sue fila e di distruggerlo come forza politica. Pertanto, oggi, nelle condizioni economiche e politiche più difficili, sono importanti come non mai l’unità e l’azione congiunta dei comunisti di tutti i Paesi nella lotta per il nostro futuro comune.
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