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New management, autonomia scolastica ed autonomia differenziata
di Fernanda Mazzoli
Nella cornice del New Public Management trova fertile humus la richiesta dell’autonomia differenziata da parte di alcune regioni italiane che rivendicano il governo diretto di diversi ambiti della vita pubblica. Sono regioni fra le più ricche d’Italia che mirano a stabilire legami diretti con le altre regioni più avanzate d’Europa e ritengono di poterlo fare con maggiore successo, se svincolate dal quadro istituzionale nazionale e dagli obblighi - fiscali in primo luogo, ma non solo - che esso comporta. Hanno in primo luogo bisogno di controllare settori strategici e, fra questi, uno dei più importanti è rappresentato dalla scuola. Non è un caso che sulla scia delle più note Emilia, Lombardia e Veneto, anche Marche e Umbria abbiano avviato un percorso in comune di autonomia differenziata limitato a poche discipline e che riguarda proprio l’istruzione e la formazione tecnica e professionale, nonché l’università. La posta in gioco è appetitosa: la riorganizzazione dell’istruzione in senso regionale comporta non solo la gestione del personale, ma la possibilità di intervenire sul curricolo degli studenti e sull’Alternanza Scuola-Lavoro. La regionalizzazione del sistema scolastico (o di parte di esso) punta a costruire in tempi brevi quella sinergia tra istruzione ed impresa invocata dagli organismi europei e dalle associazioni di categoria degli industriali e chiamata a fare della scuola il luogo dell’addestramento delle giovani generazioni alle competenze richieste dalle aziende del territorio.
* * * *
A partire dagli anni ’80 del secolo scorso comincia ad imporsi una corrente di pensiero, destinata ad influire profondamente sulle dinamiche socio-politiche e culturali del nostro tempo, che propone di importare le regole di funzionamento del mercato concorrenziale nel settore pubblico. I principi ispiratori del new management e della public governance affondano le loro radici nell’elaborazione del concetto di “società imprenditoriale”. Peter Drucker, teorico del management, riprendendo certi aspetti dell’imprenditore schumpteriano- l’uomo della “distruzione creatrice”- propugna la costruzione di una nuova società di imprenditori, il cui spirito deve diffondersi in tutta la società.
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Senza democrazia non può esserci libera informazione (e viceversa)
di Norberto Fragiacomo
Ho udito, non molto tempo fa, un giornalista affermare alla radio che senza l’Unione Europea non avremmo in Italia democrazia e diritti – e che comunque nessuno può fornire prove dell’asserto contrario (“non esiste controprova”, mi pare abbia detto).
Più che di una spudorata menzogna potremmo parlare di una smaccata contraffazione della realtà, che assieme all’onere probatorio viene bellamente capovolta: siamo di fronte ad una μυθοποίησις, cioè alla cosciente creazione di un mito – termine che non a caso in greco antico significa “favola”. Giornalisti che anziché descrivere l’esistente ci raccontano favole: ecco il punto di partenza di una breve riflessione dedicata al tema, oggi attualissimo, dei rapporti fra democrazia e comunicazione.
Visto che le astrazioni ci interessano fino a un certo punto, cominceremo la nostra analisi dal dato testuale, partendo non da un’opera qualsiasi, bensì dalla Costituzione del ’48. L’articolo 1 proclama che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e già dalla scelta del participio possiamo desumere utili informazioni sul significato che i costituenti vollero assegnare ad un sostantivo di per sé ambiguo – o, per meglio dire, non di rado ambiguamente adoperato.
Democrazia non è sinonimo di suffragio universale né di multipartitismo, perché gli articoli 2, 3 e 4 trattano di tutt’altro: di diritti fondamentali, doveri civici, uguaglianza effettiva e promozione della piena occupazione. Secondo chi redasse la Costituzione repubblicana non ci può essere democrazia autentica senza diritti civili, sociali ed economici garantiti alla generalità dei cittadini.
Fra i diritti e doveri in ambito civile figurano quelli ricompresi nei primi due commi dell’articolo 21: la libertà di espressione (e comunicazione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”) e la libertà di informazione (“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”).
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Alle radici di una storiografia militante
1 maggio 1945 – 1 maggio 2019
di Sergio Bologna
74 anni. Prendo spavento a pensare che c’ero, anzi, che me lo ricordo quel 1 maggio del 1945. E che i testimoni di quegli avvenimenti non sono rimasti tanti. Non dico in generale, dico quelli che hanno visto ciò che ho visto io, a Trieste, in una casa da dove si vedeva la sagoma del Castello, ultima roccaforte della resistenza tedesca all’avanzata dell’esercito di liberazione yugoslavo. I maschi della mia famiglia, tranne mio padre, erano tutti sotto le armi. Mio nonno era prigioniero in Africa, ad Asmara, ma non se la passava male, mi raccontò qualche anno dopo. Ci era andato volontario nel ’36 con le truppe italiane. S’era arruolato per ottenere l’amnistia, aveva una condanna per diserzione. Allora abbandonare una nave commerciale era considerato diserzione, come fosse una nave militare. Lui, elettricista di bordo, toccato un porto degli Stati Uniti, se l’era svignata per inseguire il sogno americano. Aveva sbagliato data, era il 1929. A Trieste s’era lasciato alle spalle una moglie e quattro figli: mia madre, la prima, una donna sensibile, bella, sportiva, s’era ammalata di tubercolosi a 15 anni e avrebbe passato la vita tra sanatori e ospedali. Poi tre figli maschi, uno alto, ben piantato, calciatore semiprofessionista, arruolato nei granatieri, era prigioniero in Germania, “internato militare”, per la precisione, preso dai tedeschi l’8 settembre ad Atene e ficcato in un vagone piombato. Un altro più giovane, Giorgio, dolce e tenero ragazzo, era caduto a 21 anni a El Ghennadi in Tunisia, pochi giorni prima della resa delle truppe italiane, nel maggio del ‘42. L’ultimo, di cui non ricordo il nome, era morto di meningite a 4 anni.
Non so qual è stato il tributo di sangue che i partigiani di Tito hanno versato per conquistare Trieste prima che ci mettessero su le mani gli Alleati. Ma qualche fonte parla di migliaia di caduti sul Carso. Me li ricordo ancora, gli elmi nei boschi. Erano elmi tedeschi, molti foderati di pelle, li raccoglievo e me li ficcavo in testa, subito redarguito da mio padre, potevano averci i pidocchi. I partigiani portavano bustine, copricapi di stoffa, erano un po’ scalcagnati.
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La patrimoniale sbagliata è quella che piace alla Ue
di Claudio Conti
In calce l'articolo di Guido Salerno Aletta sull'argomento
Patrimoniale, panacea per tutti i mali economici? Dipende… Quando – cadendo nella trappola ideologica imposta dalla narrazione dominante – si prova a rispondere alla domanda “dove si trovano i soldi per fare quello che proponete?” (chiunque sia a proporre una strategia diversa da quella ordoliberista), la mente di tutti va immediatamente a due totem: combattere l’evasione fiscale e fare una patrimoniale.
Non paradossalmente, tutti sono d’accordo a dire che “bisogna combattere l’evasione fiscale” –farlo, è notoriamente tutt’altra cosa – mentre la patrimoniale risulta normalmente più “divisiva”, spesso definendo il campo della destra autentica e quello della presunta “sinistra”.
Non ci dilungheremo qui sulla lotta all’evasione, che richiede la capacità di ricoprire un ruolo di governo con intento e determinazione rivoluzionari. E ragioniamo invece sulle facce nascoste della “patrimoniale”.
Lo facciamo facendoci aiutare – come spesso ci capita – da Guido Salerno Aletta, che ha prodotto l’editoriale di Milano Finanza che qui sotto riproponiamo.
La prima operazione da fare è relativamente semplice: cos’è una patrimoniale? E’ qualunque tipo di tassa calcolata, invece che sul reddito, sul patrimonio del contribuente. Salario, pensione, sussidi, ecc, sono redditi; depositi bancari, investimenti finanziari, immobili, terreni, ecc, sonopatrimonio.
Cosa c’è di più semplice allora che immaginare una tassazione sui secondi? Semplicità che nella realtà non esiste, però. Intanto perché bisogna distinguere i patrimoni mobiliari (che si possono cioè muovere, anche fuggendo all’estero, come soldi, azioni, obbligazioni) da quelli immobiliari, che stanno dove stanno e nessuno li può portare via.
Nel concreto della società italiana, il quadro è particolarmente complicato. Praticamente tutti i lavoratori dipendenti (e i pensionati) sono obbligati ad avere un conto corrente in banca o alle Poste. Quindi praticamente tutti hanno un patrimonio mobiliare, anche se quasi sempre minimo e spesso addirittura negativo (quando “si va in rosso”).
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Alcune geniali intuizioni di Alberto Moravia nel romanzo La ciociara
di Eros Barone
Estetizzazione della guerra, critica sociale in bocca nazionalsocialista e antitesi ‘furbi-fessi’
Alcuni romanzi contengono pagine di una forza così intensa e inaspettata che quando il lettore ci arriva, dopo deve fermarsi. Non può continuare a leggere, ma sente il bisogno di chiudere il libro, magari tenendo il segno con l’indice incastrato fra le pagine, respirare profondamente, ricacciare indietro le lacrime. Sono momenti di commozione potente che i grandi scrittori dosano con parsimonia e che sanno travolgere chi legge con l’autenticità della vita. La ciociara contiene più di un momento del genere.
Sandra Petrignani
La ciociara, romanzo pubblicato nel 1957 ma iniziato dieci anni prima e poi abbandonato, non solo rappresenta il momento più avanzato, marxista e comunista, della evoluzione ideologica e culturale di Alberto Moravia, ma fornisce anche la chiave per comprendere i diversi aspetti che caratterizzano, in quel periodo, l’opera dello scrittore. 1 L’argomento del libro è noto, grazie anche alla riduzione cinematografica di Vittorio De Sica e all’interpretazione di Sofia Loren (1960): vi si narra la storia di Cesira, una bottegaia romana – una ciociara sposa di un uomo molto più vecchio di lei e ben presto vedova – e di sua figlia Rosetta, entrambe sfollate durante l’ultimo periodo della seconda guerra mondiale, come accadde anche allo stesso autore e ad Elsa Morante, allora sua moglie, nelle montagne vicino a Fondi, comune della provincia di Latina.
Le due donne vivono in quei mesi del 1943 i sacrifici, le ansie, le speranze e le illusioni di tutti coloro che aspettavano la pace e la liberazione, maturando nel contempo anche una nuova consapevolezza attraverso i quotidiani discorsi con un giovane intellettuale antifascista (il dialogato di questo romanzo è uno dei pregi più avvincenti della mossa scrittura moraviana). Michele Festa – questo è il nome dell’intellettuale – viene portato via e ucciso da una delle ultime pattuglie tedesche in ritirata e le due donne, finalmente liberate, s’imbattono in un reparto di marocchini che abusa di loro. Sennonché il trauma dello stupro, tanto più violento in quanto la giovinetta era del tutto semplice e ingenua, spinge Rosetta a perdere ogni pudore e a darsi a tutti gli uomini che incontra, finché, sulla strada del ritorno a Roma, un nuovo trauma (l’assassinio del suo ultimo amante) non le restituisce l’equilibrio perduto.
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Riflessioni sparse leggendo il libro “Smagliature digitali”
di Silvia Guerini
In occasione dell’iniziativa “Gorgoni – corpi imprevisti” del 5 maggio al FOA Boccaccio a Monza [1].
Il libro “Smagliature digitali” contiene vari saggi. Uno di questi è il manifesto Xenofemminista, recente è la pubblicazione di “Xenofemminismo” di Helen Hester. È più semplice criticare questo estremo hi-tech dove tutto è riprogettabile [2], più difficile scorgere e mettere in luce che siamo già arrivate a un punto in cui l’attivismo e le analisi trans-femminista e queer sono portatrici delle stesse logiche neoliberali di mercificazione, di ingegnerizzazione del vivente e di superamento dei limiti di questo sistema tecno-scientifico. Tendenze figlie di questi tempi che si presentano come radicali e sovversive, ma che andranno solo a rafforzare le fondamenta su cui si regge questa società.
Senza giri di parole, quello che noi vorremmo distruggere per un mondo altro, chi porta avanti queste analisi lo vorrebbe mantenere. Ci troviamo davanti a un adesione entusiasta al tecno-mondo e a un’ammirazione delle tecnologie.
Già da tempo il personale ha fagocitato il politico, perché è certamente più facile essere in un continuo processo di cambiamento individuale, considerandolo come la chiave per cambiare la società, invece che guardare fuori da sé intraprendendo un percorso di lotta. Ma bisogna intendersi anche su questo. Perchè è di moda pensare che autoprodursi sex-toys sia una pratica sovversiva. Così nascono come funghi laboratori ludici di giocattoli sessuali e di mutande masturbatorie, come se davvero questo possa intaccare in qualche modo questo sistema.
Un saggio di “Smagliature digitali” ci illustra il “pornoattivismo accademico”, un’altro gioco, da chi può permettersi il lusso di giocare mentre tutto attorno precipita sempre di più. Così in questo teatro dell’assurdo basta calarsi le mutande in qualche performans trans-queer per destabilizzare e sovvertire… quanto è lontana e quando è profondamente altra cosa, la tensione che contraddistingue un lottare fino in fondo, fuori dalle stanze accademiche e fuori dai social network, correndo sotto le stelle fino all’ultimo respiro…
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Crescita e PIL potenziale: le stime controverse di Bruxelles
di Davide Cassese
Output gap Italia | Secondo le stime di Bruxelles il PIL italiano è al di sopra del suo potenziale. Si tratta di stime assurde che porteranno a nuove richieste di austerità nel nostro Paese
Di recente la Commissione Europea ha rilasciato il Country Report per l’Italia, documento che descrive lo stato di salute dell’economia italiana e, in base ad esso, le raccomandazioni di politica economica per i Paesi membri. Dopo aver sottolineato i modesti progressi fatti dall’Italia nell’attuazione delle riforme strutturali, la Commissione ha riassunto i dati più significativi all’interno della tabella “Key economic and financial indicators”. Più di tutto, risulta di particolare interesse un dato riferito ad una variabile chiave per la politica fiscale: l’output gap. Sono stati diversi i contributi legati a questo tema pubblicati su questa rivista (Tridico, Meloni e Bracci, 2018; Tridico e Meloni, 2018; Cassese, 2018).
1. L’output gap e il NAWRU
L’output gap è una grandezza statistica stimata dalla Commissione Europea. Si compone di due elementi: il PIL effettivo, che è una grandezza osservata, calcolato dagli uffici nazionali di statistica dei Paesi membri, e il PIL Potenziale, che è una grandezza non osservabile e pertanto stimato dalla Commissione Europea con il metodo della Funzione di Produzione (Havik et al., 2014).
Tralasciando le critiche di teoria economica a cui può essere sottoposto il metodo della funzione di produzione, che si rifanno alla critica di Garegnani (1970) e di Pasinetti (1966) nell’ambito della Controversia sul capitale degli anni ’60, l’output gap corrisponde alla differenza percentuale tra il livello del PIL effettivamente prodotto dall’economia e il livello del PIL potenziale – cioè il massimo livello di PIL che può raggiungere l’economia con le risorse presenti, compatibilmente con la stabilità dei prezzi. Se l’output gap fosse positivo un’economia starebbe sovrautilizzando le risorse disponibili e ciò, nella visione della Commissione europea, dovrebbe portare ad una accelerazione del tasso di inflazione. Al contrario nel caso di un valore negativo. Tutto questo perché, secondo una teoria economica ben consolidata, esisterebbe un tasso di disoccupazione “strutturale” in corrispondenza del quale il tasso di crescita dei prezzi non accelera.
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L’accumulazione originaria: genesi del modo di produzione capitalistico tra storia e struttura
di Sebastiano Taccola*
«il capitale viene al mondo grondante sangue e sudiciume
dalla testa ai piedi, da tutti i pori». (Marx 2011)
«Il ‘moderno’: l’epoca dell’inferno. Le pene dell’inferno sono
ciò che più di nuovo di volta in volta si dà in questo ambito.
Non si tratta del fatto che accada ‘sempre lo stesso’, ancora
meno si può qui parlare di eterno ritorno. Si tratta, piuttosto,
del fatto che il volto del mondo non muta mai proprio in ciò che
costituisce il nuovo, che il nuovo, anzi, resta sotto ogni
riguardo sempre lo stesso. – In questo consiste l’eternità
dell’inferno. Determinare la totalità dei tratti, in cui il
‘moderno’ si configura, significherebbe rappresentare l’inferno».
(Benjamin 2002)
«We’re all Frankies
We’re all lying in hell».
(Suicide, Frankie Teardrop).
1.
Chiunque abbia anche solo un minimo di familiarità con i testi di Marx avrà ben presente quella loro peculiarità di stile che, contaminando la prosa del trattato filosofico o economico con immagini dal gusto letterario, riesce a sedurre il lettore, spesso anche attraverso una pungente ironia antiborghese, in cui è percepibile l’influenza di modelli elevati, come Shakespeare, Goethe e, soprattutto, Heine[1]. Una straordinaria esemplificazione di questo stile la possiamo trovare proprio nella prima pagina del capitolo del primo libro del Capitale che qui ci proponiamo di analizzare – il capitolo ventiquattresimo intitolato La cosiddetta accumulazione originaria:
Nell’economia politica quest’accumulazione originaria gioca all’incirca lo stesso ruolo del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in un’età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più.
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Confindustria e Sindacati. L'europeismo come atto di fede
di Sergio Farris
Il 9 aprile scorso Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, hanno reso pubblico un appello congiunto a favore dell'Europa. Esso non ha, tuttavia, suscitato il dibattito che avrebbe meritato.
Peccato, perchè dal tenore dell'appello è possibile ricavare lo stato confusionale in cui versano le “Parti sociali”, con particolare riferimento alle Organizzazioni sindacali. (E' difficile non notare l'abbagliato sviamento dei Sindacati di fronte alle istituzioni ed alle controparti sociali che hanno determinato la loro attuale condizione di irrilevanza).
Il documento può essere articolato in due linee di svolgimento: 1) una serie di asserzioni sull'Europa poste a giustificazione dell'appello – evidentemente descrittive, secondo i sottoscrittori, di una verità immanente; 2) una serie di proponimenti – auspicativi di una riforma tesa al completamento della costruzione europea, così da renderla “ideale” (proponimenti purtroppo, va detto subito, irrealizzabili).
Alla prima linea argomentativa può essere accostata l'affermazione secondo cui “[...] l'Unione europea ha garantito una pace duratura in tutto il nostro continente e ha unito i cittadini europei attorno ai valori fondamentali dei diritti umani, della democrazia, della libertà, della solidarietà e dell'uguaglianza.”
Qui, secondo me, va precisato che i valori quali “i diritti umani, la democrazia, la solidarietà e l'uguaglianza”, erano già previsti e formulati nelle costituzioni post-fasciste del dopoguerra. Certo, poi, le Comunita' europee costituite dagli stati che quelle costituzioni avevano adottato, hanno fatto propri quei principi, ma – a dirla proprio tutta – con l'avvento della stagione neoliberista e la primazia del mercato, si è assistito piuttosto a una relativa disapplicazione, nell'ambito della Ue, di quei valori. (Si è anche parlato, ad esempio, di incompatibilità della nostra Costituzione repubblicana con i rigidi trattati che informano l'Unione).
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‘Tutto il potere ai Soviet!’. Settima e ultima parte
‘Esigiamo la pubblicazione dei trattati segreti’: biografia di uno slogan gemello
di Lars T. Lih
Si veda anche, in calce a questo stesso post, l’appendice “Gli editoriali sulla guerra pubblicati nel marzo 1917 da Kamenev e Stalin”
Il 4 marzo 1917 (secondo il vecchio calendario russo), Paul Miliukov, ministro degli esteri del Governo provvisorio appena insediato dalla Rivoluzione di febbraio, inviava un telegramma alle ambasciate russe all’estero. Vi si ribadiva ciò che i governi alleati volevano sentirsi dire: i nuovo governo post-zarista intendeva onorare pienamente i trattati tra loro e la Russia. Agli occhi di Miliukov, difatti, il punto era che la rivoluzione doveva essere in grado di assolvere più efficacemente gli obblighi imposti dai trattati. Eppure, nella sua fretta di rassicurare gli alleati, egli aveva innescato una bomba a orologeria – per sé stesso e, nel giro di pochi mesi, per il Governo provvisorio.
In quel momento, il telegramma in questione e altri simili passarono inosservati in Russia. Tuttavia, alcuni rivoluzionari in esilio in Europa colsero immediatamente la centralità della questione dei trattati zaristi. Il bolscevico Grigorii Zinoviev, residente a Berna, impugnava le dichiarazioni di Miliukov quale prova che nessuna rivoluzione era avvenuta nella politica estera. Un articolo sulla questione dei trattati scritto da Zinoviev giunse in Russia prima del rientro del suo autore: venne pubblicato sulla Pravda il 25 marzo, subito dopo la pubblicazione della Lettera da lontano di Lenin. Il leader socialista rivoluzionario Viktor Chernov, anch’egli in esilio, comprese la discrepanza tra l’immagine dal Governo provvisorio proiettata all’estero e quella che rimandava in patria. Una discrepanza che non mancò di sottolineare con forza non appena ritornato nel suo paese all’inizio di aprile. Sebbene tanto Zinoviev che Chernov ritenessero uno scandalo i trattati segreti, i due trassero lezioni politiche drammaticamente differenti da tale scandalo.
Alla metà di marzo, due bolscevichi di primo piano, Lev Kamenev e Iosif Stalin, facevano ritorno a Pietrogrado dall’esilio interno in Siberia. I due dirigenti erano estremamente seri circa il prendere il potere e mantenerlo. Come ebbe a dire Kamenev, parlando confidenzialmente a un sodale bolscevico, “ciò che conta non è tanto prendere il vlast – ciò che conta è mantenere il vlast” [1].
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Un mondo senza metafisica
di Salvatore Bravo
La fine della Metafisica, la riduzione dell’essere ad evento, secondo il linguaggio heideggeriano o a semplice costrutto storico senza fondamento, ha strutturato la cultura della violenza nella quale ogni discernimento è obnubliato a favore della cultura del mezzo indistinto dal fine. La razionalità, non mediata dalla razionalità complessa riduce ogni ente, ogni persona a strumento. Il nichilismo è così l’indistinto, ogni gerarchia etica salta, si annichilisce a favore dell’immediato, dell’irrilevanza di tutto. Nel nichilismo non vi è né alto né basso, ma un’indifferenziata condizione di alienazione cha attraversa ogni gerarchia sociale. La società nichilistica è verticale secondo la logica del possesso, ma orizzontale nei “valori”: l’utile ed il denaro sono la cifra di valutazione di tutte le prospettive. In tale contesto il mezzo, ovvero il denaro, è anche il fine. Se il potere può tutto, e nulla pare accadere di sostanziale per la trasformazione dello stato presente, ciò è dovuto all’assenza di eterotopia, che secondo la celeberrima definizione di M. Foucault è la capacità di osservare il mondo da un’ottica assolutamente nuova:
«quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano».
La neutralizzazione dell’eterotopia, oggi, prescinde la posizione che il soggetto occupa nel modo di produzione, poiché l’unico criterio di valutazione è il denaro e la corsa verso di esso, poco o tanto che sia, per cui si accetta anche l’insostenibile in nome del dogma che cade sulla testa di tutti, offusca lo sguardo e minaccia di portare verso l’abisso persone, ambiente e democrazia. Il potere si espande attraverso la cultura dell’interesse privato, del consumo immediato, dello scollamento del denaro dal ciclo produttivo come da ogni fine1 :
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Affinità-divergenze tra la compagna Greta e noi
di coniarerivolta
E l’acqua si riempie di schiuma il cielo di fumi
la chimica lebbra distrugge la vita nei fiumi,
uccelli che volano a stento malati di morte
il freddo interesse alla vita ha sbarrato le porte.
Un’isola intera ha trovato nel mare una tomba
il falso progresso ha voluto provare una bomba,
poi pioggia che toglie la sete alla terra che è vita
invece le porta la morte perché è radioattiva.
Pierangelo Bertoli
Nelle ultime settimane si è imposto al centro del dibattito, in forme nuove e inedite, il tema dell’ambientalismo. Ci sono state enormi manifestazioni in tutto il mondo; di particolare rilievo anche quelle che si sono tenute in Italia, soprattutto se si considera la difficoltà di mobilitazione delle masse che attualmente affrontano i vari movimenti politici.
Il movimento ambientalista cova in sé valori e visioni del mondo condivisibili e ricchi di potenzialità. La battaglia per la difesa dell’ambiente è la nostra battaglia e deve essere una priorità per chiunque oggi faccia lo sforzo di provare a immaginare un’alternativa al sistema economico dominante. Al contrario, la particolare sfumatura di ‘radicalismo chiacchierone’, stando alla quale occuparsi dell’ambiente prima di avere abbattuto il capitalismo sarebbe un vezzo borghese, è semplicemente una stupidaggine, buona soltanto per fornire una giustificazione alla propria inutilità e marginalità.
Tuttavia, è importante individuare potenziali elementi contraddittori del movimento che in questi giorni ha riacceso i riflettori su una tematica così importante, elementi che, spesso contro la stessa volontà soggettiva di chi è impegnato in sacrosante battaglie, finiscono per rendere molte istanze pienamente compatibili con gli equilibri dell’ordine socio-economico costituito.
La principale grande contraddizione di alcuni movimenti ambientalisti, una parte dei quali convergenti nelle più recenti mobilitazioni di piazza, è quella di non individuare nel modo di produzione dominante la vera causa dell’inquinamento ambientale, della distruzione degli ecosistemi e dei paesaggi, nonché del fragile equilibrio che esiste tra natura e uomo.
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La politica fuori luogo
di Walter Tocci
Ho scritto un saggio per la rivista di filosofia Il Pensiero, fondata da Vincenzo Vitiello, nel numero monografico dedicato alla figura del fuori luogo nelle diverse accezioni filosofiche. Di seguito si può leggere il testo
Abstract
Il "fuori luogo" della politica è inteso in due significati: come esodo dai luoghi della rappresentanza e come comportamento urticante o inopportuno. Esaurita la retorica della spoliticizzazione riemerge una potenza del negativo come nucleo metafisico del politico, che assume forme diverse tra "mare e terra", nel mondo anglosassone e nel continente europeo. Le forme politiche sono condizionate dalla "fase termidoriana" del capitalismo, che accentua i controlli e le norme dopo aver esaurito la fase rivoluzionaria della deregulation. Si inasprisce la frattura tra logica di sistema e mondi vitali, come definita da Habermas, ma non è ricomponibile con un'etica discorsiva. La causa dell'ingovernabilità è nello scarto tra potenza e saggezza, tra la formidabile forza di trasformazione e la debole capacità di regolarne gli esiti. Le soluzioni possibili sono da ricercare nelle dimensioni originarie del politico: l'educazione intesa a là Condorcet come capacità di governo della società; la città intesa a là Baudelaire come trasformazione a misura dell'umano.
* * * *
La politica è fuori luogo. Ciò vale nei due significati di questa espressione: la politica è lontana dai luoghi deputati alla sua rappresentazione e assume atteggiamenti inusuali che spesso appaiono urticanti o comunque inopportuni. Sono due facce della stessa medaglia. Lo svuotamento delle classiche istituzioni della democrazia - i Parlamenti, i partiti, gli Stati - determina uno spaesamento del politico che abbandona l'agorà deliberativa e cammina senza meta oltre le mura della polis. La sua manifestazione diventa incerta, appare dove non è atteso ed è assente dove è invocato. E proprio nel suo girovagare per il contado prende modi inurbani, selvaggi e in certi casi violenti, come se regredisse dalla civilizzazione che sembrava assicurata per sempre.
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I paradossi della sovranità europea
di Francesco Galofaro
In un recente articolo per Limes, Carlo Galli ha indicato un paradosso: gli europeisti di centrodestra e di centrosinistra che combattono la sovranità statale nel nome dell’Europa sono in realtà degli iper-sovranisti. Gli ‘Stati Uniti d’Europa’, che perfino alcuni esponenti della sinistra radicale invocano, configurano in realtà una sorta di mega-macchina statale, onnipresente e onnipervasiva, sul modello degli USA [1]. L’arguto paradosso vuol far comprendere che l’Europa non ha reso obsoleta la nozione di sovranità, né l’ha relegata nel campo della mitologia delle destre. Al contrario, quella di sovranità è una nozione scientifica, sia pure confinata alla regione delle scienze sociali; va discussa scientificamente per comprendere i limiti dell’attuale UE in vista delle elezioni e disegnare scenari futuri.
Come definire la sovranità?
Sovranità: è un fenomeno storico o una chiave di lettura? E’ un fenomeno con una data di nascita che possiamo datare, e che può scomparire come è apparso, o è un attrezzo che serve allo scienziato sociale per interpretare la storia – se non addirittura a costruira? Come nozione teorica, la sovranità è il principio sulla base del quale un potere organizza un popolo e un territorio. Da un punto di vista storico, tuttavia, la nozione di sovranità è soggetta a mutamenti. Ne vediamo alcuni, che sembrano molto attuali per comprendere l’Unione Europea e il suo fondamento.
Sovranità e popolazioni
Secondo la ricostruzione di Foucault [2], nel XVII secolo si assiste a una crisi che segna il passaggio dalla sovranità medioevale a quella moderna. La sovranità medioevale coincideva con una funzione di controllo del territorio; nello Stato moderno si avverte l'esigenza di una nuova funzione, parzialmente in conflitto con la prima: permettere la circolazione delle persone e delle merci.
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Il ruolo del marxismo nella ricostruzione del movimento comunista internazionale
di Alessandro Bartoloni
Intervento introduttivo della conferenza “cambiare il mondo”
Il comunismo quale “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” [Marx, Engels, l’ideologia tedesca] per realizzarsi ha bisogno dell’incontro di condizioni oggettive e soggettive, vale a dire di una realtà cui la coscienza deve aggrapparsi per velocizzarne la trasformazione. Pertanto, per realizzare il comunismo, c’è bisogno di un lavoro rivoluzionario che, in quanto tale, non può non essere accompagnato da una teoria rivoluzionaria. Obiettivo di questo articolo è ribadire il ruolo e l’importanza della teoria.
Nella sua opera principale, Marx ci dimostra che qualunque processo lavorativo umano presuppone la capacità di astrazione: “Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l'ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell'elemento naturale; egli realizza nell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà” [il capitale, cap. V].
Anche il lavoro politico, dunque, ha bisogno di una teoria che lo guidi. E questo, la borghesia lo ha capito già da molto tempo, tanto che per instaurare il suo dominio ai danni della nobiltà feudale e del clero in quanto classi dominanti non ha esitato a promuovere lo sviluppo del pensiero teorico (si pensi alle pubblicazioni di importanti intellettuali contemporaneamente uomini politici e d’affari quali Niccolò Machiavelli, Adam Smith e David Ricardo). Ma da quando la borghesia ha definitivamente conquistato il potere politico, “la lotta tra le classi ha raggiunto aspetti sempre più netti e minacciosi, sia in pratica che in teoria”.
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Tre analisi, una situazione: 28 aprile, elezioni in Spagna
di Alessandro Visalli
Le elezioni in Spagna hanno visto il Partito Socialista, alla guida del paese per decenni, e storicamente tra i più chiaramente neoliberali ed europeisti partiti del PSE, lievemente spostatosi nell’ultimo anno per coprirsi dalle formazioni radicali sue competitrici, accrescere il suo consenso. Si è giovato di un travaso da Unidas Podemos, che è sceso al 14%, da circa il 20%, mentre le destre nel loro complesso hanno conservato i loro 11 milioni di voti (ma nel contesto di una maggiore partecipazione, e dunque riducendoli in percentuale e seggi). Nel campo delle tre destre si è avuto un arretramento del Partito Popolare in favore del nuovo entrato Vox (partito neofranchista).
Ora, sul piano della politica istituzionale la questione è se Sanchez, che ha il pallino in mano, vorrà o potrà costituire un governo, e con chi. Sul piano, che mi preme di più, della politica come orizzonte di trasformazione del reale e di liberazione questo risultato è invece un disastro.
La situazione spagnola torna senza sbocchi.
L’unica, labile, speranza di avviare un percorso di uscita dalle secche che da oltre un decennio stanno stritolando la società spagnola, facendone uno degli esempi di consolidamento a danno dei più deboli e dei giovani d’Europa, si allontana. Continuerà ad ascoltarsi in Spagna il coro della tragedia intonare il ritornello: non ci sono alternative.
La maggiore colpa la porta su di sè Unidos Podemos (poi ‘femminilizzato’) che segnala in modo chiarissimo il fallimento senza remissione del “populismo di sinistra”. Il fallimento ha una causa vicina, la disastrosa alleanza “senza contropartite” con il PSOE di Sanchez nel governo uscente, ma ha ben più profonde cause remote nel modo stesso in cui è stato costruito e in quello in cui è stato pensato.
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Che guerra sia!
Recensione di Gianfranco Marelli
Sandro Moiso, “La guerra che viene”, Mimesis, Milano-Udine 2019
Avete presente lo sketch di Totò preso ripetutamente a schiaffi da una persona chiamandolo «Antonio sei un farabutto»,«Antonio sei un delinquente», «Antonio io t’ammazzo di sberle …» e Totò, nonostante i ripetuti improperi e strattoni, continua a ridere a crepapelle fino a che l’altro non gli chiede irritato il perché del suo atteggiamento: «Perché? Io non sono mica Antonio!»
Ecco, il libro di Sandro Moiso, “La guerra che viene”, che racchiude i trentacinque interventi (ventitre articoli di analisi e dodici recensioni) pubblicati dall’autore su “Carmillaonline” tra l’autunno del 2011 e l’autunno del 2018, sono i 35 schiaffi ripetutamente dati al lettore che come Totò crede di non chiamarsi Antonio, finché non gli viene il sospetto che lui si chiami proprio Antonio. Ma chi è Antonio?
È un nome comune, così tanto comune da rappresentare l’indifferenza, la superficialità, l’incredulità di chi sebbene ripetutamente chiamato in causa, stenta a credere che sia proprio lui, il soggetto-oggetto ad essere il bersaglio della “guerra che viene”; guerra che per la sua vastità e per la sua diramazione in ogni angolo del pianeta non può che essere definita Mondiale, al punto che succedendo alla 2ª guerra mondiale potrebbe chiamarsi 3ª guerra mondiale o addirittura 4ª guerra mondiale.
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Filosofia della praxis e democrazia nei Quaderni del carcere
Un’attualità inattuale?
André Tosel (Université de Nice)1
Introduzione
Non ho la pretesa di elaborare un Ciò che è vivo e ciò che è morto del pensiero di Gramsci; più modestamente, vorrei interrogare alcuni punti vivi, dotati di un grandissimo valore anche per noi, che oggi viviamo una seconda rivoluzione passiva mondiale la quale, dopo gli anni 1980- 90, è succeduta alle forme studiate da Gramsci – il cesarismo regressivo del fascismo e l’americanismo-fordismo liberale.
Questi punti vivi riguardano la filosofia e la politica considerate in rapporto alla democrazia sostanziale.
1. Filosofia e politica come termini di un ossimoro
Una prima osservazione s’impone: la filosofia e la politica democratica interagiscono secondo la modalità dell’ossimoro, cioè della giustapposizione fra due tesi contraddittorie, che dà luogo non alla «vera sintesi», in un senso speculativo, dei due termini, bensì alla loro messa in tensione feconda e pratica.
1.1 La “sequenza” filosofica
Quanto alla filosofia, Gramsci accetta, per un verso, la tesi di Croce: «Ogni uomo è un filosofo […] perché determinate proposizioni filosofiche sono condivise dal senso comune» (QC 8, § 173, p. 1043). Ma il senso comune rimane il livello il più elementare e disgregato del pensiero e non è coerente. Sempre in quanto si tratta degli uomini-massa moderni, dei subalterni, il senso comune accoglie e contamina elementi delle filosofie tradizionali tolemaiche e delle moderne concezioni del mondo che sono in lotta per l’egemonia culturale (positivismo antimetafisico e neoidealismo conservatore). D’altra parte, i subalterni che lottano, sentendo e pensando, per il riconoscimento della loro posizione entro la vita economica, sociale e politica, possono partecipare all’elaborazione della filosofia della praxis che il partito e gli intellettuali in senso «tecnico» stanno costruendo mediante la riappropriazione critica del lascito marxiano e leniniano, non senza “lavorare” su altri materiali che permettono di comprendere il tempo storico come tempo della rivoluzione passiva: il pragmatismo anglosassone e l’elitismo politico italiano.
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Padroni a casa nostra
Come districare mito e realtà nella promessa sovranista
di Paolo Costa
Democrazia e demagogia
La democrazia è un bene. Questo giudizio non verrà intaccato dalle riflessioni che seguiranno. Trattandosi però di un bene composito, un’adesione senza riserve al giudizio di valore non elimina d’emblée l’esigenza di tornare a ragionare periodicamente su alcune verità scomode che lo riguardano.
L’affinità tra democrazia e demagogia, per esempio, era nota già agli antichi. Nella pratica democratica deve essere riservato uno spazio significativo allo scambio illimitato di ragioni e alla deliberazione collettiva, “popolare”. Questa apertura di principio rende la discussione inevitabilmente porosa, la espone cioè a tutti quegli usi strumentali del discorso che sono familiari a chiunque abbia una pur minima esperienza del mondo. Gli argomenti a cui si fa ricorso nel dibattito politico, infatti, benché siano idealmente guidati, come qualsiasi altro argomento, dal fine interno del libero convincimento o della resilienza persuasiva, possono essere facilmente posti al servizio del fine esterno del dominio, del prevalere a ogni costo. La retorica, in quanto arte della persuasione indipendente da qualsiasi vincolo epistemico o morale incondizionato, è l’arsenale a cui attingono i demagoghi di ogni risma nella loro lotta senza scrupoli per la supremazia.
Così va il mondo ed è meglio per tutti sapere come stanno le cose.
Nell’affinità elettiva tra democrazia e demagogia, tuttavia, c’è un elemento di verità che merita di essere soppesato con attenzione. Le idee che funzionano all’interno di un processo deliberativo a cui partecipano masse di persone che, pur essendo solidali, sono relativamente estranee le une alle altre, devono poter far presa sull’esperienza e sull’immaginazione degli individui in carne e ossa. Non possono essere cioè «vere» o «ragionevoli» e basta. Devono anche suonare «vere», «reali», tra le fatiche, le paure, i bisogni e i miraggi degli uomini e delle donne a cui sono destinate.
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“Dall’Asia al Mondo. Un’altra visione del XX secolo” di Pierre Grosser
di Clara Galzerano
Recensione a: Pierre Grosser, Dall’Asia al Mondo. Un’altra visione del XX secolo, Giulio Einaudi editore, Torino 2018, pp. LII – 712, 36 euro (scheda libro)
L’histoire du monde se fait en Asie: il titolo originale del libro di Pierre Grosser[1] è emblematico e racchiude in sé il significato e l’obbiettivo ultimo che l’autore attribuisce alla sua trattazione. La storia si decide in Asia, nella misura in cui esiste una dimensione asiatica per ogni importante evento storico universalmente riconosciuto come “occidentale”. Grosser si approccia dunque all’analisi degli avvenimenti del XX secolo partendo dall’Asia per arrivare poi al mondo, come suggerisce invece la traduzione italiana del titolo del libro.
Nell’introduzione, Grosser inizia la propria narrazione dalla “fine”, accattivandosi il lettore e spiegandogli come “un’altra visione del XX secolo” sia funzionale a comprendere le dinamiche internazionali del terzo millennio, che vedono l’affermarsi della Cina e del Giappone. Il successo delle due potenze dal punto di vista economico, strategico e militare, infatti, è la conseguenza di un lungo processo iniziato il secolo scorso, durante il quale gli sviluppi della situazione in Estremo Oriente hanno influenzato la storia mondiale in modo più determinante di quanto non sia comunemente percepito.[2]
Dopo aver motivato il lettore, Grosser, che da questo punto in poi prosegue la trattazione senza sovvertire la narrazione cronologica degli avvenimenti, si dedica alle vicende storiche che hanno caratterizzato l’inizio del Novecento utilizzando un linguaggio semplice, giornalistico, che rende la lettura di contenuti complessi scorrevole. L’autore, appoggiandosi ad una bibliografia accurata e molto vasta, punta a sottolineare come nei calcoli geopolitici mondiali il fattore asiatico sia stato tanto rilevante quanto usualmente trascurato nello studio della storia contemporanea. L’esperimento intellettuale di Grosser spinge l’interlocutore a spostare lo sguardo verso Oriente: servendosi di un’ottica diversa da quella consueta, ma senza abbandonarsi alla retorica terzomondista, l’autore tenta di avanzare un’analisi coerente che tiene conto di fattori spesso sottovalutati nella trattazione storica, raggiungendo risultati interessanti.
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Apologia della sovranità
di Carlo Galli
Si presentano qui alcune argomentazioni che sono svolte più largamente in C. Galli, Sovranità, Bologna 2019, il Mulino. La sovranità è condizione dell’esistenza di ogni corpo politico. Compresa l’Italia, che ne è assai carente. I limiti inevitabili del suo esercizio, dettati dal contesto. Le polemiche sul “sovranismo” in nome degli “Stati Uniti d’Europa”, metafora ipersovranista
1. La sovranità è il modo in cui un corpo politico si rappresenta (o si presenta) per esistere, per volere, per ordinarsi e per agire secondo i propri fini. Va quindi considerata nella sua complessità: nel fuoco della sovranità si forgiano i concetti politici moderni, e i conflitti storici reali.
La sovranità è un punto, l’Unità, il vertice del comando, una volontà politica che pone la legge; ma al tempo stesso è una linea chiusa, una figura geometrica, il perimetro dell’ordinamento giuridico e istituzionale vigente, dello spazio in cui la legge si distende; e al contempo è un solido, una sfera di azioni e reazioni sociali, un corpo vivente e plurale che nella sovranità produce sé stesso: un popolo, una cittadinanza. La sovranità è tanto il soggetto collettivo che agisce unitariamente quanto lo strumento istituzionale dell’azione del corpo politico.
Da ciò alcune considerazioni: in primo luogo, come non esiste un’anima senza corpo, né un corpo vivente senz’anima, così non esiste una sovranità senza il corpo politico di cui è l’impulso vitale, né un corpo politico privo di sovranità.
In secondo luogo, la sovranità, rispetto alla sfera pubblica, alla sua esistenza e alle sue dinamiche, è al tempo stesso condizione e risultato. La sovranità rende possibile la distinzione fra pubblico e privato, realizzando la protezione pubblica delle vite e dei beni privati, oltre che l’utilità, il benessere, la prosperità dell’intero corpo politico. E questa sfera pubblica, questo corpo politico, non è necessariamente un’identità tribale, una compatta comunità; è una società complessa, attraversata da tensioni e conflitti, che nella sovranità si esprime politicamente.
In terzo luogo, la dinamica storica della sovranità è data dalle prevalenze politiche che si instaurano fra le tre dimensioni già ricordate: avremo così la sovranità del monarca, dello Stato, della legge, del popolo. La forza sociale e politica di volta in volta egemonica dentro lo spazio della sovranità è portatrice anche della legittimità di cui la sovranità ha bisogno: la legittimità è la ragione per la quale si chiede e si concede obbedienza.
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Storia dell’immigrazione straniera in Italia
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
di Militant
Un libro da masticare con attenzione, rispettandone la complessità e l’articolazione. Riassunto in poche suggestioni, che non ne rendono merito del carattere esaustivo che offre e forse neanche della sua angolazione originale (rispetto all’approccio umanitario che solitamente ammanta la letteratura progressista sul tema), ci limitiamo a ricordare, come premessa logica, che le migrazioni siano state una costante, nel percorso dell’umanità, e che – dall’inizio dello sviluppo del capitalismo – non abbiano sempre conosciuto l’ostilità della classe politica, ma siano state addirittura incentivate nelle fasi economiche in cui era necessario disporre di manodopera a basso prezzo. In questi casi, addirittura, i flussi migratori “disinnescavano” delocalizzazione delle aziende e decentramento produttivo, quando questi risultavano meno profittevoli (come sta accadendo ai giorni nostri, per dire).
Nello specifico del nostro Paese, le migrazioni hanno sempre accompagnato la storia italiana, soprattutto se considerate nella loro complessità e non solo secondo la direttrice Maghreb-Italia, con le modalità inevitabilmente disperanti e disperate dei barconi. Le migrazioni interne dell’Italia del secondo dopoguerra, alla ricerca di opportunità di vita dopo le distruzioni del conflitto, gli ex soldati, i prigionieri di guerra, gli ebrei di passaggio verso la Palestina, gli “esuli” provenienti dalle aree restituite alla Jugoslavia dopo l’italianizzazione forzata del fascismo, i primi spostamenti all’estero per motivi di lavoro… delineano un quadro assai ricco e una estrema vivacità del contesto sociale, più secondo linee di qualità che non di quantità, comunque, dato che le statistiche ufficiali parlano solo dello 0,10% di stranieri sull’intera popolazione italiana ancora nel 1951, in una quota inferiore persino alla percentuale registrata durante l’autarchico fascismo (erano lo 0,20% nel 1930). Già alla metà del XX secolo, quindi, la questione immigrazione in Italia si poneva con una centralità non giustificata dai numeri, quanto da aspetti extra-statistici: la tipologia di chi giungeva nel Paese (con storie politiche spesso assai delicate, come nel caso del grumo di potere reazionario rappresentato dagli esuli giuliano-dalmati), la loro distribuzione sul territorio nazionale, l’incapacità italiana di predisporre un’accoglienza decente anche per gruppi di immigrati tutto sommati numericamente limitati.
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Rompere gli schemi
di Dino Greco
Di seguito l'intervento svolto da Dino Greco del Cpn di Rifondazione comunista, alla tavola rotonda La svolta populista: un anno di governo giallo-verde, con Leonardo Mazzei, Stefano Fassina, Domenico Moro, Bruno Steri, svoltasi a Roma sabato 13 aprile in occasione del convegno “Eurexit, quali strategie per la liberazione”. Il giudizio severissimo sul governo giallo-verde nulla toglie all'alto spessore politico e teorico della prolusione di Greco
Lo stato tutt’altro che rassicurante delle cose è ben rappresentato dal grottesco appello congiunto sottoscritto da Cgil- Cisl-Uil in vista delle elezioni europee.
In esso si legge, testualmente:
“L’Ue è stata decisiva nel rendere lo stile di vita europeo quello che è oggi. Ha favorito un progresso economico e sociale senza precedenti con un processo di integrazione che favorisce la coesione fra Paesi e la crescita sostenibile. Continua a garantire, nonostante i tanti problemi di ordine sociale, benefici tangibili e significativi, nella comparazione internazionale, per i cittadini, i lavoratori e le imprese in tutta Europa”.
E ancora:
“La risposta non è battere in ritirata, ma rilanciare l’ispirazione originaria dei Padri e delle Madri fondatrici, l’ideale degli Stati Uniti d’Europa (…)”.
Per fare cosa? Ecco qua: per contrastare “quelli che intendono mettere in discussione il Progetto europeo, vogliono tornare all’isolamento degli Stati nazionali, alle barriere commerciali, ai dumping fiscali, alle guerre valutarie, richiamando in vita gli inquietanti fantasmi del Novecento”.
Insomma, viene da chiosare: “padroni e lavoratori uniti nella lotta”. Manco a dirlo, “per la competitività internazionale”.
Questo perfetto manifesto della subalternità del sindacato al capitale (giustamente ripreso con enfasi da Il sole 24 ore) che mi autoassolvo dal commentare, dà l’idea di quanto sia esteso il perimetro dentro il quale si è consumato — prima in modo camuffato, ora del tutto esplicito — il consenso alle politiche liberiste, all’ordoliberismo, al quale coerentemente non si oppone lo straccio di una mobilitazione proprio da parte dei soggetti sociali che se la dovrebbero intestare, che ne dovrebbero essere i protagonisti.
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Senso comune/buon senso
di Giuseppe Cospito*
1. Prima dei Quaderni
Prima di affrontare il tema nei Quaderni, farò un breve cenno all’uso dei termini che ci interessano negli scritti di Gramsci precedenti la carcerazione e nella cultura italiana ed europea del tempo.
1.1 Gli scritti politici
Negli articoli giornalistici fin dal 1916 troviamo numerose occorrenze dei lemmi buon senso e senso comune . Non si tratta di accezioni particolarmente rilevanti in quanto non si distaccano sostanzialmente dall’uso corrente, che le considera sostanzialmente sinonime. Si possono ricondurre ad alcune tipologie che esemplifico citandone la prima occorrenza significativa, nell’ordine cronologico con cui compaiono negli scritti gramsciani:
a) connessa al comune sentire estetico-morale (intesi rispettivamente come buon gusto e senso del pudore), frequente nelle recensioni della rubrica Teatri: per esempio, di una commedia si dice che «è un’offesa al buon gusto e al senso comune»1;
b) vicina all’accezione invalsa nel lessico filosofico moderno da Descartes in avanti (bon sense, common sense), come quando Gramsci scrive che «la religione è un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo»2;
c) contrapposta alle astrusità e ai tecnicismi degli pseudo-saperi scientifici, contro i quali si chiede «meno pseudo-scienza, e più senso comune, e soprattutto più affetto e sincerità»3;
d) ancora più generica e corriva, come quando Gramsci invoca «parole che siano condite di buon senso»4;
A partire dal 1917 si aggiunge alle precedenti (che continuano a ricorrere negli scritti gramsciani) un’ulteriore accezione:
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Pesce grande mangia pesce piccolo e Greta li mangia tutti
Green new deal: la nuova accumulazione capitalista
di Fulvio Grimaldi
Squali e sardine
Esemplifichiamo. Il PD, in Umbria (e non solo), viene scoperto a galleggiare in un oceano di fango sanitario? A Roma la sindaca Raggi, per la quale particolare affetto nutre la Procura, viene collegata a un malaffare AMA che lei cercava di impedire? La società liquida innalza la Raggi su cavalloni giganti e fa sparire l’Umbria PD in una dolce risacca. In Sicilia gli intimissimi del trombone in felpa che amministra il paese vengono scoperti a banchettare con coloro che un tempo pasteggiavano con Andreotti e Berlusconi? Il GIP romano indaga Raggi. Il reato più evanescente di tutti: abuso d’ufficio. “Per come ha dato visibilità al progetto dello stadio” (sic). La Raggi, cento volte indagata (altro che Alemanno) e cento volte assolta (altro che Alemanno), annaspa nell’ennesimo maremoto comunale, l’inciampo tangentizio-mafioso del sottosegretario più importante di tutti, scompare, spiaggiato dietro a una duna. La sardina finisce in padella, gli squali se la battono, anzi se la mangiano.
FNSI e gli altri: ma quale Assange, Bordin!
E’ una costante di sistema. A Londra, Assange, un giornalista che, con Wikileaks, ha connesso i crimini del potere alla coscienza dell’umanità, da 7 anni in isolamento nell’ambasciata ecuadoriana, viene trascinato fuori da sette energumeni in divisa e arrestato in vista di estradizione a chi lo vuole bruciare vivo. Il nulla osta l’ha concesso un presidente ecuadoriano ladrone che da Wikileaks era stato scoperto imboscare denari pubblici in paradisi fiscali e che per i suoi meriti di traditore viene compensato con un prestito miliardario Usa che eviti la sua bancarotta. Vendetta farabutta di un potere che, insieme a quella contro Chelsea Manning, universalizza il suo assassinio della libertà d’espressione, informazione, stampa.
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